Corte di Cassazione, Sezione III Civile, ord. interlocutoria, 26 luglio 2024, n. 20991
PRINCIPIO DI DIRITTO
La Sezione III civile, con ordinanza interlocutoria n. 20991, ha disposto la trasmissione alle Sezioni Unite del ricorso avente ad oggetto tale questione:
Se, in caso di confisca cd. “antimafia” della totalità delle quote di una società di capitali, la responsabilità per le obbligazioni assunte, nei confronti di terzi, dall’amministratore giudiziario per lo svolgimento dell’attività di impresa, spetti soltanto alla sola società o anche allo Stato ai sensi dell’art. 2-octies della l. n. 575 del 1965.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
1.-La società (omissis) srl è stata dapprima sottoposta a sequestro, e poi definitivamente confiscata, in base alla legge numero 575 del 1965.
Con provvedimento del tribunale penale di Catania del 15.12.2003, è stata infatti applicata la misura di prevenzione personale ad alcuni soggetti indiziati di appartenenza a consorteria mafiosa, cui la società in questione è risultata riconducibile. Con lo stesso provvedimento è stato nominato un amministratore, sotto il controllo del giudice delegato.
Va precisato che il tribunale di Catania si è posto il problema se la società in quanto tale, ossia quale soggetto distinto dai soci e dunque dai proposti per la misura personale, possa costituire oggetto di sequestro e confisca, ed hanno concluso nel senso che, poiché l’indiziato era il socio unico di fatto della s.r.l., la società andava considerata, per l’appunto, come un bene riconducibile all’attività illecita di costui.
1.1.- Dopo il sequestro, e prima che intervenisse la confisca, l’amministratore giudiziario, nell’espletamento dell’attività di gestione aziendale per conto della società sequestrata, e previa autorizzazione del giudice delegato, ha disposto l’acquisto di una fornitura di cemento dalla società (omissis) s.p.a..
1.2- Quest’ultima, quando ormai era intervenuta la confisca, ha ottenuto un decreto ingiuntivo nei confronti del Ministero dell’Economia e delle finanze nonché della Agenzia del demanio, per il pagamento di quella fornitura, pari a 328.123,01 €.
Le due amministrazioni hanno proposto opposizione, che è stata accolta dal tribunale di Catania, il quale ha ritenuto che le amministrazioni fossero tenute al rimborso delle sole spese di amministrazione e custodia, e che tra queste non rientrassero quelle relative alla fornitura in questione, attinente all’esercizio dell’attività d’impresa, della quale avrebbe dovuto rispondere soltanto la società con il suo patrimonio.
1.3.- Questa decisione è stata riformata dalla corte d’appello di Catania, che ha invece ritenuto, da un lato, la spesa in questione afferente all’attività di amministrazione dell’azienda e pertanto riconducibile agli obblighi gravanti sulla P.A.; per altro verso, ha osservato come la società sia stata ormai confiscata, e dunque definitivamente acquisita al patrimonio disponibile dello Stato.
1.4.- Avverso tale pronuncia ricorre il Ministero dell’economia e finanze con due motivi di censura, di cui chiede il rigetto la società creditrice con controricorso illustrato da memoria.
Il PG ha chiesto inizialmente il rigetto del ricorso, ma poi, con successiva memoria, il suo accoglimento.
In particolare.
2.- Con il primo motivo si prospetta la violazione dell’articolo 2462 del codice civile nonché degli articoli 2 octies e ss. della legge 575 del 1965.
La tesi del Ministero è la seguente.
Il sequestro e la successiva confisca non fanno venir meno la società come soggetto autonomo di diritto, con una propria responsabilità patrimoniale perfetta, con la conseguenza che, per le obbligazioni contratte dalla società, sia pure a mezzo dell’amministratore giudiziario, risponde la sola società con il proprio patrimonio.
Il ministero ritiene conseguentemente inapplicabile l’articolo 2 della legge 575 del 1965, che obbliga lo Stato ad anticipare le spese per la conservazione e l’amministrazione dei beni, in quanto, tra tale spese, rientrano soltanto il compenso dell’amministratore e le somme necessarie alla custodia del bene strettamente intesa, con esclusione delle obbligazioni assunte per proseguire l’esercizio dell’attività di impresa.
2.1.- Osserva preliminarmente il collegio che, su un caso analogo, è intervenuta una recente decisione di questa Corte (Cass. n. 3971 del 2024), che ha riguardato proprio un credito della società qui resistente, la (omissis) spa, verso altra società a sua volta assoggettata a confisca antimafia.
Anche in quel caso, la (omissis) spa ha ottenuto decreto ingiuntivo verso il Ministero dell’Economia e Finanze, ma il giudice di appello – diversamente che nel caso che oggi occupa la Corte – ha negato fondatezza alla domanda, sostenendo che l’articolo 2 l. 575 del 1965, nel prevedere l’obbligo di anticipazione delle spese da parte del Ministero, limita la sua portata applicativa alle sole spese per la custodia e amministrazione dei beni confiscati, escluse, da queste ultime, quelle inerenti alla gestione della società, ossia contratte nel suo interesse per lo svolgimento delle attività di impresa.
Con il precedente poc’anzi ricordato, questa Corte ha rigettato il ricorso della società creditrice, riassumendo la questione nei seguenti termini: quando la società è soggetta a confisca, ciò vuol dire soltanto che il suo controllo passa allo Stato, ma rimane un soggetto distinto con riguardo al suo patrimonio ed alla sua responsabilità patrimoniale – né può dirsi che, acquisendo il controllo della società, lo Stato intervenga nell’attività di impresa quale socio, come avviene nel caso di partecipazione statale ad una compagine societaria.
In particolare, nel citato precedente si legge che, a seguito della confisca, non il patrimonio sociale, bensì la società in quanto tale passa “per legge in proprietà dello Stato e viene, del pari in forza di norme imperative, gestita mediante l’ANADC” (p. 5).
In sostanza, il principio di diritto applicato sarebbe quello secondo cui la società diventa di proprietà dello Stato, ma mantiene la sua soggettività e va gestita secondo criteri pubblicistici e nell’interesse pubblico, ma senza che lo Stato sia chiamato a rispondere dei debiti contratti nell’esercizio dell’impresa: l’articolo 2 octies l. 575 del 1965 andrebbe, pertanto, interpretato nel senso di una limitazione della responsabilità dello Stato, con esclusione dei debiti contratti nell’esercizio dell’attività di impresa.
A tale riguardo va osservato quanto segue.
2.2. E’ pacifico che né il sequestro né la successiva confisca fanno venir meno la soggettività giuridica della società, che rimane dunque soggetto autonomo con patrimonio autonomo, e con autonoma legittimazione attiva e passiva quanto alle azioni che la riguardano.
La confisca determina soltanto un mutamento nella titolarità e nella gestione della società (in questo senso Cass. 16607/ 2022).
Tuttavia, pur rimanendo la società un soggetto autonomo, nonostante sequestro e confisca, la legge rende responsabile l’amministrazione giudiziaria delle spese sostenute e di alcuni debiti contratti dalla società stessa durante la misura di controllo e di prevenzione cui è sottoposta.
In altri termini, dal fatto che la società mantenga la sua soggettività non si può per ciò stesso ricavare che debba rispondere di ogni debito contratto nel suo interesse con tutto il suo patrimonio, e ciò in quanto una legge speciale fa obbligo allo Stato di intervenire, anche economicamente, nella gestione della società attraverso la nomina, fin dal giorno del sequestro, di un amministratore giudiziario (e non di un semplice custode), che esercita la sua attività sotto il controllo e previa autorizzazione – quanto ai singoli atti compiuti nella gestione dell’azienda – del giudice delegato, anticipando spese che, in quella gestione, si presentano come di ordinaria amministrazione.
Ci si trova, pertanto, stante la assoluta eccezionalità della materia (della quale, non a caso, si è ripetutamente occupata la stessa Corte costituzionale) al cospetto di una deroga alla regola dell’autonomia patrimoniale della società di capitali.
La legge 575 del 1965, applicabile ratione temporis, all’articolo 2 octies, primo comma, dispone che <<le spese necessarie o utili per la conservazione e l’amministrazione dei beni sono sostenute dall’amministratore mediante prelevamento delle somme da lui riscosse a qualsiasi titolo. 2. se dalla gestione dei beni sequestrati non è ricavabile denaro sufficiente per il pagamento delle spese di cui al comma uno le stesse sono anticipate dallo Stato, con diritto al recupero nei confronti del titolare del bene in caso di revoca del sequestro>>.
Questa norma va interpretata nel senso che, durante l’amministrazione giudiziaria, pur mantenendo la società una sua autonomia e soggettività, la sua gestione è affidata per l’appunto all’organo pubblico, il quale è chiamato a decidere dell’intera gestione dell’attività sociale, anche allo scopo di incrementare, ove possibile, la redditività dei beni, come espressamente previsto dall’articolo 2 sexies commi 1 e 2 della citata legge.
Si pone, pertanto, il quesito se la norma sopra citata debba essere intesa nel senso di prevedere l’anticipazione delle sole spese di conservazione e custodia dei beni, o se invece lo Stato debba anticipare anche le somme necessarie alla gestione dell’attività d’impresa, in esse ricomprese quelle necessarie a saldare i debiti contratti nell’ambito di quella stessa gestione.
Soccorre, ad avviso del collegio, una lettura sistematica degli articoli 2 sexies e 2 octies della legge 575: il primo dei due prevede la nomina di un amministratore al quale è fatto obbligo di continuare l’attività di impresa, sotto il controllo e previa autorizzazione del giudice delegato, ossia non solo custodire i beni confiscati, ma altresì compiere gli atti di ordinaria amministrazione <<funzionali all’attività economica dell’azienda>> (comma 12 dell’articolo 2 sexies).
La medesima norma (articolo 2 sexies comma 13) prevede che <<si osservano per la gestione dell’azienda le disposizioni di cui all’articolo 2 octies, in quanto applicabili>>.
Ne consegue che l’attività dell’amministratore risulterà (diacronicamente) funzionale all’esercizio dell’attività di impresa per tutto l’anno del sequestro, e a più forte ragione all’indomani della confisca (che comporta l’acquisto a titolo originario del bene sequestrato al patrimonio dello Stato), e non soltanto alla custodia dei beni sequestrati: a tale attività di gestione si applicano le regole previste dall’articolo 2 octies, il quale prevede l’anticipazione delle spese a carico della parte pubblica.
La norma sulla anticipazione delle spese si osserva, pertanto, anche <<per la gestione dell’azienda>>, giusta il richiamo dell’articolo 2 sexies, e non solo per la custodia dei beni confiscati.
A conferma di tale interpretazione milita ancora la circostanza per cui la norma de qua si riferisce alle spese di custodia e conservazione dei beni anche nell’ipotesi che “il bene” sequestrato risulti, oltre alle quote societarie, la società stessa e cioè l’attività aziendale ad essa riconducibile, come avvenuto tanto nel caso che occupa il collegio, che in quello del citato precedente, con la conseguenza che, se le spese vanno anticipate per la amministrazione e custodia del bene, e se il bene è la stessa società intesa come un bene produttivo, allora le spese di amministrazione non possono che essere (anche) quelle necessarie allo svolgimento dell’attività di impresa.
2.3.- Alla tesi secondo cui lo Stato deve anticipare anche le spese necessarie per l’attività di impresa, e non solo quelle per la custodia dei beni sequestrati e per il compenso dell’amministratore giudiziario, deve accedersi, a giudizio del collegio remittente, anche alla luce di ulteriori considerazioni relative alla finalità dell’amministrazione del bene confiscato.
Lo Stato amministra il bene confiscato non solo per custodirlo, né tantomeno soltanto per prevenire la commissione di ulteriori reati che la disponibilità di quel bene può favorire, se la sua gestione fosse lasciata ancora in capo al proposto – per questo scopo c’è il sequestro penale preventivo.
Lo Stato amministra il bene per impedirne la dissoluzione (cui sovente aspira l’indiziato di appartenenza a consorteria mafioso all’indomani del sequestro, per sopravvenuta “inutilizzabilità” della struttura economica a fini illeciti, solitamente di riciclaggio), e se si tratta di una impresa, per fa sì che essa non cessi improvvisamente la sua originaria attività (il più delle volte, all’esito di una dichiarazione di fallimento orchestrata dal proposto) con danno per i creditori e per i lavoratori.
Non a caso, nel provvedimento di prevenzione patrimoniale emesso nei confronti della società confiscata, si dà rilievo alle dichiarazioni di un teste circa l’abitudine dei soci, soggetti poi a misura di prevenzione personale, di far fallire continuamente le società di cui si servivano (p. 35 della sentenza d’appello oggi impugnata).
Che lo scopo dello Stato, nel farsi amministratore della società, sia quello di impedire che l’attività di impresa si estingua rapidamente, con conseguente danno per creditori e lavoratori, oltre che essere nella natura stessa dell’amministrazione di prevenzione (che altrimenti sarebbe previsto, ex lege, la sola custodia dei beni) deriva ancora, da un canto, dalla circostanza che il sequestro di prevenzione può essere disposto pur in presenza di un sequestro penale avente finalità preventive (e ciò accade non dirado), in quanto il sequestro penale non assicura la gestione della impresa; dall’altro, poiché questa funzione è stata oggetto di puntuale disciplina, quanto ai criteri aziendali e amministrativi di gestione, dalle modifiche apportate dalla legge 161 del 2017 al cosiddetto codice antimafia, ed in particolare dalla dettagliata procedura indicata negli articoli da 41 a 41 quater, al fine di far si che la gestione dell’amministratore giudiziario sia oculata e volta alla conservazione della impresa.
In particolare, l’articolo 41 bis prevede una serie di interventi e di agevolazioni finanziarie per favorire la conservazione dei livelli occupazionali.
Si tratta di norme che, sebbene successive a quella di cui qui si discute, e dunque non direttamente applicabili, non sono tuttavia in discontinuità con quest’ultima quanto alla ratio dell’intervento dello Stato, ma anzi, ne costituiscono miglioramento e specificazione.
Va infatti tenuto conto del fatto che una società soggetta a misura di prevenzione perde tutte o quasi le linee di credito che aveva fino a quel momento, oltre che, ovviamente, i finanziamenti illegali che la gestione criminale poteva apportare: dunque è una società che ha indubbia difficoltà nel finanziare la propria attività di impresa.
Una interpretazione che limitasse l’anticipazione finanziaria dello Stato alle sole spese di custodia dei beni comporterebbe inevitabilmente e automaticamente la crisi della impresa, la perdita di liquidità, la cessazione dell’erogazione di finanziamenti, e dunque sarebbe contraria allo scopo stesso per il quale lo Stato si assume l’amministrazione della società.
Né è senza rilievo il fatto che il citato articolo 41 bis del codice antimafia, come introdotto dalla legge 161 del 2017, preveda l’eventualità di accesso a fondi di finanziamento pubblico previa stima delle capacità di ripresa della società.
Va prevenuta l’obiezione secondo cui queste norme sono state introdotte dopo la misura di prevenzione di cui si discute e non possono essere utilizzate neanche quali parametri interpretativi della legge precedente, pena la violazione del divieto di retroattività: obiezione perlomeno eccessiva in ragione del fatto che qui le norme successive alla legge 575 del 1965 (applicata nel caso di specie) vengono utilizzate solo quali argomenti per la ricostruzione di un istituto, e non se ne fa applicazione diretta alla fattispecie; ma è anche obiezione errata in diritto, dal momento che il divieto di retroattività non opera per le misure di prevenzione patrimoniale (Cass. pen. 30938 del 2015).
In altri termini, la tesi secondo cui l’impegno finanziario dello Stato è limitato alla mera custodia e amministrazione dei beni, senza alcuna attenzione verso l’attività di impresa, contrasta con le finalità del sequestro di prevenzione, che invece mira anche a salvaguardare l’attività economica nell’interesse di creditori ed occupati.
Del resto, dire che, siccome la società mantiene la sua soggettività, risponde con il suo patrimonio dei debiti contratti nell’esercizio dell’impresa, e che è indifferente che sia amministrata dallo Stato anziché dai soci soggetti a prevenzione, è affermazione concettualistica che non tiene conto di due fattori: il primo, già ricordato, è che, una volta che la società è sequestrata per prevenzione 575, il suo patrimonio è inevitabilmente compromesso, in quanto quella società perde le linee di credito bancarie che aveva fino a quel momento e nemmeno può “beneficiare” degli apporti di capitale illecito che i soci erano in grado di fornire; il secondo fattore è che , nel caso di sequestro di prevenzione, non può ipotizzarsi una mera sostituzione di amministratori, neutrale ed indifferente rispetto alla società, come se questa cambiasse semplicemente la sua amministrazione, dai privati allo Stato, come se quest’ultimo fosse nella stessa posizione di quelli, avesse i medesimi scopi, e dunque il suo intervento fosse solo quello di sostituirsi semplicemente a chi prima amministrava con metodo mafioso. Il che significa non tenere conto del fatto che lo Stato, nel sostituirsi alla precedente amministrazione, non continua l’attività di quest’ultima, non persegue gli stessi scopi di quest’ultima, non gestisce la società per interesse privato dei soci, non è dunque un amministratore soltanto “soggettivamente” diverso, tale da non incidere sulla regola della autonomia patrimoniale della società.
Si tratta piuttosto di una amministrazione condotta nell’interesse pubblico, che incide sulla condizione patrimoniale della società, non assimilabile ipso facto a quella prevista dal codice civile, ma una gestione della società affatto diversa, attribuita allo Stato per scopi pubblici, con la conseguenza che la vicenda non comporta la semplice sostituzione di un amministratore al precedente, restando per il resto inalterate le regole sulla responsabilità patrimoniale della società, ma postula una gestione pubblicistica della società che non vede lo Stato quale semplice nuovo e diverso amministratore, ma quale soggetto coinvolto nella responsabilità patrimoniale della società stessa.
3.- Ritiene dunque il collegio che sussistenza ragioni perché, data la questione di particolare importanza, sul ricorso debbano pronunciarsi le Sezioni Unite