Cass. pen., V, ud. dep. 09.03.2022, n. 8217
MASSIMA
A differenza della confisca obbligatoria prevista dall’art. 416-bis, co. 7, c.p., per l’esecuzione della quale si richiede la sussistenza di una relazione specifica e stabile tra il bene e l’illecito, la confisca “allargata” opera al di fuori di un nesso pertinenziale con il reato ascritto all’imputato. Inoltre non è richiesto affatto che i beni confiscati siano entrati a far parte del patrimonio dell’imputato nel periodo di commissione del reato spia; quei beni possono esservi entrati sia nel periodo precedente sia in quello successivo al tempus commissi delicti purché venga rispettato il criterio di “ragionevolezza temporale”.
Ai fini di poter disporre la confisca allargata nei confronti del concorrente esterno del reato di associazione mafiosa, occorre svolgere un rigoroso accertamento sulla stima dei valori economici in gioco, che devono essere individuati nel reddito dichiarato o nelle attività economiche considerando non il momento della misura rispetto a tutti i beni presenti, ma il momento dei singoli acquisti rispetto al valore dei beni di volta in volta acquisiti, avendo riguardo alla eventuale esistenza di una “giustificazione” credibile consistente nella prova della positiva liceità della loro provenienza, e ciò tenendo conto anche degli eventuali proventi derivanti da evasione fiscale.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Il ricorso di Marino Tindaro è fondato. Il ricorso di Foti Carmelo Vito è inammissibile.
- Il ricorso di Foti Carmelo Vito.
2.1. Il giudice di rinvio è stato investito solo del compito di rideterminare la pena per l’unico reato che residua a carico dell’imputato: delitto di cui all’art. 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992 (ora previsto dall’art. 512-bis cod. pen.) consistito nell’avere acquisito «la qualità di socio occulto nell’esercizio di ristorazione denominato “Papillon”, sedente in località Pace del Mela, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misura di prevenzione patrimoniali o di contrabbando».
In adempimento del mandato ricevuto, la Corte di appello di Reggio Calabria ha determinato la pena nei confronti del ricorrente come segue: pena base anni due e mesi sei di reclusione; aumentata di mesi sei per la recidiva (c.d. “semplice” ex art. 99, comma primo, cod. pen.); ridotta per il rito alla pena finale di anni due di reclusione.
2.2. Il primo motivo è inammissibile sotto vari e concorrenti profili. Con l’originario ricorso per cassazione Foti non aveva coltivato alcuna doglianza circa l’assenza del presupposto sostanziale della recidiva. In ogni caso la prima sezione penale della Corte di cassazione non ha annullato la sentenza sul punto della recidiva; anzi ha avallato la decisione della Corte di appello che l’aveva riconosciuta, ritenendola contestata ai sensi dell’art. 99, comma primo, cod. pen, «in virtù della genericità della sua formulazione» (cfr. paragrafo 5, pag. 58 sentenza rescindente). Dunque il punto della sussistenza della recidiva non può essere più messo in discussione nel giudizio di rinvio. In ogni caso, il giudice del rinvio ha illustrato in maniera adeguata le ragioni che consentono di valutare il fatto-reato come espressivo di una maggiore pericolosità sociale (cfr. pagg. 9 e 10 sentenza impugnata).
2.3. Il secondo motivo è inammissibile. La pena base per l’unico reato oggetto di condanna (art. art. 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992, ora art. 512-bis cod. pen.) si è assestata in prossimità del minimo edittale. L’esercizio del potere discrezionale appartenente al giudice di merito in punto di determinazione del trattamento sanzionatorio non è sindacabile in questa sede, soprattutto quando esso, come nella specie, è stato adeguatamente giustificato (cfr. pagg. 9 e 10 sentenza impugnata).
- Il ricorso di Marino Tindaro.
3.1. Con la sentenza n. 8316 del 14/01/2016, pronunciata dalla prima sezione penale della Corte di cassazione, è divenuta definitiva la condanna di Marino Tindaro per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, commesso nel periodo dal 2006 al 2008 «perché, approfittando del suo ruolo di imprenditore e dei suoi contatti con le imprese aggiudicatarie di grossi appalti, ponendosi quale punto di contatto tra il mondo imprenditoriale e quello mafioso, così agevolando la commissione dei reati di estorsione, concorreva nel sodalizio mafioso, riconducibile a cosa nostra siciliana, denominato “dei Barcellonesi”, operante sul versante tirrenico della provincia di Messina e in particolare nel sodalizio mafioso c.d. dei “Mazzarroti”, riconducibile dapprima a Bisognano Carmelo e, successivamente all’arresto di questi, a Calabrese Tindaro» (capo 2 ter dell’imputazione). La medesima sentenza, invece, ha annullato con rinvio: – il capo relativo alla condanna dell’imputato per il reato di estorsione, consistito nell’imporre alla SEDS spa il noleggio a freddo di mezzi d’opera riconducibili in larga misura a società gestite dal Marino, nonché forniture di materiali da parte di società contigue al gruppo criminale barcellonese, in relazione alla esecuzione di un appalto avente ad oggetto la costruzione di un metanodotto (capo 8); – il capo relativo alla confisca c.d. “allargata” disposta ai sensi dell’art. 12 sexies d.l. n. 306 del 1992 (ora art. 240-bis cod. pen.) di beni mobili e immobili, quote societarie e conti correnti bancari nella disponibilità di Marino Tindaro. Il giudice di rinvio: – ha assolto Marino dal reato di estorsione; – ha confermato il provvedimento di confisca. Gli atti di ricorso, proposti dai difensori di Marino Tindaro, aggrediscono la statuizione relativa alla confisca c.d. “allargata”.
3.2. Alla pronuncia qui impugnata si è pervenuti attraverso un composito percorso che merita un breve cenno con l’intento di enucleare i reali confini del thema decidendi e i profili ancora in discussione.
3.2.1. Il Tribunale aveva disposto la confisca di tutti i beni appartenenti all’imputato, comprese le aziende delle società Marinoter s.r.l. e Fa.nna srl. Il giudice di primo grado aveva rilevato che la confisca “ricalcava” il sequestro emesso in sede di indagini ai sensi dell’art. 12 sexies dl. n. 306 del 1992 e che si fondava sulla riferibilità all’imputato dell’intero patrimonio confiscato, anche se formalmente intestato a terzi, e sulla rilevata sproporzione tra valore dei beni e i redditi dichiarati, questi ultimi neppure sufficienti al sostentamento della famiglia. Il medesimo giudice aveva aggiunto che l’attività di impresa era altamente inquinata a causa dello stretto legame con l’organizzazione mafiosa, sicché, in relazione all’intera redditività aziendale, ricorrevano anche i presupposti della confisca ex art. 416-bis, comma settimo, cod. pen.. Questa impostazione, ripresa dal giudice di appello, ha trovato una rimodulazione per effetto dell’intervento del giudice di legittimità.
Investita del ricorso di Marino Tindaro — che lamentava, tra l’altro l’incertezza sull’istituto attivato (12 sexies dl. n. 306 del 1992 o 416 bis comma settimo, cod. pen.)— la prima sezione della Corte di cassazione ha optato per la qualificazione della confisca solo ed esclusivamente ai sensi dell’art. 12 sexies d.l. n. 306 del 1992 e ha stabilito che tale norma «va ritenuta applicabile nei confronti del soggetto condannato per il reato di concorso esterno nella associazione mafiosa» (cfr. paragrafo 12.5, pagina 92 della sentenza rescindente). Tali punti restano fermi e non sono più suscettibili di revisione né di discussione. Poste queste premesse, la Corte di cassazione, con la sentenza rescindente, ha rilevato carenze motivazionali su due profili: – la circostanza che, alla luce della confisca dell’intero patrimonio dell’imputato comprensivo di realtà aziendali, non è sufficiente il solo parametro della sproporzione tra redditi e investimenti ma si impone una verifica della correlazione tra attività contaminata e costituzione o accrescimento dei beni; – la eventuale incidenza dei redditi da evasione (ove dimostrati, anche in via indiziaria) nelle accumulazioni patrimoniali antecedenti al momento della costituzione del rapporto funzionale tra il Marino e l’ente criminoso. Il giudice di rinvio ha confermato il provvedimento di confisca, ma i difensori del ricorrente denunciano vuoi il mancato rispetto del dictum della Corte di cassazione, vuoi l’inosservanza dei principi che governano la materia.
3.3. Si rende utile un inquadramento della misura di sicurezza patrimoniale di cui all’art. 240-bis cod. pen., sì da metterne in luce, anche al fine di dissipare equivoci, le differenze strutturali rispetto ad altre ipotesi di confisca e soprattutto a quella ex art. 416-bis, comma settimo, cod. pen. che, per decisione intangibile della prima sezione penale, è definitivamente uscita dal panorama degli istituti applicabili in questo processo.
3.3.1. La “confisca in casi particolari“, in origine disciplinata dal dl. n. 306 del 1992, art. 12-sexies, convertito dalla legge n. 356 del 1992, è ora prevista dall’art. 240-bis cod. pen. a seguito dell’introduzione con la legge n. 103 del 2017 del principio di riserva di codice, attuato dal d. Igs. 1 marzo 2018, n. 21. La norma citata recita: « Nei casi di condanna […] per taluno dei delitti previsti dall’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale […] è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica». Il legislatore del 2018 si è premurato di chiarire che: «In ogni caso il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale […]». Tuttavia, secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità, tale ultima previsione non sarebbe suscettibile di applicazione retroattiva (Sez. 1, n. 1778 del 11/10/2019, dep. 2020, Ruggieri, Rv. 278171); principio al quale ha implicitamente aderito la sentenza rescindente. I caratteri dell’istituto in rassegna si trovano delineati in maniera perspicua nella sentenza delle Sezioni Unite n. 27421 del 25/02/2021, Crostella. «Nella prassi applicativa la confisca in casi particolari è definita “atipica”, “allargata” o “estesa” per distinguerla dalle altre ipotesi di confisca obbligatoria, dalle quali si differenzia perché non colpisce il prezzo, il prodotto o il profitto del reato per il quale sia stata pronunciata condanna, ma beni del reo che, al momento del loro acquisto, siano non giustificabili e di valore sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività svolta. La previsione normativa della confisca […] trae giustificazione dalla presunzione relativa di accumulo di ricchezza illecita da parte del soggetto condannato penalmente. L’accertata responsabilità per taluni reati tassativamente elencati di particolare gravità ed allarme sociale costituisce “spia” ovvero indice presuntivo della commissione di altre attività illecite, fattori di un arricchimento che l’ordinamento intende espropriare per prevenirne l’utilizzo quale strumento per ulteriori iniziative delittuose. Nell’ottica del contrasto alla proliferazione del crimine, il legislatore consente una semplificazione probatoria, che si realizza mediante lo svincolo dell’oggetto dell’ablazione dal reato e l’onere, gravante sul condannato titolare o detentore dei beni da confiscare, di giustificarne la provenienza mediante specifica allegazione di elementi in grado di superare la presunzione e di elidere l’efficacia dimostrativa dei dati probatori offerti dall’accusa». «Il legislatore ha scelto di delineare la confisca allargata quale misura di sicurezza che, seppur basata su un sistema probatorio presuntivo, è necessariamente dipendente dalla sussistenza del “reato-spia”. L’accertamento giudiziale della configurabilità in tutti i suoi elementi costitutivi di una delle fattispecie criminose previste dall’art. 240-bis cod. pen. fonda il sospetto che il condannato abbia tratto dall’attività delittuosa le forme di ricchezza di cui dispone, anche per interposta persona. Il giudizio di colpevolezza in ordine al reato commesso e la natura particolare di questo, idoneo ad essere realizzato in forma continuativa e professionale ed a procurare illecita ricchezza, fanno ritenere l’origine criminosa di cespiti, di cui si sia titolari in valore sproporzionato rispetto a redditi ed attività, in base alla presunzione relativa della loro derivazione da condotte delittuose ulteriori rispetto a quelle riscontrate nel processo penale, che, comunque, costituiscono la base della presunzione stessa. Nella considerazione del legislatore, quindi, l’attribuzione al soggetto della commissione di uno dei “reati-spia” costituisce indicatore dell’acquisizione dei beni, sia pure non per derivazione da quel reato specifico». «La relazione tra “reato-spia” ed elemento patrimoniale non è espressa dal legislatore in termini di produzione causale del secondo ad opera del primo, né di proporzione di valore tra i due elementi, ragione per la quale anche la collocazione temporale dell’incremento della ricchezza del condannato di per sé non assume rilievo quale criterio di selezione dei beni confiscabili».
In sintesi, la confiscabilità dei singoli beni, derivante da una situazione di pericolosità presente, non è esclusa per il fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al reato per cui si è proceduto o che il loro valore superi il provento del delitto per cui è intervenuta condanna. Occorre, però, che ricorrano i seguenti ineludibili presupposti:
– l’esistenza di una sproporzione, al momento dell’acquisto di ciascun bene, tra reddito dichiarato o proventi dell’attività economica e valore del bene, unitamente alla assenza di una giustificazione credibile circa la provenienza;
– il rispetto del criterio di “ragionevolezza temporale”.
Sul primo profilo le Sezioni Unite Montella (sentenza n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Rv. 226491) hanno ritenuto necessario «da un lato, che, ai fini della “sproporzione”, i termini di raffronto dello squilibrio, oggetto di rigoroso accertamento nella stima dei valori economici in gioco, siano fissati nel reddito dichiarato o nelle attività economiche non al momento della misura rispetto a tutti i beni presenti, ma nel momento dei singoli acquisti rispetto al valore dei beni di volta in volta acquisiti, e, dall’altro, che la “giustificazione” credibile consista nella prova della positiva liceità della loro provenienza e non in quella negativa della loro non provenienza dal reato per cui è stata inflitta condanna».
Circa il requisito della ragionevolezza temporale, va ricordato che si tratta di criterio assunto anche dalla Corte costituzionale a parametro di verifica della tenuta costituzionale della confisca in casi particolari. Con la sentenza interpretativa di rigetto n. 33 del 2018 la Consulta, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12-sexies nella parte in cui include la ricettazione tra i delitti “spia”, ha riconosciuto che la coerenza col sistema dei valori costituzionali della presunzione relativa di illecita accumulazione dei beni di valore sproporzionato pretende che essa «sia circoscritta […] in un ambito di ragionevolezza temporale» nel senso che il momento di acquisizione del bene da confiscare non dovrebbe risultare così lontano dall’epoca di realizzazione del “reato spia” da rendere ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da una attività illecita, seppur differente da quella che ha determinato la condanna e seppur priva di un positivo accertamento. La “ragionevolezza temporale” va determinata in riferimento alle caratteristiche della singola vicenda concreta e, dunque, al grado di pericolosità sociale che il fatto rivela; compete al giudice verificare se, in relazione a tali circostanze e alla personalità del reo, la vicenda criminosa risulti episodica, occasionale e produttiva di modesto arricchimento, così da non corrispondere al “modello” normativo su cui si fonda la presunzione che ricostruisce in via indiziaria la illiceità della ricchezza acquisita (Corte Cost. n. 33 del 2018, cit.). Le menzionate Sezioni Unite Crostella hanno affermato che il medesimo criterio di ragionevolezza temporale, con analoghi effetti e finalità, deve essere riferito anche alle situazioni in cui l’acquisizione patrimoniale si collochi in un momento successivo alla perpetrazione del “reato-spia”. In tale ipotesi «ferma restando la natura non pertinenziale della relazione tra cosa e reato e l’assenza del nesso di derivazione della prima dal secondo, vanno ritenuti confiscabili anche gli elementi patrimoniali acquisiti dopo la perpetrazione del reato, purché non distaccati da questo da un lungo lasso temporale che renda irragionevole la ablazione e, comunque, non successivi alla pronuncia della sentenza di condanna»; «salva comunque la possibilità di confisca anche di beni acquistati in epoca posteriore alla sentenza, ma con risorse finanziarie possedute prima».
3.3.2. Il carattere della confisca disciplinata dall’art. 240-bis cod. pen. — qui disposta nei confronti di Marino Tindaro in relazione alla condanna definitiva per il reato di cui all’art. 110-416-bis cod. pen. (ricompreso nel catalogo dei “reati spia” citati dalla norma lì dove richiama i delitti previsti dall’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale) — ne rende evidente la differenza rispetto alla confisca prevista dall’art. 416-bis, comma settimo, cod. pen.. Con tale ultima disposizione il legislatore ha previsto che alla condanna per il reato ex art. 416-bis cod. pen. segue «la confisca obbligatoria delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego», formula che estende l’obbligo della confisca a beni per i quali l’articolo 240, primo comma, cod. pen. si limita a disporre la confisca facoltativa.
Nell’ambito delle «cose che servirono o furono destinate a commettere il reato» devono ricomprendersi tutti i beni destinati a essere utilizzati ai fini dell’attività dell’associazione. Deve sussistere una relazione specifica e stabile tra il bene e l’illecito che testimoni l’esistenza di un rapporto strutturale e strumentale (Sez. 1, n. 1808 del 07/08/1984, Aquilino, Rv. 165523; Sez. 2, n. 9954 del 04/03/2005, De Gregorio, Rv. 231029; Sez. 6, n. 27750 del 21/05/2012, Vadalà, Rv. 253113).
Per cose che costituiscono il prezzo, il profitto o il prodotto del reato deve intendersi anche il guadagno di attività economiche formalmente lecite, ma gestite mercé l’esercizio della forza di intimidazione mafiosa. Sotto questo profilo, formano oggetto della confisca obbligatoria gli utili derivanti da un’impresa mafiosa.
L’estensione della confisca alle cose che costituiscono “impiego” del prezzo, del prodotto e del profitto del reato si propone, innegabilmente, di colpire ogni reinvestimento successivo dei profitti delittuosi e degli stessi utili dell’impresa mafiosa e, pertanto, anche le destinazioni sostanzialmente lecite delle utilità (Sez. U, n. 2798 del 12/11/1993, dep. 1994, Cinquegrana, Rv. 196258). Anche un’impresa, nel suo complesso, può essere oggetto di ablazione ai sensi della citata norma in quanto “strumento” del reato associativo mafioso; a tal fine occorre che sia positivamente dimostrata una correlazione, specifica e concreta, tra la gestione dell’impresa e le attività riconducibili al sodalizio criminale (Sez. 1, n. 3392 del 16/07/1993, Acciarito, Rv. 195180; Sez. 6, n. 47080 del 24/10/2013, Guerrera, Rv. 257709; Sez. 6, n. 6766 del 24/01/2014, S.D. Costruzioni S.r.l., Rv. 259073; Sez. 6, n. 13296 del 30/01/2018, D’Amico, Rv. 272640, che in motivazione affronta la tematica in modo approfondito). In assenza di tale prova, «la confisca di un complesso aziendale, disposta ai sensi dell’art. 416-bis, settimo comma, cod. pen., impone una motivazione rigorosa sul “quantum” da sottoporre ad ablazione, la quale deve evidenziare in modo puntuale il nesso di pertinenza fra cespiti oggetto di vincolo reale ed attività illecita» (Sez. 6, n. 13296 del 30/01/2018, D’Amico, cit. che, in motivazione, richiama Sez. 6, n. 39911 del 04/06/2014, Scuto, Rv. 261588; Sez. 6, n. 27075 del 02/04/2015, Grizzanti, non mass.; Sez. 2, n. 42525 del 02/05/2017, Mazzaferro, non mass.).
3.4. In questa ottica va interpretata la sentenza rescindente che, nell’optare in maniera espressa e chiara per la confisca allargata di cui all’art. 240-bis cod. pen., non può che averne recepito integralmente i caratteri.
In sostanza la prima sezione penale ha inteso vincolare il giudice di merito al compito di: – verificare la sproporzione al momento dell’acquisto di ciascun bene (requisito necessario ma non sufficiente), tenendo conto anche di eventuali entrate derivanti da evasione fiscale; – rispettare il criterio di “ragionevolezza temporale”, che la sentenza rescindente declina “in concreto” con la necessità di circoscrivere l’ambito temporale della confisca entro limiti tali da rendere ragionevole la presunzione della derivazione del patrimonio da condotte delittuose ulteriori (antecedenti o successive) rispetto a quelle che sono state accertate nel processo penale e che costituiscono la base della presunzione stessa (cfr. Sez. U n. 27421 del 25/02/2021, Crostella, in motivazione, cit.).
3.5. Il giudice di rinvio ha confermato il provvedimento di confisca dell’intero patrimonio riconducibile all’imputato, così composto: – l’intero capitale e il compendio aziendale della Marinoter s.r.I.; – l’intero capitale e il compendio aziendale della Fa.ma s.r.I.; – le quote di due società (Ex Novo e MMD) ormai del tutto privo di valore; – un immobile sito in contrada Maddalena di Gioiosa Marea, edificato in assenza di concessione edilizia; – tre autovetture e un quadriciclo (due autocarri oggetto di iniziale apprensione sono stati restituiti nel corso del processo); – un maneggio e dieci cavalli; – un terreno agricolo sito nel comune di Piraino (ME); – una unità immobiliare e un terreno siti a Capo d’Orlando; – i saldi attivi dei conti correnti intestati a Marino Tindaro, Marino Anna e Buzzaca Salvatore.
La sentenza qui impugnata non ha assolto in maniera soddisfacente il compito assegnato, pur dovendo precisarsi che alcune circostanze sono ormai incontroverse (cfr. infra paragrafo 5.3.1.) e che alcune questioni giuridiche agitate dal ricorrente vanno disattese (cfr. infra paragrafo 5.3.2.).
3.5.1. Sotto il profilo fattuale, è un dato acquisito al processo, non più contestabile, il fatto che i beni oggetto di confisca rientrano tutti nella disponibilità dell’imputato, anche quando risultano formalmente intestati ad altre persone fisiche (la figlia Anna, il figlio Giuseppe, la moglie Concetta Vincenza Magistro, nonché Buzzanca Salvatore dall’imputato definito “proprio nipote”), delle quali, secondo le sue stesse ammissioni, Marino Tindaro si è servito come intestatari fittizi, ovvero a società a responsabilità limitata che, facendo figurare proprietario e amministratore un prestanome (la figlia Anna o il “nipote” Buzzanca), l’imputato ha utilizzato come “schermo”.
3.5.2. Sotto il profilo giuridico, va evidenziata l’erroneità degli argomenti difensivi che fanno leva sulla necessità di individuare un collegamento causale tra beni e illecito e che pretendono di circoscrivere la confisca solo ai beni acquisiti nel periodo dal 2006 al 2008 nel quale è stato definitivamente accertato il delitto c.d. “spia” di cui agli artt. 110-416bis cod. pen.. Come già detto, la confisca “allargata” opera al di fuori di un nesso pertinenziale con il reato ascritto all’imputato. Inoltre non è richiesto affatto che i beni confiscati siano entrati a far parte del patrimonio dell’imputato nel periodo di commissione del reato spia; quei beni possono esservi entrati sia nel periodo precedente sia in quello successivo al tempus commissi delicti purché venga rispettato il criterio di “ragionevolezza temporale” sopra illustrato.
3.5.3. Fermo ciò, la sentenza impugnata, come quelle di merito che l’hanno preceduta, non svolge un rigoroso accertamento sulla stima dei valori economici in gioco, che, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite Montella (sentenza n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Rv. 226491), devono essere individuati nel reddito dichiarato o nelle attività economiche considerando non il momento della misura rispetto a tutti i beni presenti, ma il momento dei singoli acquisti rispetto al valore dei beni di volta in volta acquisiti, avendo riguardo alla eventuale esistenza di una “giustificazione” credibile consistente nella prova della positiva liceità della loro provenienza; e ciò tenendo conto, in base e nei limiti del dictum della sentenza rescindente, anche degli eventuali proventi derivanti da evasione fiscale. Neppure viene chiarito quale sia l’ambito temporale considerato di rilievo in ossequio al criterio di “ragionevolezza temporale” che, ben potendo estendersi anche ad anni precedenti al 2006 o successivi al 2008, deve avere riguardo alle caratteristiche della presente vicenda e, dunque, al grado di pericolosità sociale che il fatto rivela sì che la fattispecie concreta possa ritenersi corrispondente al “modello” normativo fondativo della presunzione che ricostruisce in via indiziaria la illiceità della ricchezza acquisita.
- Consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio nei confronti di Marino Tindaro, limitatamente alla disposta confisca. Il ricorso di Foti Carmelo Vito deve essere dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.