Massima
Una situazione tutt’affatto peculiare si delinea allorché due norme entrino in (apparente) contraddizione tra loro, la prima configurando una condotta come inadempimento penalmente rilevante (reato) e l’altra scolpendola invece come legittimo esercizio di un diritto proprio del soggetto agente; in queste ipotesi è necessario stabilire quale delle due disposizioni prevalga: quella che scorge in chi agisce (od omette di agire) un debitore, con riaffermata punibilità del relativo contegno, ovvero quella che lo identifica come creditore, con esclusione della soggezione a sanzione penale giusta scriminante esercizio, per l’appunto, del proprio diritto “di credito” (quale “pretesa” in senso generico, riconosciuta come tale dal sistema giuridico).
Crono-articolo
Al diritto romano viene ricondotta la nota massima “qui iure suo utitur, neminem laedit” (chi esercita un proprio diritto, non lede nessuno). Effettivamente se ne trova traccia in un passo del Digesto (D., 50.17.55) in cui viene riportata la ridetta espressione riferita a Gaio, concernente un commentario al diritto successorio e probabilmente riconnessa al libero esercizio di una facoltà del proprietario nell’esercizio del proprio ius disponendi (mortis causa). L’espressione è stata tuttavia in seguito generalizzata e in qualche modo assolutizzata, specie nell’ottica liberale del potere illimitato ed incondizionato del proprietario.
1859
Nel codice penale sardo (art.386) il diritto di sciopero viene considerato, nel relativo esercizio, reato, essendo punite «tutte le intese degli operai allo scopo di sospendere, ostacolare o far rincarare il lavoro senza ragionevole causa».
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, che non prevede specificamente la scriminante dell’esercizio del diritto, la quale è tuttavia ricavabile implicitamente dall’art.49 laddove esso dichiara non punibile chi ha commesso il fatto “per disposizione della legge”, ovvero per legittima difesa o stato di necessità, interpretabili come espressione del diritto all’incolumità personale in condizioni particolari di pericolo. Lo stesso codice assume agli articoli 165 e 166 come lo sciopero non possa essere più considerato un reato se non laddove esso sia corredato da violenza o minaccia. La giurisprudenza continuerà tuttavia ad esercitare una funzione repressiva dello sciopero che, quantunque non più penalmente rilevante, continua ad essere assunto sul piano civile quale inadempimento contrattuale. Anche dal punto di vista penale, interpretando in modo estensivo i concetti di violenza e di minaccia, lo sciopero resta sovente assoggettato dalla giurisprudenza alla sanzione penale.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, che prevede l’esercizio del diritto all’art.51 quale scriminante tipica, autonoma tanto dalla legittima difesa quanto dallo stato di necessità. Su di un versante più specifico tuttavia, si torna alla repressione penale del diritto di sciopero agli articoli 502 (serrata e sciopero per fini contrattuali), 504 e 505 (astensioni collettive dal lavoro determinate da motivi non economici) e 508 (arbitraria invasione e occupazione di aziende agricole o industriali; sabotaggio), oltre che agli articoli 330 e 333 che lo assumono, in ambito afferente alle Pubbliche Amministrazioni, quale interruzione di pubblico servizio (fattispecie più genericamente prevista dall’art.340 del codice). Il codice punisce poi l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni (c.d. ragion fattasi), tanto con violenza sulle cose quanto sulle persone, agli articoli 392 e 393. Importante anche l’art.571 in tema di abuso dei mezzi di correzione, con conseguente ampia capacità scriminante riconosciuta al potere disciplinare: la norma è collocata nell’ambito dei delitti contro la famiglia, ma sottintende un più generale riconoscimento della legittima autorità conferita a tutti quei soggetti cui sia stata sottoposta o affidata un’altra persona per ragioni di istruzione, educazione, cura, vigilanza, custodia, lavoro o mera organizzazione amministrativa, anche dunque al di fuori della ristretta cerchia familiare, onde – affiorando un sostanziale ius corrigendi in capo ai detentori del potere nelle ridette fattispecie (stante la possibilità di utilizzare mezzi di correzione, senza tuttavia poterne abusare) – taluni contegni di tipo minaccioso, ingiurioso o financo violento possono assumersi scriminati in virtù del rinvio a tale diritto, con effetto per l’appunto giustificativo anche in ottica di riconoscimento sociale, in via generale, del potere in parola. Importante infine, sotto altro profilo, l’art.133 c.p., laddove prevede una commisurazione della pena il più possibile calibrata sul fatto inadempimento reato, oggettivamente e soggettivamente considerato.
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile, il cui articolo 833 rubricato “atti d’emulazione” vieta al proprietario di compiere atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri. Stando poi al successivo art.1438, in tema di vizi della volontà e segnatamente di violenza, la minaccia di far valere un diritto può essere causa di annullamento del contratto solo quando è diretta a conseguire vantaggi ingiusti.
1948
Viene varata la Costituzione che – oltre a tutelare la “persona umana” agli articoli 2 e 3 – prevede più in specie la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza da escludersi laddove il fatto (inadempimento) reato costituisce, ad un tempo, l’esercizio di un diritto da parte del soggetto debitore del comportamento non antisociale, che mette dinamicamente in azione una propria pretesa e, proprio per questo, non è in grado di avvertire la rimproverabilità del proprio contegno ed il connesso assoggettamento a pena. L’art.40 prevede poi il diritto di sciopero, per l’appunto, come diritto esercitabile (in via di autotutela) nell’ambito delle leggi che lo regolano. Con la Costituzione si innesca poi una complessiva evoluzione socio culturale che conduce via via ad un ridimensionamento della efficacia scriminante del potere disciplinare e dello ius corrigendi ad esso avvinto (sulla scorta di quanto ritraibile dall’art.571 c.p.), con sostanziale delimitazione di tale efficacia scriminante ai soli rapporti di famiglia (tra genitori e figli minori) ed in ogni caso, sul crinale oggettivo, con esclusione della ridetta efficacia scriminante laddove la condotta sia caratterizzata da un significativo ricorso alla violenza, tale da incidere negativamente sulla evoluzione psico-fisica del minore.
1962
Il 28 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n. 123 (interpretativa di rigetto) che, nello scandagliare una fattispecie di sciopero da parte di dipendenti dell’azienda tramviaria automobilistica municipale (A.T.A.M.) di Livorno, afferma come – pur affiorando aspetti di incostituzionalità nei confronti degli artt. 330, 504 e 505 – essi non possono tuttavia condurre ad una pronuncia che dichiari la relativa illegittimità costituzionale: le norme consacrate negli articoli stessi, stante anche la genericità delle relative formulazioni, racchiudono ipotesi di abbandono del lavoro allo scopo di turbarne la continuità e regolarità (con riflessi di natura pubblicistica) onde, non essendosi al cospetto di quei caratteri che sono propri dello sciopero economico, non si riscontrano in senso assoluto le condizioni sufficienti a sottrarre gli scioperanti alle sanzioni penali ivi previste. La Corte conclude nel senso onde – in attesa della necessaria regolamentazione del diritto di sciopero, ai sensi del precetto consacrato nell’art. 40 della Costituzione – compete al giudice di merito disapplicare le norme ricordate in tutti quei casi rispetto ai quali l’accertamento degli elementi di fatto conduca a far ritenere che lo sciopero costituisca valido esercizio del diritto garantito dall’art. 40, ed a rendere in conseguenza possibile l’applicazione dell’esimente di cui all’art. 51 del Cod. penale.
1974
Il 27 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.290, che si occupa di un caso in cui esponenti politici e sindacali sono stati incriminati per avere indetto e organizzato uno sciopero di protesta per i fatti di Catanzaro del febbraio 1972 e in particolare contro “il revanscismo fascista diretto ad annullare le conquiste dei lavoratori e a bloccare le ulteriori avanzate popolari sulla via del progresso e delle riforme civili; per la difesa e la integrale applicazione della Costituzione; nonché per dare pubblica testimonianza di attaccamento ai valori della resistenza e della democrazia contro ogni ritorno a metodi e ideali che la storia e la coscienza civile del popolo italiano hanno condannato“. Tali finalità sono state precisate nei manifesti di invito a partecipare allo sciopero e fatti affiggere dai promotori. La Corte nell’occasione dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 503 del codice penale nella parte in cui punisce anche lo sciopero politico (e, dunque, non economico) che non sia diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale ovvero ad impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare.
1975
Il 17 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.222, che – in caso in cui taluni panificatori (lavoratori autonomi e non dipendenti) hanno sospeso collettivamente il lavoro per protesta contro l’esistenza di panificatori abusivi – dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 506, in relazione all’art. 505, del codice penale, nella parte in cui punisce la sospensione del lavoro effettuata per protesta dagli esercenti di piccole aziende industriali o commerciali che non hanno lavoratori alle loro dipendenze.
L’11 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione, Cadoria, che si occupa del diritto di cronaca e della relativa efficacia scriminante rispetto al reato di diffamazione, soffermandosi in particolare sul limite della verità del fatto narrato; poiché tale fatto, se conosciuto, determina una lesione dell’altrui reputazione, e tenendo conto che il diritto di cronaca si sostanzia nel diritto di far sapere e far conoscere, esso merita di essere divulgato solo quando concorra l’esigenza della comunità di riferimento di esserne informata. Rispetto alle notizie false e alle mere illazioni, precisa la Corte, non si riscontra alcun interesse alla conoscenza in capo alla comunità di riferimento, dal che discende che il fatto narrato deve essere vero, tenendo anche conto di come la tendenziosa divulgazione di notizie non corrispondenti al vero verrebbe a compromettere i regolari meccanismi di formazione delle opinioni dei cittadini inficiando gli stessi valori fondanti della democrazia. Poiché dunque il fatto narrato dal giornalista, per scriminare, deve essere vero, ne consegue l’obbligo per il giornalista medesimo di accertare l’autenticità della notizia e l’attendibilità della propria fonte.
1983
Il 13 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.165 che si occupa di una fattispecie di coazione della pubblica autorità mediante sciopero (art. 504 cod. penale), per essersi gli imputati astenuti dal loro lavoro di dipendenti della Banca d’Italia al fine di protestare contro l’emissione di un mandato di cattura nei confronti del vice direttore generale e del governatore della Banca. La Corte, nel caso di specie, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 504 c.p. nella parte in cui punisce lo sciopero quale strumento per costringere l’autorità a dare o ad omettere un provvedimento o per influire sulle relative deliberazioni, a meno che tale sciopero non sia diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale ovvero ad impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare.
1984
Il 23 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.3743 che riconosce l’enorme interesse per la comunità nazionale in ordine alla corretta e puntuale esplicazione dell’attività giudiziaria, onde critica e cronaca giornalistica – volte a tenere (o a ricondurre) il giudice nell’alveo proprio della pertinente attività – vanno non solo giustificate, ma anzi propiziate.
Il 30 giugno esce la sentenza delle SSUU Ansaloni, che si occupa della possibilità per un giornalista che pubblica un intervista in cui l’intervistato rilascia dichiarazioni diffamatorie di terzi di invocare la scriminante del diritto di cronaca. Per la Corte, che assume una posizione molto rigorosa, la verità obiettiva della notizia quale limite alla invocabilità della ridetta scriminante esclude ogni differenza tra la posizione del giornalista autore di un’inchiesta – laddove è egli stesso a raccontare fatti e ad esprimere opinioni con previo obbligo di verifica appunto della veridicità degli episodi narrati e necessaria continenza delle espressioni utilizzate – e il giornalista autore di un intervista che raccolga dichiarazioni altrui e le riporti fedelmente senza alterarne il contenuto, onde l’integrale pubblicazione delle dichiarazioni del soggetto intervistato non può essere considerata la mera riproduzione di un fatto obiettivo (un personaggio pubblico esterna notizie in suo possesso, ovvero proprie opinioni o convincimenti, senza che su di essi l’intervistatore esprima giudizi partecipativi di consenso), quanto piuttosto il vero veicolo della diffamazione: nonostante l’apparente atteggiamento neutrale, il giornalista partecipa, con apporto causale predominante, all’offesa ai terzi rispondendone entro lo schema del concorso di persone nel reato, laddove il fatto non sia giustificato dallo ius narrandi e non sia come tale assistito dal limite della verità della notizia che egli, come giornalista, viene assunto avere il dovere giuridico di controllare per scongiurare la trasformazione della stampa in una cassa di risonanza delle offese alla altrui reputazione. In sostanza, stando a questa opzione ermeneutica il limite della verità non va riferito all’asserzione dell’intervistato, diffamatoria di terzi, ma al fatto concretamente asserito dall’intervistato, che va accertato come vero dall’intervistante come se si trattasse di un’inchiesta a lui direttamente riconducibile: solo laddove l’intervistatore provi di aver verificato l’attendibilità del contenuto della dichiarazione controllando la serietà della fonte, ovvero comunque accertandone la rispondenza al vero, egli potrà beneficiare della scriminante del diritto di cronaca. Affiora da questo orientamento sovente un pregiudizio globalmente negativo nei confronti del giornalista, che viene qualificato come complice ed autore mediato della diffamazione direttamente riconducibile all’intervistato, come palesa l’opinione pretoria onde chi dà diffusione alla dichiarazione diffamatoria di altri commette a sua volta diffamazione e ciò in quanto di norma l’intervista, svolgendosi attraverso un colloquio, non si compendia nella pura e semplice riproduzione del pensiero dell’intervistato quanto piuttosto nella conferma – più o meno corrispondente – delle opinioni del giornalista (intervistante, che guida e indirizza domande e risposte) le quali vengono espresse attraverso una fonte che solo apparentemente si presenta come terza (l’intervistato).
1986
Il 4 luglio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione, Sartori, che si occupa dei rapporti tra il diritto costituzionale di difesa in giudizio ed il delitto di favoreggiamento commesso dal difensore dell’imputato, laddove questi aiuti costui – nell’esercizio del mandato affidatogli – ad eludere le investigazioni dell’Autorità o a sottrarsi alle relative ricerche. Per la Corte il diritto di difesa è tra quelli ai quali l’ordinamento riconosce il più alto ambito di espansione al fine di consentire l’effettiva attuazione del principio di cui all’art.24, comma 2, della Costituzione, che lo proclama inviolabile; trattasi tuttavia per la Corte di un diritto che, come ogni altro, trova un limite nel rispetto di altre esigenze primarie, tra le quali vi è quella dello Stato ad una corretta amministrazione della giustizia, onde nella scelta dei metodi e degli strumenti ai quali il difensore ritiene di far ricorso per la tutela degli interessi dell’imputato proprio assistito campeggia un limite oggettivo – costituito dall’inosservanza di quegli obblighi e di quei divieti espressamente indicati come illeciti penali – limite oltre il quale anche il comportamento del professionista non può sfuggire alla sanzione penale. In sostanza, per la Corte non sempre l’attività del difensore può dirsi scriminata ai sensi dell’art.51 c.p. (laddove richiama l’art.24 Cost.), sussistendo un limite oggettivo (individuato dalle fattispecie penali, tra le quali appunto il favoreggiamento), limite al di là del quale il difensore deve intendersi punibile.
1990
Il 12 giugno viene varata la legge n.146, che detta una disciplina organica dell’esercizio del diritto di sciopero nell’ambito dei servizi pubblici essenziali, offrendo così all’interprete strumenti maggiormente accreditati per individuare i limiti interni ed esterni (questi ultimi coinvolgenti i diritti fondamentali dei terzi) cui esso soggiace, con conseguente migliore delimitazione dell’area scriminante ex art.51 c.p. Soprattutto quando l’agitazione coinvolge il settore pubblico, sono in particolare i limiti esterni all’esercizio di tale diritto a rilevare, rimanendovi coinvolti non tanto e non solo i soggetti operanti nel medesimo ambito che non vogliano aderire allo sciopero, ma anche gli utenti del servizio pubblico essenziale coinvolto, con possibile compromissione da un lato del bene giuridico del buon andamento della PA e dall’altro di diritti dei cittadini a connotato fondamentale, quale è il diritto alla salute, il soddisfacimento del cui sottostante interesse (costituzionalmente rilevante) potrebbe essere pregiudicato dal rifiuto di attività lavorativa che è alla base del proclamato sciopero. La legge i parola abroga gli articoli 330 e 333 c.p., onde resta ad interferire con l’art.40 Cost. il solo art.340 c.p., che punisce l’interruzione di pubblico servizio, un tempo a valenza sussidiaria e che viene ora in rilievo nelle ipotesi di sciopero nei servizi pubblici essenziali proprio perché sono state abrogate le specifiche fattispecie di cui agli articoli 330 e 333 c.p. La punizione di cui all’art.340 c.p. – reato di evento a condotta libera – scatta quando lo sciopero provochi, giusta nesso causale, la compromissione della ordinaria funzionalità del servizio pubblico essenziale, che è proprio l’obiettivo che si propone chi si astiene dal lavoro, onde a rigore potrebbe applicarsi l’art.51 c.p. La dottrina tende, all’indomani della predetta legge, a distinguere le ipotesi in cui la ridetta compromissione sia cagionata da scioperi proclamati nell’ambito di attività non coperte dalla legge medesima (sostanzialmente, nel settore dei servizi pubblici “non essenziali”), con potenziale operatività della scriminante di cui all’art.51 c.p., da quelle di sciopero nei servizi pubblici “essenziali”, disciplinato dalla legge n.146.90, laddove – essendo state introdotte nuove sanzioni amministrative da irrogarsi a chi non rispetti le condizioni di legittimità dettate dalla predetta legge – l’art.340 c.p. non si applica non già in forza dell’art.51 c.p., quanto piuttosto per la prevalenza delle sanzioni amministrative in parola, trovandosi al cospetto di una fattispecie depenalizzata che vede operativo il principio di specialità, e potendo dunque al più assumersi soggette a sanzione penale eventuali condotte afferenti a servizi pubblici “non essenziali”, e dunque non coperti dalla legge in parola (sempre che anche in questi casi non scatti l’operatività dell’art.51 c.p.).
1991
Il 4 novembre esce una sentenza del Pretore di Torino in tema di maltrattamenti in famiglia: nel caso di specie, due genitori stranieri hanno costretto i loro 5 figli minori a mendicare in modo continuativo per la strada in un torno di tempo di circa un mese, sui marciapiedi o in prossimità di semafori, lasciandoli esposti a tutte le intemperie, ai gas di scarico dei veicoli ed al pericolo costante di essere investiti dai veicoli stessi. Il Pretore si chiede in particolare se gli imputati nel caso di specie abbiano agito con la consapevolezza del disvalore sociale della relativa condotta, appartenendo essi ad una minoranza etnica nella cui cultura l’impiego di minori nell’accattonaggio non è contrario ai valori di gruppo, appartenendo piuttosto al novero delle pertinenti e più risalenti tradizioni. Il dubbio è quello di sostituire il giudizio maggioritario a quello della minoranza alla quale appartengono gli imputati, così facendo luogo ad una possibile manifestazione di intolleranza, di monolitismo culturale ovvero addirittura di razzismo. La risposta del Pretore è tuttavia nel senso onde il gruppo minoritario non può pretendere che la relativa cultura sia globalmente accolta nella società di destinazione (nella specie, nella società italiana), che è quella maggioritaria, senza i dovuti distinguo da effettuarsi ponendo come parametro la Costituzione, con la conseguenza onde la “cultura” degli imputati non può ridondare a relativo favore laddove essi offendano un interesse giuridicamente rilevante – quale è quello proprio della persona del minore – che trova un saldo ancoraggio nella vigente Costituzione repubblicana.
1997
Il 29 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione, Pendinelli, che – sulla scorta di giurisprudenza costante – afferma come il diritto di cronaca possa avere efficacia scriminante rispetto al reato di diffamazione solo laddove vengano rispettati i limiti della verità, della pertinenza e della continenza.
Il 17 luglio esce una sentenza del Tribunale dei Minorenni di Torino con la quale viene archiviato un procedimento a carico dei genitori nigeriani di una bimba che è stata da loro sottoposta ad un intervento di mutilazione genitale nel Paese di origine, con successivo rientro in Italia; i genitori, chiamati a rispondere di lesioni gravissime, vedono la loro posizione alfine archiviata su richiesta del PM, avendo essi inteso sottoporre la figlia, afferma il Tribunale, a pratiche di mutilazione genitale pienamente accettate dalle tradizioni locali del loro Paese, con conseguente difetto di dolo in capo ai soggetti agenti.
1999
Il 21 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione, Ferrara, che si occupa del diritto di cronaca e del limite alla pertinente efficacia scriminante compendiantesi nella verità del fatto narrato: per la Corte, più che l’oggettiva verità del fatto, quello che conta è la diligenza spiegata dal giornalista e la relativa buona fede, onde il diritto di cronaca scrimina anche in presenza di una notizia verosimile (quand’anche non oggettivamente vera), dacché tutte le ricerche di riscontro svolte dal professionista gli hanno restituito appunto detta verosimiglianza, conferendo apparenza di verità al fatto narrato. Si tratta di un orientamento pretorio inteso a conferire valore scriminante putativo all’esercizio del diritto alleggerendo – sul crinale del limite della verità – la posizione del giornalista, il quale va indenne da pena non già solo al cospetto di una verità oggettiva del fatto narrato ma anche laddove tale fatto vero non sia, quando egli, pur avendo prudentemente operato tutte le verifiche necessarie con le dovute perizia e diligenza, abbia incolpevolmente avuto una percezione distorta dei fatti ovvero sia stato incolpevolmente indotto in errore dalle proprie fonti. Proprio questo atteggiamento della giurisprudenza tenderà a spostare l’asse dell’accertamento penale sul grado di diligenza richiesto al giornalista per poter invocare la scriminante a proprio favore, con orientamenti talvolta più elastici e tendenti a valorizzare l’autorevolezza della fonte dalla quale il soggetto agente ha ritratto la notizia ovvero comunque la relativa astratta verosimiglianza alla luce di quanto è comunemente noto; talaltra più rigidi ed orientati a richiedere, a fini scriminanti, la constatazione diretta da parte del giornalista dei fatti che narra, in difetto della quale egli non può invocare a proprio favore l’art.51 c.p.
Il 4 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.1472, Archesso, che torna sui rapporti tra diritto costituzionale di difesa e favoreggiamento, in un contesto in cui ai difensori – nella vigenza del nuovo codice di procedura penale (di stampo accusatorio) – sono attribuiti sempre più ampi poteri anche in termini di indagini difensive, con conseguente parallelo scemare dell’idea, più propria del processo inquisitorio, onde il difensore è obbligato a concorrere alla creazione delle condizioni affinché venga emessa una sentenza giusta. Proprio muovendo da questo punto di vista, non sono gli obblighi o i divieti previsti dal codice penale a dover essere ormai indagati al fine di tracciare la linea di confine della scriminante, quanto piuttosto l’ambito di estensione dell’incarico conferito al professionista, onde si configura favoreggiamento quando il ridetto incarico a favore di un indagato sia stato assunto dal difensore su impulso e mandato sostanziale non già dell’indagato stesso, ma di terzi soggetti, con la finalità di far conoscere a questi ultimi le dichiarazioni dell’assistito onde agevolarli nell’eludere le investigazioni. Per la Corte in simili fattispecie il professionista non si limita a travalicare i confini del diritto di difesa costituzionalmente garantito, ma li esautora dall’interno strumentalizzando tale diritto ad altri interessi di difesa che non possono essere assicurati giusta financo il pregiudizio per i diritti dell’indagato (pseudo) assistito. Discorso diverso è invece a farsi nell’ipotesi in cui il difensore resti nei ranghi dell’attività defensionale tipica, esercitandola secondo le prescrizioni ad essa proprie e dunque potendo beneficiare della scriminante dell’art.51 c.p. in relazione al delitto di favoreggiamento.
Il 24 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 3398, che si occupa di un caso di maltrattamenti in famiglia commessi da un immigrato albanese nei confronti del coniuge e del figlio minore, escludendo che possa rilevare il particolare concetto di “convivenza familiare” che ha l’imputato, diverso da quello omologo italiano, anche con riguardo alle potestà spettanti al capo famiglia. Per la Corte il riconoscimento di un rilievo penale (eventualmente favorevole al reo) della diversità culturale trova uno sbarramento invalicabile nelle norme costituzionali che riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo, la pari dignità sociale e l’eguaglianza senza distinzioni di sesso, oltre ai diritti della famiglia e i doveri verso la prole. Da notare come in queste circostanze potrebbe rilevare sia l’art.51 c.p. in tema di esercizio del diritto (sul versante del soggetto attivo), sia l’art.50 c.p. in tema di consenso dell’avente diritto (sul crinale della vittima), quest’ultimo invocato dalla difesa nel caso di specie.
2000
*Il 16 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione, Grisini, che – sulla scorta di giurisprudenza costante – afferma come il diritto di cronaca possa avere efficacia scriminante rispetto al reato di diffamazione solo laddove vengano rispettati i limiti della verità, della pertinenza e della continenza.
*Il 22 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione, Panigutti, che – sulla scorta di giurisprudenza costante – afferma come il diritto di cronaca possa avere efficacia scriminante rispetto al reato di diffamazione solo laddove vengano rispettati i limiti della verità, della pertinenza e della continenza.
2001
Il 16 ottobre esce la sentenza delle SSUU n.37140 che torna sulla problematica dell’intervista da parte del giornalista e dell’invocabilità della scriminante del diritto di cronaca. Alla tesi rigorosa espressa dalla sentenza Ansaloni del 1984 si è andata via via affiancando in giurisprudenza una diversa tesi, più moderata, orientata ad assumere il limite della verità della notizia riferibile non già a quanto dichiarato dall’intervistato, sibbene all’intervista di per sé considerata, onde per il giornalista è sufficiente provare che egli ha ottenuto la ridetta intervista ed ha riportato fedelmente parole ed opinioni dell’intervistato per andare esente da responsabilità penale, dovendo in simili casi la diffamazione imputarsi al solo intervistato (e non anche all’intervistante). E’ a questa opzione ermeneutica più moderata che aderiscono ora le SSUU, seppure operando delle consistenti precisazioni. Nel caso di specie una giornalista di un quotidiano di Napoli viene imputata di concorso in diffamazione per avere riportato, nel contesto di una intervista, le dichiarazioni del presidente di una locale associazione di commercianti e grossisti con dichiarazioni diffamatorie nei confronti del presidente di Assomercati; l’intervista si è inserita nella più ampia cornice di una vertenza sindacale cui ha fatto seguito uno sciopero del mercato ortofrutticolo locale, e la giornalista afferma di aver esercitato – attraverso l’intervista – il diritto di cronaca essendosi limitata a pubblicare un giudizio (diffamatorio) espresso dall’intervistato. Per le SSUU, in genere non è sufficiente per il giornalista – al fine di invocare il diritto di cronoca – aver riportato fedelmente il pensiero dell’intervistato; nondimeno allorché la rilevanza dei soggetti coinvolti si palesi tale da rendere l’intervista in sé un evento di pubblico interesse, il giornalista può invocare il diritto di cronaca anche se non ha verificato la corrispondenza al vero delle dichiarazioni dell’intervistato; occorre allora valutare il contesto globale e complessivo in cui sono state riportate dall’intervistante le dichiarazioni diffamatorie dell’intervistato, onde verificare se il giornalista abbia assunto la prospettiva del terzo osservatore dei fatti (come tale, scriminato e non soggetto a sanzione) ovvero la veste di un coautore dissimulato della dichiarazione diffamatoria (come tale soggetto a sanzione penale, non potendo invocare l’art.51 c.p.). La Corte ribadisce come in talune peculiari ipotesi il limite della verità vada riferito non al contenuto delle dichiarazioni dell’interessato, quanto piuttosto all’intervista in sé; ciò sempre che sia l’intervista il fatto importante di per sé, e non già il contenuto delle dichiarazioni dell’intervistato, circostanza predicabile quando ad essere intervistato è un personaggio di rilievo elevato in ambito politico, economico, sociale, scientifico o culturale, e questi rilasci dichiarazioni oggettivamente diffamatorie nei confronti di un altro personaggio in posizione parimenti significativa: in questa peculiare ipotesi, le dichiarazioni dell’intervistato si palesano idonee ad orientare la pubblica opinione nei rispettivi campi di interesse, meritando di essere pubblicate proprio perché soddisfano quell’interesse della collettività all’informazione che per le SSUU va assunto indirettamente protetto dall’art.21 della Costituzione. In sostanza, quanto più alto è il ruolo rivestito dall’intervistato, tanto maggiore risulta l’interesse pubblico all’intervista, tanto più ampia è per il giornalista intervistante la possibilità di invocare la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca in rapporto ad eventuali dichiarazioni diffamatorie dell’intervistato. Come osservato dalla dottrina di commento, quando la diffamazione ha luogo attraverso una intervista, dei 3 noti limiti che presidiano il diritto di cronaca come scriminante uno, il limite della “pertinenza” e dunque dell’interesse pubblico e sociale alla notizia finisce con l’assorbire (c.d. reductio ad unum) gli altri due limiti, ovvero quello della verità e quello della continenza formale delle espressioni usate, entrambi da riferirsi alle dichiarazioni rilasciate dall’intervistato senza poter impegnare ad un tempo la responsabilità del giornalista intervistante, il quale va assunto dispensato da oneri di verifica della veridicità delle affermazioni dell’intervistato non dovendo neppure censurare eventuali incontinenze formali imputabili all’intervistato medesimo, che può piuttosto riportare fedelmente senza incorrere a propria volta in responsabilità penale. Imporre al giornalista la verifica puntuale della veridicità di quanto dice il personaggio pubblico intervistato potrebbe implicare, per le SSUU, una rinuncia alla pubblicazione dell’intervista stessa, onde sottrarsi al defatigante compito appunto di verificare le informazioni riservate fornitegli dal medesimo, con grave limitazione alla libertà di stampa; su altro versante, al giornalista non va riconosciuto alcun potere di censura rispetto alle dichiarazioni “non continenti” dell’intervistato, tenuto anche conto del fatto che la notizia resa attraverso l’intervista perderebbe forza se il giudizio poco lusinghiero ed aggressivo, siccome reso testualmente dall’intervistato, venisse edulcorato dall’intervistante. Le SSUU concludono nel senso onde spetta al giudice del merito compiere gli accertamenti necessari alla decisione, sia in ordine alla rilevanza pubblica delle dichiarazioni riportate (anche nell’ottica di chi le riporta e di chi le subisce), sia in ordine al contesto valutativo e descrittivo dell’intervista, solo a valle di tali accertamenti potendo concludere alternativamente a favore del giornalista – che ha agito da terzo osservatore per conto dei lettori – ovvero contro di esso, laddove abbia (indirettamente) concorso nella diffamazione.
2003
*L’8 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 55, che si occupa di un caso di maltrattamenti in famiglia commessi da un cittadino marocchino nei confronti del coniuge (frattura di una mano), escludendo che possa rilevare il particolare concetto di “convivenza familiare” che ha l’imputato, diverso da quello omologo italiano, anche con riguardo alle potestà spettanti al capo famiglia. Per la Corte il riconoscimento di un rilievo penale (eventualmente favorevole al reo) della diversità culturale trova uno sbarramento invalicabile nelle norme costituzionali che riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo, la pari dignità sociale e l’eguaglianza senza distinzioni di sesso, oltre ai diritti della famiglia e i doveri verso la prole. Da notare come in queste circostanze potrebbe rilevare sia l’art.51 c.p. in tema di esercizio del diritto (sul versante del soggetto attivo), sia l’art.50 c.p. in tema di consenso dell’avente diritto (sul crinale della vittima), quest’ultimo invocato dalla difesa nel caso di specie.
Il 4 marzo esce la sentenza della Sezione VI della Cassazione n.9929, che si occupa dei rapporti tra il diritto di difesa di cui all’art.24 Cost., con effetto scriminante ex art.51 cp., ed il delitto di calunnia commesso dal privato sottoposto a procedimento penale, idoneo come tale a pregiudicare l’interesse dello Stato all’amministrazione della giustizia (giusta attività fuorvianti da parte di terzi: nel caso di specie, dello stesso indagato o imputato). Per la Corte, laddove l’imputato formuli l’accusa di calunnia e di falsa testimonianza nei confronti dei propri accusatori – così calunniandoli a propria volta – tale accusa calunniosa può essere scriminata dall’esercizio del diritto di difesa in giudizio solo laddove sia implicita e si atteggi a conseguenza non voluta del proprio atteggiamento difensivo, dovendosi configurare un rigoroso rapporto funzionale tra condotta difensiva dell’imputato e confutazione dell’imputazione a proprio carico.
2004
Il 26 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.19334 onde, in tema di diffamazione a mezzo stampa, allorché il discorso del giornalista abbia un contenuto esclusivamente valutativo, sviluppandosi nell’alveo di una polemica intensa e dichiarata, frutto di opposte concezioni su tematiche fortemente dibattute, i limiti scriminanti del diritto c.d. di critica di cui all’art.21 della Costituzione si compendiano sostanzialmente nella rilevanza sociale dell’argomento oggetto di polemica e nella correttezza delle espressioni usate. Si travalicano allora i limiti al diritto di critica quando il soggetto agente trascenda in attacchi personali volti a colpire sul piano individuale il bersaglio della critica medesima senza che possa riscontrarsi alcuna finalità di pubblico interesse, prefiggendosi dunque il solo scopo di aggredire la sfera morale del “criticato”. Sotto altro profilo, il diritto di critica scrimina ai sensi dell’art.51 c.p. anche laddove la critica sia formulata senza un riferimento a precisi dati fattuali, sempre che il nucleo ed il profilo essenziale degli stessi non sia stato strumentalmente manipolato o travisato dal soggetto agente: la critica non si compendia infatti nella esposizione di fatti oggettivi ma – dati determinati fatti –piuttosto nella manifestazione di apprezzamenti e di giudizi, onde il limite della c.d. verità del fatto narrato (tipico del diritto di cronaca) resta maggiormente compresso, non dovendosi verificare l’assoluta obiettività delle circostanze segnalate, ma solo la verità del relativo nucleo essenziale (che non va dunque manipolato proprio per agevolare il giudizio censorio), il diritto di critica atteggiandosi per natura ad ideologicamente orientato, “di parte”, onde far affiorare proprio quegli aspetti o quelle tesi del soggetto bersaglio della critica che si assumono deplorevoli e che si intendono stigmatizzare e censurare.
Il 19 luglio esce la sentenza della III Sezione della Cassazione civile n.13346 alla cui stregua – in tema di dichiarazioni rese da un pentito – il giornalista di cronaca giudiziaria è tenuto solo ad accertare che una dichiarazione diffamatoria di terzi sia stata effettivamente resa ed in quale contesto, tale accertamento potendo dirsi compiuto quando in sede di stesura dell’articolo il giornalista si sia avvalso di un documento proveniente da un organo giudiziario nel quale la dichiarazione al P.M. (oggetto della notizia) è stata inserita, con la ragionevole convinzione che l’attendibilità del pentito sia stata positivamente valutata dai magistrati competenti, che su quelle dichiarazioni hanno richiesto (Procura) e concesso (GIP) provvedimenti restrittivi della libertà personale di vari esponenti mafiosi. Si tratta di quella giurisprudenza che assume come pretendere in simili casi che il giornalista accerti l’attendibilità del singolo dichiarante e la verità intrinseca delle relative dichiarazioni implicherebbe lo snaturamento della stessa attività giornalistica, non essendo compito del giornalista operare indagini giudiziarie (i cui risultati la fine del processo potrebbe per giunta smentire); se si pretendesse tale accertamento l’esercizio della cronaca giudiziaria sarebbe impedito fino alla sentenza definitiva che chiude il giudizio, potendo solo quest’ultima affermare la certezza o meno del contenuto di una dichiarazione che sia stata resa nel corso del processo. E’ importante tuttavia che il giornalista indichi la fase processuale in cui una dichiarazione è stata resa e l’atto dal quale proviene, dovendo mettere il lettore nelle condizioni di intendere in modo chiaro se la dichiarazione (potenzialmente) diffamatoria abbia già avuto o meno un qualche scandaglio processuale da parte di un esponente della magistratura, o se dovrà essere ancora esaminata in seguito: da questo punto di vista, non può assumersi avere effetto scriminante (condizionando dunque il legittimo esercizio del diritto di cronaca giudiziaria) il non aver menzionato che la dichiarazione (in potenza) diffamatoria è stata già negativamente valutata da un magistrato come non conforme al vero giusta provvedimento giudiziale già presente nella fase del processo in cui l’articolo viene redatto e pubblicato, e che l’articolo pretermette.
Il 3 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 42643 in tema di diritto di cronaca e di satira, quali scriminanti di fatti di diffamazione commessi giusta pubblicazione di fotografie. Nel caso di specie sono state pubblicate delle foto a danno di una presentatrice, scattate durante una sfilata di moda, dal basso di una passerella in modo da scoprirne le parti più intime, il tutto accompagnato da un commento riferito alla non fortunata partecipazione della presentatrice medesima ad una tornata elettorale, ironizzando sulla trasparenza politica e sulle effettive qualità della vittima, in veste di candidata alle ridette elezioni. Per la Corte, anche allorché il mezzo usato sia la fotografia, può essere invocato a scriminante il diritto di cronaca in un processo per presunta lesione della reputazione, nei noti limiti scolpiti dalla giurisprudenza, ed in primis nel rispetto del limite della verità; occorre, più in specie, che l’immagine sia riportata in un contesto informativo “vero”, senza alterazioni e strumentali accostamenti, nella costanza di un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti che sia prevalente rispetto all’esigenza di riservatezza dell’interessato, cosa che per la Corte – se parametrata appunto al diritto di cronaca – non si riscontra nel caso di specie. Premesso che il limite della verità può dirsi violato anche attraverso pubblicazione dell’immagine a corredo di una notizia di cronaca relativa ad una indagine giudiziaria, sì da determinare all’esterno la convinzione del coinvolgimento del soggetto effigiato nell’inchiesta de qua, per la Corte occorre verificare se il fatto diffamatorio possa dirsi scriminato sulla scorta del diverso diritto di satira, qual critica sovente corrosiva ed impietosa fondata su una rappresentazione che, finalizzata a cagionare ilarità nel pubblico, deforma ed enfatizza di proposito la realtà. Una tipica espressione satirica è per la Corte quella caricaturale, compendiantesi nella accentuata e consapevole alterazione dei tratti somatici e comportamentali di una persona, onde suscitare ilarità o anche derisione nel pubblico. Tanto premesso, l’intento satirico può essere perseguito anche giusta accostamento di una fotografia ad un testo di accompagnamento ed anche in questa particolare ipotesi non è consentito estendere al diritto di satira – quale strumento di ricorso al paradosso e alla metafora surreale – il principale limite previsto per il diritto di cronaca, ovvero la verità del fatto narrato, stante come la cronaca consista nel dare informazione su fatti e persone, palesandosi come tale assoggettata al vaglio del riscontro storico, mentre la satira assume per relativa imprescindibile natura i connotati della inverosimiglianza e del paradosso (potendo peraltro la satira stessa, a determinate condizioni, divenire veicolo di informazione, come nel caso di quelle trasmissioni televisive che, pur rivestendo carattere prevalentemente satirico, svolgono a tratti anche un ruolo informativo). Quello che occorre per la Corte senza dubbio rispettare anche nel caso in cui si invochi a scriminante il diritto di satira è invece il limite della continenza delle espressioni usate, dovendosi tuttavia ancora una volta tenere conto dei caratteri ontologicamente propri della satira, ovvero la forzatura dei toni, la surrealità dell’espressione ed il paradosso; e dovendosi altresì tenere conto della personalità (pubblica o meno) dell’interessato, nonché della particolare natura del mezzo di espressione utilizzato; per la Corte l’area di operatività del limite al diritto di satira è destinata a mutare quando la manifestazione satirica abbia luogo nell’ambito di spettacoli che, proprio laddove non hanno carattere informativo perché destinati esclusivamente o prevalentemente a suscitare ilarità, non godono di alcuna credibilità o attendibilità del pubblico.
2005
Il 25 novembre esce la sentenza della Sezione VI della Cassazione n.42719, che si occupa dei rapporti tra il diritto di difesa di cui all’art.24 Cost., con effetto scriminante ex art.51 cp., ed il delitto di calunnia commesso dal privato sottoposto a procedimento penale, idoneo come tale a pregiudicare l’interesse dello Stato all’amministrazione della giustizia (giusta attività fuorvianti da parte di terzi: nel caso di specie, dello stesso indagato o imputato). Per la Corte integra il reato di calunnia la condotta dell’imputato che – lungi dal limitarsi a ribadire la insussistenza delle accuse a proprio carico (con implicita accusa di falsa testimonianza e calunnia nei confronti dei propri accusatori che tuttavia scrimina perché costituisce conseguenza non voluta e soltanto indiretta del proprio atteggiamento difensivo) – rivolge piuttosto all’accusatore, del quale conosce l’innocenza, a propria volta accuse specifiche come tali idonee a determinare la possibilità dell’inizio di un’indagine penale a relativo carico, dacché in queste fattispecie non si configurano le condizioni per invocare a scriminante il proprio diritto costituzionale di difesa: qui infatti l’imputato non si limita a negare la veridicità dei fatti addebitatigli al fine di contrastare le accuse che gli sono mosse (con solo indiretta ed implicita accusa di calunnia a carico di chi lo addita), ma assume iniziative dirette a riversare sugli accusatori, a propria volta, specifiche accuse di falsa testimonianza o di calunnia, pur sapendoli innocenti, con possibilità che ne derivi l’inizio di un procedimento penale a relativo carico, ponendosi al di fuori del mero esercizio (scriminante) del diritto di difesa per far luogo a tutti gli elementi costitutivi della calunnia.
2006
Il 9 gennaio viene varata la legge n.7 che innesta nel codice penale un nuovo art.583.bis, incriminando le mutilazioni e le lesioni genitali; si tratta di condotte che l’Italia ha deliberato di punire senza riserve, e che tuttavia in talune culture etnicamente intese sono approvate e talvolta imposte (come nel noto caso della c.d. infibulazione).
Il 2 novembre esce la sentenza della Corte EDU sul caso Kobenter e Standard c. Austria, laddove – conformemente ad una consolidata giurisprudenza – i giornali vengono definiti i “cani da guardia” (watch-dog) della democrazia e delle istituzioni, dovendosi riconoscere un ruolo fondamentale, nel dibattito democratico, proprio alla libertà di stampa, anche laddove oggetto del dibattito sia appunto l’operato del potere giudiziario, garantendosi in tal modo un controllo appropriato sul corretto operato dei giudici.
2007
Il 19 gennaio esce la sentenza della III sezione civile della Cassazione n. 1205 che si occupa della cronaca giudiziaria, delle dichiarazioni potenzialmente diffamatorie rese nel corso di un procedimento giurisdizionale nel contesto di una intervista e dell’interesse pubblico a conoscere tali dichiarazioni. Per la Corte, già al di fuori della cronaca giudiziaria, ove ad esprimersi quale intervistato sia un personaggio noto e come tale qualificato, vi è interesse pubblico ad essere informati delle relative opinioni in modo indipendente dalla verità oggettiva dei fatti narrati e dalla correttezza delle espressioni usate, onde il giornalista che pubblica un’intervista senza controllare la veridicità del relativo contenuto deve solo esser certo della posizione di elevato rilievo dell’intervistato dichiarante, con connesso interesse della collettività ad essere informata del relativo pensiero sull’argomento che è oggetto dell’intervista. Quando si tratta – più in specie – di cronaca giudiziaria, quello che rileva è invece l’interesse pubblico che concerne lo specifico processo raccontato, interesse pubblico da ricondursi talvolta alla peculiarità del caso trattato, talaltra alla notorietà dei personaggi coinvoltivi, onde in tale diverso e specifico settore della cronaca non è il soggetto che rende la dichiarazione in veste di intervistato a “fare” pubblico l’interesse a conoscerla, ma il processo (di interesse pubblico appunto) che lo coinvolge.
Il 2 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.25138 che si occupa del delicato tema del diritto di critica all’attività giudiziaria, quale scriminante rispetto alla diffamazione. Per la Corte il ruolo fondamentale che nel dibattito democratico svolge la libertà di stampa non consente in modo aprioristico di escludere che essa si esplichi anche prendendo a bersaglio il potere giudiziario, un controllo appropriato sul corretto operato dei giudici potendo essere garantito proprio attraverso i giornali, quale mezzo principale all’uopo. La Corte richiama il diritto alla libera manifestazione del pensiero garantito tanto dall’art.21 Cost. quando dall’art.10 della CEDU, che include la libertà di opinione e la libertà di ricevere e comunicare informazioni, idee o critiche su temi di interesse pubblico, e dunque sui modi di esercizio del potere, in qualunque modo essi si atteggino, senza ingerenze da parte della pubblica autorità; trattandosi di un diritto individuale di libertà, esso può essere invocato come scriminante ex art.51 c.p., quale presupposto fondante della democrazia e condizione per l’esercizio di altre libertà. Per la Corte punto di riferimento deve essere la società democratica, laddove a stampa e mass media va riconosciuto il ruolo di fori privilegiati per la divulgazione all’esterno di temi che si agitano all’interno delle Assemblee rappresentative e più in generale per il dibattito su tematiche di pubblico interesse, senza che possa predicarsi una esclusone per il settore della giustizia, specie in ottica di imparzialità della magistratura. La Corte richiama la giurisprudenza della Corte EDU laddove i giornali vengono definiti i “cani da guardia” (watch-dog) della democrazia e delle istituzioni, anche giudiziarie, dovendosi riconoscere un ruolo fondamentale, nel dibattito democratico, proprio alla libertà di stampa, anche laddove oggetto del dibattito sia appunto l’operato del potere giudiziario, garantendosi in tal modo un controllo appropriato sul corretto operato dei giudici. Dopo aver richiamato anche la giurisprudenza interna sulla critica giudiziaria (segnatamente Cass. 3743 del 1984), la Corte rappresenta come la Corte EDU abbia nondimeno proceduto ad una rigorosa puntualizzazione dei limiti che incontra la critica allorché investa l’attività giudiziaria, nel prisma di un maggior rigore giustificato dal fatto che, a differenza di quanto accade per altri soggetti pubblici, il dovere di riservatezza in genere impedisce ai magistrati presi di mira di reagire agli attacchi loro rivolti; un particolare rigore valutativo non ha tuttavia ragione di esistere quando si verta in una polemica giornalistica (che non sia relativa ad indagini in corso) avente ad oggetto la gestione di inchieste giudiziarie su materie di pubblico interesse (come nel noto caso di “mani pulite”), rispetto alle quali una riflessione pubblica e politica sia stata innescata proprio dallo stesso magistrato persona offesa del reato di diffamazione, attraverso una intervista pubblicata su un quotidiano a tiratura nazionale rispetto alla quale l’articolo incriminato si atteggia a mera e sostanziale “replica”.
Il 14 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.42067, che si occupa della invocabilità in ottica scriminante del diritto di cronaca, dovendo quest’ultimo essere esercitato – quando possa derivarne lesione dell’altrui reputazione, prestigio o decoro – soltanto nel rispetto da parte del cronista delle note condizioni della verità della notizia pubblicata, della sussistenza di un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti narrati in relazione alla relativa attualità ed utilità sociale, nonché del mantenimento dell’informazione nei giusti limiti della più serena obiettività. Per la Corte il diritto di cronaca non è tale da esimere di per sé dal rispetto dell’altrui reputazione e riservatezza, potendo le intromissioni nella sfera privata dei cittadini assumersi giustificate solo quando esse (e le notizie che le recano) possano contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti per la collettività. Se è vero dunque che anche vicende private di persone impegnate nella vita politica o sociale possono essere considerate di interesse pubblico, allorché possano ricavarsi da esse elementi di valutazione della personalità e della moralità di chi debba godere della fiducia dei cittadini destinatari della relativa attività politica, non è tuttavia la sola curiosità del pubblico a poter giustificare la diffusione di notizie sulla altrui vita privata, dovendo trattarsi piuttosto di notizie che rivestano oggettivo interesse per la collettività che le riceve.
2008
Il 3 aprile esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.14062 onde la notizia di cronaca, e massime di cronaca giudiziaria, oltre che veritiera, deve essere completa ove ciò coinvolga la reputazione della persona che vi è coinvolta; a tal proposito, al fine di configurare la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca, anche solo a titolo putativo, occorre avere riguardo alla verità della notizia nel momento in cui viene diffusa, onde laddove essa riguardi un fatto oggetto di una denuncia risalente nel tempo, come tale necessitante di una verifica da parte del giudice e potenzialmente modificabile nei relativi contorni, è necessario che il giornalista – all’atto della relativa pubblicazione – verifichi se nelle more dal giorno della risalente denuncia siano intervenute circostanze capaci di spiegare effetti sulla verità del fatto di cui alla denuncia medesima. Per la Corte, laddove il giornalista diffonda notizie inerenti ad una vicenda giudiziaria che si sia risolta a distanza di tempo da quando egli acquisisce la notizia, costui è tenuto a completare, aggiornandola, la verifica di fondatezza della ridetta notizia, dovendosi considerare come chiunque sia coinvolto in indagini di natura penale sia titolare di un interesse primario a che, caduta ormai ogni ragione di sospetto, la propria immagine non resti offesa da notizie di stampa che riferiscano dell’iniziale, relativo coinvolgimento nell’inchiesta ignorando il successivo esito positivo delle indagini nei relativi confronti.
Il 7 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.27469, che pur occupandosi di una fattispecie in materia di molestie sessuali e maltrattamenti sul luogo di lavoro, opera importanti considerazioni evocanti il c.d. ius corrigendi. E’ vero che tale ius corrigendi concerne più propriamente i rapporti familiari e si distingue dal potere disciplinare che invece caratterizza contesti lavorativi o comunque associativi e strutturalmente organizzati, e tuttavia per la Corte tanto all’imprenditore quanto a chi lo rappresenti spetta l’autorità sui propri dipendenti siccome riconosciuta da specifiche norme di legge, e segnatamente dagli articoli 2086, 2016 e 2134 c.c., venendosi ad instaurare un rapporto intersoggettivo tra datore e lavoratore subordinato che è caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare del primo sul secondo, quest’ultimo dovendosi assumere sottoposto alla autorità datoriale (con potenziale rilevanza dell’art.51 c.p., a determinate condizioni ed entro certi limiti).
Il 9 luglio esce la sentenza della III sezione civile della Cassazione n.18849 che si sofferma sul diritto di critica con particolare riguardo al limite della c.d. continenza delle espressioni usate. Particolarmente rilevante è il riferimento in proposito all’interesse pubblico per il tema trattato, dovendo la rilevanza pubblica dell’argomento essere correlata al tenore delle espressioni critiche di volta in volta utilizzate, e potendo giustificare il ricorso a toni particolarmente aspri, onde più vi è rilevanza pubblica del tema, più i toni critici possono essere decisi e pungenti senza che chi critica incorra in responsabilità penale. Per la Corte, anche espressioni particolarmente aspre possono costituire corretta manifestazione del diritto di critica e risultare prive di carica offensiva penalmente rilevante laddove attengano a materia di rilievo sociale e costituzionale e ad una realtà di degrado di ampia evidenza, dovendosi assecondare una interpretazione evolutiva del diritto di critica quale espressione della libertà del pensiero e della libertà di informazione in ordine a fatti o situazioni di interesse pubblico; tale interpretazione evolutiva appare peraltro sollecitata anche dall’art.11 della Carta di Nizza (richiamata dal Trattato di Lisbona quale parte integrante dei principi comuni e delle tradizioni costituzionali europee), laddove menziona la libertà di espressione e di opinione, anche critica, accanto alla libertà di informazione.
Il 16 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.46300 che, scandagliando un caso di maltrattamenti posti in essere da parte di un immigrato in danno dei relativi familiari – conformemente ad una norma propria della cultura di appartenenza che assume la potestà maritale idonea a giustificare tali condotte in Italia costituenti reato – abbraccia la tesi onde in simili ipotesi la norma rilevante è l’art.133 c.p. in tema di personalizzazione della sanzione penale e di commisurazione in concreto della pena. Per la Corte va fermamente escluso che il riconoscimento di un qualche rilievo penale alla diversità culturale possa spingersi fino all’introduzione e all’accettazione nella società di consuetudini, di prassi, di costumi che si appalesano “antistorici” a fronte dei risultati che nel corso dei secoli sono stati ottenuti al fine di realizzare l’affermazione dei diritti inviolabili della persona, tanto cittadino che straniero. Occorre piuttosto tenere debito conto della gerarchia di valori scolpita nella Costituzione, senza che un gruppo minoritario possa pretendere l’accoglimento integrale della propria (diversa) cultura nella società di arrivo o comunque di maggioranza. Questo non esclude appunto che, in sede di commisurazione della pena ed al fine di rendere quest’ultima personale ed adeguata, il giudice possa far applicazione dei criteri di cui all’art.133 c.p. tenendo conto della diversità culturale del soggetto agente nel singolo caso di specie.
2010
Il 4 gennaio esce la sentenza della V sezione n. 21 che ribadisce come talune norme del codice civile (segnatamente, gli articoli 2086, 2106 e 2134 c.c.) riconoscano la fruibilità della scriminante di cui all’art.51 c.p. in capo al datore di lavoro laddove l’offesa arrecata al sottoposto possa dirsi modesta e come tale bilanciata dallo scopo direttivo e disciplinare perseguito dall’agente. La Corte chiarisce nondimeno come non possa essere invocata la scriminante dell’esercizio del diritto, in termini di ius corrigendi, nemmeno nella relativa manifestazione putativa, da parte del superiore gerarchico nei confronti del sottoposto laddove la condotta si manifesti in espressioni che trascendono i limiti della correttezza o siano foriere di tratti destinati a mortificare la dignità ed il rispetto della persona umana.
2011
Il 5 luglio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.26153, che si occupa di un caso di maltrattamenti in famiglia e di lesione personale aggravata in danno del coniuge. Nella propria difesa l’avvocato ricorrente per un verso assume l’episodicità degli atti maltrattanti realizzati dall’imputato e, per altro verso, attribuisce i relativi comportamenti a espressione della condizione socio-culturale dell’imputato medesimo invocando, al fine di escludere l’elemento soggettivo del reato, la considerazione della moglie «come di un oggetto di sua esclusiva proprietà, […] frutto di una condizione di subcultura […]», tanto che «allorquando la figlia ha iniziato a tenere, secondo il padre, uno stile di vita libertino (rectius, più aderente all’epoca e alla cultura che stiamo vivendo) si è avuta la reazione del padre che temeva di perdere, come in effetti ha poi perduto, il controllo della situazione». La Corte fa registrare altresì come si assuma in ricorso che «le emergenze processuali depongono per l’essere stati commessi gli episodi di cui trattasi in condizioni psicologiche particolari, quali sono le situazioni suscitate da quella subcultura dell’imputato, che lo portava a ritenere che le liti familiari o le decisioni in famiglia potessero e dovessero essere assunte in quella maniera». Per quanto riguarda l’elemento oggettivo, per la Corte i giudici di merito hanno tuttavia accertato che l’imputato aveva iniziato a vessare la moglie già due giorni dopo il matrimonio, proseguendo per tutti i trent’anni della convivenza in una sistematica e abituale condotta offensiva, aggressiva e violenta, tanto da procurarle ripetutamente sofferenze psichiche e lesioni fisiche. Quanto all’aspetto soggettivo, prosegue la Corte, gli atteggiamenti derivanti da subculture in cui sopravvivono autorappresentazioni di superiorità di genere e pretese da padre/marito-padrone non possono rilevare né ai fini dell’indagine sull’elemento soggettivo del reato (nella fattispecie dolo generico, pacificamente sussistente secondo la ricostruzione dei giudici di merito) né a quella concernente l’imputabilità dell’imputato, peraltro mai messa in dubbio dalla stessa difesa. Il fatto che tali atteggiamenti siano proseguiti per ben trent’anni – costituendo perciò il costume abituale di un anacronistico pater familias maschilista e intollerante, refrattario alla modificazione del costume e alla vigenza delle leggi della Repubblica che hanno progressivamente dato attuazione al principio costituzionale di uguaglianza tra i coniugi – ben lungi dal potersi considerare una scriminante o un’attenuante, è circostanza che per la Corte è stata correttamente valutata dai giudici di merito ai fini dell’intensità del dolo e dell’entità della sofferenza e del danno patiti dai famigliari conviventi (e, dunque, in sede di commisurazione della pena ex art.133 c.p.).
2012
Il 28 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.37638 che si occupa del caso di un uomo che ha costretto una minore a chiedere l’elemosina. Per i difensori, in considerazione delle millenarie tradizioni culturali dei popoli di etnia rom, l’accattonaggio assume il valore di un vero e proprio sistema di vita, onde non potrebbe parlarsi nel caso di specie di riduzione in schiavitù ma al limite di maltrattamenti ex art.572 c.p. La Corte risponde come la propria giurisprudenza abbia da tempo escluso ogni rilevanza scriminante alle tradizioni culturali favorevoli all’accattonaggio, essendosi affermato che commette il reato di riduzione in schiavitù colui che mantiene lo stato di soggezione continuativa del soggetto ridotto in schiavitù (o in condizione analoga), senza che la relativa mozione culturale o di costume ne escluda l’elemento psicologico del reato; sotto altro profilo, precisa la Corte, in tema di riduzione e mantenimento in schiavitù posta in essere dai genitori nei confronti dei figli e di altri bimbi in rapporto di parentela, ridotti in stato di soggezione continuativa e costretti all’accattonaggio, non è invocabile da parte degli autori delle condotte in parola la scriminante dell’esercizio del diritto giusta richiamo alle consuetudini delle tradizioni zingare di usare i bambini nell’accattonaggio, atteso come la consuetudine possa avere efficacia scriminante solo in quanto sia stata richiamata da una legge, secondo il principio di gerarchia delle fonti di cui all’art.8 delle Preleggi.
Il 9 ottobre esce la sentenza della Cassazione n.39980 onde, in tema di diffamazione a mezzo stampa e di limite della verità del fatto narrato, l’esimente del diritto di cronaca opera anche se dati secondari tra quelli narrati sono inesatti, poiché essi – nel contesto complessivo dell’informazione resa – sono inidonei a ledere ulteriormente la reputazione del soggetto che sia già compromessa dalla verità della notizia principale.
2013
Il 20 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.38971 alla cui stregua la scriminante del diritto di critica non può essere limitata a quella politica, potendo piuttosto riguardare anche l’esercizio della giurisdizione ovvero un’attività scientifica o, ancora, un provvedimento sportivo, o la diffusione di trasmissioni televisive o radiofoniche, purché non trasmodi in attacchi personali con i quali si intenda esclusivamente colpire la sfera privata dell’offeso sconfinando nella lesione della reputazione dell’avversario.
Il 10 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.41869, che in tema di scriminante del diritto di satira ribadisce come essa non si sottragga al limite della continenza, compendiandosi in forma critica caratterizzata da particolari mezzi espressivi onde – come ogni altra forma critica – essa non sfugge al limite della correttezza non potendo essere invocata come scriminante ex art.51 c.p. laddove si compendi nell’attribuzione di condotte illecite o moralmente disonorevoli, in accostamenti volgari o ripugnanti, in deformazione dell’immagine in modo da suscitare disprezzo e dileggio. Per la Corte, anche sul crinale della continenza, pur dovendosi valutare in modo meno rigoroso le espressioni della satira (rispetto ad esempio a quelle della cronaca e della critica) tuttavia essa, al pari di qualunque altra manifestazione del pensiero, non può infrangere il rispetto dei valori fondamentali della persona, esponendo al disprezzo e al ludibrio la relativa immagine pubblica. La Corte precisa peraltro come detta scriminante non possa essere invocata laddove, ancorché su sfondo scherzoso ed ironico, essa si fondi su dati storicamente falsi, potendo trovare spazio solo quando l’autore della manifestazione satirica presenti in un contesto di leale inverosimiglianza, di sincera non veridicità finalizzata alla critica e alla dissacrazione di persone di alto rilievo, una situazione o un personaggio trasparentemente inesistenti, senza proporsi alcuna funzione informativa, non potendo dirsi operativa quando si diano al pubblico informazioni che – quand’anche presentate in veste ironica e scherzosa – si rivelino false e pertanto tali da non escludere la rilevanza penale.
Il 18 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.51059 che, giusta valorizzazione della cultura di origine del soggetto agente, esclude la circostanza aggravante dell’aver agito per motivi abietti o futili in una fattispecie di tentato omicidio perpetrato dal padre (di religione islamica) nei confronti della figlia, dopo che questa abbia intrattenuto rapporti intimi con un uomo di religione diversa. Per la Corte in simili ipotesi non può essere considerato futile il motivo di agire basato sull’intento di preservare l’onore della famiglia in seguito alla violazione, da parte della giovane, del precetto religioso di non congiungersi carnalmente con persone di fede diversa e fuori da un regolare matrimonio: trattasi di motivo che – quantunque non condivisibile nella moderna società occidentale – non può tuttavia neppure essere definito futile, dacché la spinta che ha mosso il soggetto agente a commettere il fatto non può assumersi né lieve, né banale, potendosi configurare l’aggravante dei futili motivi solo quando appunto la determinazione criminosa sia stata causata da uno stimolo esterno al soggetto agente così lieve, banale e sproporzionato rispetto alla gravità del reato da palesarsi, secondo il comune sentimento, del tutto insufficiente a provocare l’azione criminosa, tanto da poterlo considerare un pretesto per lo sfogo di un impulso criminale.
2014
Il 27 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione penale n.49570 alla cui stregua, in tema di diffamazione a mezzo stampa, il rispetto della verità del fatto assume in riferimento all’esercizio del diritto di critica politica un limitato rilievo necessariamente affievolito rispetto alla diversa incidenza sul versante del diritto di cronaca, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per relativa natura carattere congetturale e non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica. Va dunque censurata per la Corte la decisione del giudice di merito che ha affermato la responsabilità, in ordine al reato di cui all’art. 595 c.p., dell’imputato che in qualità di assessore comunale alla cultura, ha inviato una lettera ad un noto quotidiano, affermando – nell’ambito di un contesto di conflittualità originato da una convenzione tra il Comune ed un Consorzio di ricerche – che per il Presidente di quest’ultimo la realizzazione di un dato progetto aveva rappresentato la “gallinella dalle uova d’oro” e che, comunque, gli interessi del detto presidente non erano di carattere esclusivamente scientifico; per la Corte sussiste nel caso di specie l’esimente di cui all’art. 51 cod. pen., sub specie di critica politica, onde va annullata la decisione impugnata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato. Quello stesso giorno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.41749 alla cui stregua l’esposto o segnalazione al competente Consiglio dell’ordine forense contenente accuse di condotte deontologicamente rilevanti, tenute da un professionista nei confronti del cliente denunciante, costituisce esercizio di legittima tutela degli interessi di quest’ultimo, attraverso il diritto di critica, sub specie di esposto, di cui all’art. 51 c.p., per il quale valgono i limiti ad esso connaturati, occorrendo, in primo luogo, che le accuse abbiano un fondamento o, almeno, che l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente (ancorché erroneamente) convinto di quanto afferma; tali limiti, se rispettati, escludono per la Corte la sussistenza del delitto di diffamazione. La Corte esclude, nella specie, la responsabilità di un imputato che aveva inoltrato un esposto al Consiglio dell’ordine degli avvocati nel quale affermava che la condotta professionale dell’avvocato era stata improntata a fare di tutto perché la società legalmente rappresentata dall’imputato iniziasse cause al solo fine di assicurare compensi allo stesso avvocato, senza alcun risultato positivo.
Il 15 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.52075 alla cui stregua non si configura la scriminante di cui all’art. 51 c.p. nella condotta di chi, per carpire dati utili alla propria difesa in giudizio, accede abusivamente alla casella di posta di un collega di studio, prendendo cognizione di alcune e-mail inviate a tale collega o da questi spedite, integrandosi, pertanto, l’ipotesi del reato di accesso abusivo ad un sistema informatico.
2015
Il 13 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.14960, che scandaglia un caso di maltrattamenti di ordine fisico e psichico posti in essere da uno straniero con cittadinanza marocchina nei confronti della moglie. Dinanzi ad una tesi difensiva imperniata sulla c.d. scriminante culturale (nel caso di specie assunta come erroneamente supposta dal soggetto agente, che sarebbe trasceso in un eccesso colposo rispetto a tale scriminante), la Corte osserva che in una società multietnica non è concepibile la scomposizione dell’ordinamento in altrettanti statuti individuali quante sono le etnie che la compongono, non essendo compatibile con l’unicità della tessuto sociale — e quindi con l’unicità dell’ordinamento giuridico – l’ipotesi della convivenza in un unico contesto civile di culture tra loro confliggenti. Per la Corte la soluzione — costituzionalmente orientata in relazione alla disposizione dell’art. 3 Cost., laddove in unico contesto normativo si attribuisce a tutti i cittadini pari dignità sociale e posizione di uguaglianza nei confronti della legge, senza distinzione, in particolare, di sesso, di razza, di lingua, di religione, e si impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana – la soluzione, si diceva, civilmente e giuridicamente praticabile è quella opposta, che armonizza i comportamenti individuali rispondenti alla varietà delle culture in base al principio unificatore della centralità della persona umana, quale denominatore minimo comune per l’instaurazione di una società civile. In questo quadro concettuale – prosegue la Corte – si profila, come essenziale per la stessa sopravvivenza della società multietnica, l’obbligo giuridico di chiunque vi si inserisce di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina, non essendo di conseguenza riconoscibile una posizione di buona fede in chi, pur nella consapevolezza di essersi trasferito in un Paese diverso e in una società in cui convivono culture e costumi differenti dai propri, presume di avere il diritto — non riconosciuto da alcuna norma di diritto internazionale – di proseguire in condotte che, seppure ritenute culturalmente accettabili e quindi lecite secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, risultano oggettivamente incompatibili con le regole proprie della compagine sociale in cui ha scelto di vivere. In tali condotte non è pertanto per il Collegio configurabile una scriminante, anche solo putativa, fondata sull’esercizio di un presunto diritto escluso in linea di principio dall’ordinamento (Cass., Sez. 6, 26 aprile 2011 n. 26153), e quindi neppure l’eccesso colposo nella scriminante stessa. Nella specie la condotta del soggetto agente — consistente nella sottoposizione della moglie a percosse e a maltrattamenti vari, inflitti in stato di ubriachezza, anche come ritorsione per aver essa fatto nascere il suo bambino in Francia, dove si era rifugiata presso i suoi parenti, e non in Italia, con pregiudizio per il proprio permesso di soggiorno, in vista del quale l’aveva sposata; e consistente altresì, pur esercitando un lavoro retribuito, nel lasciare lei ed il figlio senza mezzi di sussistenza — appare contraria a qualsiasi principio e non può ritenersi espressione di alcuna cultura e, in particolare, di quella di appartenenza dell’imputato (nella stessa memoria successiva al ricorso si fa presente come esuli dalla cultura del marocchino di fede musulmana di stretta osservanza non prendersi cura del primo figlio di sesso maschile, specie nella prima infanzia, privandolo del necessario).
2017
Il 24 marzo esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.14542 alla cui stregua in tema di diffamazione, la causa di non punibilità prevista dall’art. 598 c.p. e la scriminante di cui all’art. 51 c.p. operano su piani diversi, la prima non escludendo l’antigiuridicità del fatto (che, dunque, resta antigiuridico) ma solo l’applicazione della pena e ricomprendendo anche condotte di offesa non necessarie, purché inserite nel contesto difensivo; la seconda ricollegandosi invece all’esercizio del diritto di difesa e richiedendo il requisito della necessarietà ed il rispetto dei limiti di proporzionalità e strumentalità; per la Corte, peraltro, le offese non punibili ai sensi dell’art. 598 c.p. sono solo quelle che si riferiscono all’oggetto della causa ed hanno una qualche finalità difensiva.
Il 15 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.24084 alla cui stregua – premesso, in termini generali, che il reato contestato nel caso di specie (porto d’armi) ha natura contravvenzionale, ed è dunque punito anche a titolo di colpa, ed è escluso se ricorre un “giustificato motivo” – l’assenza di tale giustificato motivo è da assumersi quale elemento di tipicità del fatto di reato (elemento costitutivo della fattispecie, come precisato da Sez. Un. n. 7739 del 9.7.1997). La giurisprudenza di legittimità – prosegue la Corte – ha costantemente affermato che il giustificato motivo di cui alla Legge n. 110 del 1975, art. 4, comma 2, ricorre quando le esigenze dell’agente siano corrispondenti a regole relazionali lecite rapportate alla natura dell’oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell’accadimento e alla normale funzione dell’oggetto (ex multis, Sez. 1 n.4498 del 2008). Per fare alcuni esempi, a detta della Corte è giustificato il porto di un coltello da chi si stia recando in un giardino per potare alberi o dal medico chirurgo che nel corso delle visite porti nella borsa un bisturi; per converso, lo stesso comportamento posto in essere dai medesimi soggetti in contesti non lavorativi non è giustificato e integra il reato di che trattasi. Fatte queste premesse di ordine generale, il Collegio entra poi nel caso specifico, la sentenza impugnata avendo dato atto in particolare che, al momento del controllo di polizia, l’imputato si trovava per strada e teneva il coltello nella cintola onde, a fronte della allegazione di circostanze di obiettivo rilievo dimostrativo, scatta l’onere dell’imputato di fornire la prova del giustificato motivo del trasporto dell’arma. L’imputato, per parte sua, ha affermato che il porto del coltello era giustificato dal credo religioso per essere il particolare coltello Kirpan “uno dei simboli della religione monoteista Sikh” e ha invocato la garanzia posta dall’articolo 19 della Costituzione (in tema di diritto di professare liberamente il culto); la Corte nondimeno, pur a fronte dell’assertività dell’assunto ridetto, non assume che il simbolismo legato al porto del coltello possa comunque costituire la scriminante posta dalla legge. In una società multietnica, precisa la Corte, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Ora, se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è comunque costituito per la Corte dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante palesandosi pertanto essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi la liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina. La decisione – prosegue ancora la Corte – di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza ne impone il rispetto, non essendo tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante; in altri termini, per la Corte la società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali configgenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro Paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto di armi e di oggetti atti ad offendere. Né alcun ostacolo viene in tal modo posto alla libertà di religione, al libero esercizio del culto e all’osservanza dei riti che non si rivelino contrari al buon costume, proprio la libertà religiosa, garantita dall’articolo 19 della Costituzione, incontrando dei limiti, stabiliti dalla legislazione in vista della tutela di altre esigenze, tra cui quelle della pacifica convivenza e della sicurezza. Nello stesso senso si muove peraltro anche l’articolo 9 della CEDU, Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che al comma 2 stabilisce come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo possa essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui; rammenta la Corte come la giurisprudenza europea, a proposito del velo islamico (in Leyla Sahin c. Turchia [GC], n. 44774/98, § 111, CEDU 2005 XI ; Refah Partisi e altri c. Turchia [GC], n. 41340/98, 41342/98, 41343/98 e 41344/98, § 92, CEDU 2003 II), abbia riconosciuto che lo Stato può limitare la libertà di manifestare una religione se l’uso di quella libertà ostacola l’obiettivo perseguito di tutela dei diritti e delle libertà altrui, l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica; nella causa Eweida e altri contro Regno Unito del 15 gennaio 2013, la Corte ha poi riconosciuto la legittimità delle limitazioni alle abitudini di indossare visibilmente collane con croci cristiane durante il lavoro e ha suffragato l’opinione ricordando che, nello stesso ambiente lavorativo, dipendenti di religione Sikh avevano accettato la disposizione di non indossare turbanti o Kirpan (in questo modo dimostrando che l’obbligo religioso non è assoluto e può subire legittime restrizioni). La Corte, tenuto conto che l’articolo 4 della legge n. 110 del 1975 ha base nel diritto nazionale, è accessibile alle persone interessate e presenta «una formulazione abbastanza precisa per permettere loro – circondandosi, all’occorrenza, di consulenti illuminati – di prevedere, con un grado ragionevole nelle circostanze della causa, le conseguenze che possono derivare da un atto determinato e di regolare la loro condotta>> (Gorzelik ed altri c. Polonia, Grande Camera, n 44158/98, § 64, CEDU 2004), afferma il principio per cui nessun credo religioso può legittimare il porto in luogo pubblico di armi o di oggetti atti ad offendere.
Il 19 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.25262, alla cui stregua, in tema di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, non è applicabile la scriminante dell’esercizio del diritto in quanto la convinzione di esercitarlo costituisce essa stessa elemento costitutivo del delitto medesimo
Il 21 settembre esce la sentenza della sezione feriale della Cassazione n.43139 che assume non punibile – per avere legittimamente esercitato il proprio diritto di denuncia e di critica dell’operato del pubblico funzionario – chi abbia inviato agli organi preposti al controllo dell’azione del funzionario medesimo una lettera in cui segnala la condotta apparentemente irregolare da quest’ultimo tenuta nel trattare una pratica di relaativo interesse, utilizzando un linguaggio contenuto e limitandosi a prefigurare che il funzionario non abbia rispettato il suo dovere di imparzialità. La Corte, in relazione al diritto di denuncia della condotta, ritenuta scorretta, del pubblico funzionario, cita l’arresto della Corte EDU n. 14881/2003 Zakharov c. Russia, in riferimento alla denunciata violazione dell’art. 10 della Convenzione (sulla “libertà di espressione” ed i relativi limiti), in cui si è affermato che i cittadini hanno il diritto di segnalare liberamente alle autorità competenti i comportamenti dei funzionari pubblici che ritengano irregolari o illegali. Trattasi per la Corte di un principio di diritto che si attaglia perfettamente al caso di specie ove il cittadino ha denunciato agli organi preposti al controllo dell’azione del funzionario la condotta che questi aveva tenuto, nel trattare una pratica di relativo interesse, che è apparsa, nella fase in cui è stata sporta la denuncia, irregolare, come ha peraltro dimostrato ex post la ritenuta responsabilità dell’ente pur sotto il solo profilo della responsabilità precontrattuale.
Il 13 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.51619, alla cui stregua la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca (nel caso di specie, giudiziaria) è configurabile solo quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare l’oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio. Nel caso di specie, per la Corte è da assumersi immune da censure la decisione con cui il giudice di merito laddove ha affermato la responsabilità per il delitto di diffamazione aggravata nei confronti di un giornalista per avere falsamente affermato che nei confronti di un assessore regionale era stato richiesto il rinvio a giudizio mentre era stato notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari.
Il 30 novembre viene varata la legge n.179 recante disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato (c.d. whistleblowing), che prefigura la possibilità di invocare l’esercizio del diritto come scriminante ex art.51 c.p. in relazione a taluni reati, specie contro l’Amministrazione della giustizia, come ad esempio la calunnia.
2018
Il 4 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 24891, che si occupa del caso di un avvocato che – nell’esercizio del proprio mandato difensivo – insulta, tramite missiva inoltrata ad un superiore, un sovraintendente di polizia in servizio. La Corte, richiamando precedenti propri, precisa che ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti. Nella specie il giudice di appello, con motivazione congrua e non manifestamente illogica, ma in linea con l’indirizzo ermeneutico sopra esposto, ha notato che l’inoltro della missiva, nell’ambito di un rapporto professionale tra il legale, avvocato G. e il sovrintendente della polizia di stato in servizio, non può essere collocato nell’ambito di una contesto dialettico, ma anzi si sostanzia in un’espressa denuncia, peraltro destinata ai superiori gerarchici dell’avversario. Sicché le espressioni contenute nella medesima (dove il sovrintendente viene, tra l’altro, indicato come prepotente, arrogante, sprovveduto), indicate dal giudice del gravame come manifestazione di sentimenti ostili e gratuiti, hanno senza dubbio travalicato i limiti della continenza verbale e, comunque, l’ambito del legittimo diritto di critica nei confronti dell’operato dell’avversario e, dunque, risultano idonee a ledere la dignità morale ed intellettuale del destinatario.
Il 6 giugno esce la sentenza della sezione Lavoro della Cassazione n. 14527 che afferma come tra più interessi collidenti, l’interesse della persona o dell’impresa oggetto di affermazioni lesive, da una parte, e l’interesse contrapposto di chi ne è l’autore alla libera manifestazione del pensiero, dall’altra, occorra trovare un punto di intersezione e di equilibrio che va individuato nel limite in cui il secondo interesse non rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione e al decoro di chi ne è il destinatario. Ricorda inoltre la Corte che, quando il diritto di critica sia esercitato attraverso la satira, la continenza non può non tener conto delle caratteristiche del genere che prevede l’utilizzo di un linguaggio colorito ed il ricorso ad immagini forti ed esagerate, con conseguente necessità di non compiere estrapolazioni dal contesto complessivo e di non conferire a certe espressioni il significato letterale che potrebbero avere nell’uso comune. Deve, peraltro, sottolinearsi che anche il diritto di satira non si sottrae al limite della c.d. continenza formale, ossia non può essere sganciato da ogni limite di forma espositiva; ciò in quanto in presenza di due interessi collidenti, e cioè l’interesse della persona oggetto della satira – costituzionalmente garantito dall’art. 2 Cost. sulla tutela della persona umana nel suo essere e nel suo manifestarsi – e l’interesse contrapposto di chi ne sia l’autore – anch’esso costituzionalmente garantito dall’art. 21 Cost. sulla libertà di manifestazione del pensiero – occorre trovare un punto di equilibrio che va individuato nel limite in cui il secondo interesse, e quindi anche il diritto di satira, non rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione e al decoro di chi ne è oggetto. L’esistenza del pregiudizio, ossia la esposizione della persona al disprezzo e al ludibrio della sua immagine pubblica, si deve verificare alla luce e nel contesto del linguaggio usato dalla satira, il quale, essendo inteso, con accento caricaturale, alla dissacrazione e allo smascheramento di errori e vizi di uno o più persone, è essenzialmente simbolico e paradossale.
L’8 giugno esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione civile n.14887 che, confermando il decisum della Corte d’Appello, ribadisce come l’enunciazione nell’articolo di un giornale di numerose notizie false, intese a rappresentare il fatto in modo diverso dalla relativa, effettiva consistenza, e quand’anche mescolate ad altre notizie vere, comporta il carattere diffamatorio dell’articolo stesso, difettando la necessaria correlazione tra il fatto raccontato e quello realmente accaduto (c.d. limite della “verità”).
Il 14 giugno esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.27461 in tema di insulti a mezzo missiva ad un docente universitario e diritto di critica. La Corte afferma il giudice del merito avere correttamente sostenuto che – nel caso di specie – le affermazioni contenute nella missiva e riportate nell’imputazione sono umilianti, denigratorie e gratuite ed hanno leso la sfera privata e l’onorabilità del destinatario; il delitto di diffamazione è punito a titolo d dolo generico, sicché è richiesta semplicemente la consapevolezza che le espressioni utilizzate sono lesive dell’altrui reputazione o possono porla a rischio, non essendo richiesta la specifica finalità di recare nocumento al soggetto passivo; non sussiste il diritto di critica in quanto le espressioni offensive sono pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto alla critica ed hanno trasmodato in un attacco personale diretto a colpire la sfera morale del soggetto criticato.
Il 2 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 29613 che, pur riconoscendo come nella società contemporanea, non si possa negare la necessità di procedere a un’interpretazione delle norme penali che risenta del momento storico e culturale di riferimento, caratterizzato dal “multiculturalismo”, quale precipitato dell’integrazione dei migranti nella compagine sociale, afferma tuttavia la necessità di tenere presente che nessun sistema penale potrà mai abdicare, in ragione del rispetto di tradizioni culturali, religiose o sociali del cittadino o dello straniero, alla punizione di fatti che colpiscano o mettano in pericolo i beni di maggiore rilevanza, quali i diritti inviolabili dell’uomo garantiti e i beni ad essi collegati tutelati dalle fattispecie penali, che costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione, di diritto e di fatto, nella società civile, di consuetudini, prassi, costumi chetali diritti inviolabili, della persona, cittadino o straniero, pongano in pericolo o danneggino. A fronte delle difese volte a giustificare il comportamento degli imputati alla luce della cultura del Paese di provenienza, la Corte osserva altresì come i comportamenti oggetto di imputazione risultino penalmente sanzionati anche in tale Paese.
Il 4 luglio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 30091 che ribadisce l’orientamento secondo cui ai fini della sussistenza del delitto di cui all’art. 610 cod. pen., non è richiesta una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato ad ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa. L’elemento oggettivo del delitto, quindi, è costituito da una violenza o da una minaccia, che abbiano l’effetto di costringere taluno a fare, tollerare od omettere una condotta determinata.
Il 1° ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 43283 onde integra il delitto di maltrattamenti in famiglia, e non quello di abuso dei mezzi di correzione la consumazione da parte del genitore nei confronti del figlio minore di reiterati atti di violenza fisica e morale, anche qualora gli stessi possano ritenersi compatibili con un intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui l’agente è portatore.
Il 2 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 43598 onde in tema di diffamazione, il rispetto della verità del fatto assume, in riferimento all’esercizio del diritto di critica politica, un rilievo più limitato e necessariamente affievolito rispetto al diritto di cronaca, in quanto la critica, ed ancor più quella politica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica. In proposito, la Corte richiama altresì i precedenti della medesima sezione onde sussiste l’esimente dell’esercizio del diritto di critica politica qualora l’espressione usata consista in un dissenso motivato, anche estremo, rispetto alle idee ed ai comportamenti altrui, nel cui ambito possono trovare spazio anche valutazioni non obiettive, purché non trasmodi in un attacco personale lesivo della dignità morale ed intellettuale dell’avversario
Il 18 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 47513 che ricorda come, in tema di diffamazione, il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca essenzialmente in quanto il primo non si concretizza, come l’altro, nella narrazione di fatti, bensì nell’espressione di un giudizio o, più genericamente, di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un’interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e di comportamenti. Non si tratta dunque di valutare la veridicità di proposizioni assertive, per le quali possa configurarsi un onere di previo riscontro della loro rispondenza al vero, quanto piuttosto di stimare la correttezza delle espressioni usate.
Il 27 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 53196 onde le accuse di condotte deontologicamente rilevanti, tenute da un professionista nei confronti del cliente denunciate, possono costituire esercizio di legittima tutela degli interessi di quest’ultimo, attraverso il diritto di critica, a condizione che ne ricorrano i requisiti ad esso connaturati, vale a dire che le accuse abbiano un fondamento o che, almeno, l’accusatore sia fermamente ed incolpevolmente convinto di quanto afferma
2019
Il 17 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 2092 che ricorda come in tema di esimenti del diritto di critica e di cronaca, la giurisprudenza si esprima ormai in termini consolidati in riferimento ai requisiti caratterizzanti il necessario bilanciamento dei valori in conflitto, individuandoli nell’interesse sociale, nella continenza del linguaggio e nella verità del fatto narrato.
Nella delineata prospettiva, è stato evocato anche il parametro dell’attualità della notizia, nel senso che una delle ragioni fondanti della esclusione della antigiuridicità della condotta lesiva della altrui reputazione deve essere ravvisata nell’interesse generale alla conoscenza del fatto nel momento storico, e dunque nell’attitudine della informazione a contribuire alla formazione della pubblica opinione, in modo che il cittadino possa liberamente orientare le proprie scelte, anche nel campo d’indagine dei fenomeni sociologici.
Con specifico riferimento al diritto di cronaca giudiziaria, ai fini della configurabilità dell’esimente, il giornalista deve esaminare e controllare attentamente la notizia in modo da superare ogni dubbio e la cronaca giudiziaria è lecita quando sia esercitata correttamente, limitandosi a diffondere la notizia di un provvedimento giudiziario in sé ovvero a riferire o a commentare l’attività investigativa o giurisdizionale, mentre ove informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario siano utilizzate per ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare o a sostituire gli organi investigativi nella ricostruzione di vicende penalmente rilevanti e autonomamente offensive, il giornalista deve assumersi direttamente l’onere di verificare le notizie e di dimostrarne la pubblica rilevanza, non potendo reinterpretare i fatti nel contesto di un’autonoma e indimostrata ricostruzione giornalistica. Di guisa che la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste qualora essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, sicché è sufficiente che l’articolo pubblicato corrisponda al contenuto degli atti e dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria, non potendo richiedersi al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni assunte in sede giudiziaria.
Il diritto di cronaca, che può comportare qualche sacrificio dell’accuratezza della verifica della verità del fatto narrato e della bontà della fonte per esigenze di velocità, presuppone la immediatezza della notizia e la tempestività dell’informazione, e, pertanto, non ricorre quando si offre il resoconto di fatti distanti nel tempo, in relazione ai quali è legittimo pretendere una attenta verifica di tutte le fonti disponibili, con la conseguenza che, laddove si dà conto di vicende giudiziarie, incombe l’obbligo di accertare e rappresentare compiutamente lo sviluppo degli esiti processuali delle stesse.
Siffatta impostazione ermeneutica si pone in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui la incriminazione della diffamazione costituisce una interferenza con la libertà di espressione e quindi contrasta, in principio, con l’art. 10 CEDU, a meno che non sia «prescritta dalla legge», non persegua uno o più degli obiettivi legittimi ex art. 10 par. 2 e non sia «necessaria in una società democratica». In riferimento agli enunciati limiti, la Corte EDU ha, in varie pronunce, sviluppato il principio inerente la ‘verità del fatto narrato’ per ritenere ‘giustificabile’ la divulgazione lesiva dell’onore e della reputazione: ed ha declinato l’argomento in una duplice prospettiva, distinguendo tra dichiarazioni relative a fatti e dichiarazioni che contengano un giudizio di valore, sottolineando come anche in quest’ultimo sia comunque sempre contenuto un nucleo fattuale che deve essere sia veritiero che oggettivamente sufficiente per permettere di trarvi il giudizio, versandosi, altrimenti, in affermazione offensiva ‘eccessiva’, non giustificabile perché assolutamente priva di fondamento o di concreti riferimenti fattuali. Nella delineata prospettiva si pone la sentenza CEDU Mengi vs. Turkey, del 27.2.2013, che costituisce la più avanzata ricognizione della posizione della Corte in materia di art. 10 della Carta nella distinzione tra diritto di critica e diritto di cronaca, distinguendo tra statement of facts (oggetto di prova) e value judgements (non suscettibili di dimostrazione).
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Il 23 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 3148 onde la causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen., sub specie dell’esercizio del diritto di critica, ricorre quando i fatti esposti siano veri o quanto meno l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente, ancorché erroneamente, convinto della loro veridicità. Il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi. Il rispetto della verità del fatto assume, in riferimento all’esercizio del diritto di critica, un rilievo più limitato e necessariamente affievolito rispetto al diritto di cronaca, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica. Nella valutazione del requisito della continenza, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti, ma siano, invece, comunque pertinenti al tema in discussione.
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Il 29 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 4457 onde l’art. 393 bis c.p. prevede una causa di giustificazione, fondata sul diritto del cittadino di reagire all’aggressione arbitraria dei propri diritti perpetrata dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio o dal pubblico impiegato, che può essere applicata anche nelle ipotesi putative di cui all’art. 59, comma 4, c.p., quando il soggetto abbia allegato dati concreti, suffraganti il proprio ragionevole convincimento di essersi trovato, a causa di un errore sul fatto, di fronte ad una situazione che, se effettiva, avrebbe costituito atto arbitrario del pubblico ufficiale.
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Il 5 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 5680 che ricorda come in tema di diffamazione a mezzo stampa, il requisito della verità della notizia riportata, necessario ai fini della operatività della esimente prevista dall’art. 51 cod. pen., non è soddisfatto nel caso in cui il giornalista faccia riferimento ad una “vox populi”, perché questa, in considerazione della sua intrinseca vaghezza e del suo insuperabile carattere impersonale, non può ragionevolmente costituire una fonte da usare legittimamente nell’esercizio del diritto/dovere di informare; inoltre, la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca è configurabile solo quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare l’oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio.
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Il 26 febbraio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 8421 onde l’art. 598 c.p. concerne le offese contenute in scritti presentati o discorsi pronunciati dalle parti o dai loro difensori in procedimenti innanzi all’autorità giudiziaria od amministrativa, non punibili nella misura in cui le espressioni offensive riguardino, in modo diretto ed immediato, l’oggetto della controversia ed abbiano rilevanza funzionale nel sostenere la tesi prospettata o comunque nell’ottica dell’accoglimento della domanda proposta, quand’anche esse non siano necessarie e riguardino passaggi non decisivi dell’argomentazione. Deve essere esclusa, invece, la necessità che le offese abbiano anche un contenuto minimo di verità o che la stessa sia in qualche modo deducibile dal contesto, in quanto l’interesse tutelato è la libertà di difesa nella sua correlazione logica con la causa a prescindere dalla fondatezza dell’argomentazione.
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Il 27 maggio esce l’ordinanza della III sezione civile della Cassazione n. 14370 che richiama l’orientamento secondo cui possono ledere l’altrui reputazione anche notizie e valutazioni espresse in forma dubitativa e interrogativa, qualora non ne risulti la corrispondenza al vero ed allorché le espressioni utilizzate siano allusive, coinvolgenti, suggestive, nel senso che non esprimono un vuoto informativo, un interrogativo, una domanda di verità, ma manifestano invece conoscenza, certezza, offerta di verità già acquisita e sono così idonee ad ingenerare nella mente del destinatario il convincimento della immediata rispondenza al vero della notizia. Ricorda inoltre la Corte come, pur non godendo della particolare tutela assicurata dalla legge al mezzo della stampa, le forme di comunicazione telematica quali forum, blog, social network, newsletter sono espressione del diritto costituzionale di manifestare liberamente il proprio pensiero (art. 21 Cost., art. 10 della Convenzione EDU, art. 11 della Carta dei diritti fondamentali UE), di cui costituiscono estrinsecazione le manifestazioni di critica e le denunce civili con qualsiasi mezzo diffuse.
La Corte poi richiama il consolidato orientamento in tema di sussistenza dell’esimente del diritto di critica. Tale diritto presuppone, per sua stessa natura, la manifestazione di espressioni oggettivamente offensive della reputazione altrui, la cui offensività possa, tuttavia, trovare giustificazione nella sussistenza del diritto; l’esercizio del diritto in parola consente l’utilizzo di espressioni forti ed anche suggestive al fine di rendere efficace il discorso e richiamare l’attenzione di chi ascolta. In via generale, in tema di esimenti del diritto di critica e di cronaca, la giurisprudenza si esprime ormai in termini consolidati nell’individuare i requisiti caratterizzanti nell’interesse sociale, nella continenza del linguaggio e nella verità del fatto narrato. Con riferimento specifico al diritto di critica politica, però, si osserva che il rispetto della verità del fatto assume rilievo limitato, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica. Il limite immanente all’esercizio del diritto di critica politica è, pertanto, costituito dal fatto che la questione trattata sia di interesse pubblico e che comunque non si trascenda in gratuiti attacchi personali.
Va poi tenuto conto della perdita di carica offensiva di alcune espressioni nel contesto politico, in cui la critica assume spesso toni aspri e penetranti quanto più elevata è la posizione pubblica del destinatario. Si è poi osservato che continenza significa proporzione, misura e non continenti sono quei termini che non hanno equivalenti e non sono sproporzionati rispetto ai fini del concetto da esprimere e alla forza emotiva suscitata della polemica su cui si vuole instaurare un lecito rapporto dialogico e dialettico. La continenza formale consente il ricorso anche a parole sferzanti, nella misura in cui esse siano correlate al livello della polemica. Tale considerazione è tanto più valida, allorché il giornalista ricorra ad argomenti ironici o satirici. È infatti noto che lo scritto satirico mira all’ironia sino al sarcasmo e comunque all’irrisione di chi esercita un pubblico potere, in tal misura esasperando la polemica intorno alle opinioni ed ai comportamenti; nell’apprezzare il requisito della continenza, allora, il giudice deve tener conto del linguaggio essenzialmente simbolico e frequentemente paradossale dello scritto satirico, rispetto al quale non si può applicare il metro consueto di correttezza dell’espressione. Il limite insuperabile, anche in tal caso, è quello del rispetto dei valori fondamentali, allorché la persona pubblica, oltre al ludibrio della sua immagine pubblica, sia esposta al disprezzo.
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Il 22 luglio esce la sentenza a SS.UU. della Corte di Cassazione civile, n. 19681, che affronta la delicata materia del diritto all’oblio. In tema di rapporti tra il diritto alla riservatezza (nella sua particolare connotazione del c.d. diritto all’oblio) e il diritto alla rievocazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato, il giudice di merito – ferma restando la libertà della scelta editoriale in ordine a tale rievocazione, che è espressione della libertà di stampa e di informazione protetta e garantita dall’art. 21 Cost. – ha il compito di valutare l’interesse pubblico, concreto ed attuale alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti. Tale menzione deve ritenersi lecita solo nell’ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito; in caso contrario, prevale il diritto degli interessati
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Lo stesso giorno esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 32829 onde la sussistenza dell’esimente dell’esercizio di un diritto presuppone, per sua stessa natura, la manifestazione di espressioni oggettivamente lesive dell’altrui reputazione, la cui offensività possa, tuttavia, trovare giustificazione nella sussistenza dello stesso diritto di critica o di cronaca.
In particolare, il diritto di critica si esplica nella formulazione di un giudizio di valore circa determinate circostanze, rientrando dunque tra le modalità di manifestazione del libero pensiero, tutelato direttamente dall’art. 21 Cost. non solo con riferimento ai giornalisti o a chi fa informazione professionalmente, essendo riservato all’individuo uti civis. Chiunque, pertanto, può elaborare personali convincimenti su determinati fatti, nei limiti dell’esercizio di tale diritto. E il tema di tali “limiti” è attualissimo. Invero, specialmente con la diffusione di internet e, quindi, con l’aumento esponenziale delle occasioni di connessione e condivisione in rete, si è posto il problema della previsione normativa di fattispecie che prevedano uno specifico sistema sanzionatorio finalizzato ad arginare il fenomeno delle condotte di diffamazione commesse dagli internauti. In particolare, tali condotte sono state facilitate dalla possibilità per un numero esponenziale di utenti della rete Internet di esprimere giudizi su tutti gli argomenti trattati, per cui alla schiera di “opinionisti social” frequentemente si associano i cosiddetti “odiatori sul web”, che non esitano – spesso celandosi dietro l’anonimato – ad esprimere giudizi con eloquio volgare ed offensivo.
In questo panorama si colloca la decisione di molte reti televisive di dare maggiore spazio a programmi specificamente dedicati ai “dibattiti” su personaggi già popolari o che diventano tali proprio perché consentono di pubblicizzare la sfera privata della loro vita.
In tema di esimenti del diritto di critica e di cronaca, la consolidata giurisprudenza della Cassazione evidenzia il necessario bilanciamento di tali diritti con gli interessi in conflitto, specificamente individuati nell’interesse sociale, nella continenza espressiva e nella verità del fatto narrato ove tale fatto sia posto a fondamento dell’elaborazione critica.
A tale ultimo proposito, però, viene precisato che la critica soggiace in termini meno intensi all’onere della verità rispetto all’esercizio del diritto di cronaca, in quanto la critica si sostanzia in un giudizio di valore che, in quanto tale, non può pretendersi rigorosamente obiettivo ed asettico.
Il diritto di critica si differenzia, infatti, da quello di cronaca in quanto non si concretizza, come quest’ultimo, in una mera narrazione dei fatti, ma nella formulazione di un’opinione che, per sua stessa natura, non può che essere fondata su un’interpretazione di fatti e di comportamenti necessariamente personale.
In proposito, è stato già ribadito come siffatta impostazione si pone in linea con la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, secondo cui la incriminazione della diffamazione costituisce una interferenza con la libertà di espressione e quindi contrasta, in principio, con l’art. 10 CEDU, a meno che non sia “prescritta dalla legge”, non persegua uno o più degli obiettivi legittimi ex art. 10 par. 2 e non sia “necessaria in una società democratica.
In riferimento agli enunciati limiti, la Corte EDU ha, in varie pronunce, sviluppato il principio inerente la verità del fatto narrato per ritenere giustificabile la divulgazione lesiva dell’onore e della reputazione: ed ha declinato l’argomento in una duplice prospettiva, distinguendo tra dichiarazioni relative a fatti e dichiarazioni che contengano un giudizio di valore, sottolineando come anche in quest’ultimo sia comunque sempre contenuto un nucleo fattuale che deve essere sia veritiero che oggettivamente sufficiente per permettere di trarvi il giudizio, versandosi, altrimenti, in affermazione offensiva eccessiva, non scriminabile perché assolutamente priva di fondamento o di concreti riferimenti fattuali. In tal senso, la Corte Europea si riferisce principalmente al diritto di critica, politica, etica o di costume e, in generale, a quel diritto strettamente contiguo, sempre correlato con il diritto alla libera espressione del pensiero, che è il diritto di opinione, indicando quali siano i limiti da non travalicare nel caso di critica politica.
Nella delineata prospettiva si pone la sentenza CEDU Mengi vs. Turkey, del 27.2.2013, che costituisce la più avanzata ricognizione della posizione della Corte in materia di art. 10 della Carta nella distinzione tra diritto di critica e diritto di cronaca, distinguendo tra statement of facts (oggetto di prova) e value judgements (non suscettibili di dimostrazione), rilevando come nel secondo caso il potenziale offensivo dell’articolo o dello scritto, nel quale è tollerabile – data la sua natura — exaggeration or even provocation, sia neutralizzato dal fatto che lo scritto si basi su di un nucleo fattuale (veritiero e rigorosamente controllabile) sufficiente per poter trarre il giudizio di valore negativo; se il nucleo fattuale è insufficiente, il giudizio è gratuito e pertanto ingiustificato e diffamatorio.
Pertanto, ove il giudice giunga, attraverso l’esame globale del contesto espositivo, a qualificare quest’ultimo come prevalentemente valutativo, le condizioni legittimanti il riconoscimento dell’esimente sono costituite solo dalla rilevanza sociale dell’argomento e dalla correttezza dell’espressione.
In altri termini, dal requisito della verità non può prescindersi quando un fatto obiettivo sia posto a fondamento dell’elaborazione critica, ma la critica che si manifesti tramite l’esposizione di una personale valutazione, viceversa, ha valore di esimente al ricorrere degli altri requisiti, senza che possa pretendersi la verità oggettiva di quanto rappresentato.
Conclusivamente è stato affermato che è configurabile l’esimente putativa dell’esercizio del diritto di critica nei confronti di chi abbia la ragionevole e giustificabile convinzione della veridicità dei fatti denunciati, lesivi dell’altrui reputazione, anche se di essa non sussista certezza processuale.
E non si deve trascurare, per esempio, che, nell’ambito di inchieste giornalistiche, le affermazioni e ricostruzioni che rechino valutazioni offensive dei soggetti coinvolti non costituiscono reato se i dati di cronaca assumano una funzione meramente strumentale alla formulazione di un giudizio critico di contenuto più ampio e diverso, di attuale e pubblico interesse, dovendo l’attualità della notizia essere riguardata non con riferimento al fatto ma all’interesse pubblico alla conoscenza del fatto e, quindi, alla attitudine della stessa a contribuire alla formazione della pubblica opinione, di guisa che ognuno possa liberamente orientarsi.
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Il 17 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 38277 onde la ratio dell’art. 51 c.p. viene generalmente identificata nel principio di non contraddizione: se l’ordinamento riconosce ad un soggetto la possibilità di esercitare un diritto, non può al tempo stesso sanzionarne l’esercizio (qui iure suo utitur neminem laedit). Il diritto «scriminante» può essere attribuito da una qualsiasi fonte dotata di efficacia normativa (assoluta, ovvero anche soltanto inter partes) che attribuisca il potere di agire; il suo esercizio scrimina soltanto quando il diritto è esercitato dal suo titolare (ovvero, ove si tratti di diritti non personali, dal rappresentante del titolare), e nei limiti entro i quali esso può ritenersi legittimo, essendo necessario che l’attività posta in essere costituisca una corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti al diritto in questione.
L’esercizio scriminante del diritto incontra, infatti, limiti che vanno desunti dalla sua stessa fonte, oltre che dall’intero ordinamento: quando tali limiti sono superati, sono configurabili ipotesi di abuso del diritto, ed il comportamento dell’agente esula dall’ambito consentito dall’art. 51 c.p.
Le fonti dell’UE (ontologicamente distinte dalla Convenzione EDU) potrebbero prevedere, con efficacia immediatamente vincolante per il giudice interno, nuove cause di giustificazione, attribuendo diritti il cui esercizio potrebbe scriminare l’agente ex art. 51 c.p.: questo caso è stato discusso, in giurisprudenza di merito, da Pret. Lodi 17 maggio 1984, che ha ritenuto non punibile lo straniero comunitario, accusato di esercizio abusivo della professione veterinaria ex art. 348 c.p. — cui era abilitato unicamente nello Stato di appartenenza — in applicazione (all’epoca) degli artt. 52, comma 2, e 57 del Trattato CE, che riconoscono il diritto di stabilimento.
Peraltro, l’ordinamento statale non si apre incondizionatamente alla normazione sovranazionale, giacché in ogni caso vige il limite del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale interno e dei diritti inalienabili della persona umana (ad es., il diritto alla salute, tutelato dall’art. 32 della Costituzione), con conseguente sindacabilità, sotto tale profilo, della legge di esecuzione del Trattato.
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Il 20 settembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 38896 che ribadisce il consolidato orientamento secondo cui, ai fini dell’applicazione dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica, è necessario che l’articolista, nel selezionare fatti accaduti nel tempo reputati rilevanti per illustrare la personalità dei soggetti criticati, non manipoli le notizie o non le rappresenti in forma incompleta, in maniera tale che, per quanto il risultato complessivo contenga un nucleo di verità, l’operazione stravolga il fatto nella sua rappresentazione.
Ciò vale a maggior ragione anche in relazione al diritto di cronaca. E difatti, l’esercizio del diritto di cronaca non può ritenersi fedele al requisito della veridicità dei fatti qualora la ricostruzione degli avvenimenti avvenga in modo da travisare la consecuzione degli stessi, omettendo il riferimento di fatti rilevanti nella proposizione delle notizie e, per contro, proponendone taluni in una luce artificiosamente emblematica, al di là della loro obiettiva rilevanza, in modo da tentare di indirizzare il giudizio del lettore.
Anche il diritto di critica politica non eliderebbe la valenza diffamatoria dello scritto, non essendo tale diritto estensibile nel suo valore scriminante sino al punto da rendere irrilevante la suggestiva attribuzione di un collegamento tra il diffamato ed un delitto di strage così violento e drammatico nell’immaginario storico collettivo, sia pur fondata su omissioni ed equivoci narrativi.
Quanto alla possibile applicazione della scriminante putativa, la Corte rileva che la gravità delle condotte attribuite o ricollegate al soggetto diffamato individua la cifra anche del connesso onere di verifica delle fonti dalle quali si trae la notizia diffamatoria: è chiaro, pertanto, che se si organizza un racconto giornalistico in maniera tale da accettare il rischio che un determinato soggetto possa essere messo in relazione con un episodio delittuoso gravissimo e quasi senza pari nel panorama criminale del Paese, tanto più l’articolista narrante deve innalzare il livello delle verifiche “di verità” di quanto espone, non potendosi limitare a citare di essersi documentato via internet in qualsiasi modo là dove ometta, invece, una porzione determinante della vicenda quale è la totale esclusione – già come ipotesi investigativa – del coinvolgimento di tale soggetto in quel reato.
Le fonti citate dal ricorrente (Wikipedia), infatti, non garantiscono la reale completezza informativa alla base di una eventuale operatività della scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca o di critica giornalistica.
Viene quindi affermato il seguente principio di diritto: “in tema di diffamazione a mezzo stampa o di pubblicazioni di tono giornalistico on line, al fine di configurare la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca o critica, non costituisce condotta di per sè idonea all’adempimento del richiesto onere di svolgere, in ordine ai contenuti dei propri articoli giornalistici, i dovuti accertamenti sulla veridicità dei fatti e l’attendibilità delle fonti informarsi soltanto via internet, mediante noti motori di ricerca e utilizzando dati di conoscenza provenienti dalla enciclopedia web Wikipedia, poiché tali strumenti non garantiscono “tout court” la reale completezza informativa funzionale alla operatività della scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca o di critica giornalistica”.
Sulla base della natura della notizia e delle circostanze del caso concreto, dunque, l’articolista dovrà, se del caso, integrare altrimenti i propri accertamenti su fonti e contenuti dello scritto.
Neppure rileva che l’articolista non sia un giornalista vero e proprio, sicchè a lui non potrebbero essere riferiti gli standard di accuratezza nel verificare le fonti e la completezza dei fatti riportati, tipici di chi svolge tale lavoro in via professionistica.
L’impegno nel controllare il fatto narrato, infatti, deve essere preteso nei confronti di chiunque intenda pubblicare una notizia nelle forme di diffusività idonee eventualmente a configurare il reato di diffamazione a mezzo stampa (anche via web), senza che sia possibile prevedere un onere di diligenza “attenuato” nella verifica delle fonti o dei contenuti dello scritto per il privato che svolga attività più o meno continuativa di articolista, rispetto al giornalista di professione.
Chi intenda comunque pubblicare una notizia non certa, infatti, accetta il rischio che essa non corrisponda al vero e che l’antigiuridicità della condotta diffamatoria rimanga senza giustificazione, ponendosi dinanzi a lui in tal caso solo l’alternativa di non pubblicare affatto la notizia.
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L’11 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 45694 che nega l’applicabilità dell’art. 51 c.p. in caso di omesso versamento IVA per i soggetti che hanno presentato domanda di ammissione al concordato preventivo in quanto, ai fini della configurabilità del reato di omesso versamento di IVA di cui all’art. 10 – ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non assume rilevanza, né sul piano dell’elemento soggettivo, né su quello della esigibilità della condotta, la mera presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, la quale non impedisce il pagamento dei debiti tributari che vengano a scadere successivamente alla sua presentazione, ma prima dell’adozione di provvedimenti da parte del tribunale.
2020
Il 20 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 6626 secondo cui in sede precautelare di convalida dell’arresto o del fermo, per la sussistenza della causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere o dell’esercizio di una facoltà legittima o della causa di non punibilità non si richiede che questa “appaia evidente”, ma che essa sia “verosimilmente esistente” sulla scorta delle circostanze di fatto conosciute o conoscibili con l’ordinaria diligenza, tenuto conto del rango costituzionale dei beni in gioco.
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Il 5 giugno esce la sentenza della V sezione penale della Cassazione n. 17243 che dichiara la non configurabilità di responsabilità penale per diffamazione in capo all’autore di una lettera contenente parole offensive nei confronti dei vertici di un ospedale in quanto, pur essendo offensive le parole utilizzate, si deve ritenere accertata l’esimente del diritto di critica (sussitendo, nel caso di specie, i relativi tre presupposti della verità dei fatti esposti, dell’utilità sociale della comunicazione e della continenza).
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Il 26 giugno esce l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 132 che, tenuto conto dei vari progetti di legge in materia di revisione della disciplina della diffamazione a mezzo della stampa in corso di esame avanti alle Camere, rinvia a una successiva udienza la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate e relative al bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, in particolare con riferimento all’attività giornalistica. Nell’ordinanza la Corte ricorda che la libertà di manifestazione del pensiero costituisce – prima ancora che un diritto proclamato dalla CEDU – un diritto fondamentale riconosciuto come «coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione, pietra angolare dell’ordine democratico, cardine di democrazia nell’ordinamento generale.
Nell’ambito di questo diritto, la libertà di stampa assume un’importanza peculiare, in ragione del suo ruolo essenziale nel funzionamento del sistema democratico, nel quale al diritto del giornalista di informare corrisponde un correlativo “diritto all’informazione” dei cittadini: un diritto quest’ultimo qualificato in riferimento ai princìpi fondanti della forma di Stato delineata dalla Costituzione, i quali esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale e caratterizzato dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie, in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti. L’attività giornalistica, pertanto, merita di essere salvaguardata contro ogni minaccia o coartazione, diretta o indiretta che possa indebolire la sua vitale funzione nel sistema democratico, ponendo indebiti ostacoli al legittimo svolgimento del suo ruolo di informare i consociati e di contribuire alla formazione degli orientamenti della pubblica opinione, anche attraverso la critica aspra e polemica delle condotte di chi detenga posizioni di potere. Per altro verso, il legittimo esercizio, da parte della stampa e degli altri media, della libertà di informare e di contribuire alla formazione della pubblica opinione richiede di essere bilanciato con altri interessi e diritti, parimenti di rango costituzionale, che ne segnano i possibili limiti, tanto nell’ottica costituzionale quanto in quella convenzionale. Fra tali limiti si colloca, in posizione eminente, la reputazione della persona, che costituisce al tempo stesso un diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost. e una componente essenziale del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, che lo Stato ha il preciso obbligo di tutelare anche nei rapporti interprivati, oltre che un diritto espressamente riconosciuto dall’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. Un diritto, altresì, connesso a doppio filo con la stessa dignità della persona e suscettibile di essere leso dalla diffusione di addebiti non veritieri o di rilievo esclusivamente privato.
Secondo la Suprema Corte, il punto di equilibrio tra la libertà di “informare” e di “formare” la pubblica opinione svolto dalla stampa e dai media, da un lato, e la tutela della reputazione individuale, dall’altro, non può però essere pensato come fisso e immutabile, essendo soggetto a necessari assestamenti, tanto più alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni.
Il bilanciamento sotteso alle norme del codice penale e in quelle della vigente legge sulla stampa si impernia sulla previsione, in via rispettivamente alternativa e cumulativa, di pene detentive e pecuniarie laddove il giornalista offenda la reputazione altrui, travalicando i limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca o di critica di cui all’art. 21 Cost.; limiti a loro volta ricostruiti dalla giurisprudenza civile e penale sulla base dei criteri tradizionali dell’interesse pubblico alla conoscenza della notizia, della verità di essa (ovvero, nel caso di erroneo convincimento del giornalista relativa alla verità della notizia, nell’assenza di colpa nel controllo delle fonti) e della cosiddetta continenza formale.
Un simile bilanciamento per la Corte è divenuto ormai inadeguato, anche alla luce della copiosa giurisprudenza della Corte EDU che, al di fuori di ipotesi eccezionali considera sproporzionata l’applicazione di pene detentive, ancorché sospese o in concreto non eseguite, nei confronti di giornalisti che abbiano pur illegittimamente offeso la reputazione altrui. E ciò in funzione dell’esigenza di non dissuadere, per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale, la generalità dei giornalisti dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri. Ciò esige una rimodulazione del bilanciamento sotteso alla disciplina in questa sede censurata, in modo da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica con le altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti; vittime che sono oggi esposte a rischi ancora maggiori che nel passato. E’ possibile pensare, in proposito, agli effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet, il cui carattere lesivo per la vittima – in termini di sofferenza psicologica e di concreti pregiudizi alla propria vita privata, familiare, sociale, professionale, politica – e per tutte le persone a essa affettivamente legate risulta grandemente potenziato rispetto a quanto accadeva anche solo in un recente passato.
Sul punto, la Suprema Corte afferma che un simile, delicato bilanciamento spetta in primo luogo al legislatore, sul quale incombe la responsabilità di individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica; e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime – e talvolta maliziose – aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività. Il legislatore, d’altronde, è meglio in grado di disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come, in primis, l’obbligo di rettifica), ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico. Il legislatore potrà eventualmente sanzionare con la pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio.
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Il 9 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 31263 secondo cui ai fini del riconoscimento dell’esimente del diritto di critica, e specificamente di critica politica all’interno di pubblicazioni a mezzo stampa, non può prescindersi dal requisito della verità del fatto storico posto a fondamento della elaborazione critica; sicché l’esimente non è applicabile qualora l’agente manipoli le notizie o le rappresenti in modo incompleto, in maniera tale che, per quanto il risultato complessivo contenga un nucleo di verità, ne risulti stravolto il fatto, inteso come accadimento di vita puntualmente determinato, riferito a soggetti specificamente individuati.
Ed ancora più precisamente, si è affermato che l’esimente del diritto di critica è configurabile quando il discorso giornalistico abbia un contenuto prevalentemente valutativo e si sviluppi nell’alveo di una polemica intensa e dichiarata su temi di rilevanza sociale, senza trascendere in attacchi personali, finalizzati all’unico scopo di aggredire la sfera morale altrui, non richiedendosi neppure – a differenza di quanto si verifica con riguardo al diritto di cronaca – che la critica sia formulata con riferimento a precisi dati fattuali, sempre che il nucleo ed il profilo essenziale dei fatti non siano strumentalmente travisati e manipolati.
L’estensione del diritto di critica politica può superare anche la necessità del riferimento a specifici fatti storici, ma non può mai prescindere dalla necessità di evitare qualsiasi travisamento o manipolazione di essi che ne determini una distorsione inaccettabile rispetto all’intento informativo dell’opinione pubblica che è alla base del riconoscimento dell’esimente, poiché quest’ultima radica le proprie basi ispiratrici nel consolidato principio che in democrazia a maggiori poteri corrispondono maggiori responsabilità e l’assoggettamento al controllo da parte dei cittadini, esercitabile anche attraverso il diritto di critica.
Semprechè tale critica abbia un fondamento di verità. L’esigenza del controllo democratico vale senza dubbio a sostenere la particolare apertura dell’ordinamento rispetto alla censura da parte della stampa dell’operato di esponenti politici e pubblici amministratori.
Anche la giurisprudenza europea, peraltro, ha sottolineato più volte l’ampiezza peculiare del diritto di critica giornalistica, insistendo sul ruolo che la stampa esercita nelle società moderne e libere di “cane da guardia” per conto dell’opinione pubblica, attuando un controllo diffuso sull’agire di coloro i quali hanno cariche o incarichi pubblici e fornendo in tal modo un contributo fondamentale alla crescita del dibattito collettivo su temi di interesse generale, ancor più se politici (cfr. le pronunce della Corte EDU Busuioc c. Moldavia del 21 dicembre 2004; Mamère c. Francia del 7 novembre 2006; Mariapori c. Finlandia del 6 luglio 2010 e, da ultimo, per un quadro di sintesi, Magosso e Brindani c. Italia del 16 gennaio 2020).
L’obiettivo ultimo che la verifica dei reciproci confini tra l’intervento penale dello Stato a tutela del singolo individuo e della sua reputazione ed il diritto ad essere informati e ad informare deve porsi è quello di evitare che si dia luogo, mediante l’intervento penale, ad un effetto dissuasivo per i giornalisti nell’esercizio della propria libertà di espressione, con un’ingerenza da parte dello Stato sproporzionata e non necessaria in una società democratica, determinando, pertanto, una violazione dell’art. 10 della CEDU, che tutela il diritto alla libertà di espressione nei riguardi di ogni persona, includendo in tale diritto anzitutto la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee.
Concludendo, afferma la Corte che non è configurabile l’esimente del diritto di critica politica quando l’autore delle dichiarazioni attribuisca a taluno il sospetto di mafiosità senza alcun appiglio oggettivo, attuando un travisamento o una manipolazione dei fatti storici che ne determina una distorsione inaccettabile rispetto all’intento informativo dell’opinione pubblica che è alla base del riconoscimento dell’esimente, la quale radica le proprie basi ispiratrici nel consolidato principio che in democrazia a maggiori poteri corrispondono maggiori responsabilità e l’assoggettamento al controllo da parte dei cittadini, esercitabile anche attraverso il diritto di critica, purchè tale critica essa non sia avulsa da un necessario nucleo di verità e non trascenda in attacchi personali, finalizzati ad aggredire la sfera morale altrui.
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Il 7 dicembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 34831 che richiama il consolidato orientamento secondo cui in tema di diffamazione realizzata mediante esposti indirizzati ad organi di disciplina o, in genere, mediante osservazioni finalizzate all’esercizio di poteri di controllo e verifica, integra il reato – sotto il profilo materiale – la condotta di colui che invii comunicazioni gratuitamente denigratorie, considerato che la destinazione alla divulgazione può trovare il suo fondamento, oltre che nella esplicita volontà del mittente-autore, anche nella natura stessa della comunicazione, in quanto propulsiva di un determinato procedimento (giudiziario, amministrativo, disciplinare) che deve essere portato a conoscenza di altre persone, diverse dall’immediato destinatario, sempre che l’autore della missiva prevedesse o volesse la circostanza che il contenuto relativo sarebbe stato reso noto a terzi.
La destinazione funzionale dell’esposto all’attivazione dei poteri di accertamento e disciplinari dell’organismo destinatario impone la necessaria valutazione della possibile sussistenza della causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen. o della causa di non punibilità ex art. 598 cod. pen., rilevabili “ex officio” anche in sede di legittimità, ricorrendo l’esimente del diritto di critica quando i fatti esposti siano veri o quanto meno l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente, ancorché erroneamente, convinto della loro veridicità.
Nella delineata prospettiva, non integra il delitto di diffamazione la condotta di chi invii una segnalazione, ancorché contenente espressioni offensive, alle competenti autorità, volta ad ottenere un intervento per rimediare ad un’illegittimità amministrativa, mediante attivazione dei poteri di autotutela, considerato che, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen., “sub specie” di esercizio del diritto di critica, anche in forma putativa, laddove l’agente abbia esercitato il diritto di critica ed assolto l’onere di deduzione di fatti nella convinzione, anche erronea, del rilievo dei medesimi ai fini richiesti.
In tal senso, il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purchè tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all’opinione o alla prospettazione di una violazione, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi.
In particolare, nella valutazione del requisito della continenza, necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti, ma siano, invece, comunque pertinenti al tema in discussione ed alla sede dell’esternazione, che tollera limiti più ampi alla tutela della reputazione.
Al fine della sussistenza del requisito della verità dei fatti oggetto di rappresentazione, l’esimente richiede un valutazione ex ante ed in concreto della dimensione soggettiva del dichiarante, non potendosi risolvere la antigiuridicità della condotta diffamatoria nella eventuale infondatezza della prospettazione – e, a maggior ragione, quando questa risulti fondata – in tal modo sovrapponendosi alla delibazione della soggettiva prospettazione il successivo esito del procedimento amministrativo.
Sotto il profilo della pertinenza espressiva, è orami consolidato il principio secondo cui il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta – e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione – e non può ritenersi superato per il solo fatto dell’utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio critico negativo di cui deve tenersi conto anche alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato, rispetto al quale assume rilevanza il profilo soggettivo del dichiarante e la sua capacità espressiva in riferimento al livello culturale e sociale.
Nella delineata prospettiva, le espressioni utilizzate non possono essere riguardate nell’astratto tenore testuale e semantico, ma debbono essere valutate nella loro concreta articolazione e nella complessiva portata significativa, non esorbitando dai limiti della critica consentiti quando le stesse abbiano una accezione, comune per la lingua italiana, compatibile con il requisito della continenza e, soprattutto, siano funzionali alla formulazione di censure pertinenti con il tema devoluto.
2021
Il 4 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 61 onde il diritto di critica, rappresentando l’esternazione di un’opinione relativamente a una condotta, ovvero a un’affermazione altrui, si inserisce nell’ambito della libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’art. 21 della Carta costituzionale e dall’art. 10 della Convenzione EDU. Proprio in ragione della sua natura di diritto di libertà, esso può essere evocato quale scriminate, ai sensi dell’art. 51 cod. pen., rispetto al reato di diffamazione, purché venga esercitato nel rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva.
Deve allora ricordarsi, con riferimento alla veridicità dei fatti oggetto di critica, che quest’ultima, a differenza della cronaca, del resoconto, della mera denunzia, concretizzandosi nella manifestazione di un’opinione meramente soggettiva (di un giudizio valutativo), non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva e asettica. Ciò in quanto il giudizio critico è necessariamente influenzato, e non potrebbe essere altrimenti, dal filtro personale con il quale viene percepito il fatto posto a suo fondamento; esso è, per sua natura, parziale, ideologicamente orientato e teso ad evidenziare proprio quegli aspetti o quelle concezioni del soggetto criticato che si reputano deplorevoli e che si intende stigmatizzare e censurare. La critica postula, insomma, fatti che la giustifichino e cioè, normalmente, un contenuto di veridicità limitato alla oggettiva esistenza dei dati assunti a base delle opinioni e delle valutazioni espresse ma non può pretendersi che si esaurisca in essi. In altri termini, come rimarca la giurisprudenza CEDU, la libertà di esprimere giudizi critici, cioè “giudizi di valore”, trova il solo, ma invalicabile, limite nella esistenza di un “sufficiente riscontro fattuale”, ma, al fine di valutare la giustificazione di una dichiarazione contestata, è sempre necessario distinguere tra dichiarazioni di fatto e giudizi di valore, perché, se la materialità dei fatti può essere provata, l’esattezza dei secondi non sempre si presta ad essere dimostrata.
Il giudizio valutativo, a differenza del fatto presupposto, non può pretendersi né che sia “obiettivo”, né, in linea astratta, “vero” o “falso”. Diversamente opinando, si rischierebbe di sindacare la legittimità stessa del contenuto del pensiero, in palese contrasto con le garanzie costituzionali.
Deve altresì ribadirsi che la nozione di “critica” rimanda non solo all’area dei rilievi problematici, ma, anche e soprattutto, a quella della disputa e della contrapposizione, oltre che della disapprovazione e del biasimo anche con toni aspri e taglienti, non essendovi limiti astrattamente concepibili all’oggetto della libera manifestazione del pensiero, se non quelli specificamente indicati dal legislatore. Limiti che sono rinvenibili, secondo le linee ermeneutiche tracciate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, nella difesa dei diritti inviolabili, quale è quello previsto dall’art. 2gost., onde non è consentito attribuire ad altri fatti non veri, venendo a mancare, in tale evenienza, la finalizzazione critica dell’espressione, né trasmodare nella invettiva gratuita, salvo che la offesa sia necessaria e funzionale alla costruzione del giudizio critico.
Il requisito della continenza concerne un aspetto sostanziale e un profilo formale. La continenza sostanziale, o “materiale”, attiene alla natura e alla latitudine dei fatti riferiti e delle opinioni espresse, in relazione all’interesse pubblico alla comunicazione o al diritto-dovere di denunzia: essa si riferisce, dunque, alla quantità e alla selezione dell’informazione in funzione del tipo di resoconto e dell’utilità/bisogno sociale di esso. La continenza formale attiene, invece, al modo con cui il racconto sul fatto è reso o il giudizio critico esternato, e cioè alla qualità della manifestazione: essa postula, quindi, una forma espositiva proporzionata, “corretta” in quanto non ingiustificatamente sovrabbondante al fine del concetto da esprimere. Questo significa che le modalità espressive attraverso le quali si estrinseca il diritto alla libera manifestazione del pensiero, con la parola o qualunque altro mezzo di diffusione, di rilevanza e tutela costituzionali (ex art. 21 Cost.), postulano una forma espositiva corretta della critica – e cioè astrattamente funzionale alla finalità di disapprovazione – e che non trasmodino nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione. Tuttavia, essa non è incompatibile con l’uso di termini che, pure oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, per non esservi adeguati equivalenti.
In realtà, secondo il consolidato canone ermeneutico, al fine di valutare il rispetto del canone della continenza, occorre contestualizzare le espressioni intrinsecamente ingiuriose, ossia valutarle in relazione al contesto spazio – temporale e dialettico nel quale sono state profferite, e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur forti e sferzanti, non risultino meramente gratuiti, ma siano invece pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere; sono, in definitiva, gli interessi in gioco che segnano la “misura” delle espressioni consentite.
Compito del giudice è, dunque, di verificare se il negativo giudizio di valore espresso possa essere, in qualche modo, giustificabile nell’ambito di un contesto critico e funzionale all’argomentazione, così da escludere la invettiva personale volta ad aggredire personalmente il destinatario, con espressioni inutilmente umilianti e gravemente infamanti.
Ciò che determina l’abuso del diritto, infatti, è la gratuità delle modalità del suo esercizio, non inerenti al tema apparentemente in discussione, che risultano finalizzate a ledere esclusivamente la reputazione del soggetto interessato, postulando il requisito della continenza una forma espositiva corretta della critica rivolta – e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione – e non può ritenersi superato per il solo fatto dell’utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio critico negativo di cui deve tenersi conto anche alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato.
Questioni intriganti
Quali sono le fonti del “diritto” scriminante?
- la Costituzione: laddove un fatto sia ad un tempo previsto come esercizio di un diritto costituzionale e come inadempimento reato, la norma che prevede quest’ultimo va assunta incostituzionale, salvo che un peculiare ed ulteriore ambito di applicazione di tale norma incriminatrice non appaia irriconducibile all’esercizio del diritto siccome costituzionalmente garantito; in sostanza, se trattasi di diritto costituzionale incondizionato, la fattispecie di reato è da assumersi incostituzionale, mentre se talune epifanie di relativo esercizio devono assumersi non ammesse nel sistema o comunque lesive di diritti (interessi) con pari dignità costituzionale, deve assumersi residuare una sfera di operatività della fattispecie penale;
- le norme concordatarie richiamate dall’7 Cost. e quelle scaturigine di intese ex art.8 Cost., in tema di libertà religiosa;
- le norme dell’Unione europea;
- la legge, penale ed extrapenale;
- la legge regionale;
- il regolamento;
- la consuetudine;
- i contratti e negozi giuridici, laddove siano fonti di situazioni giuridiche soggettive attive;
- gli atti e provvedimenti amministrativi, laddove siano fonti di situazioni giuridiche soggettive attive;
- gli atti e provvedimenti giurisdizionali, laddove siano fonti di situazioni giuridiche soggettive attive;
Cosa si intende per “diritto” scriminante?
- il diritto soggettivo;
- il diritto potestativo;
- le facoltà in genere;
- le potestà in genere;
- per parte della dottrina, anche gli interessi legittimi.
Cosa occorre ricordare dell’esercizio del diritto come scriminante da un punto di vista generale?
- è espressione del principio c.d. di non contraddizione, da assumersi immanente nel sistema giuridico generalmente inteso;
- il soggetto attivo ha realizzato una condotta (fatto concreto) che, da un punto di vista astratto, può essere sussunta in una fattispecie criminosa;
- ad un tempo, tale soggetto attivo si è tuttavia anche reso dinamico attore di una facoltà che l’ordinamento gli attribuisce, esercitandola;
- affiora dunque una norma, l’art.51p., che si atteggia a norma penale in bianco;
- altri settori del sistema giuridico forgiano infatti poteri e facoltà che l’art.51 importa nel sistema penale, facendoli interagire con le fattispecie criminose;
- la conseguenza può essere di volta in volta la prevalenza del “diritto” scriminante sull’inadempimento reato, ovvero la prevalenza di quest’ultimo sul primo;
- per risolvere l’apparente conflitto si fa in dottrina riferimento a più criteri: g.1) il criterio gerarchico (rigido); g.2) il criterio cronologico (rigido); g.3) il criterio di specialità (tendenzialmente rigido); g.4) il criterio del bilanciamento degli interessi in conflitto (elastico), giusta interpretazione teleologica da un lato della norma che facoltizza e dall’altro di quella che punisce: quest’ultimo è il criterio più utilizzato dalla giurisprudenza, garantendo soluzioni diverse caso per caso sulla base della ratio di ogni singola norma, punitiva o facoltizzante, coinvolta nell’interazione;
- per quanto concerne i limiti entro i quali l’esercizio del diritto scrimina, occorre poi distinguere il diritto soggettivo dalle facoltà che vi ineriscono, giacché il primo (diritto soggettivo) consente al relativo portatore di esercitare tutta una serie di poteri, le facoltà appunto, che sono strumentali al soddisfacimento dell’interesse ad esso sotteso, dovendo tuttavia tali poteri e facoltà essere posti in azione con le modalità ed i limiti previsti per essi dalla legge o dalla stessa natura del diritto attivato;
- perché il diritto scrimini occorre allora che il relativo portatore eserciti le facoltà ed i poteri ad esso inerenti con le modalità ed entro i limiti previsti dalla legge tanto in modo esplicito quanto implicito (in quest’ultimo caso trattandosi di limiti ricavabili appunto dalla natura e dal fondamento stesso del diritto considerato), non potendosi in caso diverso invocare l’efficacia scriminante dell’art.51 c.p.;
- esiste un limite interno proprio ad ogni diritto soggettivo, che non può essere fatto valere con violenza su cose o persone, come si evince dagli articoli 392 e 393 c.p. laddove puniscono la d. ragion fattasi;
- una considerazione a parte va fatta – sempre in termini di limiti interni al diritto che si esercita – per il fine in vista del quale il titolare del diritto esercita le facoltà ad esso connaturate (o comunque riconosciute dalla legge), registrandosi in proposito 3 opposte visioni interpretative: k.1) una visione più radicale alla cui stregua ogni “sviamento di potere” da parte del portatore del diritto, il quale eserciti facoltà o poteri inerenti al diritto stesso per finalità diverse dal soddisfacimento dell’interesse sotteso al diritto, non può invocare la scriminante dell’art.51 c.p.; k2) una visione che, muovendo dall’art.833 c.c. in tema di atti emulativi, assume come solo uno specifico sviamento di potere, quello coincidente con l’unico scopo di arrecare molestia ad altri, sia idonea ad escludere l’operatività dell’art.51p., in ogni altro caso dovendosi assumere comunque legittimo l’esercizio delle facoltà e dei poteri inerenti al diritto esercitato, anche se prefiggendosi scopi diversi rispetto a quello di soddisfarne l’interesse sotteso; k3) una visione mediana che – massime allorché si tratti di diritti configurati da normative generali e di principio – muove dalla necessità di verificare caso per caso se la normativa che “disegna” il singolo diritto il cui esercizio sia potenzialmente scriminante richieda o meno la presenza di un determinato coefficiente psichico (di orientamento al fine specifico) in capo al soggetto titolare, allorché questi attivi i poteri e le facoltà in qualche modo consustanziali al diritto esercitato;
- per quanto concerne invece i limiti “esterni” all’esercizio scriminante del diritto, essi si rintracciano non già esaminando la norma che attribuisce il diritto stesso (configurando ad un tempo i poteri e le facoltà che vi ineriscono) quanto piuttosto scandagliando norme diverse che prevedono “altri” diritti in capo a soggetti diversi dal soggetto agente;
- se le 2 categorie di diritti sono previste da fonti diverse non equiordinate, prevale il diritto la cui fonte è sovraordinata su quello configurato da fonte sottoordinata; se invece le fonti sono equiordinate, si procede al c.d. bilanciamento degli interessi al fine di verificare se il diritto concultato debba o non debba prevalere su quello esercitato, nel primo caso (prrevale il diritto conculcato) denegando efficacia scriminante e nel secondo (prevale il diritto esercitato dal soggetto agente) affermandola;
- un caso particolarmente rilevante è quello dei diritti previsti dalla Costituzione, e segnatamente del diritto di sciopero (art.40) e di quello di manifestazione del pensiero (art.21), che recano propri limiti interni, ad essi consustanziali, e specifici limiti esterni sovente compendiantisi in diritti del pari previsti dalla Costituzione, con conseguente necessità di procedere al bilanciamento degli interessi al fine di verificare se l’esercizio di tali diritti abbia o meno efficacia scriminante ex art.51 c.p.
Che problemi pone in particolare l’esercizio del diritto di sciopero ex art.40 Cost.?
- lo sciopero costituisce un diritto costituzionalmente garantito, nell’ambito delle leggi che lo regolano, ex 40 Cost.;
- una fattispecie che punisca lo sciopero configura dunque una contraddizione, sottoponendo a sanzione penale l’esercizio di un diritto – per giunta, di rilievo costituzionale – che, all’opposto, scrimina ex art.51p.;
- lo sciopero è un diritto il cui esercizio è tuttavia soggetto a limiti interni (concernenti l’ambito nel cui contesto esso opera) e limiti esterni (concernenti i soggetti terzi estranei a quell’ambito);
- la portata scriminante riguarda certamente l’esercizio del diritto di sciopero in senso stretto, mentre dubbi si pongono per le c.d. “azioni sussidiarie”, quali attività realizzate in occasione dello sciopero e finalizzate ad agevolare la riuscita dell’agitazione; a meno che non si tratti di lecite attività di propaganda o di persuasione, come ad esempio la diffusione di volantini, quando tali attività trasmodino in compressione dei diritti dei lavoratori che dissentono dall’agitazione medesima, come nell’ipotesi del c.d. picchettaggio (viene sbarrata la strada a chi vuole accedere al lavoro, costringendolo a scioperare), ovvero dei diritti dei terzi (come nel caso classico dei blocchi stradali), si pone il problema di individuarne il limite oltre il quale l’efficacia scriminante dell’art.40 Cost. scema, per far nuovamente ampliare le fattispecie di reato;
- occorre poi distinguere tra scioperi proclamati nel settore privato e scioperi coinvolgenti servizi pubblici, dovendosi qui ulteriormente distinguere tra servizi pubblici “essenziali” (di cui alla legge 146.90, con previsione di sanzioni amministrative in luogo di quelle penali) e servizi pubblici “non essenziali”, il cui regime è sostanzialmente equiparato a quello del settore privato.
Che problemi pone in particolare l’esercizio del diritto di manifestazione del pensiero ex art.21 Cost.?
- si tratta di un diritto che presenta un profilo individualistico, onde ciascuno può appunto palesare quello che pensa, ed uno “funzionalistico” e di ascendenza collettiva, finalizzato a garantire la partecipazione del relativo portatore alla vita democratica della comunità alla quale appartiene; da entrambi i profili affiorano i limiti interni di tale diritto, che va esercitato conformemente allo scopo, rispettivo, per il quale viene attribuito dal legislatore costituzionale al relativo portatore;
- tale diritto presenta tuttavia anche dei limiti esterni, tanto espliciti (come nel caso della necessità di non offendere il buon costume e i diritti dei terzi a tale canone connessi: art.21 Cost. in tema di pubblicazioni “contrarie al buon costume”) quanto ricavati in via interpretativa dalla giurisprudenza, massime valorizzando il principio della pari dignità sociale di tutti e di ciascuno, cristallizzato all’art.3, comma 1, della Costituzione;
- proprio la pari dignità sociale impone a chi manifesta il proprio pensiero di non aggredire in modo ingiustificato altri cittadini in modo da vulnerarne le chance di estrinsecazione della propria personalità, con compromissione della pertinente reputazione, come accade quando, attraverso la libertà di stampa (ed il diritto di libera manifestazione del pensiero ad esso consustanziale) si aggredisce il bene dell’onore che ha pari rango costituzionale anche giusta valorizzazione dell’art.3 Cost. e, per l’appunto, del canone della pari dignità sociale in esso iscritto;
- proprio per questo motivo l’ingiuria e la diffamazione, previsti agli articoli 594 e 595p., non possono essere assunti incostituzionali (per contrasto con l’art.21 della Carta), la libertà di manifestazione del pensiero non potendo tradursi in una indiscriminata aggressione del diritto degli altri cittadini a preservare il proprio onore e la propria reputazione, stante la “pari dignità sociale” di tutti e di ciascuno;
- per quanto concerne il diritto di manifestazione del pensiero laddove atteggiantesi a diritto di cronaca (e, dunque, di informare), la giurisprudenza richiede ad effetti scriminanti che il fatto narrato sia vero, sia espresso in modo “contenuto” (c.d. continenza) e che sia “pertinente”;
- la continenza in specie si compendia in una esposizione del fatto narrato corretta e tale da evitare gratuite aggressioni dell’altrui reputazione; si tratta di verificare la portata diffamatoria delle dichiarazioni rese, dovendosi in particolare esaminare approfonditamente l’intero contenuto dell’articolo giornalistico tanto sul crinale letterale quanto su quello delle modalità complessive con le quali la notizia viene diffusa, con possibilità che assuma un significato decisivo anche l’esame dello stesso titolo dato all’articolo;
- per quanto concerne la pertinenza, essa impone che il fatto narrato sia di interesse per l’opinione pubblica che ne riceve la narrazione, e che detta narrazione abbia dunque una utilità sociale, il che non significa che il giudice debba accertare l’interesse dell’intera collettività nazionale a conoscere il fatto, dovendosi tenere conto che anche questioni determinate e specifiche, per la relativa complessità, per il tecnicismo che le connota o per qualsivoglia altra ragione possono suscitare l’interesse di determinate categorie sociali ovvero comunque di un numero limitato di persone; ciò ne implica la possibilità di divulgazione con effetto scriminante, potendo il fatto narrato far scaturire scelte individuali e opzioni di partecipazione di chi riceve la notizia ad attività presidiate dalla Costituzione; non sono, sotto altro profilo, in genere “pertinenti” e dunque coinvolgenti un interesse sociale le attività di divulgazione di notizie che attengono alla vita privata di un soggetto con lesione della relativa reputazione, dovendo in tal caso bilanciarsi il diritto di cronaca con il diritto alla privacy del soggetto cui la notizia si riferisce, siccome presidiato dall’8 della CEDU, dagli articoli 14 e 15 della Costituzione (in tema di tutela del domicilio e della segretezza delle comunicazioni) e dagli stessi articoli 2 e 3 della Carta in tema di solidarietà e pari dignità sociale; possono tuttavia diventare pertinenti anche fatti concernenti la vita privata di un soggetto quando questi sia esposto perché noto o comunque perché esercita funzioni di rilievo nella vita pubblica, con conseguente legittimo interesse pubblico a conoscere i relativi comportamenti nella vita privata ed i modi con cui egli esercita i propri diritti soggettivi e le stesse libertà fondamentali;
- una cronaca particolare è quella giudiziaria, laddove il fatto narrato è una dichiarazione resa in sede giudiziaria, che dunque il giornalista riporta al pubblico dandone notizia; la notizia in questi casi è dunque un atto giudiziario, massime laddove esso contenga una dichiarazione; in questi casi il giornalista ha solo l’obbligo di accertare che la dichiarazione giudiziaria (l’atto giudiziario) sia stata effettivamente resa ed in quale contesto (processuale) lo è stata, senza essere contestualmente tenuto ad indagare sull’attendibilità del dichiarante (che potrebbe essere un pentito, l’imputato, un coimputato e così via) e più in genere sulla verità nel merito delle dichiarazioni rese;
- diverso dal diritto di cronaca, ed autonomo rispetto ad esso, è il diritto di critica e diversi – a valle di un percorso precipuo della giurisprudenza sul punto – ne sono i limiti; il diritto di critica si risolve infatti non nel racconto di un fatto (diritto di cronaca), ma in un giudizio critico sul fatto stesso, compendiandosi in particolare nella libertà di dissentire da quel “particolare fatto” che sono le opinioni espresse o i comportamenti palesati da altri, facendoli oggetto per l’appunto di un giudizio di disapprovazione e dunque critico; ne risulta compresso il limite della verità, non dovendosi narrare un fatto obiettivo in sé considerato, ma dovendosi piuttosto valutare in senso critico il ridetto fatto (i cui contorni essenziali devono tuttavia rimanere “veri”, non potendo essere manipolati o travisati proprio allo scopo di criticare);
- ancora diverso è il diritto di satira, caratterizzato dalla ontologica inverosimiglianza delle situazioni presentate, in un prisma paradossale privo di carattere informativo e destinato esclusivamente a suscitare ilarità nel pubblico, con conseguente deciso scemare dei limiti tanto della verità quanto della continenza, seppure senza perdere di vista l’imprescindibile rispetto dei valori fondamentali della persona umana, la cui immagine (quand’anche pubblica) non può essere gratuitamente esposta al disprezzo e al ludibrio;
- quando un giornalista riporta una intervista di un personaggio pubblico con dichiarazioni a carattere diffamatorio rispetto ai terzi, si pone la questione di capire – rispetto all’eventuale scriminante a beneficio del giornalista – se il limite della verità debba essere riferito alla intervista di per sé considerata (è vero che è stata rilasciata ed è vero che presenta quelle dichiarazioni di quel personaggio) ovvero al contenuto di merito delle dichiarazioni rese dall’intervistato (è vero quanto ha dichiarato l’intervistato); trattasi di fattispecie in cui sono coinvolti il diritto alla reputazione della persona offesa, il diritto di critica dell’intervistato ed il diritto di cronaca del giornalista intervistante, stante il pubblico interesse all’opinione delle persone intervistate – sovente personaggi con cariche politiche, istituzionali o comunque con ruoli socialmente rilevanti – nel contesto di un dibattito pubblico al cui interno va favorita la formazione di un proprio convincimento in ciascun membro della società civile anche al fine di agevolarne la partecipazione democratica;
Quali problematiche affiorano quando il “diritto” scriminante trova la propria fonte in un ordinamento straniero?
- il fatto è punito dalla legge italiana, ma viene commesso all’estero (7 c.p.) in uno Stato che considera la medesima condotta come esercizio di un diritto: la scriminante opera con certezza, essendo necessario riconoscere come imperative le norme dello Stato sul cui territorio è stato commesso un fatto oggetto di una facoltà, che per l’Italia sarebbe reato;
- il fatto è punito dalla legge italiana e viene commesso in Italia da uno straniero il cui Stato considera la medesima condotta come esercizio di un diritto: la questione è più complessa, va ricondotta al c.d. multiculturalismo ed è accentuata dall’acuirsi dei flussi migratori in ingresso in Europa in generale e in Italia in particolare; si parla in proposito di “cultural defense”, di reati culturali ovvero di reati culturalmente orientati (o motivati), con riferimento per l’appunto a fatti penalmente rilevanti secondo la legge italiana, commessi in Italia da stranieri nei cui Paesi i medesimi fatti sono non solo approvati, ma talvolta financo imposti quale esercizio di precipui diritti, poteri e facoltà del soggetto agente. La questione si è posta in passato anche in senso opposto: italiani che commettono all’estero fatti che in Italia costituiscono esercizio di poteri o facoltà e che, nel territorio dove sono commessi, compendiano invece inadempimento reato, come nel noto (e risalente) caso Giuseppe, laddove un immigrato italiano (siciliano) negli USA (Illinois), in coerenza con una concezione “mediterranea” dei rapporti intra-familiari, si atteggiò in modo violento ed aggressivo nei confronti dei due figli minori e della moglie anch’essa italiana, venendo conseguentemente imputato per maltrattamenti ed abusi sessuali, ed invocando quale scriminante proprio l’esercizio del diritto siccome (allora) riconosciutogli in Italia. Le fattispecie più note sono reati contro la persona compendianti mutilazioni o deformazioni (specie genitali) a carattere rituale; reati con finalità di vendetta dell’onore maschile o dell’onore familiare conformemente a tradizioni di tipo atavico; reati a danno di minori che, nello Stato o nella comunità culturale di riferimento, non sono considerati tali, specie in materia sessuale e di lavoro; reati basati su un autorità maritale o genitoriale, ovvero su uno ius corrigendi, che non corrispondono alla cultura europea ed italiana, come nel caso dei matrimoni incestuosi o poligamici, ovvero dei matrimoni combinati o imposti, ovvero ancora dei maltrattamenti in famiglia.
Cosa occorre ricordare, più in specie, dei reati c.d. culturalmente orientati (o motivati) ?
- si parla nelle tradizioni di common law (massime nel Nord America) di “cultural defense”, ed in quelle di civil law di reato culturalmente orientato o motivato;
- la nozione di “cultura” va intesa in senso etnicamente qualificato, e dunque riferentesi in specie all’etnia della quale la cultura considerata è espressione;
- la dottrina intende la “cultura”, nella ridetta accezione, come concetto che designa una comunità intergenerazionale, dotata di un certa compiutezza dal punto di vista istituzionale, che occupa un determinato territorio e condivide una lingua e una storia comune ben identificabili;
- sinonimi di “cultura” nella ridetta accezione finiscono allora con l’essere “popolo” e “nazione”;
- più culture possono essere presenti in uno Stato, che si definisce “multiculturale” quando i relativi membri, pur appartenenti al medesimo Stato, appartengono tuttavia nel medesimo tempo a diverse Nazioni, e dunque a diverse etnie, fatto importante in capo al singolo quanto a pertinente identità personale e approccio politico;
- in uno Stato multiculturale, possono essere dunque presenti diversi gruppi etnici, massime a valle di fenomeni migratori, con possibilità di reati che sono tali per lo Stato di riferimento, ma che sono “culturalmente motivati” con riguardo alla singola etnia di chi li commette;
- un fenomeno che si riscontra sia negli Stati multietnici, per come appena riassunti, sia in quelli “multinazionali”, laddove il pluralismo culturale (che accomuna entrambe le categorie) non deriva dall’immigrazione – fattispecie per l’appunto “multietnica”, in costanza della quale ciascun immigrato normalmente è privo di interesse al mantenimento di una identità collettiva rispetto agli altri componenti della medesima etnia – quanto piuttosto dall’assorbimento in uno Stato più grande di plurime culture autoctone che in precedenza si sono autogovernate e che – configurando delle minoranze – sovente spingono per ottenere una maggiore autonomia politica rispetto alla cultura maggioritaria che le ha assorbite (come nel caso della Svizzera o del Belgio, in quest’ultimo giustapponendosi una comunità fiamminga ad una vallona) e che anche per questo – oltre che per l’”assorbimento” in parola – fanno registrare un maggior grado di tolleranza da parte dello Stato e della cultura dominante che esso esprime; lo Stato multiculturale “multinazionale” (e non multietnico) è la risultante di fenomeni quali la colonizzazione, la (più brutale) conquista ovvero la federazione o confederazione;
- la multiculturalità implica un conflitto c.d. atipico o improprio tra norme che sono diverse tra loro, e segnatamente da un lato la norma “culturale” dell’etnia di appartenenza di chi commette il fatto (alla cui stregua egli può e, talvolta, financo deve commetterlo), e la norma penale dello Stato che assume tale fatto come inadempimento-reato, e dunque lo vieta recisamente;
- tale conflitto può essere risolto: i.1) in modo tranciante non attribuendo alcun rilievo alla diversità culturale di chi commette il fatto, da assumersi in ogni caso reato; i.2) a livello soggettivo, escludendo in capo al soggetto agente il dolo; i.3) a livello oggettivo e strutturale, assumendo il fatto commesso non antigiuridico perché coperto dalla scriminante dell’esercizio del diritto ex art.51p. ovvero del consenso dell’avente diritto ex art.50 c.p.; i.4) a livello di commisurazione “personalizzata” della pena ex art.133 c.p..
- l’utilizzo sapiente dell’133 c.p. in tema di commisurazione in concreto della pena e di connessa personalizzazione della sanzione compendia l’opzione ermeneutica maggiormente accreditata in giurisprudenza, sulla scorta della gerarchia dei valori espressi dalla Costituzione che non può essere sovvertita dalla “cultura” (etnicamente intesa) di chi commette reati offendendo interessi giuridicamente rilevanti proprio perché assunti tali dalla Carta costituzionale, la quale costituisce il prodotto ultimo di un lungo percorso di progressiva affermazione dei diritti inviolabili della persona (art.2 e 3 Cost.), tanto cittadina quanto straniera.