Cass. pen., I, ud. dep. 12.12.2023, n. 49346
PRINCIPIO DI DIRITTO
[…] la sentenza deve comunque essere annullata, perché, in realtà, a fronte di una contestazione di questo tipo, il giudice del merito non avrebbe dovuto limitarsi ad assolvere l’imputata, ma avrebbe dovuto verificare se il fatto non poteva essere sussunto in altra fattispecie penale non contestata ed, all’esito di tale giudizio, pronunciare ordinanza ex art. 521 c.p.p., comma 2, di trasmissione degli atti al pubblico ministero per aver accertato che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio.
Infatti, la scrittai2151 logo di Disneyland, modificato in quello di Auschwitzland, e con il profilo del castello delle favole modificato in quello dei cancelli del campo di concentramento, crea una associazione di immagini e concetti che è denigratoria dell’evento storico conosciuto come Shoah.
Un comportamento di questo tipo potrebbe astrattamente rientrare in quello dell’art. 604-bis c.p., u.c., che, nel testo modificato dal D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, art. 2, comma 1, lett. i), già vigente al momento di commissione del fatto per cui si procede, punisce, in presenza di un concreto pericolo di diffusione, la cui sussistenza dovrà essere accertata dal giudice del merito, chi propaganda idee fondate “sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra”.
La diversità del fatto accertato in giudizio rispetto a quello contestato può essere rilevata d’ufficio dal giudice dell’impugnazione
Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio […] e gli atti trasmessi al pubblico ministero per l’eventuale esercizio dell’azione penale per il reato dell’art. 604-bis c.p., u.c.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
Con sentenza del 12 gennaio 2023 il Tribunale di Forlì, in rito immediato derivante da opposizione a decreto penale di condanna, ha assolto T.S., dal reato della L. 25 giugno 1993, n. 205, art. 2, perché nel corso della manifestazione per la commemorazione del 96 anniversario della marcia su Roma, ostentava simboli propri delle organizzazioni di cui alla L. 13 ottobre 1975, n. 654, art. 3 in quanto indossava una maglietta con una scritta in cui il nome e l’immagine di Disneyland erano stati modificati in quelli del campo di concentramento di Auschwitz. Il fatto è stato commesso a (omissis).
Il giudice ha assolto l’imputata in quanto ha rilevato che nulla è stato riferito in giudizio sulla portata distintiva del segno grafico esibito sulla maglietta, sulla genesi della scritta “Auschwitzland” che la stessa recava sulla maglietta, sull’uso che ne viene fatto e sulla sua diffusione; sarebbe assente, inoltre, la prova della riferibilità del segno grafico ad una organizzazione attualmente esistente che propugni idee fondate sull’odio razziale.
Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso diretto per cassazione il pubblico ministero, con unico motivo di seguito descritto nei limiti strettamente necessari ex art. 173 disp. att. c.p.p., in cui deduce erronea applicazione della legge penale, in quanto il campo di sterminio, ed in particolare l’immagine del suo ingresso che era riportata sulla maglietta, è diventato simbolo indiscusso dei gruppi nazifascisti che fondano la propria ideologia dell’odio razziale e sull’apologia della Shoah; non sarebbe corretto sostenere, pertanto, che sia un segno grafico privo di portata distintiva, per cui l’associazione dello stesso con il logo della Disney avrebbe avuto un evidente carattere denigratorio, e la valenza simbolica di tale associazione deriverebbe anche dal contesto in cui la maglietta è stata indossata.
. Il ricorso è fondato, sia pure nei limiti di quanto indicato in motivazione.
Il reato contestato all’imputata, previsto dalla L. n. 205 del 1993, art. 2, punisce “chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi di cui alla L. 13 ottobre 1975, n. 654, art. 3 “.
Nel caso in esame, all’imputata era contestato in particolare di aver ostentato un emblema, o simbolo, proprio o usuale di una organizzazione di cui alla L. n. 654 del 1975, art. 3, ovvero di una “organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.
Il giudice del merito ha ritenuto che la scritta Auschwitzland con l’immagine stilizzata dei cancelli del campo di concentramento non sia noto per essere un simbolo di una “organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.
Il pubblico ministero ricorrente contesta questa conclusione e sostiene che il campo di concentramento di Auschwitz sia divenuto un simbolo indiscusso dei gruppi nazifascisti che fondano la propria ideologia sull’odio razziale e sull’apologia della Shoah, ma si tratta di una affermazione piuttosto generica (quale associazione, o movimento, in particolare?) che il pubblico ministero introduce nel processo senza allegare a sostegno alcun atto da cui si dovrebbe ricavare la illogicità, sotto questo profilo, della motivazione della sentenza impugnata, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso.
In realtà, il campo di concentramento di Auschwitz è divenuto negli anni, proprio per l’enormità dell’evento che vi è accaduto, piuttosto un simbolo delle persone o dei gruppi che rifiutano la violenza per motivi razziali, etnici, nazionali
o religiosi, e tende, invece, ad essere rimosso nella comunicazione pubblica dalle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi cui si riferisce il pubblico ministero nel ricorso.
La stessa tesi sostenuta dalla difesa dell’imputata nel corso dell’udienza di legittimità (ovvero, che l’uso della maglietta incriminata avrebbe avuto lo scopo di criticare lo sfruttamento commerciale del dolore causato dal campo di concentramento) mostra il fastidio, di chi aderisce alla posizione politica in cui si riconosce l’imputata, per l’utilizzo ripetuto del nome e della immagine del campo di concentramento nella comunicazione pubblica, fastidio di chi preferirebbe calasse l’oblio su un luogo, ed un evento, che è quindi lontano dall’essere un simbolo di tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi.
In definitiva, la contestazione formulata dal pubblico ministero a T.S., di aver ostentato un simbolo di una organizzazione avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, era fondamentalmente non corretta.
COMMENTO
La Suprema Corte nel pronunciamento in esame, in virtù di un orientamento ormai consolidato e, da ultimo, riaffermato con la pronuncia 38192/2022, assevera il potere di riqualificazione giuridica del Giudice ( e ciò anche in ossequio al principio del giusto processo di cui all’ art 6 della CEDU), in assenza di nuova attività istruttoria e con il limite della possibilità del condannato di far valere le proprie ragioni nonché della prevedibilità della possibile riqualificazione e della fondatezza dei mezzi di difesa invocabili.
Senza che ciò leda il diritto di difesa dell’imputato e neppure il divieto di violazione principio di correlazione tra accusa e sentenza che , per granitico orientamento, è configurabile solo in ipotesi di radicale trasformazione nei suoi elementi essenziali della fattispecie concreta posta al vaglio della Autorità Giudiziaria.