Corte di Cassazione, sez. Unite penali, sentenza 15 maggio 2024 n. 19357
PRINCIPIO DI DIRITTO
“Non sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, secondo comma, cod. pen. – abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 – e il reato di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346-bis cod, pen., come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. t) della citata legge.
Le condotte, già integranti gli estremi dell’abolito reato di cui all’art. 346, secondo comma, cod. pen., potevano, e tuttora possono, configurare gli estremi del reato di truffa (in passato astrattamente concorrente con quello di millantato credito corruttivo), purché siano formalmente contestati e accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi della relativa diversa fattispecie incriminatrice.”
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è il seguente:
“Se sussista continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, secondo comma, cod. pen. – abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), legge 9 gennaio 2019, n. 3 – e il reato di traffico di influenze illecite di cui all’art, 346-bis cod, pen., come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. t) della citata legge”.
- Nella ordinanza della Seconda Sezione penale di rimessione del ricorso sono state efficacemente esposte le contrapposte ragioni che hanno determinato il contrasto giurisprudenziale che questo Collegio è oggi chiamato a risolvere.
Il tema, in sostanza, è quello di comprendere se le modifiche introdotte nella materia de qua dalla legge n. 3 del 2019 – con la formale “cancellazione” dell’art. 346, secondo comma, cod. pen. e la contestuale rimodulazione del testo previgente dell’art. 346-bis cod. pen. – abbiano comportato un mero fenomeno di successione di leggi penali rispetto allo stesso reato, integrando gli estremi di quel “meccanismo” di successione modificativa che la dottrina e la giurisprudenza hanno definito come di abrogatio sine abolitione (con conseguente applicazione della disposizione dell’art. 2, quarto comma, cod. pen.); o se, invece, quelle modifiche abbiano determinato un fenomeno di abolitio criminis, sia pur parziale, con espunzione dall’ordinamento della illiceità penale di parte dei fatti precedentemente previsti come reato (con relativa applicazione della diversa disposizione dell’art. 2, secondo comma, cod. pen.).
2.1. La prima delle due antitetiche opzioni ermeneutiche è stata privilegiata dall’orientamento tendenzialmente maggioritario nella giurisprudenza di legittimità, secondo il quale le scelte operate dal legislatore del 2019 hanno realizzato un fenomeno di “fusione, mediante incorporazione” di due disposizioni incriminatrici, mediante la formale abrogazione della prima e la modifica del testo della seconda.
La riconosciuta continuità normativa tra le due considerate disposizioni, quella dell’abrogato art. 346, secondo comma, cod. pen., e quella del ridisegnato art. 346-bis cod, pen., si fonda essenzialmente sulle ragioni sviluppate nel percorso argomentativo di quella che può essere considerata la prima e principale decisione che ha propugnato tale soluzione, contenuta nella sentenza “Nigro” […].
Da un lato, è stata posta in evidenza la circostanza che, nella relazione introduttiva al disegno di legge governativo C-1189, poi tradottosi, al termine dell’iter parlamentare, nella legge n. 3 del 2019, i proponenti avevano espressamente chiarito come la finalità della riforma fosse stata quella di “fondere” le due disposizioni, previste rispettivamente nell’art. 346 cod. pen. e nel “vecchio” art. 346-bis cod, pen., in una “nuova” norma incriminatrice contenuta nel modificato art. 346-bis cod. pen.
Da altro lato, è stata richiamata la equipollenza semantica delle formule linguistiche utilizzate nelle due disposizioni, quella abrogata e quella modificata. A fronte dell’analoga condotta di ricezione o di promessa di denaro o altra utilità, l’espressione «vantando relazioni […] asserite» equivale a quella precedente del «millantando credito»: il risultato era stato quello di equiparare «sul piano penale la mera vanteria di una relazione o di credito con un pubblico funzionario soltanto asserita ed in effetti insussistente (dunque la relazione solo millantata) alla rappresentazione di una relazione realmente esistente con il pubblico ufficiale da piegare a vantaggio del privato»
In tal modo, si era aggiunto, la fusione di quelle due disposizioni aveva permesso di superare «le difficoltà, spesso riscontrate nella prassi giudiziaria, nel tracciare in concreto il discrimen fra il delitto di millantato credito […] e quello di traffico di influenze […], scaturenti dalla difficoltà di verificare l’esistenza – reale o solo ostentata – della possibilità di influire sul pubblico agente».
Tali conclusioni sono state riproposte, talora in maniera assertiva, da numerose successive pronunce, in molte delle quali il tema della continuità normativa tra il “nuovo” art, 346-bis cod. pen. e l’abrogato art. 346 cod. pen. è stato, invero, affrontato senza una precisa differenziazione tra le due fattispecie incriminatrici rispettivamente previste dal primo e dal secondo comma di tale art. 346 cod. pen. […].
Va qui ricordata la motivazione di quella pronuncia che, nell’ottica della riconosciuta continuità normativa, ha valorizzato una sorta di “parallelismo” con la questione esaminata dalla pronuncia delle Sezioni Unite “Maldera” n, 12228 del 24/10/2013.
Si è posto in rilievo che la legge n. 190 del 2012 aveva considerato meritevole di sanzione, sia nell’art. 346-bis, secondo comma, cod. pen., sia nell’art. 319-quater cod. pen., la condotta di coloro che approfittino, a vario titolo, dell’infedeltà dell’agente pubblico: da tanto desumendo che la previsione della punibilità del “compratore di fumo” prevista dal “nuovo” art. 346-bis, secondo comma, cod. pen. «non modifica la fattispecie naturalisticamente intesa: il patto, cioè, da lui stipulato con il millantatore e soggetto a sanzione già secondo la norma previgente; né l’estensione della punizione anche al suo interlocutore incide, sotto il profilo assiologico, sul disvalore della condotta di esso millantatore, che rimane evidentemente identico» […].
Non va trascurato che l’effetto della riconosciuta continuità normativa tra la fattispecie formalmente abrogata dell’art, 346 cod. pen. e quella modificata dell’art. 346-bis cod. pen., ha comportato, in quelle sentenze, l’applicazione dei criteri di successione delle leggi penali nel tempo di cui all’art. 2, quarto comma, cod. pen., con la conseguente applicazione retroattiva, per i fatti commessi prima della entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, della disciplina cronologicamente posteriore perché più favorevole […].
2.2. Il contrario indirizzo interpretativo, pur ammettendo l’esistenza di una continuità normativa tra la fattispecie incriminatrice del millantato credito c.d. “semplice” disciplinata dal primo comma dell’abrogato art. 346 cod. pen. e la fattispecie del traffico di influenze illecite di cui al modificato art. 346-bis cod, pen., ha negato la configurabilità di un mero fenomeno di successione di leggi penali in senso stretto, con riferimento al rapporto tra l’ipotesi di millantato credito c.d. “corruttivo” di cui al secondo comma dell’art. 346 cod. pen. e la “nuova” figura di reato dell’art. 346-bis cod. pen. […].
Tale orientamento giurisprudenziale – recepito favorevolmente dalla gran parte degli studi dottrinali – partendo dalla constatazione della “non riuscita” operazione di “incorporazione” prospettata nella sopra citata relazione di accompagnamento al disegno di legge governativo, da cui era partito l’iter conclusosi con l’approvazione della più volte menzionata legge n. 3 del 2019, è stato accreditato sulla base di due ordini di argomenti.
In primo luogo, è stato considerato come il reato di traffico di influenze illecite fosse stato introdotto per prevenire le più gravi condotte di corruzione, anticipando «la soglia di punibilità rispetto a condotte che difficilmente avrebbero potuto integrare il delitto di corruzione (neppure nella forma tentata) e che fanno chiaramente presagire come la tutela sia eminentemente volta a salvaguardare l’attività della pubblica amministrazione nelle sue varie articolazioni nazionali ed internazionali»: finalità questa che difficilmente appariva compatibile con una fattispecie delittuosa, quale quella disciplinata dall’art. 346, secondo comma, cod. pen., nella quale risultava evidente la tutela del patrimonio della vittima del “venditore di fumo”». Situazioni nelle quali, non essendo riconoscibile alcuna concreta messa in pericolo degli interessi connessi all’operato della pubblica amministrazione, è sembrata irragionevole la previsione della punibilità anche di colui che, mero “truffato” dai raggiri del mediatore, non pone in essere alcuna condotta lesiva del bene giuridico protetto.
Si è poi rimarcato come non sia riconoscibile una corrispondenza tra la condotta descritta dalla norma abrogata e quella prevista dalla “nuova” disposizione riformulata, in quanto, in questa seconda, non è stato riproposto il termine «pretesto» presente nella disposizione previgente: «il riferimento [nell’art. 346-bis cod. pen.] al “vanto a relazioni asserite” non può essere inteso come condotta sovrapponibile a quella posta in essere con l’inganno (resa palese con il termine «pretesto»), dovendosi ritenere che l’enunciazione da parte del mediatore-faccendiere al rapporto con i pubblici poteri non sia rivolta ad indurre in errore, per mezzo di artifici e raggiri, il cliente, quanto necessariamente a prospettare, seppure non in termini di certezza, la concreta possibilità di influire sull’agente pubblico».
In questo senso – si è arguito – la “nuova” fattispecie del traffico di influenze illecite dovrebbe ritenersi integrata solo quando esprime la «concreta possibilità di riuscire a influenzare l’agente pubblico, [con un] comportamento che si pone, a ben osservare, nella fase immediatamente prodromica rispetto a un eventuale reale coinvolgimento dell’agente pubblico, circostanza che, qualora si realizzi, integra le fattispecie di cui agli artt. 318, 319 e 319-ter e i reati di corruzione di cui all’art. 322-bis cod. pen., enunciati nella riserva contenuta nell’incipit della norma penale di cul all’art. 346-bis cod. pen.» […].
In tale filone giurisprudenziale si inscrivono, oltre a quelle richiamate nell’ordinanza di rimessione, anche Sez. 6, n. 47671 del 15/09/2023, D’Andrea, non mass., e Sez. 6, n. 28946 del 16/09/2020, Lattanzi, non mass., nella prima delle quali, per cercare di dare un coerenza al sistema, è stata ribadita la necessità di assegnare alla formula «vantando […] relazioni asserite», presente nel testo vigente dell’art. 346-bis cod. pen., un ambito applicativo ristretto, dovendosene escludere la operatività in quei casi in cui «il sedicente mediatore prospetta l’eventualità della corruzione soltanto per indurre il privato a consegnargli il denaro e ottenere un indebito vantaggio patrimoniale […] vicende che non sono nemmeno astrattamente idonee a pregiudicare l’imparzialità e il buon andamento della P.A. e [che], dunque, [sono] inoffensive dell’interesse giuridico tutelato dall’art. 346- bis cod. pen.».
- Le due contrapposte soluzioni esegetiche impongono, preliminarmente, di considerare – sia pur in forma schematica – l’evoluzione normativa che la materia in esame ha avuto nel tempo.
3.1. Già previsto nella prima versione del Codice Rocco del 1930, il testo dell’art. 346 cod. pen., riguardante il reato di millantato credito, è rimasto nella sostanza sempre immutato, fatta eccezione per alcune successive modifiche riguardanti i limiti edittali della sola pena pecuniaria.
Tale articolo stabiliva, al primo comma, che «Chiunque, millantando credito presso un pubblico ufficiale, o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 309 a euro
2.065»; e, al secondo comma, che «La pena è della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 516 a euro 3.098, se il colpevole riceve o fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare».
La disposizione – che riprendeva la figura della tradizione giuridica italiana della “vendita di fumo” (venditio fumi), già punita, in termini analoghi, dall’art. 204 del codice Zanardelli del 1889 – descriveva due distinte fattispecie incriminatrici comuni (rispetto alle quall si poneva come speciale quella del millantato credito del patrocinatore, di cui al tuttora vigente art, 382 cod. pen.).
In entrambe le ipotesi di reato l’interesse giuridico protetto veniva tradizionalmente identificato con il prestigio e l’onore ovvero con l’immagine della pubblica amministrazione, ritenuto offeso o messo in pericolo dalla condotta di chi faceva apparire corrotti, corruttibili o anche solo arrendevoli alle raccomandazioni, i pubblici funzionari.
In seguito, aderendo ad una lettura rispettosa dei valori costituzionali, si era asserito che il bene giuridico tutelato era quello del retto e imparziale funzionamento della pubblica amministrazione, messo in pericolo da possibili forme di interferenza […].
Tali fattispecie, tuttavia, presentavano evidenti “note di ambiguità”, perché, nonostante la collocazione dell’art. 346 cod. pen. nel capo codicistico dedicato ai delitti dei privati contro la pubblica amministrazione, esse si ponevano in correlazione anche con i reati contro il patrimonio: tanto che in dottrina si era sostenuto che il millantato credito altro non fosse che una particolare figura di truffa, dunque un reato plurioffensivo.
L’impegno della giurisprudenza di legittimità è stato, perciò, nel tempo, quello di circoscrivere la portata applicativa di tale disposizione, interpretandone il tenore letterale in maniera tale da cercare di individuare, in termini quanto più possibile precisi, lo “spettro” dei fatti penalmente rilevanti anche in relazione alle peculiarità della indicata oggettività giuridica propria di quella norma: in particolare, nonostante le sollecitazioni di parte della dottrina a favorire soluzioni ispirate a canoni di “interpretazione evolutiva”, evitando la “tentazione” di estendere analogicamente la portata applicativa dell’art. 346 cod, pen. ricomprendendovi anche i casi di “traffico di influenze realmente esistenti”.
Si era, così, chiarito che, in entrambe le fattispecie incriminatrici, il legislatore aveva ritenuti inesistenti sia il credito, sia l’influenza, sia ancora la stessa relazione tra il millantatore e il pubblico agente: il primo millantava credito presso un pubblico ufficiale o un pubblico impiegato, dunque era un “venditore di fumo” perché prospettava, con esagerazione, la possibilità di ottenere i “favori” di un pubblico agente, sulla base di un rapporto in realtà del tutto assente; il privato “compratore di fumo”, che dava o prometteva al millantatore denaro o altra utilità, non era punibile perché considerato “vittima” di una attività latamente decettiva ed era, perciò, soggetto potenzialmente danneggiato dal reato.
Le due figure di reato venivano, però, tenute nettamente distinte.
Nel millantato credito c.d. “semplice”, previsto dal primo comma dell’art. 346 cod. pen., il denaro e l’altra utilità erano ritenute il prezzo della mediazione e il fatto era considerato punibile anche in assenza di impiego, da parte del millantatore, di particolari forme di artifici o raggiri.
Nel millantato credito c.d. “corruttivo”, disciplinato dal secondo comma dell’art. 346 cod. pen., il denaro o l’altra utilità erano indicate, invece, come il prezzo di una possibile corruzione: in tale seconda figura, dunque, il millantatore che intendeva trattenere per sé il prezzo, lo chiedeva non come corrispettivo per l’attività di mediazione che si impegnava a svolgere, ma con il “pretesto” di dover comprare il favore del pubblico agente o di doverlo remunerare; presentandosi, così, non come semplice intermediario capace di influire sulle determinazioni di funzionari pubblici, ma come “strumento” di corruzione di un pubblico agente, con il quale egli non aveva in realtà alcuna relazione (poiché in presenza di un rapporto effettivamente instaurato con il pubblico agente si sarebbero potuti configurare i più gravi reati della istigazione alla corruzione o della stessa corruzione).
In altri termini, nella ipotesi descritta dal secondo comma dell’art. 346 cod. pen, il mediatore agiva con l’intento di appropriarsi del denaro o dell’altra utilità promessa o ricevuta, sicché la sua condotta, nella quale era riconoscibile un profilo più spiccatamente ingannatorio e, comunque, maggiormente lesivo dell’interesse della pubblica amministrazione, era punita più severamente di quanto non avvenisse per quella descritta dal primo comma dello stesso art. 346 cod. pen.
3.2. Nel contesto di una riforma legislativa ispirata dall’esigenza di contrastare in maniera più efficace il fenomeno della corruzione nella pubblica amministrazione, con la legge 6 novembre 2012, n. 190, alla figura criminosa del millantato credito venne affiancata quella del traffico di influenze illecite, con l’introduzione dell’art. 346-bis cod. pen.: disposizione che, nel testo originario, prevedeva che «Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319-ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio, è punito con la reclusione da uno a tre anni»; e che «La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale».
Quella scelta venne giustificata, da un lato, con la necessità di dare attuazione agli obblighi assunti dallo Stato italiano con atti pattizi di fonte sovranazionale (Convenzione sulla corruzione del Consiglio d’Europa del 1999 e Convenzione contro la corruzione adottata in sede ONU nel 2003), che – invero, con disposizioni non strettamente vincolanti per gli Stati firmatari – avevano raccomandato di estendere la sanzionabilità penale anche alle iniziative del privato che, per ottenere un favore presso la pubblica amministrazione, raggiunge un accordo illecito con un mediatore. Da altro lato, con l’esigenza di “colmare una lacuna punitiva”, perseguendo penalmente condotte che presupponevano una relazione effettivamente esistente tra il “trafficante” e il pubblico agente, dal primo all’uopo “sfruttata”, dunque una situazione fattuale caratterizzata da una qualche concreta capacità di condizionare ovvero di orientare le iniziative del pubblico ufficiale: comportamenti che, come si è innanzi accennato, restavano formalmente fuori dalla portata operativa dell’art. 346 cod. pen.
Il reato dell’art. 346-bis cod. pen. puniva condotte propedeutiche ad una eventuale corruzione, come si desume dalla clausola di sussidiarietà prevista nella parte iniziale della disposizione (“Fuori dei casi di concorso nei reati…”): l’interesse giuridico protetto era, dunque, quello della legalità, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.
La fattispecie incriminatrice era tutta incentrata sul carattere illecito della mediazione, lasciando intendere che la relativa disposizione non sarebbe stata applicabile alle forme di mediazione lecita ovvero alle attività, consentite dall’ordinamento, di “pressione” o di c.d. “lobbying” nei confronti dei pubblici funzionari: attività, queste, per le quali era stata preannunciata l’emanazione di una apposita legge che ne avrebbe dovuto disciplinare le manifestazioni consentite, e che però, nonostante gli auspici, non è stata ancora adottata.
Il reato presupponeva una relazione effettivamente esistente tra il mediatore, che si proponeva di sfruttarla per perseguire un fine illecito, e il pubblico agente i cui favori il privato intendeva acquistare, promettendo la consegna o consegnando un prezzo: elementi qualificanti che, come anticipato, avevano permesso di tenere distinti gli ambiti applicativi di tale norma rispetto a quella del millantato credito.
Nella ipotesi di reato disciplinata dall’art. 346-bis cod. pen. entrambi i soggetti raggiungevano una intesa ed erano, perciò, punibili, trattandosi di coautori in un reato normativamente plurisoggettivo; la mediazione era considerata “onerosa” o “gratuita”, a seconda che il prezzo fosse richiesto per il mediatore oppure per il pubblico agente.
3.3. La […] legge n. 3 del 2019 ha modificato il testo dell’art. 346- bis cod. pen., contestualmente abrogando l’art. 346 cod. pen., al dichiarato scopo di far “confluire” il dettato di tale ultimo articolo in quello riformato del primo.
Nella […] relazione introduttiva al disegno di legge governativo C-1189, atto iniziale del procedimento legislativo conclusosi con l’approvazione della legge n. 3 del 2019, i proponenti avevano chiarito come la finalità della novella sarebbe stata quella di «conformare la disciplina del traffico di influenze illecite agli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese», con i quali etra stata sollecitata la punizione di tutte le forme di “compravendita di influenza”: la voluntas legis era stata, così, palesata nel senso che l’intervento aveva lo scopo della «riformulazione della fattispecie incriminatrice del traffico d’influenze illecite (articolo 346-bis del codice penale), con assorbimento nella stessa delle condotte di millantato credito (articolo 346 del codice penale)».
Nella “nuova” versione dell’art. 346-bis cod. pen, è stato inserito, nella iniziale clausola di sussidiarietà, il riferimento anche agli artt. 318 (corruzione per l’esercizio della funzione) e 322-bis cod. pen. (c.d. corruzione internazionale), in precedenza assente; è stato ampliato l’oggetto dell’accordo, perché si parla di «denaro o altra utilità» e non più di «altro vantaggio» necessariamente «patrimoniale»; è stata precisata la finalizzazione della condotta, perché la formula «in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio» è stata sostituita con quella, più ampia, «in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri»; ed ancora, è stato modificato il trattamento sanzionatorio, in quanto la pena è ora quella della reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi, con un aumento del limite edittale massimo rispetto a quello del previgente art. 346-bis cod. pen.
Ulteriori modifiche hanno riguardato la disciplina delle circostanze, di cui al terzo, quarto e quinto comma dell’art. 346-bis cod. pen., non rilevante al fini della definizione dell’odierno thema decidendum.
Ma il principale elemento di novità, che in questa sede va rimarcato, è stato quello di aver inserito nel testo dell’art. 346-bis cod. pen., accanto al verbo «sfruttando» quello «vantando», riferito ora non solo a «relazioni esistenti» con un pubblico agente, ma anche a relazioni «asserite».
Come detto, il dichiarato scopo del legislatore del 2019 è stato quello di “trasferire” nella previsione dell’art. 346-bis cod. pen. l’intero contenuto normativo dell’art. 346 cod. pen., nel contempo abrogato.
E però, in via di primo esame, non può essere sottaciuto come la scelta lessicale di utilizzare la disgiuntiva “o”, sia tra i due verbi («sfruttando o vantando»), sia tra i due aggettivi («esistenti o asserite»), abbia finito per articolare – come la dottrina ha efficacemente evidenziato – quattro possibili “combinazioni fattuali” astrattamente capaci di integrare gli estremi del reato di traffico di influenze illecite. Delitto oggi configurabile non solo nei casi in cui il “trafficante” abbia “sfruttato una relazione esistente” oppure “vantato una relazione asserita”, formule apparentemente corrispondenti al nucleo essenziale delle fattispecie già previste, rispettivamente, dal previgente art. 346-bis cod. pen. e dall’abrogato art. 346 cod. pen.; ma anche negli ulteriori casi in cui il “faccendiere” abbia “sfruttato una relazione asserita” oppure abbia “vantato una relazione esistente”, sintagmi che con maggiori difficoltà possono essere collegati al testo dell’abrogato art, 346 cod. pen., il cui ambito di applicabilità presupponeva, come si è visto, che la relazione con il pubblico agente fosse del tutto inesistente e che la stessa fosse millantata, cioè vantata in maniera esagerata dall’autore del reato.
- Le Sezioni Unite ritengono di aderire al secondo dei due orientamenti interpretativi sopra illustrati,
4.1. Per risolvere la questione di diritto portata all’attenzione del Collegio, non è possibile far riferimento in via, per così dire, dirimente, alla “volontà del legislatore” come esplicitata nei considerati atti parlamentari preparatori della legge n. 3 del 2019.
Nella giurisprudenza di legittimità si è reiteratamente sottolineato come «l’intenzione del legislatore» – che, ai sensi dell’art. 12 preleggi, rappresenta uno dei molteplici criteri per l’interpretazione di una norma di legge – costituisca un canone sussidiario e recessivo rispetto al criterio della interpretazione letterale; e, soprattutto, come quella formula debba essere intesa in senso “oggettivo”, dunque espressivo del significato immanente nella stessa legge, e non anche in senso “soggettivo”, vale a dire come volontà del legislatore dal punto di vista storico-psicologico.
In tale ottica, si è precisato che quello letterale è il principale criterio interpretativo della legge perché costituisce il “limite” alla operatività di ogni altro criterio utilizzabile nell’ermeneutica di un testo normativo […]; e che «è certamente corretto l’assunto per il quale, in base all’art. 12 disp. prel., nell’applicare la legge, non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse, e della intenzione del legislatore; tuttavia, non può certo negarsi che proprio l’intenzione del legislatore deve essere “estratta” dall’involucro verbale (“le parole”), attraverso il quale è resa nota ai destinatari e all’interprete …[in quanto è fuor di dubbio]… che detta intenzione non si identifichi con quella dell’organo o dell’ufficio che ha predisposto il testo, ma vada ricercata nella volontà statuale, finalisticamente intesa» […].
Ad analoghe conclusioni, peraltro, è pervenuta la giurisprudenza di legittimità civile, per la quale l’interpretazione di ogni norma di legge non si sottrae al primato del criterio letterale, che, per il suo carattere di oggettività e per il suo naturale obiettivo di ricerca del senso normativo maggiormente riconoscibile e palese, rappresenta il criterio cardine nella interpretazione della legge e concorre alla definizione in termini di certezza, determinatezza e tassatività della fattispecie applicabile […]
4.2. Per risolvere il quesito in argomento – riguardante una peculiare ipotesi di successione di leggi penali caratterizzata dall’abrogazione di una disposizione e dalla contestuale modifica del contenuto di altra già esistente – lungi dal poter fare affidamento sulla sola verifica del bene giuridico tutelato o delle modalità dell’offesa qualificanti ciascuna delle norme poste a raffronto, ovvero sulla regola della c.d. doppia punibilità in concreto (in quanto canoni caratterizzati da troppo ampi margini di incertezza), l’unico attendibile criterio utilizzabile è quello fondato sul formale confronto strutturale tra le considerate fattispecie incriminatrici, da compiere con una esegesi letterale e logico-sistematica dei modelli astratti di reato in avvicendamento cronologico.
Costituisce espressione di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale, in tema di successione di leggi penali, perché sia applicabile la regola del quarto comma dell’art. 2 cod. pen., occorre che il fatto costituente reato secondo la legge precedente sia tuttora punibile secondo la nuova legge; laddove vanno considerati non più punibili, a mente del secondo comma dello stesso art. 2 cod. pen., i fatti commessi in precedenza, ma rimasti fuori del perimetro della nuova fattispecie.
Tali situazione vanno verificate in base ad un confronto tra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo, cioè prescindendo dalle peculiarità del fatto concreto: allo scopo di accertare in maniera autonoma, senza l’impiego di criteri assiologici, se l’intervento legislativo posteriore assuma carattere demolitorio di un elemento costitutivo del fatto tipico, alterando radicalmente una precedente figura di reato, ovvero, non incidendo sulla struttura della stessa, consenta la sopravvivenza di un eventuale spazio comune alle suddette fattispecie […].
In tale ben definito quadro giurisprudenziale, si è condivisibilmente sottolineato che è «attraverso la fattispecie legale astratta che il legislatore individua i fatti ritenuti meritevoli del presidio penale o, specularmente, rinuncia a punire determinati fatti, non più considerati, in base a scelte politico-criminali, in linea col ‘giudizio di disvalore astratto espresso dalla legge precedente’.
Incisivamente si è detto che ‘la funzione della fattispecie legale è duplice: non solo strumento di selezione dei fatti penalmente rilevanti, ma anche strumento di de-selezione dei fatti stessi. L’interprete, quindi, per accertare [se vi sia stata] abolitio criminis, deve procedere al confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo, quella precedente e quella successiva all’intervento del legislatore, al fine di verificare la sussistenza di uno spazio comune alle dette fattispecie […] Se l’intervento legislativo posteriore altera la fisionomia della fattispecie, nel senso che sopprime un elemento strutturale della stessa e, quindi, la figura di reato in essa descritta, ci si trova – di norma – di fronte ad una ipotesi di abolitio criminis, il fatto cioè, già penalmente rilevante, diventa penalmente irrilevante per effetto dell’abrogazione di quell’elemento, quale conseguenza del mutato giudizio di disvalore insito nella scelta di politica criminale; in questo caso, non può non trovare applicazione la disciplina prevista dal secondo comma dell’art. 2 cod. pen.» […].
Alla stregua di tali principi, è possibile fondatamente sostenere che la scelta del legislatore del 2019 di abrogare l’art. 346 cod. pen. e contestualmente di modificare – nei termini sopra tratteggiati – il contenuto dell’art. 346-bis cod. pen., ha comportato un fenomeno di abolitio criminis con riferimento ai fatti di millantato credito c.d. “corruttivo”, già previsti dall’art. 346, secondo comma, cod. pen.
Conclusione alla quale si perviene sulla base di un duplice ordine di ragioni.
4.3. In primo luogo, va evidenziato il risultato del raffronto generale tra i modelli tipici delle due fattispecie delittuose poste a raffronto.
Nella figura prevista dall’abrogato art. 346, secondo comma, cod. pen., il reato era monosoggettivo, in quanto la disposizione era tutta “concentrata” sulla condotta dell’unico soggetto di cui era prevista la punizione («millantando credito […] riceve, si fa dare o promettere […] con il pretesto […]»), a differenza della “vittima” del millantato credito, raffigurato come soggetto danneggiato perché tratto in inganno dalla vanteria di una inesistente relazione con il pubblico agente, i cui favori il millantatore si proponeva di “comprare”. Né il risultato dell’analisi muterebbe laddove si volesse accedere alla (solo formalmente) diversa ricostruzione offerta da una parte della dottrina, la quale, a proposito di tale illecito, preferisce parlare di reato plurisoggettivo improprio ovvero di reato naturalisticamente plurisoggettivo, ma comunque a punibilità monosoggettiva (al pari di quanto accade per la truffa o per la concussione).
Nella figura prevista dal “nuovo” art. 346-bis cod. pen., il reato è, al contrario, normativamente plurisoggettivo, perché si sanzionano – con la stessa pena – entrambe le parti di una intesa, sia il trafficante di influenze che “vanta una relazione asserita”, sia il committente che dà o promette denaro o altra utilità.
L’illecito si atteggia come reato-contratto e il medesimo trattamento sanzionatorio riservato ad entrambi i coautori, compreso il privato che paga o che promette di pagare, è ragionevolmente compatibile con i principi costituzionali di materialità e di offensività solamente ritenendo che il committente, lungi dall’essere un soggetto ingannato, è consapevole che il trafficante non ha (ancora) una relazione effettiva con il pubblico agente («vantando […) relazioni asserite”, si legge nella disposizione).
Il confronto tra le linee strutturali generali delle due fattispecie di reato poste a raffronto risulta, perciò, più coerente con l’idea di una “discontinuità normativa” tra le considerate disposizioni incriminatrici.
4.4. Non conduce a differenti esiti il riferimento ad un analogo caso di successione di leggi penali, dovuto alle modifiche introdotte con la legge n. 190 del 2012 nella parte in cui tale provvedimento aveva disposto la separazione delle due fattispecie previste dalla previgente disposizione sul reato di concussione, lasciando nella “nuova” versione dell’art. 317 cod. pen. la sola ipotesi della concussione per costrizione e “spostando” la figura della concussione per induzione nella nuova fattispecie della induzione indebita a dare o promettere utilità, di cui al contestualmente introdotto art. 319-quater cod. pen.
Come noto, le Sezioni Unite, nel sostenere la tesi della continuità normativa fra la fattispecie della concussione per induzione di cui al previgente art. 317 cod. pen. ed il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità di cui all’art. 319-quater cod. pen., avevano asserito come la prevista punibilità, nella seconda di quelle disposizioni, del soggetto indotto, che in precedenza era considerato vittima del reato di concussione, non avesse mutato la struttura di base delle due norme poste a raffronto […].
Tuttavia, le valutazioni espresse in quella sentenza non sono esattamente replicabili nel caso di cui ci si occupa in questa sede.
In quella occasione le Sezioni Unite, dopo aver qualificato la nuova fattispecie dell’art. 319-quater cod. pen. in termini di reato plurisoggettivo a concorso necessario, che si poneva «in una posizione intermedia tra la condotta sopraffattrice, propria della concussione, e lo scambio corruttivo», non avevano potuto esimersi dal riconoscere nelle scelte del legislatore del 2012 «una qualche approssimazione […] nel calibrare il regime sanzionatorio», tanto da prospettare possibili questioni di legittimità costituzionale. Ma soprattutto, nell’impiegare il citato criterio del confronto strutturale, le Sezioni Unite, pur sottolineando come nel reato di cui all’art. 319-quater cod. pen. vi sia una «necessaria convergenza [-…] dei processi volitivi di più soggetti attivi e la punibilità dei medesimi», avevano finito per ammettere che tale delitto è qualificato da un peculiare rapporto, del tutto «squilibrato», tra i due concorrenti: per un verso, “concentrando”, nello sviluppo di quella comparazione strutturale, tutte le loro attenzioni sulla sola condotta del pubblico ufficiale e giudicando, così, immutato, nel passaggio dal
“vecchio” art. 317 cod. pen. al “nuovo” art. 319-quater cod, pen., «il volto strutturale dell’abuso induttivo»; per altro verso “marginalizzando” la prevista punibilità dell’indotto, perché novità ritenuta inidonea a investire «direttamente la struttura tipica del reato, [rispetto alla quale essa] interviene, per così dire, solo ‘al suo esterno’».
Tali argomentazioni non sono evidentemente riproponibili nella valutazione comparativa tra la fattispecie del millantato credito c.d. “corruttivo” e la “nuova” fattispecie del traffico di influenze illecite. In tale seconda figura il legislatore ha considerato in maniera esattamente paritaria la posizione dei due “contraenti”, che normalmente sono entrambi privati: quella del “trafficante”, che vantando relazioni asserite, mette a disposizione i suoi buoni uffici per realizzare una mediazione illecita verso il pubblico agente, e la posizione del committente che, dando o promettendo denaro o altra utilità, è interessato a beneficiare dei risultati di quella medesima mediazione.
Ed infatti, nell’art. 346-bis cod, pen, come modificato dalla legge n. 3 del 2019, la finalizzazione di quella comune intesa alla possibile commissione di un illecito costituisce la funzione propria del reato-accordo, dei cui effetti i “contraenti” sono chiamati a rispondere ad uguale titolo, come confermato dalla previsione di un omogeneo trattamento sanzionatorio: la causa di quel “contratto”, concluso tra soggetti con posizioni paritarie, rappresenta il “nucleo essenziale” della relativa fattispecie incriminatrice, aspetto, questo, di cui non vi è assolutamente traccia nella fattispecie disciplinata dall’abrogato art. 346, secondo comma, cod. pen.
4.5. Sotto altro ma complementare punto di vista, va evidenziata la differente formulazione letterale delle due fattispecie criminose poste a raffronto.
Nell’art, 346, secondo comma, cod. pen. la formula «millantando credito presso un pubblico ufficiale o un pubblico impiegato», tradizionalmente evocatrice di un’attività latamente ingannatrice, è collegata a quella «col pretesto di dover comprare il favore» di quel pubblico agente «o di doverlo remunerare». Termine, questo del “pretesto“, espressione di una componente frodatoria ovvero di una più marcata falsa rappresentazione della realtà, che – significativamente presente nell’art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen. con riferimento ad una ipotesi di truffa aggravata – è assente nel “nuovo” art. 346-bis cod. pen.: nel quale la formula «vantando relazioni […] asserite» potrebbe ritenersi parificabile a quella del «millantando credito» di cui alla disposizione abrogata, senza potersi considerarsi comprensiva anche dello specifico sintagma «col pretesto di comprare».
Nel reato di millantato credito c.d. “corruttivo” – a differenza di quanto accade nel millantato credito c.d. “semplice”, nel quale la sola formula del “millantare un credito” sembra avere un più ampio orizzonte di significati, potendovi far rientrare anche casi di mera accentuazione di un dato reale – il “pretesto” di corrompere il pubblico funzionario diventa la specifica causa della dazione o della promessa del privato, il quale assume quell’impegno perché vittima di un abuso di fiducia, soggetto tratto in inganno: senza che rilevi l’eventuale fine illecito perseguito dall’ingannato, essendo pacificamente ammessa anche la tutela del truffato in re illicita […].
Ciò a differenza di quanto accade nel reato di traffico di influenze illecite nel quale, come si è già chiarito, la «mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio» è la causa “tipica” dell’accordo raggiunto tra il trafficante che chiede e il committente che dà o promette un corrispettivo sinallagmaticamente collegato alla iniziativa assunta dal “faccendiere”.
La considerata difformità lessicale tra le due fattispecie si connette, dunque, alle rispettive rationes giustificatrici dell’intervento punitivo.
Come si è già anticipato, se la formula «vantando una relazione […] asserita», contenuta nel testo vigente dell’art, 346-bis cod. pen., fosse interpretata come comprensiva del caso del privato che dà o promette perché tratto in inganno dal mediatore circa la possibilità che questi possa corrompere il pubblico agente, diventerebbe logicamente non accettabile la punizione del privato committente.
A differenza di quanto previsto nella abrogata disposizione dell’art, 346, secondo comma, cod. pen., nella quale era comprensibilmente punito il solo mediatore perché lo stesso non aveva avuto alcuna intenzione di instaurare un “contatto” o una relazione con il pubblico agente, avendo anzi programmato di appropriarsi del corrispettivo ricevuto o promesso, riconoscendo una continuità normativa con il “nuovo” art. 346-bis cod. pen., si finirebbe per sanzionare anche il committente solo per il disvalore delle sue intenzioni e non per una condotta, del tutto inidonea a creare un vulnus dell’interesse al retto e imparziale operato della pubblica amministrazione.
È ragionevole, pertanto, ribadire che il legislatore del 2019, inserendo nell’art. 346-bis cod. pen. la formula «vantando relazioni […) asserite», senza riproporre il sintagma «col pretesto» presente nella figura del millantato credito c.d. “corruttivo”, abbia voluto far riferimento non alla ipotesi del soggetto tratto in inganno dal mediatore (che resta, in tal modo, espunta dall’ambito del penalmente rilevante, a norma dell’art. 2, secondo comma, cod. pen.), ma a quella di colui che partecipa a pieno titolo ad una intesa criminosa. Soggetto punibile, al pari del “trafficante”, perché, pur consapevole che la relazione con il pubblico funzionario è ancora inesistente e solo “vantata”, decide di fare affidamento sulla potenziale capacità del mediatore di instaurare quel “rapporto affaristico”: in tal modo concorrendo a determinare quella effettiva messa in pericolo del bene giuridico protetto, che, in una lettura costituzionalmente orientata, è l’unica condizione che può legittimare l’omogeneo trattamento sanzionatorio per entrambi i correi.
- In molte delle sentenze che hanno contribuito alla formazione dell’indirizzo giurisprudenziale che in questa sede si è inteso privilegiare, si è sostenuto che la riconosciuta discontinuità tra l’abrogato reato di millantato credito, di cui all’art. 346, secondo comma, cod. pen., e il “nuovo” reato di traffico di influenze illecite, di cui all’art. 346-bis cod. pen., comporta una “riespansione” della fattispecie incriminatrice dell’art. 640 cod. pen., con la possibilità di riqualificare i fatti in termini di truffa […]
[…]
Il tema è stato affrontato, in via generale, dalle Sezioni Unite, le quali hanno chiarito come possa accadere «che il sistema giuridico risultante dopo la modificazione legislativa continui ad allegare rilevanza penale a classi di fatti descritti nella norma incriminatrice considerata, perché inquadrabili (…] in una fattispecie già prevista dall’ordinamento giuridico e divenuta applicabile solo dopo la modifica legislativa […] In queste ipotesi si parla comunemente di abrogatio sine abolitione, fenomeno che si verifica quando ad essere abrogata è una norma incriminatrice in rapporto di specialità con una o più norme diverse, aventi regolare efficacia operativa, perché preesistenti a quella abrogata […]» […].
Seguendo la medesima impostazione si è aggiunto che la punibilità di un fatto commesso nel vigore di una norma generale, che sia stata sostituita da una norma speciale, non costituisce applicazione retroattiva di questa, ma piuttosto ne esclude l’efficacia abolitrice per la porzione della fattispecie prevista dalla norma generale che coincide con quella della norma successiva, salvo che il legislatore con la medesima legge speciale stabilisca, in deroga alla disposizione dell’art. 2, [quarto] comma, cod, pen., la non punibilità dei reati in precedenza commessi […]
Declinando tali indicazioni ermeneutiche nel caso di specie – nel quale, come si è detto, si è negata la continuità normativa tra l’abrogata fattispecie del millantato credito c.d. “corruttivo” e quella contestualmente modificata del traffico di influenze illecite – un “automatico” effetto riespansivo di altra disposizione incriminatrice, preesistente alla novella del 2019, si potrebbe astrattamente ammettere solamente se fosse possibile riconoscere l’esistenza di un rapporto di specialità tra una norma speciale abrogata e altra norma generale preesistente, che torna così ad essere applicabile anche ai fatti pregressi.
Al riguardo va ricordato come costituisca espressione di un consolidato orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità l’affermazione secondo la quale, per poter definire l’ambito di applicabilità del principio di specialità di cui all’art. 15 cod. pen., l’unico criterio utilizzabile è quello che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie poste a confronto, perché è il solo affidabile per rilevare l’eventuale esistenza di una relazione unilaterale di genus a species: non essendo valorizzabili altri criteri, quale quello della consunzione o quello dell’assorbimento, perché privi di agganci normativi e di basi ricostruttive certe, dunque incompatibili con il principio di legalità […]
Alla luce di tale regula iuris, va rilevato che tra le norme previste dagli artt. 640 e 346, secondo comma, cod. pen. non esisteva affatto un rapporto di genere a specie, inteso come relazione di specialità unilaterale per specificazione o per aggiunta: perché il confronto della struttura astratta dei due illeciti permette di affermare che nella fattispecie del millantato credito c.d. “corruttivo” non erano presenti tutti gli elementi costitutivi della truffa, ma solo alcuni latamente comuni (il millantare credito in una, gli artifici e raggiri nell’altra) ed altri specializzanti (il pretesto di dover comprare o remunerare, e la promessa di altra utilità); senza, però, che nell’art. 346, secondo comma, cod, pen. fossero richiamati gli ulteriori elementi specializzanti propri del solo reato di truffa (l’induzione in errore, l’atto di disposizione patrimoniale e l’ingiusto profitto con altrui danno).
Il rapporto tra le due considerate norme incriminatrici si atteggiava, cioè, con quelle caratteristiche nelle quali la dottrina ha ravvisato gli estremi di una relazione di specialità bilaterale o “di interferenza”, in cui ognuna delle fattispecie poste a raffronto presenta elementi speciali ulteriori ed estranei rispetto all’altra: ipotesi queste che, per quanto innanzi premesso, non rientrano nella sfera di operatività della regola dettata dall’art. 15 cod. pen.
Il rapporto tra le norme rispettivamente previste dagli artt. 346, secondo comma, e 640 cod, pen., dunque, poteva dar luogo solo ad un concorso formale eterogeneo di reati, laddove la condotta accertata avesse realizzato contemporaneamente gli elementi riconducibili ad entrambe le fattispecie incriminatrici, qualificate da disomogeneità strutturale.
Conclusione, peraltro, alla quale – sia pur talora in una indistinta considerazione di entrambe le ipotesi di reato di millantato credito – era pervenuto anche l’orientamento esegetico nettamente maggioritario nella giurisprudenza di legittimità […].
Per le vicende verificatesi prima della entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, dunque, va negata la possibilità di una “automatica” riespansione applicativa dell’art. 640 cod, pen., laddove risulti che i fatti siano stati addebitati all’imputato e siano stati accertati in base alla sola disposizione a suo tempo prevista dall’abrogato art. 346, secondo comma, cod. pen., e siano mancate una formale contestazione e un accertamento anche degli elementi specializzanti riconducibili al reato di truffa. In altri termini, l’assenza di una relazione di specialità unilaterale tra le due considerate disposizioni incriminatrici impedisce di ravvisare gli estremi di quella continuità normativa che, ai sensi dell’art. 2, quarto comma, cod. pen., consentirebbe al giudice di riqualificare i fatti, già integranti gli estremi di una fattispecie incriminatrice speciale oramai abolita, ai sensi di altra norma generale preesistente e tornata ad essere applicabile.
Tale conclusione è coerente con le valutazioni offerte dalle Sezioni Unite, le quali, nell’esaminare un analogo caso di successione di leggi penali nel tempo, hanno asserito che, mentre «l’abrogazione di una norma incriminatrice determina certamente una situazione di c.d. abrogatio sine abolitione se la scelta legislativa mantiene fermo il disvalore delle classi di fatti conformi alla detta norma, riportandole implicitamente alla disciplina prevista da altra norma preesistente, in rapporto di specialità con la prima […], non è [invece] riconducibile nell’ambito della previsione di cui al quarto comma dell’art. 2 cod. pen,» il differente caso della applicazione di una norma preesistente riguardante una ipotesi di reato strutturalmente diversa da quella abrogata: situazione nella quale «opera certamente […) il disposto del secondo comma dell’art. 2 cod. pen., quanto alla fattispecie soppressa, non trovando la medesima, nel suo aspetto strutturale essenziale, riscontro in altra norma dell’ordinamento» […]
In conclusione, va affermato che il fatto commesso in epoca anteriore alla entrata in vigore della novella legislativa del 2019 ben poteva astrattamente corrispondere alle due fattispecie incriminatrici in esame, da considerarsi eventualmente in concorso formale: con la conseguenza che, abolita la fattispecie di millantato credito c.d. “corruttivo”, l’imputato può essere chiamato a rispondere dell’altro reato, quello di truffa, purché nel processo siano stati formalmente contestati e accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi della relativa diversa fattispecie. Ad analoga soluzione si perviene per le condotte poste in essere dopo l’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 che restavano (e restano tuttora) punibili al sensi dell’art. 640 cod. pen., in presenza di tutti i relativi elementi costitutivi, purché formalmente contestati all’imputato e accertati in fatto nel processo.
- Alla luce delle argomentazioni fin qui esposte, la questione oggetto di rimessione va risolta enunciando, a norma dell’art. 173, comma 3, disp. att. cod. proc. pen., i seguenti principi di diritto:
“Non sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, secondo comma, cod. pen. – abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 – e il reato di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346-bis cod, pen., come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. t) della citata legge”.
“Le condotte, già integranti gli estremi dell’abolito reato di cui all’art. 346, secondo comma, cod. pen., potevano, e tuttora possono, configurare gli estremi del reato di truffa (in passato astrattamente concorrente con quello di millantato credito corruttivo), purché siano formalmente contestati e accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi della relativa diversa fattispecie incriminatrice“.
- Passando ad esaminare la specifica vicenda portata all’attenzione del Collegio, va detto che il ricorso presentato nell’interesse di V. M. deve essere accolto.
Il secondo motivo del ricorso è fondato, sia pur nei limiti e con gli effetti di seguito precisati.
La Corte territoriale ha correttamente ritenuto che i fatti accertati, verificatisi prima della entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, avevano integrato gli estremi dell’ipotesi criminosa del millantato credito c.d. “corruttivo”, ai sensi dell’art, 346, secondo comma, cod, pen., e non anche quelli del contestato reato di induzione indebita a dare e promettere di cui all’art. 319-quater cod. pen., per il quale l’imputato era stato condannato con la sentenza di primo grado.
Ed infatti, le emergenze processuali – la cui valenza dimostrativa non era stata contestata dalla difesa – avevano consentito di acclarare che l’odierno ricorrente, millantando credito presso un pubblico ufficiale con il quale non aveva avuto alcuna effettiva relazione, con il contingente “aiuto” di un compiacente agente della polizia penitenziaria rimasto non identificato, aveva prospettato al compagno di cella D. S. un imminente trasferimento in altro istituto: da D. S. l’imputato aveva ricevuto la promessa di 3.000 euro con il pretesto di dover comprare il favore di un funzionario per ottenere la revoca di quel trasferimento, che in realtà non stato mai disposto.
Le carte del processo, dunque, avevano provato che M. aveva prospettato una inesistente relazione con un pubblico ufficiale che, a suo dire, avrebbe potuto evitare il paventato trasferimento in un altro istituto di detenzione, ragione per cui il D. S. aveva promesso e in parte consegnato una somma di denaro.
Tuttavia, la sentenza gravata va cassata per avere i giudici di merito ritenuto erroneamente di riqualificare quelle condotte ai sensi del “nuovo” art. 346-bis cod.
La riconosciuta esclusione, nei termini sopra indicati, di una continuità normativa tra la fattispecie dell’abrogato art. 346, secondo comma, cod. pen. e quella del modificato art. 346-bis cod. pen. – per effetto delle modifiche introdotte dalla novella legislativa n. 3 del 2019 – aveva comportato, con riferimento al caso di specie, un fenomeno di abolitio criminis, regolato dall’art. 2, secondo comma, cod. pen.
D’altro canto, l’assenza di un rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 cod. pen. tra la fattispecie incriminatrice abrogata e quella prevista dall’art. 640 cod. pen. (aventi ad oggetto reati eterogenei che avrebbero potuto astrattamente concorrere) osta ad un automatica applicazione “in via espansiva” della norma riguardante la truffa: delitto di cui, nel caso di specie, non erano stati formalmente contestati né accertati tutti gli elementi costitutivi, compresi quelli specializzanti di tale reato – in particolare, l’induzione in errore e l’ingiusto profitto con altrui danno – avendo il pubblico ministero originariamente addebitato all’imputato il differente reato dell’art. 319-quater cod, pen., che i giudici di secondo grado avevano poi riqualificato in termini di millantato credito corruttivo.
Il riconoscimento della fondatezza del secondo motivo del ricorso, con assorbimento dell’esame del primo motivo, impone l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.