Massima
L’Amministrazione debitrice esercita il potere ad essa attribuito dalla legge nell’interesse del privato creditore, titolare di una pretesa la cui soddisfazione è tuttavia condizionata alla piena compatibilità con l’interesse pubblico (quest’ultimo quale interesse, seppure pro quota, anche proprio); tale compatibilità dell’interesse del privato creditore con l’interesse pubblico può essere accertata in via unilaterale dalla PA debitrice – come in effetti tradizionalmente avviene – ovvero, ormai da qualche lustro, anche attraverso moduli consensuali in cui protagonista è sempre il potere pubblico, speso tuttavia in un novello prisma di bilateralità autoritativa che impone nondimeno, anche in ottica anti-corruttiva, l’attenta tutela di quei soggetti privati terzi – tanto cointeressati quanto controinteressati – anch’essi titolari pro quota del medesimo interesse pubblico cui si parametra l’interesse del singolo interlocutore privato nella pertinente sequenza procedimentale.
Crono-articolo
1865
Il 26 giugno esce la legge n.2359 in materia espropriativa che, all’art.26, prevede lo strumento dell’accordo tra PA e privato come alternativo al provvedimento unilaterale di espropriazione.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. 1398, nuovo codice penale, che disciplina il mercimonio della funzione pubblica attraverso le figure di reato riconducibili alla corruzione, in particolare agli articoli 318 (corruzione per l’esercizio della funzione) e 319 (corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio).
1942
Il codice civile, nel disciplinare il contratto agli articoli 1321 e seguenti, ne predica la necessaria natura patrimoniale, non escludendo la possibilità – dal punto di vista soggettivo – che intervengano contratti tra enti pubblici e soggetti privati; il discorso vale anche, più in generale, per gli accordi, dei quali i contratti costituiscono una species.
Il 17 agosto viene varata la legge n.1150, c.d. legge urbanistica, il cui articolo 28 prevede le convenzioni di lottizzazione, quale strumento che – in attuazione del PRG – consente di definire consensualmente l’assetto urbanistico di una porzione del territorio comunale; i proprietari delle aree interessate predispongono un piano di assetto urbanistico delle aree di loro proprietà e lo propongono all’Amministrazione comunale che ne scandaglia l’ammissibilità tecnica e la compatibilità con il PRG; sempre i proprietari delle aree interessate formulano una proposta di convenzione (di lottizzazione) nel cui contesto si impegnano nei confronti della PA locale a realizzare le opere di urbanizzazione primaria quali fognature, strade e così via ed a concorrere nella realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria quali aree verdi, scuole e così via, anche con eventuale cessione della proprietà delle aree di sedime occorrenti e con subordinazione della concreta realizzazione dei nuovi insediamenti costruttivi alla realizzazione di tali opere di urbanizzazione. In sostanza, la PA comunale esercita qui il proprio potere autoritativo funzionalizzato al perseguimento dell’interesse pubblico, ma lo fa con la collaborazione dei privati proprietari e dunque in via consensuale piuttosto che unilaterale.
1948
Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana, che all’art.97 parla di organizzazione dell’Amministrazione secondo disposizioni di legge in modo che ne sia assicurata, oltre che l’imparzialità, il buon andamento, uno degli imprescindibili ingredienti del quale è la collaborazione, anche con i soggetti privati eventuali interlocutori.
1971
Il 12 ottobre esce la legge n.865 in materia espropriativa che, all’art.12, ribadisce la possibilità di avvalersi dello strumento dell’accordo tra PA e privato in via alternativa rispetto al provvedimento unilaterale di espropriazione.
1976
Il 25 maggio viene varata in Germania Ovest la legge federale tedesca sul procedimento amministrativo, Werwaltungsverfahrensgesetz, il cui art.54 scolpisce un principio generale di contrattualità dell’azione amministrativa onde un rapporto giuridico di diritto pubblico può essere costituito, modificato o estinto da un contratto, laddove ciò non sia vietato da disposizioni di legge.
1990
Il 7 agosto viene varata la legge n.241 che, all’art.11 prevede in modo rivoluzionario la possibilità (alternativa) di una gestione del potere con moduli consensuali, e non già unilaterali, tra PA e privato amministrato. Secondo tale disposizione, in accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell’articolo 10 della legge medesima dal privato che sia interessato dall’azione amministrativa, la PA procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale (c.d. accordo procedimentale) ovvero, nei casi previsti dalla legge, in sostituzione di questo (c.d. accordo sostitutivo o provvedimentale). Tali accordi debbono essere stipulati, a pena di nullità, per atto scritto salvo che la legge disponga altrimenti, ed ad essi si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, solo tuttavia in quanto compatibili; gli accordi sostitutivi di provvedimenti unilaterali – a carattere tassativo – vengono peraltro dichiarati soggetti ai medesimi controlli previsti per questi ultimi. Secondo il comma 4, per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione può recedere unilateralmente dall’accordo, salvo tuttavia l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato. Infine, le pertinenti controversie – in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi – sono riservate alla giurisdizione esclusiva del GA. Si tratta di una presa di posizione del legislatore italiano che non è dunque sovrapponibile a quella dell’omologo legislatore tedesco, non vedendo la luce un generale principio di contrattualità dell’azione amministrativa (inclusivo della possibilità di modificare od estinguere per via contrattuale il rapporto giuridico di diritto pubblico siccome convenzionalmente creato), quanto piuttosto una limitata modalità di esercizio consensuale del potere pubblico nella sola, relativa fase genetica, giusta accordi capaci di sostituire tout court il provvedimento amministrativo, ovvero di determinarne il contenuto. La PA conserva peraltro la facoltà di agire in via tradizionale, e dunque autoritativa ed unilaterale, “potendo” anche scegliere, discrezionalmente, la via dell’accordo con il privato senza che a ciò possa assumersi obbligata. La figura più innovativa è senza meno quella degli accordi sostitutivi di provvedimento che, anche al fine di rispettare il principio di nominatività degli atti amministrativi, vengono assunti “tipici” potendovisi far luogo solo nei casi previsti dalla legge, a differenza degli accordi integrativi di provvedimento, che sono atipici anche perché non idonei appunto a sostituire quest’ultimo; parte più garantista della dottrina assume gli stessi accordi c.d. integrativi o procedimentali in frizione con il principio di nominatività (stante la relativa struttura ed il relativo contenuto non predeterminati dalla legge), mentre altra parte della dottrina non ne contesta l’ammissibilità sulla scorta della tipicità e nominatività del potere speso dall’Amministrazione, peraltro comunque esitante in un provvedimento amministrativo unilaterale tipico. In tema poi di iniziativa finalizzata alla conclusione degli accordi previsti dall’art.11, l’inciso “in accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell’art.10” fa propendere per l’attribuzione della ridetta iniziativa al soggetto privato che sarebbe destinatario del provvedimento finale; sotto altro profilo, la discrezionalità della PA in ordine alla scelta se far luogo all’accordo ovvero al provvedimento unilaterale, unita alla circostanza onde, anche in caso di opzione consensuale, essa deve in ogni caso collocarsi nel prisma del perseguimento dell’interesse pubblico, fanno pensare che l’iniziativa possa anche essere presa dalla parte pubblica e, segnatamente, dal responsabile del procedimento. L’accordo può peraltro coinvolgere, secondo l’interpretazione della fattispecie da subito invalsa e maggiormente accreditata, non solo (come è ovvio) il destinatario del provvedimento finale, ma anche altri soggetti interessati, come palesa il riferimento della norma, per l’appunto, ad “accordi con gli interessati”. In forza del comma 4, la PA può unilateralmente recedere dall’accordo per motivi di interesse pubblico, salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione al privato di un indennizzo laddove questi abbia subito dei pregiudizi. Quanto alla giurisdizione esclusiva, se ne afferma subito una duplice ed opposta interpretazione: chi intende la norma in senso restrittivo assume che la giurisdizione esclusiva ridetta possa predicarsi solo laddove il GA abbia già una giurisdizione di legittimità, e dunque solo laddove si sia al cospetto di interessi legittimi dacché, a diversamente opinare, si finirebbe per vedere negli accordi una “materia” che può appartenere al GA solo laddove sia “particolare” ai sensi dell’art.103 Cost.; chi invece la intende in senso espansivo, fondandosi peraltro sulla esplicita lettera della legge, assume che in ogni caso la giurisdizione è – per la materia “accordi” – sempre del GA, dovendosi peraltro consentire una facile individuazione del giudice dotato di potestas iudicandi al cospetto di fattispecie in cui il modulo consensuale rischia di rendere difficile capire se la situazione giuridica soggettiva vantata si atteggia in concreto a diritto soggettivo o ad interesse legittimo.
Il 29 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.12942 alla cui stregua va escluso che il recesso dall’accordo possa desumersi da un comportamento tacito della PA che sia incompatibile con l’esecuzione del rapporto derivante dall’accordo procedimentale, dacché – trattandosi di un contrarius actus – occorre la medesima forma scritta ad substantiam prevista per l’accordo sul quale esso incide.
Il 14 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.14730 onde – in materia di requisiti di medesimezza di forma previsti per il contratto – essi coinvolgono non già i soli negozi preparatori come il contratto preliminare, in relazione al quale ultimo vige la specifica norma di cui all’art.1351 c.c., ma anche tutti gli atti che ex post incidono sul rapporto contrattuale, come ad esempio il recesso, che deve rivestire la medesima forma dell’atto dal quale si recede.
1991
Il 28 novembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.12769 che ribadisce autorevolmente come vada escluso che il recesso dall’accordo possa desumersi da un comportamento tacito della PA che sia incompatibile con l’esecuzione del rapporto derivante dall’accordo procedimentale, dacché – trattandosi di un contrarius actus – occorre la medesima forma scritta ad substantiam prevista per l’accordo sul quale esso incide.
1995
Il 12 maggio viene varato il decreto legge n.163, recante misure urgenti per la semplificazione dei procedimenti amministrativi e per il miglioramento dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni, che inserisce nell’art.11 della legge 241.90 un comma 1.bis alla cui stregua, al fine di favorire gli accordi di cui al comma 1 della medesima disposizione, il responsabile del procedimento può predisporre un calendario degli incontri cui invita, separatamente o contestualmente, il destinatario del provvedimento ed eventuali controinteressati. La disposizione finisce col confermare tanto che l’iniziativa degli accordi può essere presa anche dalla parte pubblica, nella persona del responsabile del procedimento, quanto che agli accordi possono partecipare sia il destinatario del provvedimento finale sia gli altri soggetti interessati o controinteressati.
1997
L’11 agosto esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.7452 alla cui stregua, in tema di accordi, la giurisdizione esclusiva del GA di cui all’art.11, comma 5, della legge 241.90 va riconosciuta anche con riguardo ad accordi conclusi prima dell’entrata in vigore della legge sul procedimento amministrativo.
1998
Il 28 novembre esce la sentenza della II sezione del Tar Veneto n.2234 alla cui stregua, dinanzi ad un accordo procedimentale integrativo di provvedimento, la PA conserva i propri poteri pubblicistici onde la posizione giuridica soggettiva del privato è da intendersi di interesse legittimo e non già di diritto soggettivo. La conseguenza è che né l’accordo, né tampoco il provvedimento a valle, possono dirsi aggredibili con strumenti di tipo privatistico (esatto adempimento, risoluzione e così via), dovendosi piuttosto invocare (nei termini) – dinanzi ad un eventuale provvedimento a valle non conforme all’accordo a monte – la tradizionale tutela di annullamento e di risarcimento del danno connesso a tale annullamento.
1999
Il 24 marzo esce la sentenza del Tar Umbria n.218 che ribadisce come dinanzi ad un accordo procedimentale integrativo di provvedimento, la PA conservi i propri poteri pubblicistici onde la posizione giuridica soggettiva del privato è da intendersi di interesse legittimo e non già di diritto soggettivo. La conseguenza è che né l’accordo, né tampoco il provvedimento a valle, possono dirsi aggredibili con strumenti di tipo privatistico, dovendosi piuttosto chiedere (nei termini) la tradizionale tutela di annullamento e di risarcimento del danno connesso a tale annullamento, e ciò dovendosi assumere il mancato rispetto dell’accordo da parte della PA in termini di eccesso di potere, quale vizio che inficia il provvedimento unilaterale a valle difforme dall’accordo a monte.
2001
Il 12 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.105 alla cui stregua dallo stesso tenore letterale dell’art.11, comma 5, della legge 241.90 affiora come la giurisdizione esclusiva del GA vada riferita a tutte le controversie investenti l’esercizio della funzione amministrativa a mezzo accordi, con la conseguenza onde appartengono alla potestas iudicandi del GA non già solo le controversie che insorgono con riguardo ad un accordo già concluso, ma anche quelle che riguardano la fase prodromica e procedimentale che investe la formazione dell’accordo stesso.
Il 6 giugno esce il D.p.R. n.380 in materia espropriativa che, all’art.45., ribadisce la possibilità di avvalersi dello strumento dell’accordo tra PA e privato in via alternativa rispetto al provvedimento unilaterale di espropriazione.
2002
Il 15 maggio esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.2636 alla cui stregua l’accordo di cui all’art.11 della legge 241.90 presenta uno strettissimo nesso con il procedimento e con la partecipazione procedimentale, onde resta imprescindibile l’avvio di un procedimento amministrativo, al di fuori del quale nessun accordo può essere concluso. Per il Consiglio inoltre l’accordo procedimentale si conclude al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale, palesandosi dunque funzionale non già all’adozione del provvedimento (discrezionale) finale, quanto piuttosto del relativo contenuto: ciò per il Collegio significa che – nonostante l’esplicito richiamo normativo alla discrezionalità – l’accordo può essere concluso anche in vista di provvedimenti a contenuto vincolato, quanto meno per la definizione di quegli aspetti del ridetto provvedimento vincolato che presentino caratteri di discrezionalità (ad esempio, il relativo quando o il relativo quomodo), massime laddove l’accordo assicuri ad entrambe le parti una utilità maggiore rispetto a quella che sarebbe ritraibile dal provvedimento in difetto di accordo. Altra questione risolta dal Consiglio di Stato è quella onde gli accordi non necessitano di una determinazione unilaterale preventiva nella quale siano esplicitate le ragioni per le quali la PA sceglie di procedere con modulo consensuale piuttosto che provvedimentale, come invece pretenderebbe parte della dottrina. In caso di accordo integrativo o procedimentale, laddove il provvedimento unilaterale a valle non sia conforme e dunque la PA sia inadempiente all’accordo, il privato per il Collegio non può spiccare azione di esatto adempimento, ma deve piuttosto tempestivamente impugnare il provvedimento finale ed insieme invocare l’eventuale risarcimento del danno. Il privato medesimo non potrebbe, di regola, invocare una pronuncia di condanna della PA ad un facere (compendiantesi nel dar seguito con il provvedimento a quanto previsto nell’accordo), né potrebbe ottenere una decisione del GA che risolva l’accordo per inadempimento, potendo piuttosto invocare solo l’annullamento del provvedimento finale per violazione dell’art.11 della legge 241.90, limitando peraltro la caducazione alla sola clausola difforme laddove entrambe le parti, pubblica e privata, abbiano interesse a conservare gli effetti del provvedimento impugnato nella parte non difforme dall’accordo. Anche peraltro a voler riconoscere all’accordo procedimentale una natura privatistica e negoziale, non potrebbe in ogni caso riconoscersi per il Collegio al privato la possibilità di spiccare azione ex art.2932 c.c., la cui sentenza costitutiva è prevista in caso di inadempimento di obbligo di contrarre, e non già di obbligo di provvedere (come nel caso appunto in cui si tratti di adottare un provvedimento che dia seguito all’accordo procedimentale): in sostanza, se di condanna ad un facere può discorrersi, essa è per il Collegio ammissibile solo laddove si tratti di un facere materiale ovvero negoziale (come nel caso di un contratto preliminare stipulato dalla PA con il privato, cui non abbia fatto seguito il definitivo), ma non già anche nelle ipotesi in cui la PA conservi, anche a valle dell’accordo, possibili spazi di potere discrezionale e connesso esercizio di funzioni pubblicistiche. Per il Collegio va dunque garantito un equilibrio tra contratto da un lato e potere dall’altro, tributando il necessario rispetto ad uno spazio di merito riservato alla PA nell’esercizio del proprio potere discrezionale, onde in materia di accordi è inammissibile l’azione ex art.2932 c.c., tenuto anche conto dei principi cristallizzati nella Legge Abolitrice del Contenzioso amministrativo del 1865 e dei noti limiti in essa inscritti al potere del giudice rispetto all’azione amministrativa, oltre che del fatto che gli accordi vanno intesi come contratti ad oggetto pubblico, stipulati nell’interesse pubblico, sicché non si può sostituire il provvedimento unilaterale a valle, non adottato dalla PA, con una sentenza giurisdizionale, non trattandosi di far luogo ad un contratto definitivo non concluso, quanto piuttosto di sostituire ope iuidicis un provvedimento amministrativo che resta esclusivo appannaggio della PA (sol che si consideri peraltro come l’accordo procedimentale a monte potrebbe non aver del tutto eliso spazi di discrezionalità dell’Amministrazione). La soluzione di tutela percorribile dal privato in caso di inerzia provvedimentale pubblica a valle dell’accordo procedimentale è piuttosto, per il Collegio, quella che si compendia nell’attivare un giudizio sul c.d. silenzio inadempimento della PA, sospingendola in tal modo, anche ope iudicis, a provvedere in modo conforme all’accordo concluso a monte.
2003
Il 13 agosto esce la sentenza del Tar Lombardia, Brescia, n.1157 alla cui stregua in caso di accordo procedimentale a monte cui non sia seguito un conforme provvedimento unilaterale a valle della PA, all’inadempienza di quest’ultima il privato può reagire con una azione di esatto adempimento ex art.1453, comma 1, c.c. e, ottenuta una condanna ad adempiere, con un successivo giudizio di ottemperanza avente ad oggetto l’ottenuta sentenza di condanna cui la PA non abbia dato seguito.
Il 19 settembre esce la sentenza del Tar Marche n.1015 onde il recesso ex art.11, comma 4, della legge 241.90 non è assimilabile a quello privatistico di cui all’art.1373 c.c., compendiando piuttosto una revoca onerosa che è adottabile sulla scorta del c.d. principio di inesauribilità del potere amministrativo, per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, in modo legittimo e salvo indennizzo del pregiudizio eventualmente subito dal privato.
2004
Il 04 febbraio esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.390 onde il recesso ex art.11, comma 4, della legge 241.90 non è assimilabile a quello privatistico di cui all’art.1373 c.c., compendiando piuttosto una revoca onerosa che è adottabile sulla scorta del c.d. principio di inesauribilità del potere amministrativo, per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, in modo legittimo e salvo indennizzo del pregiudizio eventualmente subito dal privato. La stessa pronuncia riconosce applicabile la giurisdizione esclusiva del GA, di cui al comma 5 dell’art.11, anche ad accordi conclusi prima dell’entrata in vigore della legge sul procedimento amministrativo.
Il 4 giugno esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n.3490 alla cui stregua laddove un accordo ex art.11 della legge 241.90 preveda l’applicazione di una clausola penale, l’eventuale eccessività di tale penale non investe la legittimità dell’accordo medesimo – che va fatta valere nel termine decadenziale di 60 giorni previsto per l’impugnazione del provvedimento, del quale l’accordo costituisce un surrogato rimanendosi comunque in ambito pubblicistico – quanto piuttosto la mera esigibilità, sul piano esecutivo, della pattuizione pertinente. Per il Consiglio in sostanza l’eventuale eccessività della penale non pone un problema di patologia in senso stretto dell’accordo, onde non può parlarsi di nullità o di annullabilità dell’accordo stesso, affiorando piuttosto – tenendo in debito conto il principio di buona fede nell’esecuzione dell’accordo stesso, anche in relazione a sopravvenienze rispetto al momento della stipula – un profilo diverso in termini di inesigibilità-inefficacia della penale siccome originariamente pattuita, imponendosi un intervento correttivo ope iudicis di stampo equitativo al fine di consentire alla penale stessa di meglio assolvere la relativa funzione sanzionatorio-repressivo-risarcitoria onde, in conclusione, una penale eccessiva non inficia l’accordo in termini di validità, ma si traduce in inesigibilità della penale medesima.
Il 6 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.204 che, in un peculiare passaggio del proprio iter motivazionale, addita gli accordi ex art.11 della legge 241.90 quali strumenti di esercizio indiretto del potere pubblico, circostanza che per parte della dottrina di commento palesa come tali accordi abbiano sostanziale natura privatistica, mentre per altra parte della dottrina manifesta piuttosto la natura pubblicistica dei ridetti accordi.
L’8 novembre esce la sentenza della sezione I del Tar Lombardia n 5620 alla cui stregua, in tema di accordi ex art.11 della legge 241.90, il recesso previsto dal comma 4 è riconosciuto al soggetto pubblico in quanto contraente (art.1373 c.c.), e non già nella veste di autorità munita di potere amministrativo, palesandosi espressione di un diritto potestativo tipico dei rapporti privatistici di durata, con conseguente applicazione del regime giuridico previsto per gli atti unilaterali di diritto privato.
2005
Il 17 gennaio esce l’ordinanza delle SSUU n.732, che ribadisce come quella prevista dall’art.11, comma 5, della legge 241.90 sia da intendersi quale fattispecie di giurisdizione esclusiva del GA da assumersi correlata non già ad una determinata materia, bensì ad una determinata tipologia di atto – l’accordo appunto – quale che sia poi la materia nella cui economia in concreto esso intervenga. Per le SSUU non osta peraltro all’attribuzione di tali controversie alla giurisdizione del GA la congiunta richiesta da parte del privato di una condanna della PA a risarcire il danno, configurando quest’ultima quale questione attinente non già all’ambito della giurisdizione, quanto piuttosto all’estensione dei poteri del GA (all’interno di una porzione di giurisdizione ad esso assegnata). Una opzione ermeneutica perfettamente in linea con la recente pronuncia n.204.04 della Corte costituzionale, l’accordo compendiando una peculiare modalità di esercizio – bilaterale in luogo di unilaterale – del potere pubblico.
L’11 febbraio viene varata la legge n.15 che, nel recare modifiche alla legge 241 del 1990, vi introduce nell’art.1 un comma 1 bis alla cui stregua la PA, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente. Si tratta di una disposizione sovente intesa come fondante una “privatizzazione” dell’azione pubblica, ma che si riferisce in realtà alle fattispecie in cui la PA non esercita ab origine un potere, ma si avvale di strumenti di diritto privato collocandosi dunque in una posizione di parità, e non già di supremazia, rispetto ai cittadini destinatari della relativa azione, con i quali condivide l’esercizio dell’autonomia (per l’appunto) privata; il fatto che difetti il potere ab origine non esclude tuttavia che esso possa riaffiorare nel corso dell’attuazione del rapporto, potendo la legge “disporre altrimenti” rispetto all’azione (di norma, legalmente prevista come) esplicantesi nel prisma del diritto privato. Altra novità importante introdotta dalla legge in parola è il principio di atipicità degli accordi sostitutivi di provvedimento, giusta eliminazione dell’inciso che fin qui li vuole stipulabili “nei soli casi previsti dalla legge”. La novella “atipicità” degli accordi sostitutivi di provvedimento, stando alla dottrina di commento, non può comunque essere equiparata a quella prevista per i contratti dall’art.1322, comma 2, c.c., stante in ogni caso la necessità che il potere pubblico venga esercitato nei soli casi previsti dalla legge, garantendo dunque il principio di legalità del potere amministrativo, in ogni caso, una forma di nominatività dell’accordo sostitutivo di provvedimento: dovendo essere sostituito un provvedimento unilaterale giusta accordo, il ridetto provvedimento amministrativo deve comunque essere previsto dalla legge come concretamente adottabile per poter essere eventualmente sostituito dall’accordo. Per la dottrina di commento si è dunque ormai al cospetto di una piena alternatività tra spendita unilaterale ovvero consensuale del potere pubblico, ferma restando in ogni caso la necessità di una legge che tale potere attribuisca all’Amministrazione ed in presenza della quale non occorre ormai più alcuna disposizione specifica che autorizzi la sostituzione del tradizionale modulo unilaterale con il modulo consensuale di nuovo conio. Inoltre, un nuovo comma 4.bis inserito nell’art.11 della legge 241.90 prevede, anteriormente ad ogni accordo, una determinazione dell’organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento unilaterale: si tratta della c.d. determinazione preliminare onde – a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa – in tutti i casi in cui una PA conclude accordi, la stipulazione di tali accordi deve essere preceduta da una determinazione (unilaterale) dell’organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento; la disposizione si applica tanto agli accordi integrativi quanto a quelli sostitutivi (quantunque parte minoritaria della dottrina la interpreti come applicabile ai soli accordi sostitutivi), ed ha lo scopo, in ottica appunto di trasparenza e di imparzialità, di recuperare un momento di unilateralità nella cui economia l’Amministrazione esplicita perché ha scelto di procedere in modo consensuale piuttosto che unilaterale.
Il 20 ottobre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n. 5884 alla cui stregua gli accordi procedimentali si prefiggono lo scopo di realizzare una posizione di mezzo tra quella abbracciata dal privato e quella sposata dalla PA, tra loro apparentemente inconciliabili, aventi ad oggetto il contenuto del provvedimento finale, con l’obiettivo non già solo di verificare se l’istanza del privato sia o meno accoglibile, quanto piuttosto di determinare il contenuto del provvedimento finale laddove esso sia controverso o controvertibile, ovvero contenga clausole che, in difetto di accordo, sarebbero non facilmente accettate dal privato. Il Collegio precisa peraltro come una convenzione tra privato e P.A. possa qualificarsi in termini di accordo procedimentale integrativo ex art. 11 legge 241/90 soltanto allorché essa intervenga con l’Amministrazione procedente, quale autorità titolare del potere pubblico che innerva il pertinente procedimento amministrativo, gli accordi procedimentali integrativi (volti alla determinazione del contenuto del provvedimento finale), lasciando affiorare un nesso strettissimo con la partecipazione procedimentale, come palesa anche la peculiare collocazione dell’art. 11 nel Capo III della legge 241.90, che disciplina proprio le forme di partecipazione all’iter procedimentale ed il relativo possibile esito bilaterale, quale epilogo di una vicenda partecipativa ad un procedimento già iniziato. Proprio per questo va escluso – prosegue il Collegio – che una convenzione stipulata tra un consorzio privato ed una P.A. ed avente ad oggetto lo smaltimento dei c.d. rifiuti speciali possa configurarsi come accordo procedimentale, atteso come nel caso di specie il privato abbia in realtà stipulato detta convenzione con una Amministrazione diversa da quella procedente e pertanto avulsa dal contesto partecipativo relativo al procedimento in corso. Muovendo poi dalla circostanza onde la controversia in oggetto rientra nella previsione dell’art. 33 del D.L.vo. 31 marzo 1998 n. 80 – che estende la giurisdizione esclusiva del TAR in materia di pubblici servizi a tutte le controversie insorte “tra le amministrazioni pubbliche e i gestori” concernenti “attività e prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale”- il Collegio rileva che alla luce della sentenza n. 204/2004 della Corte Costituzionale la fattispecie in esame rientra tra quelle che la Consulta ha espunto dalla giurisdizione esclusiva del G.A.. Nella ridetta sentenza la Corte costituzionale ha osservato – rammenta il Collegio – che la materia dei pubblici servizi può essere oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo soltanto laddove la PA agisca esercitando il proprio potere autoritativo ovvero giusta facoltà – riconosciutale dalla legge – di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo; una facoltà che si sostanzia proprio negli accordi ex art. 11 l. 241/1990, e che presuppone in ogni caso la riscontrabilità del ridetto potere autoritativo, onde laddove il contegno della P.A. non involga il relativo esercizio, la posizione vantata dal privato è di diritto soggettivo, in quanto attinente ad una controversia paritetica. Proprio per questo il Collegio dichiara nel caso di specie il proprio difetto di giurisdizione dacché in primo luogo, per le ragioni summenzionate, la convenzione tra il consorzio privato e la P.A. non risulta collegata all’esercizio del potere autoritativo, non compendiando dunque un accordo ex art. 11 l. 241/1990; dall’altro, la pertinente controversia appare fondarsi sulla domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro asseritamente dovuta, questione che pone le parti su di un piano paritetico, con conseguente assoggettamento alla giurisdizione del GO.
2006
Il 27 gennaio esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.236 alla cui stregua anche le questioni risarcitorie in tema di accordi vanno prospettate innanzi al GA, stante il disposto dell’art.7 della legge 205.00, laddove a tale giudice sono attribuite tutte le questioni conseguenti alla pronuncia principale sulla legittimità dei provvedimenti impugnati (giurisdizione di legittimità) ovvero tutte le questioni conseguenti alla accertata lesione di diritti soggettivi (giurisdizione esclusiva).
Il 7 aprile esce la sentenza della III sezione del Tar Toscana n.1146 alla cui stregua si applicano agli accordi di cui all’art.11 della legge 241.90 gli articoli 1175 c.c. e 1176 c.c. in tema, rispettivamente, di buona fede e di diligenza nell’adempimento.
2007
Il 22 febbraio esce la sentenza della I sezione del Tar Puglia, Lecce, n.617 alla cui stregua la conclusione di un accordo ex art.11 della legge 241.90 costituisce manifestazione di un potere pubblicistico che non viene tuttavia esercitato nella classica forma unilaterale quanto piuttosto in una forma bilaterale.
Il 25 maggio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.12186 alla cui stregua sussiste la giurisdizione esclusiva del GA sia sulla domanda che abbia ad oggetto la risoluzione dell’accordo integrativo per perpetrato inadempimento (il provvedimento finale non rispetta il contenuto del ridetto accordo procedimentale), sia per la condanna della PA medesima al risarcimento del danno.
L’11 luglio esce la sentenza della I sezione del Tar Liguria n.1377 onde il recesso dagli accordi di cui all’art.11, comma 4, della legge 241.90 presenta profonde differenze rispetto al recesso dai contratti di diritto comune, essendo il medesimo funzionalizzato al perseguimento di un pubblico interesse al cospetto di una intervenuta sopravvenienza, oltre che per il relativo palesarsi doveroso dacché – in presenza appunto di una sopravvenienza e della necessità di adeguarvi il perseguimento del pubblico interesse – la PA “recede” dall’accordo, senza poter spiegare alcuna discrezionalità; pur non identificandosi dunque con la revoca, il Tar rammenta come si tratti di un istituto che la dottrina vi accomuna in termini di schema generale, quand’anche riscontrandovi talune differenze di regime specifico.
Il 10 dicembre esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.6344 alla cui stregua, anche laddove si sia al cospetto di procedimenti finalizzati all’adozione di provvedimenti di natura sostanzialmente vincolata, come ad esempio nel caso delle autorizzazioni in materia edilizia, risulta pienamente configurabile la stipulazione di un accordo procedimentale, configurando tale accordo uno strumento di semplificazione idoneo a far conseguire a tutte le parti una utilità ulteriore rispetto a quella che sarebbe consentita dal (mero) provvedimento finale.
2008
Il 27 giugno esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.3255 alla cui stregua le convenzioni di lottizzazione hanno natura di accordi sostitutivi di provvedimento e come tali non sono modificabili in via unilaterale e senza il coinvolgimento di tutti i relativi originari firmatari.
2009
*Il 03 marzo esce la sentenza della I sezione del Tar Toscana n.383 alla cui stregua le convenzioni di lottizzazione hanno natura di accordi sostitutivi di provvedimento e come tali non sono modificabili in via unilaterale e senza il coinvolgimento di tutti i relativi originari firmatari.
2010
Il 22 gennaio esce la sentenza delle IV sezione del Consiglio di Stato n.214 alla cui stregua – sulla scia delle SSUU della Cassazione – sussiste la giurisdizione esclusiva del GA sia sulla domanda che abbia ad oggetto la risoluzione dell’accordo integrativo per perpetrato inadempimento (il provvedimento finale non rispetta il contenuto del ridetto accordo procedimentale), sia per la condanna della PA medesima al risarcimento del danno.
Il 01 febbraio esce la sentenza della Sezione III quater del Tar Lazio n.1275, alla cui stregua la PA può recedere unilateralmente da un accordo ex art.11 della legge 241.90 solo per dimostrati e sopravvenuti motivi di pubblico interesse, con le medesime formalità procedimentali e con obbligo tuttavia di erogare al privato un eventuale indennizzo.
Il 2 luglio viene varato il decreto legislativo n.104, nuovo codice del processo amministrativo, il cui art.133, comma 1, lettera a), n.2 traspone, contestualmente abrogandolo, il disposto dell’art.11, comma 5, della legge 241.90, onde le controversie in tema di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi tra privato e PA sono devolute alla giurisdizione esclusiva del GA. La differenza con quanto disposto dal medesimo art.133 in tema di controversie sugli appalti – laddove la giurisdizione amministrativa viene limitata alle sole liti afferenti alla fase pubblicistica “a monte” di formazione del contratto, e non anche alla fase “a valle” di esecuzione del contratto medesimo – sembra far propendere per la natura pubblicistica (e non già privatistica) degli accordi in parola, stante come anche in sede di relativa esecuzione ad affiorare sia il potere pubblicistico del quale essi sono espressione, con devoluzione delle pertinenti controversie, per l’appunto, alla giurisdizione esclusiva del GA. Tale giurisdizione esclusiva, investendo tutte le controversie coinvolgenti in primis la fase di conclusione degli accordi, viene generalmente assunta coinvolgere anche la c.d. determinazione preliminare di cui all’art.11, comma 4.bis, della legge 241.90. Peraltro l’art.7, comma 1, del c.p.a. dichiara devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da Pubbliche Amministrazioni, con esclusione degli atti o provvedimenti del Governo adottati o emanati nell’esercizio del potere politico; con questa norma si è dato seguito alle note sentenze della Corte costituzionale n.204.04 e 191.06, sulla scorta delle quali la giurisdizione del GA si radica giusta riferimento al potere pubblico affidato alla PA. Infine, stando al comma 5 del ridetto art.7, nelle materie di giurisdizione esclusiva di cui all’art.133 del codice – e dunque anche in materia di accordi – il GA conosce anche delle controversie in cui si faccia questione di diritti soggettivi, ed anche a fini di risarcimento del danno.
Il 13 luglio esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.4545 alla cui stregua, essendo ormai venuta meno la riserva di legge con riguardo alle fattispecie in cui la PA può ricorrere alla stipula di accordi sostitutivi di provvedimento, tale possibilità deve ormai assumersi sempre e comunque sussistente (salvi i casi di espresso divieto normativo).
*Il 23 agosto esce la sentenza delle IV sezione del Consiglio di Stato n.5904 alla cui stregua – sulla scia delle SSUU della Cassazione – sussiste la giurisdizione esclusiva del GA sia sulla domanda che abbia ad oggetto la risoluzione dell’accordo integrativo per perpetrato inadempimento (il provvedimento finale non rispetta il contenuto del ridetto accordo procedimentale), sia per la condanna della PA medesima al risarcimento del danno.
Il 6 dicembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.24687 che esclude la annoverabilità della c.d. cessione volontaria del bene espropriando di cui all’art.45 del D.p.R. n.327.01 tra gli accordi sostitutivi di provvedimento ex art.11 della legge 241.90, trattandosi piuttosto di accordo di natura civilistica che configura un modo tipico di chiusura del procedimento di esproprio secondo modalità assunte necessarie dalla legge in forza di una relazione legale e predeterminata di alternatività della ridetta cessione volontaria rispetto al decreto di esproprio; non si configura dunque una mera “sostituzione” del decreto di esproprio, che ne consentirebbe l’inquadramento tra gli accordi sostitutivi di cui al mentovato art.11, i quali ultimi sono liberi nell’an e nel quomodo, a differenza degli accordi espropriativi in parola che sono liberi solo nell’an, ma predeterminati nel resto.
2011
Il 15 aprile esce la sentenza della II sezione del Tar Piemonte n.380 onde, anche dopo un accordo ex art.11 della legge 241.90, la PA non perde il proprio potere autoritativo nella gestione dell’interesse pubblico del quale è attributaria, proprio per questo potendo sempre recedere unilateralmente dall’accordo medesimo anche laddove in corso di esecuzione o già eseguito, ancorché con liquidazione di indennizzo al privato.
L’8 settembre esce la sentenza della II sezione del Tar Lombardia n.2193 alla cui stregua, conformemente a pertinente giurisprudenza, le convenzioni di lottizzazione vanno ascritte al genus degli accordi ex art.11 della legge 241.90, con conseguente estensione alle stesse, per quanto non previsto dalla relativa disciplina speciale, delle previsioni generali per l’appunto contenute nel mentovato art.11.
Il 23 novembre esce la sentenza della sezione II bis del Tar Lazio n.9212 alla cui stregua agli accordi sono applicabili, in quanto contratti sostitutivi del procedimento con natura negoziale, i principi civilistici di buona fede e di correttezza.
2012
Il 12 gennaio esce la sentenza della II sezione del Tar Puglia, Lecce, n.130 alla cui stregua in tema di accordi va riconosciuta la giurisdizione esclusiva del GA.
Il 9 marzo esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.3689 che ribadisce autorevolmente come in tema di accordi vada riconosciuta la giurisdizione esclusiva del GA.
Il 20 luglio esce l’importante pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.28 onde – in una fattispecie in cui inadempiente è il soggetto privato, e non la PA – il rimedio previsto dall’art.2932 c.c. al fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto deve assumersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da definitivo, ma anche in qualsiasi altra fattispecie in cui sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, tanto in relazione ad un negozio unilaterale, quanto in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege, come avviene per il Consiglio proprio nel caso degli accordi di cui all’art.11 della legge 241.90 (in particolare, degli accordi c.d. procedimentali o integrativi di provvedimento finale). Né potrebbe addursi, a fondamento della pretesa inammissibilità dell’azione in questione, la relativa, asserita natura speciale ed eccezionale in quanto mista, cognitiva ed esecutiva insieme (e come tale derogatoria rispetto alla normale separazione tra azione di cognizione e azione di esecuzione), sol che si consideri come nel processo amministrativo le medesime caratteristiche siano ascrivibili al giudizio di ottemperanza. E’ ben vero che l’azione ex art.2932 c.c. non è espressamente contemplata dagli articoli 29 e 30 del c.p.a., e tuttavia essa deve predicarsi esercitabile nel processo amministrativo da un lato perché a norma degli articoli 24, 103, 111 e 113 Cost. il GA, laddove ha giurisdizione esclusiva, può erogare qualunque forma di tutela che sia funzionale alla protezione dei diritti soggettivi (c.d. principio di effettività della tutela), e dall’altro perché agli accordi amministrativi sono applicabili, ex art.11 della legge 241.90, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti.
Il 4 settembre viene varato il decreto legislativo n.160, c.d. secondo correttivo al codice del processo amministrativo; vi viene disciplinata, all’art.34, comma 1, lettera c), la c.d. azione di adempimento pubblicistica, che – specificamente in tema di accordi – sembra consentire al privato di ottenere una tutela immediatamente satisfattiva senza dover ricorrere ad un giudizio di ottemperanza e ciò sia nell’ipotesi di inadempimento sub specie di provvedimento, adottato dalla PA, difforme da quello concordato (in sede di accordo), quanto in quella di ritardo nell’adozione del provvedimento unilaterale a valle dell’accordo (procedimentale).
Il 6 novembre viene varata la legge n.190, c.d. “anticorruzione”, che ai pertinenti fini impone (articolo 1, comma 47) la motivazione degli accordi giusta modifica dell’art.11, comma 2, della legge 241.90.
2013
Il 14 ottobre esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.5000 che si occupa degli accordi integrativi del contenuto del provvedimento, o accordi procedimentali, chiarendo che essi non compendiano negozi di diritto privato, quanto piuttosto contratti ad oggetto pubblico, dacché all’autonomia privata spesa dal soggetto (per l’appunto) privato si giustappone un potere unilaterale pubblicistico esercitato dalla PA.
Il 20 agosto esce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato n.4179 alla cui stregua la cessione volontaria del bene espropriando ai sensi dell’art.45 del D.p.R. n.327.01 va annoverata tra gli accordi sostitutivi di provvedimento ex art.11 della legge 241.90 (applicabile dunque alla fattispecie), stante la relativa funzione sostitutiva del decreto di esproprio.
2014
Il 5 maggio esce la sentenza della I sezione del Tar Umbria n.238 che, nel richiamare propria precedente giurisprudenza sul punto (segnatamente, la sentenza 17 gennaio 2014, n.59), ribadisce come gli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento disciplinati dall’art. 11 della legge 241/90 si differenzino dai contratti di diritto comune innanzitutto per l’inerenza, sotto il profilo dell’oggetto, al contenuto discrezionale del provvedimento finale (anche in termini di relativa, eventuale sostituzione), dovendosi pertanto verificare la titolarità in capo all’Amministrazione di discrezionalità amministrativa circa l’oggetto specifico dell’accordo, vale a dire il potere di determinare in più modi l’assetto degli interessi in gioco nella prospettiva del miglior perseguimento dell’interesse pubblico. Ne consegue per il Tar che non è possibile qualificare come accordi fattispecie negoziali inerenti l’esercizio di potere autoritativo vincolato, per il principio di legalità dell’azione amministrativa, pur invero ammettendosi in giurisprudenza anche accordi in procedimenti del tutto vincolati, e tuttavia limitatamente agli aspetti che presentino nel quando o nel quomodo elementi di discrezionalità (si richiamano i precedenti del Consiglio di Stato sez VI, 15 maggio 2002 n. 2636 e 10 dicembre 2007, n. 6344; T.A.R. Liguria sez I, 13 giugno 2006, n.542). Per il Tar l’ambito di operatività degli accordi coincide pertanto con quello di negoziabilità dell’esercizio del potere amministrativo, anche se – sempre per il Tar – appare più corretto discorrere, piuttosto che di negoziazione del potere, di definizione consensuale delle relative modalità di esercizio (T.A.R. Puglia Bari sez. I, 4 giugno 2013, n.899), dovendosi allora evidenziare come fuoriesca dallo strumento dell’accordo per collocarsi in quello dei c.d. contratti di diritto pubblico, il negozio che disciplini i soli aspetti patrimoniali di un rapporto amministrativo in relazione al quale il momento discrezionale della funzione si è già esternato in un provvedimento (vengono richiamati i precedenti delle SSUU 24 giugno 1992, n. 7773 e ord. 24 maggio 2013, n.12901). L’istituto degli accordi, prosegue il Tar, rientrante tra quelli partecipativi di cui al Capo III della legge 241/90 e s.m. e rappresentando il possibile sbocco finale del contraddittorio procedimentale, al di là delle delicate questioni che esso pone sia a livello dogmatico che sul piano della concreta individuazione della disciplina normativa applicabile, rappresenta comunque un modulo consensuale dell’azione amministrativa di tipo aperto, suscettibile di vari modelli e graduazioni a seconda degli interessi pubblici coinvolti (si richiama T.A.R. Liguria sez I, 13 giugno 2006, n.542); la più recente legislazione intervenuta in subiecta materia, precisa ancora il Tar, oltre ad esplicitare il favor per la conclusione di accordi sostitutivi di provvedimento, trasformati da strumenti tipici a modello generale (art. 7 c. 1 lett a) legge 11 febbraio 2005 n. 15) ha altresì definitivamente optato per la relativa natura pubblicistica laddove, modificando il comma 2 dell’art. 11, ha imposto la motivazione degli accordi (vedi articolo 1, comma 47, della L. 6 novembre 2012, n. 190, c.d. “anticorruzione”) essendo tale obbligo evidentemente funzionale ad esigenze di trasparenza ed imparzialità riferibili all’azione autoritativa. La Consulta, del resto, aveva già autorevolmente qualificato gli accordi quali “forme mediate di esercizio del potere autoritativo” (Corte Cost. sent. n. 204/2004 e n. 191/2006) seppur ai fini della legittimità costituzionale della devoluzione alla giurisdizione esclusiva del GA delle controversie sui “comportamenti” in materia di governo e trasformazione del territorio. Il Tar precisa poi come – al di là del requisito contenutistico – l’accordo debba di norma collocarsi sul piano procedimentale all’interno del procedimento come relativo segmento, e non già successivamente alla adozione del provvedimento finale e conclusivo (vengono richiamate ex multis Cassazione Sez. Un, 24 giugno 1992, n. 7773; id. Sez. Un. 17 aprile 2009 n. 9151; Consiglio di Stato sez. VI, 15 maggio 2002, n.2636).
2015
Il 9 marzo esce la pronuncia delle SSUU della Cassazione n.4683 onde – ponendosi sulla stessa linea dell’Adunanza Plenaria n.28.12 e sempre in fattispecie in cui inadempiente è il soggetto privato, e non la PA – stante l’esistenza di una giurisdizione esclusiva del GA in materia di accordi ex art.11 della legge 241.90, e muovendo dal presupposto che dall’accordo (procedimentale) sorge l’obbligo, tanto per la parte pubblica che per quella privata, di concludere un contratto, è da assumersi conseguentemente innegabile l’applicazione dell’art.2932 cc., norma che rappresenta una ipotesi specifica di tutela giurisdizionale costitutiva rispetto al modello di cui all’art.2908 c.c., consentendo di azionare la tutela del pertinente, specifico diritto giusta richiesta di una sentenza che produca gli effetti dell’obbligazione (di contrarre) inadempiuta. E’ ben vero che l’azione ex art.2932 c.c. non è espressamente contemplata dagli articoli 29 e 30 del c.p.a., e tuttavia essa deve predicarsi esercitabile nel processo amministrativo da un lato perché a norma degli articoli 24, 103, 111 e 113 Cost. il GA, laddove ha giurisdizione esclusiva, può erogare qualunque forma di tutela che sia funzionale alla protezione dei diritti soggettivi (c.d. principio di effettività della tutela), e dall’altro perché agli accordi amministrativi sono applicabili, ex art.11 della legge 241.90, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti.
Il 6 agosto esce l’ordinanza della III sezione del Tar Puglia, Lecce, che rimette alla Corte costituzionale – per presunto contrasto con l’art.103, comma 1, Cost. – la questione di legittimità dell’art.133, comma 1, lettera a) n.2 e lettera f), nella parte in cui devolve alla giurisdizione esclusiva del GA anche le controversie (comprese quelle in materia di accordi) che siano state instaurate su iniziativa della PA piuttosto che del privato.
2016
Il 18 marzo esce la sentenza della II sezione del Tar Lombardia n.542 che chiarisce come gli obblighi nascenti dalle convenzioni urbanistiche di cui all’art.11 della legge 241.90 abbiano consistenza di obbligazioni propter rem, gravando come tali anche sugli aventi causa dall’originario obbligato secondo il noto meccanismo delle c.d. obbligazioni ambulatorie e degli oneri reali.
Il 20 aprile esce la sentenza della I sezione del Tar Emilia Romagna, Parma, n.137 onde la convenzione di lottizzazione, quand’anche istituto di complessa ricostruzione a causa dei profili di stampo pubblicistico che si accompagnano allo strumento chiaramente contrattuale, rappresenta pur sempre un incontro di volontà delle parti contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale retta dal codice civile; la durata della ridetta convenzione – alla stregua della vigente normativa – non risulta peraltro per il Tar soggetta a regole di impronta pubblicistica, costituendo piuttosto materia rimessa all’accordo tra privati lottizzanti e PA comunale onde, per modificare la pertinente clausola, si deve applicare la normativa di cui all’art.11, comma 3, della legge 241.90; più nel dettaglio, trattandosi di atto negoziale che presuppone la ricerca del consenso del privato su un determinato assetto di interessi ed attribuisce allo stesso posizioni di diritto-obbligo, ne consegue che la relativa modifica necessita della manifestazione di volontà di tutti i soggetti che hanno concorso alla relativa formazione.
Il 15 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.179, che ribadisce come gli accordi amministrativi tra PA e privati rientrano nell’esercizio del potere amministrativo, quand’anche in via mediata e indiretta: in questo caso l’affermazione sembra far propendere per la natura pubblicistica di tali accordi, che fonda appunto – giusta addentellato al potere – la giurisdizione esclusiva del GA, non essendo del resto incompatibile con il perseguimento dell’interesse pubblico un modulo consensuale che è solo alternativo a quello unilaterale. La Corte precisa come – per essere inserite nell’ambito del procedimento amministrativo – tanto le convenzioni quanto gli atti d’obbligo stipulati tra PA e privati costituiscano pur sempre epifania di esercizio di un potere riconosciuto alla prima, onde si tratta di fattispecie di giurisdizione esclusiva che si fondano legittimamente sull’esercizio, quantunque in via indiretta e mediata, del potere pubblico da parte della PA. Peraltro, dagli accordi procedimentali possono scaturire vincoli non già solo per l’autorità pubblica procedente, ma anche per il soggetto privato che a tali accordi partecipi, circostanza della quale va per la Corte tenuto conto anche sul crinale processuale, onde se è vero che di norma è la PA la parte resistente nel processo amministrativo, è pur vero sotto altro profilo che dapprima l’art.11, comma 5, della legge 241.90 e poi l’art.133, comma 1, del c.p.a. hanno devoluto alla giurisdizione esclusiva del GA “tutte” le controversie che trovino titolo e fondamento negli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento, onde – anche laddove a farsi parte attrice sia, più raramente, la PA – questo non può escludere la persistenza della giurisdizione esclusiva del GA. Ciò tenuto conto anche del fatto, osserva la Consulta, che l’ordinamento non conosce materie “a giurisdizione frazionata”, che quindi dipendono dal soggetto che dà la stura alla lite, differenziandosi a seconda che a farsi attore sia il soggetto privato o quello pubblico; al contrario, ragioni di parità di trattamento oltre che di coerenza ordinamentale esigono predicabile per la PA quella medesima concentrazione delle tutele che connota la giurisdizione esclusiva quando ad agire (il che avviene normalmente) è un privato, potendosi dunque assumere la PA medesima legittimata a convenire il privato dinanzi al GA in sede appunto di giurisdizione esclusiva, una diversa opinione finendo col promuovere irragionevolezze e disarmonie.
*Il 24 ottobre esce la pronuncia della I sezione del Tar Emilia Romagna, n.873 onde il rimedio previsto dall’art.2932 c.c. al fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto deve assumersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da definitivo, ma anche in qualsiasi altra fattispecie in cui sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, tanto in relazione ad un negozio unilaterale, quanto in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege, come avviene per il Tar proprio nel caso degli accordi di cui all’art.11 della legge 241.90 (in particolare, degli accordi c.d. procedimentali o integrativi di provvedimento finale). Né potrebbe addursi, a fondamento della pretesa inammissibilità dell’azione in questione, la relativa, asserita natura speciale ed eccezionale in quanto mista, cognitiva ed esecutiva insieme (e come tale derogatoria rispetto alla normale separazione tra azione di cognizione e azione di esecuzione), sol che si consideri come nel processo amministrativo le medesime caratteristiche siano ascrivibili al giudizio di ottemperanza. E’ ben vero che l’azione ex art.2932 c.c. non è espressamente contemplata dagli articoli 29 e 30 del c.p.a., e tuttavia essa deve predicarsi esercitabile nel processo amministrativo da un lato perché a norma degli articoli 24, 103, 111 e 113 Cost. il GA, laddove ha giurisdizione esclusiva, può erogare qualunque forma di tutela che sia funzionale alla protezione dei diritti soggettivi (c.d. principio di effettività della tutela), e dall’altro perché agli accordi amministrativi sono applicabili, ex art.11 della legge 241.90, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti.
Il 5 ottobre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.19914 alla cui stregua la convenzione urbanistica volta a disciplinare, con il consenso del privato proprietario dell’area, una delle possibili modalità di realizzazione delle opere di urbanizzazione necessarie per dare al territorio interessato dall’intervento edificatorio la conformazione prevista dagli strumenti urbanistici, va assimilata ad un accordo sostitutivo di provvedimento, onde le controversie che ne investono la formazione, la conclusione e l’esecuzione appartengono alla giurisdizione esclusiva del GA.
2017
*Il 2 febbraio esce la sentenza della I sezione del Tar Lombardia, Brescia, n.149 alla cui stregua la convenzione urbanistica volta a disciplinare, con il consenso del privato proprietario dell’area, una delle possibili modalità di realizzazione delle opere di urbanizzazione necessarie per dare al territorio interessato dall’intervento edificatorio la conformazione prevista dagli strumenti urbanistici va assimilata ad un accordo sostitutivo di provvedimento, onde le controversie che ne investono la formazione, la conclusione e l’esecuzione appartengono alla giurisdizione esclusiva del GA.
Il 17 febbraio esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.4217 che – dopo aver ribadito che l’art. 11, comma 5, della legge n. 241 del 1990, laddove devolve al GA la giurisdizione esclusiva sulle controversie relative alla formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi sostitutivi del provvedimento conclusi dalla P.A. con gli interessati è applicabile, quale norma sulla giurisdizione, anche agli accordi stipulati anteriormente alla entrata in vigore di detta norma – statuisce come la convenzione urbanistica diretta a disciplinare il rilascio di concessioni edilizie e la realizzazione di opere di urbanizzazione costituisca una convenzione di lottizzazione che rientra tra gli accordi sostitutivi del provvedimento rispetto ai quali l’articolo 11, comma 5, della legge n. 241 del 1990 prevede la giurisdizione esclusiva del G.A. per le controversie relative alla formazione, conclusione ed esecuzione dei ridetti accordi.
Il 17 marzo esce l’ordinanza delle SSUU n.6962 alla cui stregua, anche a seguito dell’abrogazione dell’art. 11 comma 5 della legge n. 241 del 1990 (ex art. 4 primo comma, allegato 4, del C.p.A.), resta devoluta alla giurisdizione esclusiva del GA la controversia avente ad oggetto il rispetto degli obblighi nascenti da convenzioni stipulate tra Comuni ed altri enti, pubblici o privati, ai sensi dell’art. 133 comma 1 lett. A) n. 2 del codice del processo amministrativo, e correlate all’esecuzione di un accordo – da qualificare come integrativo o sostitutivo di un provvedimento amministrativo (nel caso di specie, sotteso ad una specifica attività anche urbanistica della P.A.).
*L’11 aprile esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione, n.9284 alla cui stregua la convenzione urbanistica volta a disciplinare, con il consenso del privato proprietario dell’area, una delle possibili modalità di realizzazione delle opere di urbanizzazione necessarie per dare al territorio interessato dall’intervento edificatorio la conformazione prevista dagli strumenti urbanistici va assimilata ad un accordo sostitutivo di provvedimento, onde le controversie che ne investono la formazione, la conclusione e l’esecuzione appartengono alla giurisdizione esclusiva del GA.
Il 7 novembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.26339 che ribadisce preliminarmente compendiare il Collegio – allorché chiamato ad occuparsi di questioni di giurisdizione – un giudice anche del fatto con potere di procedere direttamente all’apprezzamento delle risultanze istruttorie giusta valutazione che si profila del tutto autonoma rispetto a quella del giudice di merito. Per il Collegio rientra poi nella giurisdizione amministrativa una controversia relativa alla formazione e all’esecuzione di un patto territoriale con concessione di pertinente finanziamento tradudentesi – nella relativa e più intima sostanza – nella adozione da parte della P.A. di decisioni discrezionali circa la corretta allocazione di risorse finanziarie ed il cui contenuto implica necessariamente l’esercizio di una valutazione di opportunità con ponderazione comparativa degli interessi valutati in sede di erogazione; proprio la concessione del finanziamento individua anzi per la Corte la ragione fondamentale per la quale sussiste nel caso di specie un potere amministrativo incompatibile con la cognizione giurisdizionale del GO. Per le SSUU rientra poi comunque nella giurisdizione esclusiva del GA, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lettera a), n. 2) del c.p.a., una controversia tra una società privata ed un Comune concernente un Protocollo d’intesa che non preveda né la concessione di un finanziamento, né l’individuazione di un responsabile del procedimento, costituendo piuttosto un accordo tra il Comune e la società privata finalizzato ad ottenere, da un lato, il superamento dei problemi e degli impedimenti connessi al rilascio delle autorizzazioni che la società ha invocato dal Comune e, dall’altro, il ritiro della procedura di mobilità che la società medesima ha attivato per la cessazione delle attività di un sito, con ricadute in termini di crisi dell’occupazione nell’area comunale di riferimento; per la Corte trattasi infatti di Protocollo d’intesa da ricondurre alla figura degli accordi integrativi del provvedimento di cui all’art. 11 della legge n. 241 del 1990, poiché è finalizzato alla creazione di una situazione idonea (e necessaria) all’adozione dei provvedimenti di autorizzazione in favore della società ricorrente (facendovisi difatti riferimento alla successiva adozione, nel termine di 7 giorni, di tali provvedimenti).
2018
Il 30 marzo esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.8046 che ribadisce in primis come la giurisdizione debba essere determinata sulla base della domanda spiccata dal ricorrente, dovendosi guardare, ai fini del riparto della giurisdizione tra GO e GA non già alla prospettazione compiuta dalle parti, bensì al c.d. “petitum sostanziale”, da identificarsi non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice quanto, massime, in funzione della “causa petendi” e dunque dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio, da individuarsi sulla base dei fatti di volta in volta allegati da chi agisce. Fatta questa premessa, per la Corte tanto le convenzioni quanto gli atti d’obbligo eventualmente stipulati fra la P.A. e il privato che aneli ad ottenere un provvedimento amministrativo di tipo ampliativo, qualora siano imposti come momento necessario del procedimento amministrativo finalizzato al rilascio del ridetto provvedimento, non hanno specifica autonomia quale fonte negoziale di regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, dovendosi piuttosto ad essi riconoscere “carattere integrativo” del provvedimento amministrativo medesimo con la conseguenza onde le pertinenti controversie, attenendo allo stesso provvedimento amministrativo, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del GA. Rientra allora nella giurisdizione esclusiva del GA un’azione proposta da privati nei confronti di un Comune con la quale è stata chiesta la dichiarazione di nullità (e comunque di inefficacia) dell’atto col quale sono state cedute unilateralmente e gratuitamente al ridetto Comune – in esecuzione di un previo accordo con il Comune stesso – talune aree su cui lo strumento urbanistico locale prevedeva la costruzione di una via pubblica, laddove il privato contesti non solo la validità e l’efficacia dell’atto di cessione menzionato, ma anche la legittimità della delibera con la quale il Consiglio comunale ha disposto l’acquisizione al patrimonio del Comune del suolo ceduto e della stessa autorizzazione rilasciata per la realizzazione della strada, vertendosi in una fattispecie di controversia che ha ad oggetto non solo la validità di un atto posto in essere in esecuzione di un accordo da qualificare come integrativo di provvedimento amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, c.p.a., ma anche la validità di ulteriori provvedimenti amministrativi attinenti alla materia urbanistica ed edilizia e concernenti l’uso del territorio, ai sensi art. 133, comma 1, lett. f) c.p.a..
2019
Il 30 ottobre esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n. 7445 che accerta la non assimilabilità della vendita di un bene immobile effettuata da un privato in favore della p.a. prima della dichiarazione di pubblica utilità con la cessione volontaria prevista dalla normativa sugli espropri; l’atto traslativo non potrebbe espletare la sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di esproprio.
Ricorda la Sezione che la cessione volontaria di cui all’art. 12 L. 865/1971 costituisce un contratto ad oggetto contratto ad oggetto pubblico i cui elementi costituitivi, indispensabili per differenziarla da un normale contratto di compravendita di diritto privato, sono: a) l’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità, nel cui contesto la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio; b) la preesistenza non solo di una dichiarazione di pubblica utilità ancora efficace, ma anche di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12, l. n. 865 del 1971; c) il prezzo di trasferimento volontario correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione. Ne consegue che, ove non siano riscontrabili tutti i requisiti sopra indicati, non potendosi escludere che l’amministrazione abbia inteso perseguire una finalità di pubblico interesse tramite un ordinario contratto di compravendita, al negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti tipici della cessione volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul bene acquisito dall’amministrazione (Cass. 22 gennaio 2018, n. 1534; id. 22 maggio 2009, n. 11955).
Pertanto, presupposto indispensabile perché si possa configurare la cessione volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è il collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del trasferimento immobiliare. Senza l’apertura di una formale procedura espropriativa non può esserci spazio per la cessione volontaria, e ciò per la semplice ragione che la cessione non potrebbe in tale caso espletare la sua funzione tipica di strumento di acquisizione della proprietà immobiliare in capo all’amministrazione espropriante alternativo rispetto al provvedimento amministrativo autoritativo costituito dal decreto di esproprio (Cass. 29 marzo 2007, n.7779).
La causa del contratto pubblicistico di cessione di cui all’art. 12, l. n. 865 del 1971 va quindi ricondotta ad una modalità alternativa di realizzazione del procedimento espropriativo mediante l’utilizzo di uno strumento privatistico, peraltro soggetto per taluni aspetti – tra cui la determinazione del prezzo di cessione – alla disciplina contenuta in norme di legge imperative (Cons. Stato, sez. IV, 7 aprile 2015, n. 1768; id. 3 marzo 2015,n.1035;Cass.,S.U.,13 febbraio 2007, n.3040).
Nell’ambito di questa cornice normativa, e nel rispetto dei presupposti suindicati, la conclusione del contratto di cessione rimane comunque soggetta alla disciplina del contratto privatistico, non essendo caratterizzata dalla posizione di preminenza dell’amministrazione pubblica espropriante bensì dall’incontro paritetico delle volontà (Cass. 17 novembre 2000, n. 14901).
Traslando i superiori principi all’odierno gravame, non può che rilevarsi l’assenza di un requisito essenziale perché possa ritenersi integrata la fattispecie tipica della cessione volontaria di cui all’art. 12, l. n. 865 del 1971, ovvero quel collegamento necessario tra una procedura espropriativa per pubblica utilità e quella modalità alternativa di conclusione della medesima procedura costituita dalla cessione volontaria dell’immobile.
2020
Il 18 febbraio esce la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 5 che formula il seguente principio di diritto: “l’art. 42 bis del DPR 8 giugno 2001 n. 327 si applica a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene (come nel caso di un contratto privatistico di compravendita dichiarato nullo o annullato)”.
La verifica della “compatibilità” del decreto di acquisizione ex art. 42-bis con un giudicato restitutorio, in specie formatosi su sentenza del giudice civile dichiarativa della nullità di un contratto di compravendita (o, se si preferisce, la possibilità di esercizio del potere ex art. 42-bis pur in presenza di una sentenza passata in giudicato che ordina la restituzione del bene), presuppone la previa risoluzione del problema costituito dall’ambito di applicazione del medesimo art. 42-bis (se esso possa, cioè, applicarsi anche in ipotesi diverse da quelle ritenute dalla sentenza impugnata) di modo che se si considera tale disposizione applicabile “ad ogni caso in cui – per qualsiasi ragione – un bene immobile altrui sia utilizzato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico”, allora (e solo allora) potrà verificarsi se, più specificamente, il potere conferito dall’art. 42 bis potrà essere esercitato anche in presenza di un giudicato restitutorio (e, ancor più specificamente in presenza di una sentenza declaratoria della nullità di un contratto di compravendita).
L’art. 42 bis citato (recante “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico), prevede, per quel che interessa nella presente sede:
“1. Valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.
- Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l’annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l’amministrazione che ha adottato l’atto impugnato lo ritira…(Omissis)…
- Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l’autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere all’eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia….”.
La stessa formulazione letterale dell’art. 42 bis induce a ritenere che questa disposizione, lungi dal poter trovare applicazione solo nei casi in cui “la P.A. agisce nella sua veste di autorità, sia pure senza un valido titolo”, deve essere invece intesa come una “disposizione di chiusura” del sistema.
Argomentando, in particolare, dal comma 1 dell’art. 42 bis, può affermarsi che tale articolo trova, quindi, possibile applicazione in tutti i casi in cui un bene immobile, che si trovi nella disponibilità dell’amministrazione, sia stato da questa utilizzato (o sia da questa in corso di utilizzazione), e dunque modificato nella sua consistenza materiale, per finalità di pubblico interesse; finalità che denota l’agire dell’amministrazione quale pubblica autorità.
Già la stessa rubrica dell’articolo (pur nei limiti di ausilio all’interpretazione propri della stessa) è indicativa della predisposizione di un rimedio “generale” per i casi di “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, senza limitare l’ambito del medesimo articolo alle ipotesi connesse all’esercizio di un potere amministrativo specifico (segnatamente di tipo ablatorio).
Più esplicitamente in tal senso, il comma 1 rende possibile l’esercizio del potere, previsto dall’art. 42 bis, a tutti i casi in cui l’amministrazione “utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità”.
Dal comma 1 dell’art. 42 bis si evince che i presupposti fondanti il potere di acquisizione siano unicamente due, cioè l’avvenuta modifica del bene immobile e la sua utilizzazione per scopi di interesse pubblico, senza che assumano alcun rilievo le circostanze che hanno condotto alla occupazione sine titulo e alla riconducibilità di tali circostanze a vicende di natura privatistica o pubblicistica.
A ciò va aggiunto che il comma 2, lungi dal restringere l’ambito di applicazione dell’art. 42 bis ai casi connessi con l’esercizio di un potere amministrativo (quale che ne sia la legittimità), afferma come il provvedimento di acquisizione possa essere adottato “anche” quando siano stati annullati l’atto di vincolo preordinato all’esproprio, l’atto di dichiarazione della pubblica utilità dell’opera ovvero il decreto di espropriazione; in tal modo – attraverso l’uso della locuzione “anche” – si esclude proprio una applicazione della norma limitata ai soli casi di illegittimo esercizio in concreto del potere amministrativo.
Anche il comma 4, nel descrivere il contenuto del provvedimento di acquisizione, impone che questo debba recare “l’indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio”, senza limitare tale indicazione a una o più specifiche forme di “indebita utilizzazione”.
L’ Adunanza Plenaria (sent. 9 febbraio 2016 n. 2) ha già affermato come l’art. 42 bis “introduce una norma di natura eccezionale” e che l’acquisizione ivi prevista “costituisce una delle possibili cause legali di estinzione di un fatto illecito”.
Tale articolo “configura un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui scopo non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall’Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata sine titulo”.
La natura di “norma di chiusura”, propria dell’art. 42-bis – desumibile anche dai principi (ora riportati) già espressi dall’Adunanza Plenaria – rende evidente la finalità di ricondurre nell’alveo legale del sistema tutte le situazioni in cui l’amministrazione, quale che ne sia la causa, si trovi ad avere utilizzato la proprietà privata per ragioni di pubblico interesse, ma in difetto di un valido titolo legittimante.
Ne consegue che il dato letterale della norma non osta all’applicazione dell’art. 42 bis nelle ipotesi in cui il difetto di titolo si manifesti per intervenuta declaratoria di nullità ovvero per annullamento del contratto di compravendita.
La possibilità di consentire l’applicazione dell’art. 42 bis (e, quindi, del decreto di acquisizione) in tutte le ipotesi in cui “per qualsiasi ragione un bene immobile altrui sia utilizzato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico”, oltre a non essere impedita dal dato letterale della disposizione, risulta coerente anche con un inquadramento logico-sistematico della disposizione medesima, nell’ambito di una più generale riflessione sull’attività amministrativa e sugli strumenti ad essa inerenti.
A fronte del testo dell’art. 42 bis che richiede che l’utilizzazione sine titulo del bene deve essere comunque intervenuta “per scopi di interesse pubblico”, giova ricordare che l’attività della pubblica amministrazione risulta costantemente funzionalizzata alla cura, tutela, perseguimento dell’interesse pubblico, sia che a tali fini vengano esercitati poteri pubblicistici ad essa conferiti – e dei quali l’interesse pubblico costituisce, al tempo stesso, la causa dell’attribuzione e la giustificazione dell’esercizio in concreto – sia che vengano utilizzati strumenti propri del diritto privato, in un contesto generale già delineato attraverso l’esercizio di potestà pubbliche.
Tale affermazione, che può essere ritenuta ormai principio acquisito dall’ordinamento, trova il suo riscontro nell’art. 1 della legge 7 agosto 1990 n. 241, che, nell’enunciare i “principi generali dell’attività amministrativa”, prevede che la stessa si effettui sia mediante l’esercizio di poteri autoritativi, sia ricorrendo ad istituti di diritto privato (“salvo che la legge non disponga diversamente”).
L’azione amministrativa che si concretizza nell’emanazione di provvedimenti amministrativi, ovvero quella che si svolge, in forma paritetica, attraverso la sottoscrizione di accordi con i soggetti privati (art. 11 l. n. 241/1990, in particolare attraverso gli accordi sostitutivi di provvedimento), così come la stessa azione che utilizza direttamente strumenti disciplinati dal diritto privato (in specie, contratti), partecipa dell’unica (ed unificante) ragione di interesse pubblico, che la sorregge e giustifica., rappresentandone la causa in senso giuridico.
Con la precisazione che, mentre nelle prime due ipotesi le finalità di pubblico interesse sono implicite nello stesso ricorso ad atti “tipici”, quali il provvedimento amministrativo o l’accordo (procedimentale o sostitutivo), nella terza ipotesi il ricorso ad atti di diritto privato (e, segnatamente, contratti tipici e nominati previsti dal codice civile) in tanto può essere ricondotta all’ambito di una azione amministrativa funzionalizzata, in quanto essa si iscriva, anche in ossequio al principio di legalità dell’azione amministrativa, in un contesto di finalità di interesse pubblico, previamente definito mediante l’esercizio dei poteri all’uopo occorrenti e obiettivamente accertabile.
Proprio tale più generale immanenza dell’interesse pubblico, anche in ipotesi ulteriori rispetto a quella di natura provvedimentale, ha già fatto più volte affermare alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, la irriducibilità degli accordi di cui all’art. 11 della l. n. 241/1990 a meri “strumenti di matrice civilistica”.
Si è a tal fine osservato che “fermi i casi di contratti di diritto privato (per i quali trovano certamente applicazione le disposizioni del codice civile), nei casi invece di contratto ad oggetto pubblico l’amministrazione mantiene comunque la sua tradizionale posizione di supremazia; tali contratti non sono disciplinati dalle regole proprie del diritto privato, ma meramente dai “principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti”, sempre “in quanto compatibili” e salvo che “non diversamente previsto”.
Orbene, alle ipotesi costituite da accordi tra amministrazione e privati – e specificamente accordi sostitutivi aventi contenuto patrimoniale (cui, secondo una definizione comunemente invalsa, può attribuirsi il nomen di “contratti ad oggetto pubblico”, in quanto disciplinanti aspetti patrimoniali connessi all’esercizio di potestà: v. Cons. Stato, sez. IV, n. 2256/2017) – ben possono affiancarsi le ipotesi in cui l’amministrazione stipuli contratti di diritto privato in un quadro che – pur non caratterizzato dallo svolgimento di un procedimento amministrativo o in sostituzione di questo – risulta tuttavia già delineato dal precedente esercizio di poteri pubblici, con i quali si è già provveduto ad individuare le finalità di pubblico interesse da perseguire.
Con riguardo ai cd. contratti ad oggetto pubblico ed ai cd. contratti ad evidenza pubblica, la giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di osservare come la finalità di pubblico interesse ne determini diversamente il contenuto.
Nei primi (contratti ad oggetto pubblico), la predetta finalità “non costituisce (né lo potrebbe) una “immanenza” esterna alla convenzione/contratto, ma essa – in quanto la Pubblica Amministrazione persegue sempre nella sua azione interessi pubblici, in conformità al principio di legalità, quale che sia il modulo utilizzato – conforma il contratto medesimo, ed in particolare – proprio in ragione delle definizioni che il diritto privato ne offre – gli elementi essenziali della causa e dell’oggetto”.
Nei secondi (contratti ad evidenza pubblica) – laddove non è presente una regolazione degli aspetti patrimoniali dell’esercizio della potestà, ma sono presenti solo procedimenti antecedenti al contratto, volti ad individuare il soggetto contraente con la pubblica amministrazione – tuttavia “una volta scelto il contraente, il contratto stipulato successivamente alla fase di evidenza pubblica non rifluisce “immediatamente” nella più generale disciplina del codice civile e delle ulteriori disposizioni che eventualmente regolano il rapporto patrimoniale consensualmente instaurato tra privati. Ciò è a tutta evidenza negato dalla stessa presenza di una (copiosa) disciplina speciale che normalmente assiste il momento genetico e quello funzionale del contratto, e che non può che giustificarsi se non in ragione della “particolare natura” dello stesso; laddove tale “particolare” natura non è costituita dall’esservi la pubblica amministrazione quale soggetto contraente, bensì dall’essere la causa e l’oggetto del contratto differentemente conformati, in ragione delle finalità di interesse pubblico perseguite con il contratto, e dunque con l’adempimento delle obbligazioni assunte per il tramite delle rispettive prestazioni (a seconda dei casi, l’opus o il servizio)”.
In definitiva, viene affermato che nei casi in cui la pubblica amministrazione – dopo avere individuato per il tramite di un generale e preventivo atto di esercizio di potestà, anche in ossequio al principio di legalità, la finalità di pubblico interesse – decida di perseguire quest’ultima non già attraverso procedimenti amministrativi tipici ed esercizio di poteri provvedimentali, bensì ricorrendo a ordinari modelli privatistici (nei limiti consentiti dall’ordinamento), la predetta finalità di interesse pubblico resta immanente al contratto ed al rapporto così posto in essere.
Ciò comporta, di conseguenza, che, laddove la finalità di pubblico interesse non risulta (o non risulta più) essere perseguita (o perseguibile) per il tramite del contratto, non può escludersi, in generale, che l’amministrazione possa intervenire sul rapporto insorto (ovvero sulle conseguenze di fatto di un rapporto comunque cessato) per il tramite dell’esercizio di poteri pubblicistici.
Tanto precisato, si osserva che la pluralità delle modalità di scansione dell’attività amministrativa funzionalizzata, come innanzi illustrata, non consente una “divaricazione” così netta, come se il perseguimento dell’interesse pubblico possa essere individuato solo nell’attività amministrativa mediante esercizio di poteri autoritativi, o come se, in una sorta di non previsto “principio di alternatività sostanziale”, una volta intrapresa la via del diritto privato non possa più essere utilizzata quella disciplinata dal diritto pubblico.
Ciò comporta che l’art. 42 bis ben può trovare applicazione anche in casi di utilizzazione del bene sine titulo, non ostando a ciò (nei sensi innanzi esposti) la sussistenza (o preesistenza) di un rapporto svoltosi sotto l’egida del diritto privato.
A maggior conferma di quanto esposto, occorre osservare che:
– per un verso, non sussistono particolari dubbi in ordine all’applicabilità dell’art. 42 bis alle ipotesi di utilizzazione del bene per effetto di contratto di cessione volontaria (art. 20 DPR n. 327/2001) successivamente dichiarato nullo o annullato; contratto che, pur presentando evidenti aspetti di connessione con il procedimento espropriativo, tuttavia determina autonomamente e in via derivativa, come un comune contratto di compravendita, il trasferimento del diritto di proprietà;
– per altro verso, se l’art. 42 bis è applicabile ai casi di cd. occupazione usurpativa (dove, per effetto della mancanza o del sopravvenuto annullamento della dichiarazione di pubblica utilità, manca proprio l’atto che sancisce, nel rispetto del principio di legalità, la sussistenza del potere di sacrificare la proprietà privata: v. Corte Cost., 11 maggio 2006 n. 191), e dunque in un caso in cui l’utilizzazione del bene immobile si configura ab initio come fatto illecito (e, escludendosi l’esercizio di un potere coerente con l’art. 42 Cost, l’amministrazione si configura come un “privato” usurpatore), a maggior ragione potrà trovare applicazione il medesimo art. 42 bis laddove il preesistente “rapporto tra privati” si connette ad un contratto di compravendita dichiarato nullo o annullato, cioè ad un titolo astrattamente valido a disporre il trasferimento del bene. E ciò a maggior ragione laddove la finalità pubblica che attraverso il contratto di compravendita si intende perseguire risulti dalla previsione delle realizzande opere pubbliche nello strumento urbanistico vigente.
* * *
Il 13 marzo esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 7219 che, intervenendo in un giudizio sull’esecuzione di un segmento di un contratto rimasto efficace dopo una pronuncia del Consiglio di Stato, richiama la propria consolidata giurisprudenza secondo cui nel settore dell’attività negoziale della P.A. tutte le controversie che attengono alla fase preliminare, antecedente e prodromica al contratto, inerenti alla formazione della sua volontà ed alla scelta del contraente privato in base alle regole c.d. dell’evidenza pubblica, appartengono al giudice amministrativo, mentre quelle che radicano le loro ragioni nella serie negoziale successiva che va dalla stipulazione del contratto fino alle vicende del suo adempimento, e riguardano la disciplina dei rapporti che dal contratto scaturiscono, sono devolute al giudice ordinario: conseguentemente, appartengono al giudice ordinario le controversie concernenti l’interpretazione dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Non sposta l’asse della giurisdizione la circostanza che tra le parti sia intervenuta la sentenza del Consiglio di Stato che ha annullato il provvedimento di Giunta di affidamento in concessione e l’atto aggiuntivo e integrativo, e ha conseguentemente dichiarato l’inefficacia del contratto intercorso tra le parti, giacché, in tale fattispecie, lo stesso Consiglio di Stato, in applicazione dell’art. 121, comma 1, cod.proc.amm., ha limitato gli effetti della pronuncia caducatoria alle prestazioni ancora da eseguire, a partire dalla scadenza del termine di 180 giorni dalla comunicazione in via amministrativa o dalla notificazione della sentenza.
Ne consegue che le prestazioni eseguite prima di tale data, non colpite dalla declaratoria di inefficacia, sono ancora legate dal sinallagma contrattuale e rimangono sottoposte alla disciplina privatistica che le regolava prima dell’intervento del Consiglio di Stato. Si tratta, infatti, di situazione che si colloca nella fase esecutiva del contratto, quindi al di fuori del raggio d’applicazione della giurisdizione esclusiva ex art. 133, comma 1, lett. e), n. 1, cod. proc. amm., non venendo in rilievo l’esercizio di poteri discrezionali.
La giurisdizione spetta dunque al giudice ordinario come giudice dei diritti, cui spetta di verificare la conformità alle regole, attraverso cui i contraenti hanno disciplinato i loro contrapposti interessi, delle relative condotte attuative.
In questa direzione si muove anche il Consiglio di Stato (Cons. St.21/5/2014, n.2624), secondo cui è devoluta alla giurisdizione amministrativa la declaratoria di inefficacia del contratto «quale conseguenza immediata e diretta dell’annullamento dell’aggiudicazione», trattandosi di un corollario del principio di concentrazione delle tutele che ha trovato una coerente declinazione normativa dapprima nell’art. 7 del d.Ig. 20 marzo 2010 n. 53 e, successivamente, nell’art. 133 proc. ,amm. Il Consiglio di Stato ha tuttavia precisato che «tale giustificazione sistematica rest(a) limitata ai casi in cui fra l’annullamento dell’aggiudicazione e la perdita di efficacia del contratto sussista un rapporto di immediata presupposizione, nel senso che il secondo rappresenta conseguenza immediata e diretta del primo, sì da suggerire la richiamata conclusione quale corollario del principio di concentrazione. Al contrario, la medesima giustificazione non risulta applicabile alle diverse ipotesi in cui la richiesta perdita di efficacia del contratto di appalto rappresenterebbe una conseguenza solo mediata e indiretta dell’annullamento intervenuto in sede giurisdizionale e – circostanza dirimente – rappresenterebbe l’effetto di una pronuncia resa inter alios».
Conclusivamente, viene quindi affermato che spetta al giudice ordinario la giurisdizione sulla domanda volta ad ottenere il pagamento delle prestazioni eseguite prima dell’annullamento del provvedimento di affidamento in concessione e della caducazione del contratto: la situazione giuridica soggettiva vantata ha consistenza di diritto soggettivo pieno, senza che possa ravvisarsi in capo alla pubblica amministrazione l’esercizio di poteri autoritativi discrezionali.
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Il 18 marzo esce la sentenza della III sezione del Tar Lazio- Roma n. 3371 che, nell’ambito dei contratti pubblici, configura la concessione come un rapporto trilaterale nel quale, accanto al rapporto tra amministrazione concedente e concessionario, si colloca il “rapporto” del concessionario con la massa degli utenti che possono fruire del servizio, pagando un certo corrispettivo, mediante il quale il concessionario remunera i costi sostenuti per erogare il servizio stesso; pertanto la concessione di un servizio non può prescindere dal “rischio operativo” che si configura, in gran parte dei casi, come “rischio di domanda”, il quale è legato ai diversi e oscillanti volumi di domanda provenienti dagli utenti, dai quali dipendono i maggiori o minori flussi di cassa di cui l’impresa può beneficiare.
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Il 15 luglio esce la sentenza della III sezione del Tar Toscana n. 926 che dichiara necessario l’avvio del procedimento per procedere alla revoca degli accordi tra privati e p.a.. Secondo la sentenza è illegittimo, per violazione delle garanzie procedimentali, il provvedimento con il quale un Comune ha disposto la risoluzione di una convenzione stipulata, a seguito di gara pubblica, per la gestione dei parchi comunali e relativi punti di ristoro, motivato con riferimento alla violazione, da parte dell’associazione concessionaria, del regolamento sul patrimonio verde pubblico e privato, e, in particolare, allo svolgimento di manifestazioni non preventivamente autorizzate dall’Ente locale, nel caso di omessa preventiva comunicazione, nei confronti della medesima associazione, di avvio del procedimento ex artt. 7 e segg. l. n. 241 del 1990 e s.m.i..
Infatti, l’estrema conseguenza della decadenza o della risoluzione non può scaturire da qualsiasi violazione del regolamento o della convenzione, dovendo sussistere proporzionalità tra il provvedimento di estinzione del rapporto e l’inadempimento che lo giustifica, proporzionalità che deve emergere da circostanze puntualmente e preventivamente contestate alla parte concessionaria.
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Il 20 ottobre esce la sentenza delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione n. 22810 che dichiara la giurisdizione della Corte dei Conti in materia di controversie aventi ad oggetto l’accertamento dei rapporti di dare e avere tra il soggetto concessionario della riscossione dei tributi e l’ente impositore ed annessa responsabilità per la condotta inadempiente dell’agente alla riscossione nell’esercizio della sua attività in ordine alla gestione dei crediti tributari dell’ente.
In merito alla controversia in oggetto si sono susseguite due tesi; la prima, favorevole al difetto assoluto di giurisdizione, sulla base di un’interpretazione restrittiva dell’art. 172, lett. d) del d.lgs. 174/2016, in forza della quale tale norma non «creerebbe» un’azione di responsabilità, da aggiungersi a quelle esperibili dalla Procura della Corte dei conti, ma avrebbe un valore «meramente ricognitivo» della possibilità di agire in giudizio, sempre che una norma – di valore sostanziale – configuri un’azione tipica, di competenza del giudice contabile, norma che, nella specie, non esisterebbe. Tale tesi non è stata condivisa dalle Sezioni Uniti Civili per una serie di argomenti contrari. Innanzitutto, a norma degli artt. 103, comma secondo, Cost.; 13 e 44 R.D. 12/7/1934, n. 1214; 9 d.P.R. 29/9/1973 n. 603; 127 d.P.R. 15/5/ 1963, n. 858; 1 d.lgs. 26/8/2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile) – alla Corte dei conti è attribuita una giurisdizione tendenzialmente generale in materia di contabilità pubblica (ancorché secondo ambiti la cui concreta determinazione è rimessa alla discrezionalità del legislatore), giurisdizione che riguarda ogni controversia inerente alla gestione di denaro di spettanza dello Stato o di enti pubblici da parte di un agente contabile (Cass. Sez. Un., 18/6/2018, n. 16014; Cass. Sez.Un. 16/11/2016, n. 23302; Cass. Sez.Un. 07/05/2003, n. 6956; Cass. Sez. Un., 07/12/1999, n. 862; Cass. Sez. Un., 29/05/2003, n. 8580; Cass. Sez. Un., 10/04/1999, n. 237).
È stato altresì precisato che gli elementi essenziali e sufficienti perché un soggetto rivesta la qualifica di agente contabile, ai fini della sussistenza della giurisdizione della Corte dei Conti in materia di responsabilità contabile, sono costituiti soltanto dal carattere pubblico dell’ente per il quale tale soggetto agisce e dalla natura parimenti pubblica del denaro o del bene oggetto della sua gestione; rimane irrilevante – invece – la natura privatistica del soggetto affidatario del servizio (cfr. Cass., Sez. Un., 24/03/2017, n. 7663; Cass., Sez. Un., 16/12/2009, n. 26280), così come il titolo giuridico in forza del quale la gestione è svolta, che può consistere in un rapporto di pubblico impiego o di servizio, in una concessione amministrativa, in un contratto e perfino mancare del tutto, potendo il relativo rapporto modellarsi indifferentemente secondo gli schemi generali, previsti e disciplinati dalla legge, ovvero discostarsene in tutto od in parte (Cass., Sez. Un., 1/4/2020, n. 7645; Cass. 30/8/2019, n. 21871; Cass. Sez. Un., n. 16014/2018, cit.).
La qualifica di agente contabile deve così essere riconosciuta alla società concessionaria del servizio di riscossione delle imposte, essendo quest’ultima incaricata, in virtù di una concessione contratto, di riscuotere denaro di spettanza dello Stato o di enti pubblici, del quale la stessa ha il maneggio nel periodo compreso tra la riscossione ed il versamento (Cass. Sez. Un. 20/12/2018, n. 33016; Cass., Sez. Un., 16/11/2016, n. 23302; Cass., Sez. Un., 29/05/2003, n. 8580; Cass., Sez. Un., 10/04/1999, n. 237); e va qualificata “giudizio di conto” ogni controversia tra società concessionaria del servizio di riscossione delle imposte e l’ente impositore, che abbia ad oggetto la verifica dei rapporti di dare ed avere e il risultato finale di tali rapporti (Cass. Sez. Un., n. 5559/2010, cit.; Cass., Sez. Un., n. 16014/2018, cit.).
La giurisdizione contabile ha infatti natura tendenzialmente generale, dotata di propria vis expansiva in difetto di espresse limitazioni legislative, in materia di contabilità pubblica (così Cass. Sez. Un. 18/9/2017, n. 21546; v. pure Cass., Sez. Un.19/5/2016, n. 10324; Cass. 24/11/2009, n. 24671; Cass. Sez.Un. 16/12/2009, n. 26280). Alla luce di queste coordinate, l’Agenzia delle entrate-riscossione, in quanto incaricata di riscuotere i tributi imposti dal Consorzio stradale, ha certamente la veste giuridica di agente contabile ed il presente giudizio, in quanto ha ad oggetto la verifica dei rapporti di dare e avere tra il soggetto concessionario della riscossione e l’ente impositore, ha natura di giudizio di conto (arg. ex art. 20 comma 4, D.Lgs. n. 112/1999), rientrante nella giurisdizione della Corte dei conti (Cass. Sez. Un. 24/3/2017, n. 7663).
2021
Il 5 febbraio esce la sentenza della I sezione della Corte di Cassazione n. 2738 che, in materia di accordi di programma stipulati tra le pubbliche amministrazioni e i privati precisa quando una lite devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo può essere compromessa in arbitri. La Corte afferma che per la compromettibilità in arbitrato di una controversia derivante dall’esecuzione di accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento amministrativo occorre valutare la natura delle situazioni giuridiche azionate, potendosi ricorrere a tale strumento di risoluzione delle controversie solo se queste abbiano la consistenza di diritto soggettivo, ai sensi dell’art. 12 c.p.a., e non invece quella di interesse legittimo.
Nel caso di specie, la Corte ravvisa la consistenza dell’interesse legittimo nella posizione vantata dal privato che aveva inteso reagire, anche a fini risarcitori, avverso scelte discrezionali dell’Amministrazione che avevano reso inattuabile l’accordo di realizzazione di un complesso programma lottizzatorio.
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Il 10 febbraio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 46/2021 che, in materia di royalties dichiara in parte infondate ed in parte inammissibili le ordinanze di rimessione nr. 56-57-58-59 formulate dal Consiglio di Stato che denunziavano aspetti di illegittimità nelle convenzioni intercorse tra enti locali e operatori nel settore dell’energia rinnovabile con particolare riferimento alle misure di compensazione per il montaggio di impianti di energia rinnovabile. Occorre precisare preliminarmente a riguardo il quadro normativo della disciplina ambientale, sin dal DPCM 377/1988, integrato dal DPCM 28 dicembre 1988, prevedeva già i casi di misure compensative e mitigative degli interventi. La disciplina specifica di settore (articolo 12, Dlgs 387/2003) prevedeva espressamente che l’autorizzazione alla costruzione ed esercizio degli impianti non poteva essere subordinata, né prevedere misure di compensazione a favore delle regioni e delle province (ecco l’equivoco: non venivano menzionati i Comuni). La legge di riordino del settore energetico prevedeva la possibilità, non automatica, di stabilire misure di compensazione e riequilibrio territoriale ma solo a patto che non avessero natura meramente patrimoniale e correlate alla circostanza che esigenze connesse agli indirizzi strategici nazionali richiedessero concentrazioni territoriali di attività, impianti e infrastrutture ad elevato impatto territoriale (articolo 1, comma 4, lettera f), legge 239/2004) e quindi non si tratta quasi mai un impianto a fonti rinnovabili. Successivamente il Ministro dello sviluppo economico ha adottato il d.m. 10 settembre 2010, il cui Allegato 2 ha indicato i criteri per la fissazione delle misure di compensazione.
Sul piano procedimentale, le Linee guida di tale decreto hanno stabilito che eventuali misure di compensazione devono essere definite nell’ambito della conferenza di servizi, sentiti i Comuni interessati, i quali, pertanto, non possono concordarle autonomamente con gli operatori economici, ma devono farlo nel contesto procedimentale finalizzato all’emanazione del provvedimento di autorizzazione unica.
Inoltre, quanto ai presupposti e al contenuto delle misure di compensazione, le stesse Linee guida hanno previsto – per quel che rileva maggiormente in questa sede – che «a) non dà luogo a misure compensative, in modo automatico, la semplice circostanza che venga realizzato un impianto di produzione di energia da fonti rinnovabili, a prescindere da ogni considerazione sulle sue caratteristiche e dimensioni e dal suo impatto sull’ambiente; b) le “misure di compensazione e di riequilibrio ambientale e territoriale” sono determinate in riferimento a “concentrazioni territoriali di attività, impianti ed infrastrutture ad elevato impatto territoriale”, con specifico riguardo alle opere in questione; c) le misure compensative devono essere concrete e realistiche, cioè determinate tenendo conto delle specifiche caratteristiche dell’impianto e del suo specifico impatto ambientale e territoriale; d) […] le misure compensative sono solo “eventuali”, e correlate alla circostanza che esigenze connesse agli indirizzi strategici nazionali richiedano concentrazioni territoriali di attività, impianti e infrastrutture ad elevato impatto territoriale; e) possono essere imposte misure compensative di carattere ambientale e territoriale e non meramente patrimoniali o economiche solo se ricorrono tutti i presupposti indicati […]». Inoltre, soggiunge la lettera h), «le eventuali misure di compensazione ambientale e territoriale definite nel rispetto dei criteri di cui alle lettere precedenti non possono comunque essere superiore al 3 per cento dei proventi, comprensivi degli incentivi vigenti, derivanti dalla valorizzazione dell’energia elettrica prodotta annualmente dall’impianto».
In proposito la Corte ha chiarito che i regimi abilitativi degli impianti per la produzione di energia rinnovabile sono regolati dalle Linee guida di cui al d.m. 10 settembre 2010, adottate in attuazione del comma 10 dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, e richiamate nel decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28 (Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE), ossia da atti di normazione secondaria, che costituiscono, in settori squisitamente tecnici, il completamento della normativa primaria. Pertanto, essi rappresentano un corpo unico con la disposizione legislativa che li prevede e che ad essi affida il compito di individuare le specifiche tecniche che mal si conciliano con il contenuto di un atto legislativo e che necessitano di applicazione uniforme in tutto il territorio nazionale (sentenze n. 69 del 2018 e n. 99 del 2012) ed hanno carattere vincolante (sentenza n. 106 del 2020).
Tutto ciò premesso, la Corte esamina la prima censura, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. sotto il profilo del dedotto difetto di ragionevolezza, giacché la disposizione censurata prevederebbe, per il passato, la sanatoria generalizzata di accordi contrari alle Linee guida del 2010; censura che è quella di maggiore pregnanza e che condiziona, a cascata, anche l’esame delle altre.
La questione per la Corte non è fondata. Nel contesto normativo, appena descritto, la possibilità per i Comuni di stipulare convenzioni con gli operatori economici del settore delle fonti energetiche rinnovabili contemplanti misure di compensazione non era esclusa dall’art. 12, comma 6, del d.lgs. n. 387 del 2003, che, nel prevedere l’autorizzazione all’installazione degli impianti, riguardava le Regioni, titolari del potere autorizzatorio, nonché le Province che potevano provvedere su delega delle Regioni. Infatti, era disposto che l’autorizzazione non potesse essere subordinata a «misure di compensazione», né essa poteva prevederle a favore dell’ente che rilasciava l’autorizzazione, appunto la Regione o la Provincia.
Sotto il profilo soggettivo il successivo art. 1, comma 5, della legge n. 239 del 2004, in sede di generale riordino del settore energetico, ha poi chiarito che le Regioni e gli enti locali territorialmente interessati dalla localizzazione di infrastrutture – e quindi anche i Comuni – comunque «hanno diritto di stipulare accordi con i soggetti proponenti che individuino misure di compensazione e riequilibrio ambientale», fermo restando – ha precisato e ribadito la disposizione – che l’autorizzazione continuava a non poter essere subordinata a misure di compensazione, né poteva prevederle a favore dell’ente che rilasciava l’autorizzazione. Successivamente, l’art. 38, comma 10, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 2014, n. 164, ha aggiunto, tra gli enti che hanno diritto a stipulare accordi con i soggetti proponenti, anche gli enti pubblici territoriali, così peraltro confermando, pur dopo le sopra indicate Linee guida del 2010, la possibilità di accordi aventi ad oggetto misure di compensazione e riequilibrio ambientale. Sotto il profilo oggettivo lo stesso art. 1, comma 4, lettera f), della legge n. 239 del 2004 ha stabilito che lo Stato e le Regioni possono prevedere – nel garantire l’adeguato equilibrio territoriale nella localizzazione delle infrastrutture energetiche, nei limiti consentiti dalle caratteristiche fisiche e geografiche delle singole Regioni – eventuali misure di compensazione e di riequilibrio ambientale e territoriale qualora esigenze connesse agli indirizzi strategici nazionali richiedano concentrazioni territoriali di attività, impianti e infrastrutture ad elevato impatto territoriale.
La Corte Costituzionale ricorda che l’iniziale esclusione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili da queste misure di compensazione e di riequilibrio ambientale – che originariamente comportava l’esonero degli operatori del settore dall’onere economico di tali misure in un’ottica di accentuato favore per questi ultimi, pur essendo talora di tutta evidenza l’«elevato impatto territoriale», come nel caso delle pale eoliche, sul paesaggio, sulla fauna e in generale sull’ambiente – è venuta meno a seguito della sopra menzionata dichiarazione di illegittimità costituzionale di tale esclusione (sentenza n. 383 del 2005).
La giurisprudenza amministrativa ha poi chiarito che, in questo contesto normativo, è incompatibile un procedimento di gara ad evidenza pubblica o di tipo concessorio, essendo il procedimento esclusivamente autorizzatorio (Consiglio di Stato, parere n. 9849 del 14 ottobre 2008) e che illegittima è la previsione unilaterale di misure compensative da parte di Comuni in delibere di Giunta recanti il disciplinare dell’attività di gestione di areogeneratori (Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Bari, sentenza 1° aprile 2008, n. 709; sezione staccata di Lecce, sez. I, sentenza 29 gennaio 2008, n. 118); sono state ritenute illegittime anche una convenzione non seguita poi dal rilascio dell’autorizzazione unica (TAR Puglia, sezione distaccata di Lecce, sentenza 7 giugno 2013, n. 1361) ovvero superata da una successiva convenzione in sede di conferenza di servizi (TAR Puglia, sezione distaccata di Bari, sentenza 24 maggio 2018, n. 737).
In sostanza vi era quindi un duplice piano: quello dell’autorizzazione che non tollerava la previsione di misure compensative; quello degli accordi tra operatori ed enti pubblici territoriali che invece tali misure compensative potevano prevedere. Era quindi contemplata una misura di compensazione che condizionava il rilascio dell’autorizzazione. Ciò le disposizioni regionali censurate non potevano prevedere e quindi questa Corte, nel ribadire comunque, anche testualmente, i principi già affermati nella sentenza n. 119 del 2010, è giunta all’opposta conclusione della dichiarazione di illegittimità costituzionale. Siffatte misure – ha affermato la pronuncia – «si configurano quali compensazioni di carattere economico espressamente vietate dal legislatore statale».
Le citate Linee guida del 2010, di natura regolamentare, segnano un netto cambiamento nell’evoluzione della disciplina di settore nella misura in cui pongono più in dettaglio la regolamentazione delle misure di compensazione, prevedendo criteri marcatamente limitativi per la loro fissazione.
Da una parte, si è previsto espressamente che non è dovuto alcun corrispettivo monetario in favore dei Comuni, ma l’autorizzazione unica può prevedere l’individuazione di misure compensative, «a carattere non meramente patrimoniale», a favore degli stessi Comuni. Tali misure compensative sono definite in sede di conferenza di servizi, sentiti i Comuni interessati, anche sulla base di quanto stabilito da eventuali provvedimenti regionali, ma non possono essere fissate unilateralmente da un singolo Comune.
D’altra parte, le misure compensative non possono essere comunque superiori al tre per cento dei proventi. Quindi non sono più stati possibili né accordi bilaterali direttamente tra Comune (o, più in generale, ente locale) e operatore economico, né misure compensative esclusivamente monetarie, ossia solo per equivalente, dovendo essere invece “a carattere non meramente patrimoniale” e quindi almeno miste, in parte specifiche e in parte per equivalente, e con il tetto massimo pari al tre per cento dei proventi, nonché convenute esclusivamente in sede di conferenza di servizi per il rilascio dell’autorizzazione unica.
Nel complesso questa più restrittiva disciplina regolamentare – entrata in vigore il 3 ottobre 2010 e applicabile alle autorizzazioni rilasciate successivamente a tale data e alle relative convenzioni – mirava, in modo virtuoso, da una parte a favorire un settore energetico strategico, quale quello delle fonti rinnovabili, con la previsione di un tetto massimo di onere economico a carico degli operatori, e dall’altra parte a promuovere effettive e specifiche misure compensative a tutela dell’ambiente, inciso dalla localizzazione degli impianti produttivi, laddove in precedenza quelle per equivalente, solo monetarie, non sempre si traducevano in misure di effettivo riequilibrio ambientale.
Per altro verso, però, questa normativa regolamentare determinava una situazione squilibrata, perché gli stessi operatori economici, nel medesimo settore delle energie rinnovabili, comprensive dell’energia eolica, erano soggetti a regole diverse, quanto alle misure compensative e di riequilibrio ambientale. Lo spartiacque era costituito appunto dall’entrata in vigore delle Linee guida del 2010.
Costituiva, in particolare, fattore distorsivo del mercato l’applicazione solo alle nuove autorizzazioni e alle nuove convenzioni, successive al 3 ottobre 2010, delle prescrizioni relative alle misure compensative e di riequilibrio ambientale. Questo obbligo a contrattare – non mera esortazione, ma vincolo giuridico, suscettibile eventualmente di inadempimento, con tutte le relative conseguenze civilistiche, quale l’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 del codice civile – è poi inserito in una regolamentazione più ampia, secondo un bilanciamento ponderato che ne svela la complessiva ragionevolezza.
Da una parte si prevede che gli accordi, oggetto dell’obbligo di revisione pro futuro sulla base delle Linee guida del 2010, rimangono inalterati per il periodo precedente «mantenendo piena efficacia» e, per l’effetto, «i proventi economici liberamente pattuiti dagli operatori del settore con gli enti locali […] restano acquisiti nei bilanci degli enti locali». Si tratta di una norma sostanzialmente confermativa del fatto che le prescrizioni delle Linee guida del 2010, che orientano la revisione degli accordi per il futuro, mentre per il passato non condizionano e non pregiudicano l’efficacia degli stessi, atteso che il citato decreto ministeriale non prevedeva la sua applicazione retroattiva agli accordi già stipulati. La disposizione censurata ha anche un’innegabile idoneità a superare le incertezze interpretative segnalate dalle ordinanze di rimessione con riferimento alla giurisprudenza di alcuni TAR, essenzialmente in ordine alla circostanza che l’art. 1, comma 5, della legge n. 239 del 2004, nel riconoscere agli enti locali, tra cui i Comuni, la possibilità di stipulare accordi con i soggetti proponenti l’installazione sul proprio territorio di impianti di produzione di fonte elettrica (anche rinnovabile), prevedeva la possibilità di convenire pattiziamente «misure di compensazione e di riequilibrio ambientale» tout court, senza precisarne il contenuto. Non era del tutto chiaro, dunque, se i predetti accordi dovessero contemplare solo misure di compensazione di carattere specifico, ossia interventi “positivi” sull’ambiente volti a bilanciare i pregiudizi sullo stesso (e talvolta sul paesaggio), derivanti dalla messa in esercizio dei predetti impianti, ovvero potessero prevedere anche misure di carattere meramente patrimoniale, cioè volte a “compensare” tali pregiudizi per equivalente.
Ma nel bilanciamento complessivo operato dalla norma censurata sta anche – e si giustifica – questo sostanziale chiarimento interpretativo, in chiave confermativa di una disciplina diacronicamente differenziata, che fa perno sullo spartiacque temporale del 3 ottobre 2010, quanto alle «misure di compensazione e riequilibrio ambientale».
In conclusione, la Corte dichiara non fondata la questione sollevata dal Consiglio di Stato in riferimento all’art. 3 Cost..
I giudici a quibus, poi hanno dedotto la violazione del diritto di azione in giudizio sancito dall’art. 24 Cost., in quanto l’art. 1, comma 953, della legge n. 145 del 2018 vanificherebbe gli effetti di un’azione di impugnativa per nullità delle clausole di “vecchi” accordi, che contemplavano misure di compensazione “meramente patrimoniale” (e quindi in asserita violazione delle Linee guida) contenute nelle convenzioni stipulate tra enti territoriali ed operatori economici operanti nel settore delle fonti energetiche rinnovabili prima del 3 ottobre 2010.
La Corte ritiene la questione non fondata. Come si è rilevato, il citato d.m. 10 settembre 2010, espressamente prevede, all’art. 1, comma 2, che le Linee guida in allegato entrano in vigore nel quindicesimo giorno successivo alla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (ossia il 3 ottobre 2010). La conferma di ciò, da parte di una norma di livello primario, qual è la disposizione censurata, eleva il rango della fonte regolamentare, ma non frustra il diritto di azione dell’operatore che un tale accordo abbia (liberamente) sottoscritto – e anche per lungo tempo eseguito – e del quale ora deduca la nullità assoluta per violazione di norme imperative. La non retroattività delle Linee guida era già esclusa dallo stesso decreto ministeriale, pur norma di rango subprimario. Sul piano sostanziale della disciplina dell’atto negoziale, ogni altra ragione di inefficacia delle convenzioni, che in ipotesi derivi da nullità assoluta, è fuori dall’ambito applicativo della norma censurata.
Come è stato più volte chiarito da questa Corte, la garanzia del diritto di azione in giudizio costituisce un posterius rispetto alla sussistenza del diritto sul piano sostanziale (ex multis, sentenze n. 15 del 2012, n. 303 del 2011, n. 401 del 2008, n. 29 del 2002 e n. 419 del 2000); e non può dirsi violato in ragione della portata, più o meno favorevole, della disciplina sostanziale.
Non è dunque violato il parametro evocato.
I giudici a quibus assumono, inoltre, un possibile contrasto della norma censurata con i principi della separazione dei poteri (in riferimento agli artt. 3, 97, 101, 102 e 113 Cost.) e del giusto processo, sancito dagli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU. Secondo la prospettazione del Consiglio di Stato rimettente, in particolare, l’incompatibilità con tali parametri potrebbe correlarsi all’incidenza dell’art. 1, comma 953, della legge n. 145 del 2018 sui processi in corso, in assenza, peraltro, di contrasti quanto alla ritenuta invalidità, “smentita” dal legislatore, delle convenzioni stipulate dagli operatori del settore delle energie rinnovabili con i Comuni, recanti la previsione di misure di compensazione di natura esclusivamente patrimoniale.
Anche tali questioni non sono state ritenute fondate dalla Corte. È ben vero che il legislatore non può introdurre una norma al solo fine di determinare l’esito di un giudizio in termini favorevoli allo Stato o a un ente pubblico in genere, non esclusi gli enti locali, quale nella fattispecie è il Comune; ciò costituirebbe eccesso di potere legislativo censurabile anche in relazione all’art. 6 CEDU. Non è infatti consentito «risolvere, con la forma della legge, specifiche controversie […], violando i princìpi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e concernenti la tutela dei diritti e degli interessi legittimi» (sentenze n. 12 del 2018, n. 85 del 2013, n. 94 del 2009 e n. 374 del 2000). In generale è violato il principio costituzionale della parità delle parti «quando il legislatore statale immette nell’ordinamento una fattispecie di ius singulare che determina lo sbilanciamento fra le due posizioni in gioco» (sentenze n. 12 del 2018, n. 191 del 2014 e n. 186 del 2013).
In una prospettiva analoga si pone la stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale ha più volte ribadito che i principi del giusto processo sancito dall’art. 6 CEDU ostano, salvo motivi imperativi di interesse generale, all’interferenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare l’esito giudiziario del controversia (ex multis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenze 30 gennaio 2020, Cicero e altri contro Italia; 15 aprile 2014, Stefanetti e altri contro Italia e 28 ottobre 1999, Zielinski ed altri contro Francia).
Nella fattispecie però l’intento del legislatore – come sopra esposto – è stato quello di tutelare il mercato e l’ambiente con un intervento bilanciato di razionalizzazione nel cui contesto è inserita anche la conferma del carattere diacronicamente differenziato della più restrittiva disciplina delle «misure compensative e di riequilibrio ambientale» dettata dalle Linee guida del 2010. Il mantenimento dell’efficacia dei “vecchi accordi” tra operatori e Comuni (quelli ante 3 ottobre 2010) non ha alcuna portata sanante di una asserita invalidità sopravvenuta e, nei limiti in cui ciò ha anche una ricaduta sull’interpretazione della normativa previgente, è comunque giustificato dalla già rilevata complessiva ragionevolezza della norma.
La parte – che ha atteso oltre dieci anni prima di promuovere l’azione di nullità di una convenzione liberamente pattuita con il Comune e poi eseguita – ha citato alcune pronunce dei giudici amministrativi di primo grado che avrebbero ingenerato un legittimo affidamento sull’invalidità della convenzione stessa.
Ma, in disparte la peculiarità delle singole fattispecie di volta in volta venute all’esame dei giudici amministrativi, quale ad esempio quelle sopra richiamate al punto 10, deve rilevarsi che la stessa Corte EDU ha riconosciuto la possibilità che il legislatore emani norme retroattive, pur potenzialmente incidenti in modo determinante su processi in corso, ove ricorrano motivi imperativi di interesse generale (da ultimo, Corte EDU, sentenza 30 gennaio 2020, Cicero e altri contro Italia). Fare salvi i «motivi imperativi d’interesse generale», che suggeriscono al legislatore nazionale interventi interpretativi nelle situazioni che qui rilevano, non può non lasciare ai singoli Stati contraenti quantomeno una parte del compito e dell’onere di identificarli, poiché nella posizione migliore per assolverlo, trattandosi, tra l’altro, degli interessi che sono alla base dell’esercizio del potere legislativo (sentenze n. 156 del 2014, n. 78 e n. 15 del 2012, n. 1 del 2011 e n. 311 del 2009).
Pertanto il legislatore, nel rispetto del limite posto per la materia penale dall’art. 25 Cost., «può emanare norme retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale”, ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (sentenza n. 78 del 2012). Sotto questo aspetto, la norma censurata trova congrua giustificazione, come si è già sottolineato, nella finalità di tutelare il mercato e l’ambiente, preservando anche la tenuta dei bilanci dei Comuni; obiettivi questi che ben possono qualificarsi come «motivi imperativi d’interesse generale».
La Corte precisa che, a differenza di quella di Strasburgo, essa è chiamata a svolgere una valutazione «sistemica e non frazionata» dei diritti coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, effettuando il necessario bilanciamento in modo da assicurare la «massima espansione delle garanzie» di tutti i diritti e i principi rilevanti, costituzionali e sovranazionali, complessivamente considerati, che sempre si trovano in rapporto di integrazione reciproca (sentenze n. 170 e n. 85 del 2013 e n. 264 del 2012).
Per la Corte Costituzionale non è fondata neanche la censura che investe l’art. 1, comma 953, della legge n. 145 del 2018 in riferimento all’art. 41 Cost., atteso che l’efficacia della norma è espressamente limitata alle convenzioni che sono state liberamente stipulate tra le parti e, quindi, deve essere esclusa dal relativo ambito applicativo ogni ipotesi nella quale l’autonomia privata di uno dei contraenti sia stata violata in danno dell’altro, così incidendo sulla libertà di iniziativa economica.
La Corte non ritiene sussistente neppure la dedotta violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, in quanto la norma censurata comporterebbe, in modo imprevedibile ed in contrasto con i principi di legalità e proporzionalità, una lesione del diritto di proprietà degli operatori economici che hanno realizzato e messo in esercizio gli impianti da fonti rinnovabili, così ostando al soddisfacimento di un credito avente consistenza di valore patrimoniale fondato sul diritto nazionale ed europeo.
È vero che la Corte europea intende in senso ampio la nozione di diritto di proprietà, al punto da estenderla anche ai crediti, purché fondati su legittime aspettative che abbiano una solida «base legale» nel diritto interno, attestata, ad esempio, da una consolidata giurisprudenza favorevole (sentenze Grande Camera, 6 ottobre 2005, Maurice contro Francia, paragrafo 63; 31 maggio 2011, Maggio contro Italia, paragrafo 54; 7 giugno 2011, Agrati contro Italia, paragrafo 73 e 15 aprile 2014, Stefanetti contro Italia, paragrafo 48).
Tuttavia l’incertezza del quadro normativo di riferimento e l’insussistenza di un diritto vivente sull’invalidità delle convenzioni che contemplano misure di compensazione meramente patrimoniale in favore dei Comuni stipulate prima dell’entrata in vigore delle Linee guida del 2010, non può far ritenere che il diritto di proprietà così inteso degli operatori economici sussistesse, in quanto non era fondato, come richiesto dalla stessa Corte di Strasburgo, su una solida base normativa. In ogni caso, un’ingerenza nel diritto al pacifico godimento dei beni è ammissibile ove sussista un giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (per tutte, Corte EDU, Grande Camera, 6 ottobre 2005, Maurice contro Francia, citata), esigenze che, per quanto evidenziato rispetto alla censura afferente l’art. 3 Cost., sono state pienamente rispettate dal legislatore con la norma impugnata, sicché anche tale verifica di proporzionalità appare superata (tra le più recenti, sentenze n. 276, n. 235 e n. 167 del 2020).
Per la Consulta non è fondata, infine, la censura che investe l’art. 1, comma 953, della legge n. 145 del 2018, rispetto all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli obblighi assunti sul piano internazionale ed europeo (ed in particolare agli artt. 6 della direttiva 2001/77/CE e 2 del Protocollo di Kyoto dell’11 dicembre 1997 sui cambiamenti climatici), anche sotto il distinto profilo del contrasto con il preminente principio di massima diffusione delle energie rinnovabili, più volte richiamato nella giurisprudenza costituzionale (ex multis, sentenze n. 237 del 2020, n. 148 del 2019, n. 177 del 2018, n. 275 del 2012 e n. 282 del 2009).
Ciò in quanto i Comuni – pur partecipando alla conferenza di servizi – non hanno alcuna competenza in ordine al rilascio dell’autorizzazione all’esercizio di impianti di produzione di energia rinnovabile, demandata dall’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003 alla Regione (ovvero alla Provincia delegata), sicché il “regime” delle convenzioni in esame, frutto di un libero accordo tra le parti, non può incidere negativamente sulla massima diffusione delle energie da fonti rinnovabili, in quanto è “esterno” al procedimento di autorizzazione.
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Il 15 marzo esce la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato n. 2207 che, in materia di affidamento in concessione di un bene immobile demaniale da parte di una pubblica amministrazione in favore di privati, ha avuto modo di precisare i connotati della concessione demaniale e gli eventuali poteri di autotutela riferibili alla p.a. in base all’art. 21 nonies L. 241/1990.
Il Consiglio di Stato ha ribadito che la concessione demaniale integra una fattispecie complessa (a portata dicotomica), alla cui formazione concorrono il potere discrezionale dell’amministrazione e la volontà del privato di accettare le condizioni negoziali di disciplina del rapporto (regime di utilizzo, durata, assetto economico dei rapporti, cause di decadenza per inadempimento, condizioni economiche per lo sfruttamento e la gestione del bene, ecc.). Nell’operazione di rilascio della concessione di beni coesistono, pertanto, un atto amministrativo unilaterale, con il quale l’amministrazione dispone di un proprio bene in via autoritativa e una convenzione attuativa, avente ad oggetto la regolamentazione degli aspetti patrimoniali, nonché dei diritti e obblighi delle parti connessi all’utilizzo di detto bene, elementi, questi, entrambi necessari ai fini della costituzione del rapporto concessorio. Nello stesso tempo, però, i due momenti, quello pubblicistico e quello consensuale, integrano l’atto complesso costituito dalla concessione-contratto.
Il potere di autotutela decisoria che interviene su una siffatta fattispecie complessa è un potere amministrativo di secondo grado, che si esercita su un precedente provvedimento amministrativo, vale a dire su una manifestazione di volontà già responsabilmente espressa dall’amministrazione e in sé costitutiva di affidamenti nei destinatari e che, in base all’art. 21-nonies l. 241/1990, per esigenze di sicurezza giuridica e certezza dei rapporti immanenti all’ordinamento, deve essere inderogabilmente esercitato entro un termine ragionevole e, comunque, entro diciotto mesi “dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”. Il limite temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento, trova applicazione solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Il Consiglio di Stato afferma che, nel caso contrario, l’ordinamento non può tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non potendo così trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario.
Questioni intriganti
Quali figure giuridiche possono ritenersi le “progenitrici” degli accordi tra PA e privati prima del varo dell’art.11 della legge 241.90?
- le c.d. intese metagiuridiche, ovvero “accordi” tra PA e privato sostanzialmente privi di effetto vincolante e con possibilità per l’Amministrazione di disattenderli abbracciando, nei provvedimenti successivamente adottati, soluzioni diverse rispetto a quelle ventilate appunto in sede di intesa: si tratta nella sostanza di una prassi (orientata massime ad una deflazione del contenzioso con la PA) che, in difetto di una esplicita previsione di legge, consente alla PA di interpellare i privati destinatari della relativa azione nell’interesse pubblico, e tuttavia con un rilievo in termini meramente politici, potendo dunque sempre prendere, alfine, una decisione diversa rispetto a quella concordata, con il solo limite dell’onere motivazionale in seno al provvedimento difforme, tale da fornire delucidazioni sul perché non sia stato recepito quanto concordato con il privato;
- i contratti di diritto pubblico, che presuppongono l’esercizio di poteri amministrativi a cagione del relativo oggetto, rientrante nella esclusiva disponibilità della PA e dunque sottratto alla libera circolazione giuridica ed ai negozi tra soggetti privati; si tratta di una figura da larga parte della dottrina e per lungo tempo, in realtà, assunta come una sorta di ossimoro, discorrendosi di “contratto” in fattispecie che, lungi dal sottendere l’autonomia negoziale e con essa una posizione di parità tra le parti “contrattuali”, sono invece caratterizzate da posizioni delle parti, rispettivamente pubblica e privata, qualitativamente diverse, una delle quali disimpegnando una attività funzionalizzata al perseguimento dell’interesse pubblico (alieno rispetto a chi agisce), e come tale assunta ontologicamente incompatibile con lo stesso concetto di autonomia privata, orientato invece al perseguimento dell’interesse proprio; proprio per far fronte a queste critiche la giurisprudenza conia allora – dapprima in materia di beni pubblici, ma poi anche in tema di opere pubbliche e di servizi pubblici – la categoria della c.d. concessione-contratto, laddove il momento pubblicistico viene “salvato” giusta presenza di un atto pubblico tradizionale unilaterale, la concessione tra PA concedente pubblico e concessionario privato, cui segue un vero e proprio contratto collegato tra i due interlocutori giusta il quale essi disciplinano i profili patrimoniali del rapporto sorto tra loro attraverso la precedente concessione autoritativa; uno schema che viene via via generalizzato, con il progressivo affiorare – ormai potenzialmente in tutte le materie – della figura del “contratto ad oggetto pubblico” (il cui prototipo è il contratto a valle della concessione), capace di consentire in ambiti pervasi dall’interesse pubblico l’incontro tra gli intendimenti della PA e la volontà del privato; dal punto di vista della natura giuridica, in tema di contratti ad oggetto pubblico vengono via via a giustapporsi in dottrina 2 opzioni ermeneutiche: b.1.1.) la tesi contrattualistica, onde si è al cospetto di un vero e proprio contratto che disciplina i profili patrimoniali di una fattispecie che, sul piano pubblicistico, è invece disciplinata dal previo atto unilaterale amministrativo fondante; b.1.2.) la tesi anticontrattualistica, onde non si tratta di contratti sia perché disciplinano un oggetto pubblico, quand’anche sul crinale dei relativi effetti patrimoniali, sia perché le determinazioni consensuali che li compendiano sono indissolubilmente legate ai previ provvedimenti unilaterali che le fondano; dal punto di vista invece della struttura, nell’ambito della generale categoria del “contratto ad oggetto pubblico” vengono via via ad isolarsi 3 sottocategorie, ovvero: b.2.1.) i contratti accessivi di provvedimento, che concernono normalmente fattispecie aventi ad oggetto beni o servizi pubblici, laddove vengono convenzionalmente disciplinati rapporti sorti sulla base del provvedimento oggetto di “accessione”, vale a dire quella concessione unilaterale sulla quale la PA conserva il potere di incidere (in sede di autotutela) anche per sopravvenuti motivi di opportunità (revoca) legati al pubblico interesse perseguito con effetti patologici sul contratto a valle, senza tuttavia che – all’opposto – eventuali vicende patologiche di tale contratto a valle “accedente” possano biunivocamente incidere sul provvedimento a monte “acceduto”; b.2.2.) i contratti ausiliari di provvedimento, che si pongono in luogo di taluni atti del procedimento con effetti patrimoniali, in sostanza favorendo la conclusione del procedimento ed il varo del provvedimento finale (che resta unilaterale); b.2.3.) i contratti sostitutivi di provvedimento, presenti in particolare in ambito di programmazione economica e di pianificazione urbanistica, che sostituiscono non già solo una parte del procedimento (come nel caso dei contratti ausiliari di provvedimento), ma l’intero procedimento ed il provvedimento che lo conclude; in sostanza, piuttosto che farsi luogo ad un procedimento e ad un provvedimento finale autoritativo ed unilaterale, si fa luogo direttamente ad un contratto sostitutivo di (procedimento e) provvedimento, laddove lo stesso dualismo tra provvedimento e contratto – che ha originariamente dato la stura alla figura dei “contratti ad oggetto pubblico” – tende a dissolversi.
In quale contesto storico-sistematico si inseriscono gli accordi tra PA e privati?
- il potere della PA è stato per decenni visto in termini unilaterali, quale strumento di perseguimento dell’interesse generale fondantesi sulla supremazia e sulla autoritarietà, per l’appunto, unilaterale e dunque unidirezionale, traducendosi alfine nel provvedimento amministrativo adottato dalla PA ed avente come destinatario il soggetto privato;
- il fuoco dell’attenzione si è tuttavia progressivamente sposato, nel corso del ‘900, dall’atto o provvedimento al rapporto che avvince PA e privato, dovendosi assumere le decisioni pubbliche tanto più legittime ed accettabili quanto più condivise con i cittadini, sulla base del c.d. principio democratico;
- ciò ha via via prodotto un sempre maggiore interesse per moduli di gestione del potere di tipo diverso, bilaterale piuttosto che unilaterale, fondati per quanto possibile sul consenso tra la parte pubblica detentrice del potere medesimo ed i soggetti privati che ne sono destinatari;
- a partire dalla positivizzazione in via generale di tale nuovo e diverso modulo di esercizio del potere, giusta 11 della legge 241.90, l’”Amministrazione per accordi” diviene realtà, consentendo talvolta un migliore perseguimento dell’interesse pubblico rispetto al più tradizionale (e, in ogni caso, sempre percorribile) strumento del provvedimento autoritativo unilaterale;
- l’esercizio unilaterale o consensuale del potere, muovendo sempre ab origine da una posizione di supremazia, va distinto dalla diversa ipotesi in cui l’Amministrazione operi avvalendosi della propria capacità di diritto privato, laddove ab origine la posizione rispetto al privato è di piena parità nell’esplicazione dell’autonomia privata, potendo tuttavia riaffiorare il potere pubblico ex post, nel corso dell’attuazione del rapporto (1, comma 1 bis, della legge 241.90).
Cosa contraddistingue gli accordi c.d. procedimentali?
- vengono detti anche endoprocedimentali, preparatori o anche preliminari;
- sono accordi avvinti in modo strutturale al procedimento e funzionale al provvedimento;
- si inseriscono all’interno del procedimento;
- vi viene concordato tra PA e privato il contenuto del provvedimento finale;
- tutti gli effetti giuridici trovano la loro fonte nel provvedimento finale, e non già nel previo accordo procedimentale;
- la conclusione dell’accordo produce: f.1) effetti per il privato, che accetta clausole sfavorevoli, con implicita rinuncia a contestarle ex post in sede contenziosa (di impugnativa del provvedimento finale che le recepisce); f.2) effetti per la PA, che non può adottare un provvedimento finale di contenuto diverso rispetto a quello concordato, se lo fa deve motivare e comunque si espone alla impugnativa (con elevate probabilità di successo) del soggetto privato;
- tali accordi scolpiscono l’assetto degli interessi pubblici e privati coinvolti nell’azione amministrativa, ma non costituiscono la fonte di tale assetto, da rinvenirsi nel provvedimento finale che li recepisce;
- il controllo amministrativo ha dunque ad oggetto il provvedimento finale, non l’accordo procedimentale;
- si tratta di accordi “atipici” sin dal varo dell’art.11 della legge 241.90;
Cosa contraddistingue gli accordi c.d. provvedimentali o sostitutivi?
- presentano una spiccata autonomia funzionale rispetto alla sequenza procedimento-provvedimento;
- sostituiscono integralmente il provvedimento finale;
- gli effetti della fattispecie procedimentale sono ricondotti all’accordo sostitutivo, che in qualche modo “assorbe” il procedimento;
- le posizioni giuridiche della PA da una parte (pubblicistica) e del privato dall’altra (privatistica) trovano la loro disciplina, a livello di fonte, direttamente nell’accordo sostitutivo;
- tale accordo scolpisce l’assetto degli interessi pubblici e privati coinvolti nell’azione amministrativa, costituendo ad un tempo la fonte di tale assetto;
- il controllo amministrativo ha dunque ad oggetto l’accordo finale sostitutivo;
- si tratta di accordi originariamente “tipici”, dovendo essere previsti specificamente dalla legge, e che sono divenuti atipici solo nel 2005, con la modifica dell’art.11 della legge 241.90 ad opera della legge 15.05;
Cosa occorre ricordare sulla disciplina e sulla natura giuridica degli accordi amministrativi?
- l’utilizzo degli accordi è ammesso solo alle condizioni di cui all’art.11 della legge 241.90, con imprescindibile finalizzazione al perseguimento del pubblico interesse (c.d. vincolo di scopo);
- deve dunque essere in corso un procedimento amministrativo, nella cui economia si innestano tali accordi, a differenza di quanto accade in ordinamenti (come quello tedesco) in cui vige il principio di contrattualità dell’azione amministrativa onde, a meno che la legge disponga altrimenti, la PA può sempre procedere per accordi anche a prescindere dunque dalla pendenza di un procedimento;
- per quanto riguarda i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti applicabili, si richiamano in particolare: c.1) quelli in tema di buona fede delle parti del rapporto obbligatorio ex art.1175c.; c.2) quelli in tema di diligenza nell’adempimento delle obbligazioni ex art.1176 c.c.) c.3) quelli in tema di conclusione del contratto ex art.1326 c.c. e 1333 c.c.; c.4) quelli in tema di atti precontrattuali posti in essere dall’imprenditore poi morto o dichiarato fallito ex art.1330 c.c.; c.5) quelli in tema di esecuzione del contratto secondo buona fede ex art.1375 c.c.; c.6) quelli in tema di clausola penale; c.7) quelli in tema di c.d. elementi accidentali del contratto;
- quanto alla natura giuridica in senso stretto, affiorano 2 opzioni ermeneutiche: d.1) per la tesi minoritaria, si tratta di accordi di natura privatistica, onde esiste piena fungibilità tra contratti di diritto comune ed accordi ex art.11 della legge 241.90 (teoria c.d. pan privatistica); una parte della dottrina che abbraccia questa tesi li addita quali “contratti di diritto privato speciale”, a cagione della circostanza onde l’autonomia privata della PA viene funzionalizzata al perseguimento dell’interesse pubblico, palesandosi dunque “ristretta”; che la natura degli accordi sia privatistica, si dice, affiora sia dall’utilizzo del termine “accordi”, che richiama l’accordo quale elemento essenziale del contratto ex art.1325c., sia dall’esplicito rinvio che l’art.11 opera ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, che ne integrano dunque ex lege la disciplina; ancora, sugli accordi la PA incide non già giusta esercizio del tradizionale potere pubblicistico di autotutela, quanto piuttosto attraverso il recesso, che è strumento tipico di tutela a corredo di un potere privato; d.2) per la tesi maggioritaria, pur nella differenza delle denominazioni elaborate (provvedimenti concordati, contratti di diritto pubblico, fattispecie bilaterali non contrattuali) si tratta invece di accordi di natura pubblicistica, potendo essere essi stipulati solo durante l’esercizio del potere, e con la medesima funzionalizzazione al perseguimento dell’interesse pubblico, già presente nella decisione a monte della PA di procedere con un accordo piuttosto che con un provvedimento tradizionale unilaterale; né potrebbe obiettarsi, con parte della dottrina, che anche allorché la PA agisca iure privatorum essa persegue l’interesse pubblico, e ciò perché in quel caso essa spende autonomia privata (in via immediata dunque nell’interesse proprio, rimanendo l’interesse pubblico sullo sfondo) mentre laddove si determina nel senso dell’accordo essa esercita direttamente il proprio potere (nell’interesse pubblico), con modalità tuttavia non già unilaterale quanto piuttosto “bilaterale”; del resto, non potrebbe predicarsi per l’accordo una struttura e una natura giuridica diverse rispetto al provvedimento che esso sostituisce o del quale determina il contenuto discrezionale: in sostanza il procedimento parte finalizzato per la conclusione di un provvedimento ed in esso si innesta un accordo, a differenza di quanto accade nell’evidenza pubblica in cui il procedimento è da subito strumentale alla conclusione a valle di un futuro contratto, onde nel primo caso l’obiettivo è esercitare un potere mentre nel secondo è far luogo ad un atto di autonomia privata (il contratto a valle); questo è il motivo per cui, secondo questa tesi pubblicistica, il legislatore parla di “accordo” e non di contratto, in relazione al quale ultimo vige il principio della libertà delle forme laddove per gli accordi ex art.11 è prevista la forma scritta ad substantiam, con ulteriore indizio di relativa pubblicità stante l’implicito richiamo al principio di legalità dei poteri amministrativi che tale forma scritta evoca; altro indizio della natura pubblica degli accordi si rinviene in quel locus dell’art.11 laddove si prevede che gli accordi siano stipulati “senza pregiudizio dei diritti dei terzi”, disposizione tutt’affatto pleonastica laddove si trattasse di accordi di diritto privato stante il disposto dell’art.1372, comma 2, c.c. ed il principio di relatività contrattuale in esso inscritto; quanto al rinvio ex lege, esso non investe direttamente le norme sulle obbligazioni e sui contratti, essendo operato piuttosto, più genericamente, ai pertinenti “principi del codice civile”, peraltro solo nei limiti della compatibilità e ove non diversamente previsto; ancora, il recesso sembra piuttosto un diverso modo di chiamare, nella sostanza, una revoca ex art.21.quinquies della legge 241.90, piuttosto che un vero e proprio “recesso” ex art.21.sexies, circostanza che peraltro si pone assai poco in linea con la equiordinazione dei soggetti privati di diritto comune; l’accordo va motivato (come un atto unilaterale e a differenza del contratto) e va peraltro sottoposto a controllo (il medesimo cui sarebbe sottoposto il provvedimento amministrativo surrogato) e può essere annullato dalla PA per illegittimità originaria, circostanza non predicabile laddove si trattasse di un contratto di diritto privato; infine, le controversie in tema di accordi sono assoggettate alla giurisdizione esclusiva del GA, palesando dunque la presenza in essi del potere pubblico.
Quali sono, più nel dettaglio, le ricadute della natura giuridica prescelta sulla patologia degli accordi e sui rimedi a disposizione dei soggetti che se ne assumono lesi?
- natura pubblica: in presenza di vizi, si applica il regime pubblicistico previsto per i provvedimenti unilaterali dagli articoli septies (nullità) e 21.octies (annullabilità) della legge 241.90; sugli accordi “illegittimi” la PA può esercitare, in secondo grado, il proprio potere di autotutela decisoria ordinariamente spendibile per i provvedimenti unilaterali; sul crinale del soggetto privato, quegli è titolare di un interesse legittimo e deve gravare l’accordo innanzi al GA nel termine di decadenza ordinario, esattamente come farebbe laddove il potere fosse stato speso nella più tradizionale foggia di unilateralità, dovendosi garantire quelle esigenze di certezza e stabilità che presidiano gli interessi pubblici ed il potere attribuito per perseguirli; la nullità dell’accordo, come quella del provvedimento unilaterale, è peraltro “tipica” e non anche “virtuale” come nel caso del contratto, cui è invece applicabile l’art.1418, comma 1, c.c.; in caso di accordo integrativo o procedimentale, laddove il provvedimento unilaterale a valle non sia conforme e dunque la PA sia inadempiente all’accordo, il privato non può spiccare azione di esatto adempimento, ma deve piuttosto tempestivamente impugnare il provvedimento finale non conforme ed insieme invocare l’eventuale risarcimento del danno; l’impugnazione ha luogo per eccesso di potere che affetta il provvedimento finale difforme dall’accordo, ed il GA può solo scandagliare ab externo il dispiego del potere pubblico nel caso di specie, che resta discrezionale; a partire dal 1999-2000, anche da questo punto di vista “pubblicistico” il privato può invocare tutela risarcitoria accanto alla tutela demolitoria. Nel diverso caso in cui la PA non adotti il provvedimento finale ovvero – nelle fattispecie di accordo sostitutivo – non stipuli appunto l’accordo che dovrebbe sostituire il provvedimento finale, non sono attivabili i rimedi privatistici, quanto piuttosto il rimedio pubblicistico del c.d. silenzio-inadempimento di cui agli articoli 2 della legge 241.90 e 17 e 31 del c.p.a.; si tratta di una presa di posizione che resta immutata anche dopo le sentenze dell’Adunanza Plenaria del 2012 e delle SSUU del 2015, laddove l’azionabilità dell’art.2932 c.c., in ottica dunque privatistica, è stata affermata con riguardo a fattispecie in cui l’inadempimento è addebitabile al privato, e non anche al caso inverso in cui sia la PA ad essere inadempiente, circostanza nel cui contesto resta invece percorribile la sola via del c.d. “silenzio”. Per quanto concerne il recesso previsto all’art.11, comma 4, nell’ottica pubblicistica esso non è assimilabile a quello scolpito all’art.1373 c.c., trattandosi dell’epifania di un potere spendibile – al pari di quanto accade per la revoca del provvedimento amministrativo ex art.21.quinquies della medesima legge – per sopravvenuti motivi di interesse pubblico; in entrambi i casi, tanto di recesso dall’accordo quanto di revoca del provvedimento, al privato non va erogato un controvalore economico reintegrativo a valenza corrispettiva, quanto piuttosto un indennizzo finalizzato al limitare il pregiudizio riconnesso all’esercizio di una attività lecita ex parte publica; il recesso non è dunque assimilabile a quello privatistico, compendiando piuttosto una revoca onerosa che è adottabile sulla scorta del c.d. principio di inesauribilità del potere amministrativo, e dunque una forma di autotutela che parte della dottrina definisce “legata”, quale via di mezzo tra il regime privatistico e quello pubblicistico, con una causa ben definita (i sopravvenuti motivi di pubblico interesse) e degli effetti del pari ben contingentati (erogazione di eventuale indennizzo al privato), a differenza di quanto invece accade con riguardo al vero e proprio recesso dai contratti di cui all’art.21.sexies della legge 241.90, che la PA può esercitare liberamente laddove il recesso di cui all’art.11, comma 4, della legge presenta spiccati caratteri di doverosità in presenza di un sopravvenuto interesse pubblico, configurando dunque una fattispecie di autotutela decisoria (seppure, come detto, “limitata”); compendiando un “provvedimento”, il recesso è soggetto a comunicazione di avvio, a motivazione ed a forma scritta come lo stesso accordo sul quale incide; sui sopravvenuti motivi di interesse pubblico che giustificano il recesso affiorano due tesi: a.1) tesi minoritaria: la PA può limitarsi ad una diversa valutazione della situazione di fatto originaria; a.2) tesi maggioritaria: la PA può recedere solo al cospetto di una vera e propria sopravvenienza, e ciò al fine di adeguare la propria azione all’interesse pubblico, come palesa l’aggettivo “sopravvenuti” e come richiede la stessa necessità, per quanto possibile, di garantire la stabilità di un vincolo contrattuale che sarebbe maggiormente minata alla radice laddove la PA potesse semplicemente “ripensarci” (seppure nell’interesse pubblico) rispetto a fatti originari che restano immutati, come del resto si dice anche della revoca ex art.21.quinquies della legge 241.90 con riguardo alla stabilità del provvedimento revocando; per quanto concerne l’indennizzo che consegue al recesso, giustapponendosi ad un atto lecito si ritiene comunemente che esso copra (al pari di quanto accade in caso di revoca) il solo danno emergente (spese e costi sostenuti dal privato collateralmente all’accordo) e non anche il lucro cessante, che è invece invocabile laddove, al cospetto di un recesso illegittimo, il privato chieda non già l’indennizzo, quanto piuttosto il risarcimento del danno. Per quanto concerne più in generale il potere di autotutela della PA, chi abbraccia la tesi pubblicistica assume spendibile – accanto al potere di recesso, che tiene luogo di quello di revoca -anche il potere di annullamento dell’accordo in secondo grado, con applicazione dell’art.21.nonies della legge 241.90;
- natura privata: in presenza di vizi o comunque di una patologia che inficia l’accordo, si applicano i rimedi previsti dal codice civile e dunque la nullità – anche virtuale ex 1418, comma 1, c.c. – l’annullabilità, la rescissione e la risoluzione, messi a disposizione di un privato che è da intendersi titolare di veri e propri diritti soggettivi nei confronti della PA stipulante; in caso di accordo integrativo o procedimentale, laddove il provvedimento unilaterale a valle non sia conforme e dunque la PA sia inadempiente all’accordo, il privato può esperire tutti i rimedi previsti in caso di inadempimento delle obbligazioni contrattuali, stante il mancato soddisfacimento di una propria pretesa, potendosi dunque chiedere al GA tanto la risoluzione dell’accordo violato quanto, in ottica manutentiva, una condanna della PA all’esatto adempimento e dunque ad adottare un provvedimento finale pienamente conforme all’accordo in precedenza concluso (salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno), ed il GA ha il potere di scandagliare ab intrinseco il comportamento della PA che non conserva un potere discrezionale, ma è piuttosto obbligata a dar seguito all’accordo concluso con il privato in sede procedimentale. Nel diverso caso in cui la PA non adotti il provvedimento finale ovvero – nelle fattispecie di accordo sostitutivo – non stipuli appunto l’accordo che dovrebbe sostituire il provvedimento finale, il privato può invocare dal GA la tutela costitutiva di cui all’art.2932 c.c. senza che possa predicarsi alcun rischio di invasione da parte del GA medesimo dei poteri discrezionali attribuiti per legge alla PA, stante il fondamentale disposto di cui all’art.24 Cost. in termini di inviolabilità del diritto di difesa in giudizio e stante, massime, la nuova foggia del processo amministrativo che ormai, assai più della legittimità di un atto amministrativo, sembra piuttosto avere ad oggetto la fondatezza della pretesa sostanziale del privato ricorrente; questo significa che in particolare nel caso di accordo preliminare al provvedimento, al quale la PA non dia seguito col provvedimento finale, avendo essa esaurito il proprio potere discrezionale nell’economia del concluso accordo, deve assumersi ammissibile appunto l’azione del privato ex art.2932 c.c. finalizzata ad ottenere il provvedimento conforme; parimenti ammissibile secondo l’opzione privatistica è l’azione di esatto adempimento ex art.1453, comma 1, c.c., al cui accoglimento può poi farsi seguire l’ottemperanza alla pertinente sentenza. Per quanto concerne il recesso previsto all’art.11, comma 4, la relativa disciplina va poi rinvenuta nel diritto privato e, segnatamente, nell’art.1373 c.c.. In tema di autotutela, l’art.1372 c.c. impedisce, per la tesi privatistica, di poter applicare agli accordi, da parte della PA, l’art.21.nonies della legge 241.90 in tema di annullamento d’ufficio per motivi di legittimità, potendo piuttosto l’’Amministrazione recedere ai sensi dell’art.11, comma 4, della medesima legge 241.90, a diversamente opinare finendo vieppiù frustrate le esigenze di stabilità del rapporto nascente dall’accordo con esposizione del privato all’esercizio di un potere autoritativo ulteriore rispetto a quello già esplicitamente scolpito appunto all’art.11 della legge.
Cosa occorre ricordare della c.d. determinazione unilaterale preliminare, introdotta nel 2005?
- un primo problema è capire quali sono i soggetti che la disposizione (comma 4.bis dell’art.11) tutela, discendendone effetti diversi: a.1) la norma è posta a tutela dei terzi: se la si interpreta in questo modo, la determinazione preliminare occorre solo laddove la PA decida di accogliere la proposta del privato di concludere l’accordo, determinazione che potrebbe per l’appunto pregiudicare i terzi (i quali ultimi, specie nell’ottica “privatistica”, sono “terzi” ex art.1372 c.c. e come tali formalmente non lambiti dall’accordo concluso tra PA e privato, senza neppure la possibilità, laddove non fosse prevista la determinazione preliminare, di impugnare un provvedimento in veste di controinteressati); a.2) la norma è posta non solo a tutela dei terzi, ma anche del privato interessato dal procedimento amministrativo in corso: se la si interpreta in questo modo, la determinazione preliminare è necessaria anche quando la PA decida di non accogliere la richiesta del privato di procedere con un accordo, trattandosi di decisione in grado di pregiudicarlo e che egli deve essere posto in condizioni di impugnare se espressa, o di sollecitare per via giurisdizionale in caso di c.d. “silenzio”;
- altra questione è quella di capire se e in che modo la determinazione preliminare possa contribuire a far luce sulla natura giuridica degli accordi: b.1) chi la assimila alla determina a contrarre, vi scorge una conferma della natura privatistica degli accordi, atteggiantisi in medesima guisa dei c.d. contratti a valle rispetto appunto alla determina a contrarre (che tuttavia, nel caso degli accordi, va sempre adottata dal medesimo organo competente a concludere l’accordo, mentre nel caso dei contratti “a valle” la ridetta competenza può scindersi tra 2 organi diversi, l’uno competente ad adottare la determina a contrarre con mera efficacia interna alla PA e l’altro a stipulare il contratto con effetti esterni rispetto alla PA medesima); la determina preliminare, assimilabile ad una determina a contrarre, non va – in questo prisma ermeneutico – impugnata nel termine di decadenza, le relative clausole immediatamente lesive traducendosi in ogni caso in vizi di nullità dell’accordo che ne segue, che possono essere fatti valere anche ex post e in ogni tempo; b.2) chi la distingue dalla determina a contrarre, vi scorge invece conferma della natura pubblicistica degli accordi, non essendosi – si dice – al cospetto di una determina preliminare destinata ad orientare il futuro esercizio dell’autonomia privata della PA, quanto piuttosto funzionale solo ad esplicitare i motivi per i quali il potere pubblico viene esercitato con modalità bilaterale piuttosto che unilaterale, senza per l’appunto intaccare il fatto che si tratta di spendere potere pubblico, tanto in fase di conclusione quanto di successiva esecuzione dell’accordo; da questo punto di vista, le clausole immediatamente lesive in seno alla determinazione preliminare vanno impugnate da chi se ne assuma leso nel consueto termine di decadenza di 60 giorni, in difetto non potendosi poi dolere delle medesime clausole siccome riprodotte nell’accordo, nei cui confronti va assunta inammissibile una autonoma impugnazione ex post;
- in tema di autotutela, e segnatamente di annullamento d’ufficio degli accordi ex 21.nonies della legge 241.90, la presenza della c.d. determinazione unilaterale preliminare consente a parte della dottrina di mediare tra la tesi privatistica negativa e quella pubblicistica affermativa, rappresentando come il ridetto potere di annullamento d’ufficio in secondo grado possa in realtà coinvolgere proprio la determinazione unilaterale preliminare all’accordo, con effetti di invalidità derivata sull’accordo medesimo.
Cosa occorre ricordare degli accordi amministrativi in rapporto al potere vincolato della PA?
- secondo una prima opzione ermeneutica, l’11 della legge 241.90 non è applicabile quando si sia al cospetto di un potere vincolato della PA, come dimostra già dal punto di vista letterale il fatto che – per quanto concerne gli accordi c.d. integrativi – con essi si determina il contenuto “discrezionale” del provvedimento, restandone appunto escluse le fattispecie di provvedimenti vincolati; in sostanza, quando il potere è vincolato è la legge, a monte, a predeterminarne il contenuto, non trovando dunque spazio alcuna negoziazione possibile tra privato e PA;
- stando invece ad una seconda opzione ermeneutica, almeno allorché il provvedimento presenti taluni caratteri di discrezionalità (come nel caso dei provvedimenti c.d. misti), non potrebbe negarsi a priori la possibilità della stipula di accordi, dovendosi anche tenere conto del fatto che non si riscontrerebbero nel sistema, se non in via del tutto residuale, provvedimenti discrezionali puri o vincolati puri, mescolandosi sempre una dose di discrezionalità ed una di vincolatività in ogni provvedimento amministrativo; anche dunque quando il contenuto del provvedimento finale è vincolato, si riscontrano sempre possibili profili di discrezionalità nel quando o nel quomodo del provvedimento stesso, capaci di lasciare spazio alla possibile stipula di accordi con il privato, quando le parti pubblica o privata assumano di poter ritrarre da tale accordo una utilità maggiore rispetto alla stipula immediata e diretta del provvedimento finale unilaterale.
Quali fattispecie vengono generalmente ricondotte agli accordi di cui all’art.11 della legge 241.90?
- si tratta di settori nei quali affiora forte conflittualità tra l’azione della PA e l’interesse del privato a conseguire un bene ovvero a conservarlo, in relazione ai quali si tende ex parte publica a ricercare un consenso preventivo del privato che elimini o riduca la ridetta conflittualità di fondo;
- tali settori normalmente sono quelli dell’espropriazione dal punto di vista degli interessi c.d. “oppositivi” e dell’urbanistica-edilizia sul crinale degli interessi pretensivi;
- in materia espropriativa, rileva la cessione volontaria del bene espropriando di cui all’45 del D.p.R. n.327.01, che è modulo di conclusione del procedimento espropriativo alternativo rispetto alla tradizionale espropriazione, laddove l’atto consensuale e bilaterale ha la funzione di accelerare la conclusione del ridetto procedimento ablativo e di eliderne o comunque ridurne la conflittualità; le parti pubblica e privata non possono tuttavia forgiare il contenuto dell’accordo, che è predeterminato dalla legge, potendo solo scegliere se avvalersene o meno, circostanza che tende a farne escludere la natura privatistica (non si tratta dunque di compravendita) per ricondurre la figura appunto in orbita pubblicistica, al cospetto di una identificazione e qualificazione del bene traslato e di una quantificazione del relativo “prezzo” fissati inderogabilmente da norme imperative, onde se ne discorre (non senza eccezioni in giurisprudenza) in termini di accordo sostitutivo di provvedimento ex art.11 della legge 241.90;
- in materia urbanistica, un argomento sensibile è quello delle convenzioni di lottizzazione di cui all’art.28 della legge urbanistica n.1150 del 1942, laddove invero l’accordo non è previsto in via alternativa rispetto al provvedimento, quanto piuttosto in via esclusiva, ponendo il problema se in simili fattispecie possa rilevare l’art.11 della legge 241.90; secondo la tesi dottrinale e giurisprudenziale prevalente, l’art.11 va assunto applicabile anche alle fattispecie in cui l’accordo non sia alternativo al provvedimento ma si atteggi a strumento esclusivo secondo il dettame della legge (c.d. accordi necessari), fissando esso la disciplina dell’esercizio consensuale del potere in via generale, ed in disparte la circostanza dell’esclusività di tale modulo consensuale ovvero dell’alternatività rispetto al modulo provvedimentale unilaterale; per tutto quanto non previsto dalla disciplina specifica delle convenzioni di lottizzazione, si applica dunque per questo orientamento maggioritario la disciplina generale di cui all’art.11 della legge 241.90, quali accordi sostitutivi soggetti alla giurisdizione esclusiva del GA. Altro argomento sensibile in materia urbanistica ed edilizia è poi quello della cessione di cubatura, ancora una volta espressione del progressivo abbandono da parte del legislatore – in questo settore del diritto amministrativo – di moduli tradizionali unilaterali a beneficio di moduli consensuali capaci di meglio contemperare la pluralità degli interessi pubblici e privati coinvolti nella pertinente trama dell’azione della PA; la cessione di cubatura compendia un contratto in cui proprietari di fondi contigui (o comunque ricompresi in una determinata area edificatoria) trasferiscono uno all’altro diritti edificatori così accrescendo le potenzialità edilizie di un area (quella c.d. di atterraggio) che, stando agli strumenti urbanistici, non consentirebbe di ottenere il permesso di costruire per la volumetria divisata dal relativo proprietario costruttore; da questo punto di vista, il contratto di “cessione di volumetria” interviene tra privati, ma è funzionale al rilascio del permesso di costruire da parte del Comune di riferimento, onde l’assenso del Comune medesimo all’operazione appare tutt’affatto rilevante anche in termini di condizione di efficacia dell’operazione medesima; ne affiora un accordo trilaterale di natura complessa che si tende ad inquadrare da parte della dottrina e della giurisprudenza nell’orbita degli accordi procedimentali ex art.11 della legge 241.90.