Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, sentenza 31 gennaio 2023, n. 4145
PRINCIPIO DI DIRITTO
La disposizione dell’art. 578-bis cod. proc. pen. ha, con riguardo alla confisca per equivalente e alle forme di confisca che presentino comunque una componente sanzionatoria, natura anche sostanziale ed è, pertanto, inapplicabile in relazione ai fatti posti in essere anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 6, comma 4, d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, che ha introdotto la suddetta disposizione.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
- La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente: “Se la disposizione dell’articolo 578-bis cod. proc. pen. sia applicabile, in ipotesi di confisca per equivalente, ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore dell’articolo 1, comma 4, lettera f), legge 9 gennaio 2019, n. 3, che ha inserito nella stessa le parole «o la confisca prevista dall’articolo 322-ter cod. pen.»”.
Avuto riguardo alla formulazione del quesito, così come posto dall’ordinanza di rimessione, le Sezioni Unite ritengono opportuno, in via preliminare, precisare che la questione rimessa, quanto al dato cronologico, deve essere perimetrata, nella sua portata generale ai reati ricompresi nell’originaria formulazione dell’art. 578-bis cod. proc. pen. e commessi anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 6, comma 4, d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21 – che ha introdotto, appunto, nel codice di rito l’art. 578-bis cod. proc. pen. – ossia ai fatti di reato commessi prima della data del 6 aprile 2018 (di entrata in vigore del d.lgs. n. 21 del 2018) e non anche ai reati commessi tra la predetta data e quella del 13 gennaio 2019, data di entrata in vigore dell’art. 1, comma 4, lett. f), legge 9 gennaio 2019, n. 3, che ha inserito nell’art. 578-bis cod. proc. pen. le parole «o la confisca prevista dall’art. 322-ter cod. pen.».
Infatti, precisa la Corte, i reati tributari – a differenza di quelli previsti dal codice penale e per i quali si applica la confisca di cui all’art. 322-ter cod. pen., a seguito della novella dell’art. 578-bis cod. proc. pen. introdotta dall’art. 1, comma 4, lett. f), legge n. 3 del 2019 – rientrano nel novero di quelli per i quali l’art. 578-bis cod. proc. pen. è applicabile sin dalla sua iniziale previsione.
Ne consegue che per i reati, compresi ab origine nell’ambito di operatività dell’art. 578-bis cod. proc. pen., non si pone, se commessi dopo la data del 6 aprile 2018, alcuna questione relativa all’applicabilità della statuizione di confisca per equivalente, dovendo il giudice dell’impugnazione mantenere ferma detta statuizione, nel caso in cui pronunci sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione (o per amnistia) del reato presupposto, previo positivo accertamento della responsabilità dell’imputato.
- La questione, così come innanzi precisata, presuppone che, con riguardo ai reati per i quali è stata emessa la sentenza di condanna, sia maturato il corrispondente termine di prescrizione. Infatti, il ricorrente ha, con fondamento, eccepito, con il primo motivo di ricorso, l’estinzione dei reati per intervenuta prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata, quantunque dedotta in quella sede.
Sicché, una volta constatato che, come già esattamente sottolineato dall’ordinanza di rimessione, la prescrizione è maturata, in data 20 marzo 2018, per il reato di cui al capo 1) e, in data 8 marzo 2019, per il reato di cui al capo 2) della rubrica, è innanzitutto necessario scrutinare i motivi di ricorso che, non assorbiti (come il quarto motivo) dalla declaratoria di prescrizione dei reati, sarebbero astrattamente suscettibili di precludere l’esame della questione rimessa alle Sezioni Unite.
2.1. Va, pertanto, esaminato, nell’ordine logico, il terzo motivo del ricorso con il quale il ricorrente si duole della ritenuta configurabilità dell’elemento soggettivo del reato, sostenendo che la Corte di merito avrebbe omesso di esaminare le censure sollevate con l’atto di appello, con le quali egli aveva dedotto di aver lavorato nell’azienda alle dipendenze e per conto della cognata, la quale gestiva pienamente l’impresa e, dunque, poteva essere interessata alla presentazione di dichiarazioni fiscali mendaci.
La doglianza, osserva la Corte, è manifestamente infondata, aspecifica e articolata attraverso censure di merito che non sono consentite in sede di giudizio di legittimità.
La sentenza impugnata, infatti, ha preso puntualmente in carico i rilievi formulati nell’atto di appello, osservando, in primo luogo, come fosse logicamente insostenibile la tesi diretta a prospettare l’interesse di un terzo alla presentazione di dichiarazioni fiscali false, posto che le stesse riguardavano una ditta individuale, della quale era titolare proprio il ricorrente, per cui alcun interesse avrebbe potuto avere la cognata ad ingerirsi nelle dichiarazioni dei redditi e Iva della persona fisica, Fabio Esposito, con la conseguenza che la prospettazione del ricorrente di essere incorso in un errore sul fatto al momento della presentazione delle dichiarazioni reddituali appare del tutto pretestuosa, oltre che stravagante rispetto agli accertamenti di fatto compiuti dai giudici di merito.
In secondo luogo, la Corte d’appello ha evidenziato come l’imputato, nel presentare, sottoscrivendole, le dichiarazioni dei redditi ritenute mendaci, si fosse consapevolmente attribuito tutte le responsabilità derivanti da tale operazione, non potendo rilevare in senso contrario la sua dedotta estraneità alla gestione sociale o una sua riserva mentale in ordine al contenuto di quanto dichiarato al fisco o, ancora, il suo negligente disinteresse nei confronti del compendio documentale sottoposto all’Agenzia delle entrate (le fatture per operazioni inesistenti) ai fini della determinazione dell’imposta dovuta.
Infine, la Corte distrettuale ha affermato come l’assunto del ricorrente fosse stato significativamente smentito, sia pure in parte, dalle dichiarazioni della commercialista, la quale aveva dichiarato di aver comunque avuto contatti professionali con l’imputato, che, dunque, si era interessato alla gestione dell’azienda, sebbene delle relative vicende anche la cognata ne fosse a conoscenza. Perciò, il motivo di ricorso, anche omettendo di confrontarsi con tutti gli argomenti risultanti dal testo della sentenza impugnata, propone una ricostruzione fattuale della vicenda processuale, facendo leva su censure di merito che – in presenza di una congrua motivazione, come in precedenza riassunta, e priva di vizi di manifesta illogicità – sono precluse nel giudizio di legittimità, all’interno del quale, sulla base di una consolidata giurisprudenza di legittimità mantenuta ferma anche dopo la modifica dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. introdotta dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, il sindacato demandato alla Corte di cassazione è limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si sia avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali.
Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrullo, Rv. 226074 – 01; Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260 – 01; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794 – 01; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944 – 01).
2.2. E’ manifestamente infondato anche il secondo motivo di ricorso, nella prima parte della doglianza con la quale il ricorrente deduce che la confisca sia stata illegittimamente disposta a norma dell’articolo 12-bis d.lgs. 24 settembre 2015 n. 158, ossia sulla base di una previsione normativa entrata in vigore in epoca successiva alla data di commissione dei reati.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che, in materia di reati tributari, la confisca, anche per equivalente, dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo di uno dei delitti previsti dal d.igs. 10 marzo 2000, n. 74, deve essere sempre disposta nel caso di condanna o di sentenza di applicazione concordata della pena, stante l’identità della lettera e la piena continuità normativa tra la disposizione di cui all’art. 12-bis, comma secondo, del predetto d.lgs. (introdotta dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158), e la previgente fattispecie prevista dall’art. 322-ter cod. pen., richiamato dall’art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244, abrogata dall’art. 14 del citato d.lgs. n. 158 del 2015 (Sez. 6, n. 10598 del 30/01/2018, Cristaudo, Rv. 272720 – 01; Sez. 3, n. 50338 del 22/09/2016, Lombardi, Rv. 268386 – 01; Sez. 3, n. 35226 del 16/06/2016, D’Agapito, Rv. 267764 – 01).
Ciò posto, è manifestamente infondata anche la collegata doglianza svolta dal ricorrente con la memoria, secondo la quale la confisca per i reati tributari potrebbe essere disposta, avuto riguardo all’epoca dei commessi reati, soltanto per il prezzo, ma non anche per il profitto del reato, tanto sul rilievo che l’ablazione del profitto sarebbe stata prevista solo per effetto delle modifiche apportate all’art. 322-ter cod. pen. dalla legge 6 novembre 2012, n. 190 ratione temporis non vigente al momento della commissione dei fatti.
A tale proposito, va ricordato che la giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito che, anche dopo le modifiche apportate all’art. 322-ter cod. pen. dalla legge n. 190 del 2012, la confisca per equivalente, in tema di reati tributari, può essere disposta non soltanto per il prezzo, ma anche per il profitto del reato (Sez. 3, n. 55482 del 20/07/2017, Manzo, Rv. 271987 – 01; Sez. 3, n. 23108 del 23/04/2013, Nacci, Rv. 255446 – 01). Ciò in quanto il rinvio alle “disposizioni di cui all’articolo 322-ter del codice penale”, contenuto nell’art. 1, comma 143, della legge n. 244 del 2007, consente di affermare che, con riferimento ai reati tributari, ha sempre trovato applicazione non solo il primo comma dell’art. 322-ter cod. pen. (poi novellato dall’art. 1, comma 75, lettera o), della legge 6 novembre 2012, n. 190) ma anche il secondo comma della norma codicistica, nel cui ambito di operatività erano pertanto ricomprese tanto la nozione di “prezzo” quanto quella di “profitto” del reato (Sez. 3, n. 35807 del 07/07/2010, Bellonzi, Rv. 248618).
2.3. E’ invece fondato il primo motivo di ricorso con il quale è stata eccepita la prescrizione dei reati, essendo i relativi termini maturati anteriormente alla pronuncia della sentenza impugnata nonostante l’eccezione fosse stata dedotta dalla difesa dell’imputato nel corso del giudizio d’appello. Infatti, come è stato puntualmente indicato nell’ordinanza di rimessione, i reati per i quali è stata pronunciata condanna sono stati commessi in epoca precedente all’entrata in vigore della disciplina di cui all’art. 17, comma 1-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, che ha elevato di un terzo i termini di prescrizione per i delitti previsti dagli articoli da 2 a 10 del medesimo decreto legislativo.
Sul punto, occorre precisare che il comma 1-bis dell’art. 17 d.lgs. n. 74 del 2000 è entrato in vigore il 17 settembre 2011, essendo stato detto comma aggiunto, nel corpo dell’art. 17 d.lgs. n. 74 del 2000, dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lett. /), d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148. Ciò in quanto l’art. 36-vicies bis dl. cit. dispone: «Le norme di cui al comma 36-vicies semel si applicano ai fatti successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto» e la data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 138 del 2011 è il 17 settembre 2011, giorno successivo alla pubblicazione della legge n. 148 del 2011 sulla Gazzetta Ufficiale, secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 6, della medesima legge. Siccome i reati per i quali è stata pronunciata condanna, entrambi sussunti nella fattispecie di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, sono stati commessi, come espressamente indicato nei capi di imputazione, in data 20 settembre 2010 e in data 8 settembre 2011, deve applicarsi, in relazione ad entrambi i reati per i quali è stata pronunciata condanna, la disciplina vigente prima dell’entrata in vigore del comma 1-bis dell’art. 17 d.lgs. n. 74 del 2000, ossia la disciplina prevista, in linea generale, dall’art. 157 cod. pen.
Quest’ultima disposizione, per i reati sanzionati con pena massima non superiore a sei anni di reclusione, come appunto per il delitto ratione temporis vigente di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, fissava un termine necessario a prescrivere pari a sei anni, che, in caso di interruzione, poteva essere aumentato fino a sette anni e mezzo. Ciò posto, non risultando cause di sospensione, i termini di prescrizione sono decorsi, per il primo reato, in data 20 marzo 2018 e per il secondo reato in data 08 marzo 2019, ossia, come fondatamente lamenta il ricorrente, anteriormente alla pronuncia della sentenza impugnata, emessa dalla Corte d’appello di Torino il 12 marzo 2021.
Il ricorso deve, pertanto, essere accolto in parte qua e la sentenza impugnata va conseguentemente annullata senza rinvio, perché i reati sono estinti per prescrizione.
Il quarto motivo di ricorso, col quale il ricorrente lamenta il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, è, all’evidenza, assorbito per effetto dell’intervenuta causa estintiva dei reati.
- Può essere ora affrontata, osserva la Corte, la questione rimessa alle Sezioni Unite che, per ragioni di stretta connessione, va esaminata congiuntamente alla doglianza sollevata dal ricorrente con la seconda parte del secondo motivo di ricorso, con la quale sostiene che la confisca per equivalente, in considerazione del suo carattere sanzionatorio, non può essere disposta nel caso in cui il processo venga definito con una sentenza di prescrizione.
La doglianza, così come esposta, non è fondata.
Essa aveva indubbio rilievo prima dell’introduzione nel codice di rito dell’art. 578-bis cod. proc. pen., allorquando le Sezioni Unite avevano affermato che il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non poteva disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle cose che ne costituiscono il prezzo o il profitto (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264435 – 01).
Il suddetto principio deve essere tuttavia rivisto alla luce dei sopravvenuti mutamenti legislativi. Infatti, dopo la sentenza delle Sezioni Unite Lucci, l’art. 6, comma 4, del decreto legislativo 1 marzo 2018, n. 21 ha inserito nel codice di rito l’art. 578-bis cod. proc. pen., in forza del quale «Quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dal primo comma dell’articolo 240 bis del codice penale e da altre disposizioni di legge [o la confisca prevista dall’articolo 322-ter del codice penale: parole, queste ultime, successivamente inserite dall’art. 1, comma 4 lettera f), della legge 9 gennaio 2019, n. 3], il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato».
A questo proposito le Sezioni Unite hanno precisato che – al richiamo contenuto nell’art. 578-bis cod. proc. pen., ossia quanto al riferimento che la norma de qua opera alla confisca “prevista da altre disposizioni di legge” – deve riconoscersi una valenza di carattere generale, capace di ricomprendere, siccome formulato senza ulteriori specificazioni, anche le confische disposte da fonti normative poste al di fuori del codice penale (Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, Perroni, in motivazione; Sez. U, n. 6141 del 25/10/2018, dep. 2019, Milanesi, in motivazione).
Da ciò deriva che l’art. 578-bis cod. proc. pen. si applica anche alla confisca prevista dall’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, con la conseguenza che, in tema di reati tributari, il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, devono decidere sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato.
Nondimeno, prosegue la Corte, l’operatività del meccanismo delineato nell’art. 578-bis cod. proc. pen. presuppone che la disposizione sia, ratione temporis, applicabile al caso di specie e ciò costituisce la ratio essendi della questione rimessa alle Sezioni Unite e che perciò deve essere risolta, componendo il contrasto segnalato funditus con l’ordinanza di rimessione.
- Le Sezioni Unite ritengono che, pur poggiando entrambi gli orientamenti giurisprudenziali in contrasto su solidi fondamenti esegetici, debba propendersi in via interpretativa per il secondo indirizzo, che nega l’applicabilità dell’art. 578-bis cod. proc. pen., con particolare riguardo alla confisca per equivalente, per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore dell’art. 6, comma 4, d.lgs. n. 21 del 2018 [o, per la confisca (di valore) prevista dall’art. 322-ter cod. pen., per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 4, lettera f) legge n. 3 del 2019].
4.1. Per dare conto di ciò, appare necessario, sia pure sinteticamente, stabilire la natura giuridica della confisca per equivalente (o di valore).
La Corte costituzionale, a proposito della confisca per equivalente originariamente prevista in materia di reati tributari dall’art. 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008), ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la confisca per equivalente di cui all’art. 322-ter cod. pen. e di cui al predetto art. 1, comma 143, della legge n. 244 del 2007, sollevata sul presupposto interpretativo, ritenuto erroneo, secondo il quale la confisca in questione potesse essere applicata, in via retroattiva, anche ai reati tributari indicati dalla legge n. 244 del 2007 commessi nel tempo in cui tale istituto non era legislativamente previsto oppure risultava diversamente disciplinato quanto a tipo, qualità e durata.
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte costituzionale ha chiarito che «la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all’assenza di un “rapporto di pertinenzialità” (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni, conferiscono all’indicata confisca una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole così una natura “eminentemente sanzionatoria”, che impedisce l’applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell’articolo 200 c.p.».
Ha, inoltre, aggiunto che tale approdo interpretativo è conseguibile sulla base del duplice rilievo in forza del quale «il secondo comma dell’articolo 25 Cost. vieta l’applicazione retroattiva di una sanzione penale, come deve qualificarsi la confisca per equivalente, e che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto in contrasto con l’articolo 7 della Convenzione l’applicazione di una sanzione riconducibile proprio ad un’ipotesi di confisca per equivalente (il riferimento è alla sentenza del 9 febbraio 2004, nella causa n. 307-A/1995, Welch contro Regno Unito)» (Corte cost., sent. n. 97 del 2009).
Questi principi sono stati immediatamente replicati dalla Consulta con l’ordinanza n. 301 del 2009 (sempre in materia di confisca di valore prevista per i reati tributari) e sono stati estesi, sulla base del ritenuto carattere sanzionatorio della misura, sia ad altre tipologie di confisca (come, con la sentenza n. 196 del 2010, in materia di confisca di veicoli prevista dall’art. 186 del codice della strada) e sia ad analoghe fattispecie di confisca per equivalente previste addirittura in materia di sanzioni amministrative.
Quanto a tale ultimo aspetto, precisa la Corte, assume particolare rilievo la sentenza n. 68 del 2017 con la quale la Corte costituzionale ha ribadito la natura penale, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, della confisca per equivalente previsa dall’art. 187-sexies del d.lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 (T.U. delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria), chiarendo che, con l’espressione “confisca per equivalente”, si indica una particolare misura di carattere ablativo che il legislatore appronta per il caso in cui, dopo una condanna penale, non sia possibile eseguire la confisca diretta dei beni che abbiano un «rapporto di pertinenzialità» (Corte cost., ord.n. 301 e n. 97 del 2009) con il reato. Mentre la confisca diretta, reagendo alla pericolosità indotta nel reo dalla disponibilità di determinati beni, assolve a una funzione essenzialmente preventiva, la confisca per equivalente, che raggiunge beni che non hanno alcun rapporto con il reato, «palesa una connotazione prevalentemente afflittiva ed ha, dunque, una natura “eminentemente sanzionatoria”» (Corte cost., ord. n. 301 del 2009).
La Consulta ha sottolineato come il mero effetto ablativo connesso all’istituto della confisca non valga di per sé a segnare la natura giuridica della misura, perché «la confisca non si presenta sempre di eguale natura e in unica configurazione, ma assume, in dipendenza delle diverse finalità che la legge le attribuisce, diverso carattere, che può essere di pena come anche di misura non penale» (Corte cost., sent. n. 46 del 1964). Ha, pertanto, affermato che la confisca per equivalente prevista dall’art. 187- sexies, condividendo il tratto essenziale proprio delle altre ipotesi di confisca di valore, con specifico riferimento al caso regolato dall’art. 322-ter cod. pen., si applica a beni che non sono collegati al reato da un nesso diretto, attuale e strumentale, cosicché la privazione imposta al reo risponde a una finalità di carattere punitivo, e non preventivo.
Ne deriva che «una volta acclarata la funzione punitiva propria della confisca prevista dall’art. 187-sexies impugnato, è conseguente l’applicabilità dell’art. 25, secondo comma, Cost. in punto di divieto di retroattività». «Tale garanzia costituzionale concerne non soltanto le pene qualificate come tali dall’ordinamento nazionale, ma anche quelle così qualificabili per effetto dell’art. 7 della CEDU (Corte cost., sent. n. 196 del 2010), perché punire a qualsivoglia titolo la persona per un fatto privo di antigiuridicità quando è stato commesso significa violare il cuore dell’affidamento che l’individuo è legittimato a riporre nello Stato (Corte cost., sent. n. 364 del 1988) quanto all’esercizio della potestà pubblica in forme prive di arbitrarietà e irrazionalità».
Ha, pertanto, concluso che la confisca per equivalente, nonostante sia prevista, nel caso di specie, dalla legge come conseguente a un illecito amministrativo, «va considerata una “pena”, come tale assistita da tutte le garanzie prescritte al riguardo dall’art. 7 della CEDU. Essa, infatti, svolgendo, con tratti di significativa afflittività, una funzione punitiva, risponde positivamente ai criteri enunciati a tal fine dalla consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (…)».
4.2. A questi esiti era giunta anche la giurisprudenza di legittimità che, con la sentenza delle Sezioni Unite Lucci, ha ribadito che la confisca per equivalente (disciplinata dall’art. 322-ter cod. pen. e da tutte le disposizioni che a tale ultima norma rinviano) ha natura sanzionatoria, sul fondamentale rilievo che l’art. 15 della legge 29 settembre 2000, n. 300 (introduttiva appunto dell’art. 322-ter cod. pen.) stabilisce, all’art. 15, la irretroattività della confisca per equivalente dei proventi del reato, appalesandosi una simile opzione sintomatica del fatto che il legislatore ha configurato l’ablazione del patrimonio del reo, in proporzione corrispondente all’arricchimento provocato dall’illecito, quale misura essenzialmente sanzionatoria.
Da ciò è stata tratta la conclusione che la confisca per equivalente, imponendo un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile, sia connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, esulando, invece, dalla stessa, qualsiasi funzione di prevenzione costituente la principale finalità delle misure di sicurezza (ex plurimis, Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255037-01; Sez. 3, n. 18311 del 06/03/2014, Cialini, Rv. 259103-01; Sez. 3, n. 23649 del 27/02/2013, D’Addario, Rv. 256164-01).
Il fatto che il legislatore non abbia, con norme transitorie analoghe al citato art. 15, replicato successivamente la medesima regula iuris allorquando ha introdotto, nel corso del tempo, le confische di valore in relazione a specifiche fattispecie criminose, non consente all’interprete di approdare a soluzioni esegetiche diverse, sia per la superfluità della disposizione (anche nella sua mancanza il divieto di retroattività deve ritenersi implicito nel sistema e perciò lo stesso sussistente) e sia perché, nel tempo, il formante giurisprudenziale interno e sovranazionale si è assestato nel ritenere la connotazione sanzionatoria come componente tipica della confisca per equivalente.
Ne consegue che la confisca di valore, oltre ad assolvere anche una funzione ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, risulta dunque parametrata «al profitto od al prezzo dell’illecito solo da un punto di vista “quantitativo”», poiché «l’oggetto della ablazione finisce per essere rappresentato direttamente da una porzione del patrimonio, il quale, in sé, non presenta alcun elemento di collegamento col reato; il che consente di declinare la funzione della misura in chiave marcatamente sanzionatoria (v. al riguardo anche l’ordinanza n. 97 del 2009 della Corte costituzionale, nella quale è richiamata la giurisprudenza di legittimità nonché la già ricordata sentenza della Corte EDU Welch c. Regno Unito)» (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, in motivazione Rv. 264435 – 01).
4.3. Sulla base di questi principi, soggiunge la Corte, nel caso in cui il giudice abbia dichiarato la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, il diritto vivente si è stabilizzato nel ritenere che non si possa disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle cose che ne costituiscono il prezzo o il profitto (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, cit., Rv. 264435 – 01), mentre si possa disporre, a norma dell’art. 240, secondo comma, n. 1 cod. pen., la confisca del prezzo e, ai sensi dell’art. 322-ter cod. pen., la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale sia rimasto inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, cit., Rv. 264434 – 01).
4.4. Il quadro, che è stato sommariamente delineato con specifico riferimento all’ordinamento nazionale, va brevemente completato, fatte salve le considerazioni già in precedenza esposte, mediante un rapido riferimento all’ordinamento sovranazionale per ricordare che, tanto l’ordinamento interno quanto quello convenzionale, attribuiscono natura penale all’istituto della confisca per equivalente (o di valore) la quale, rientrando pertanto nella nozione di “materia penale” come declinata sulla base degli orientamenti espressi (in applicazione degli Engel criteria) dalla Corte EDU, deve essere governata secondo le regole stabilite dallo statuto penale delle garanzie convenzionali, con la precisazione che, in presenza di “illeciti” suscettibili di una duplice qualificazione “penalistica”, sono applicabili sia lo statuto garantistico convenzionale che quello, in ipotesi più ampio, costituzionale.
Ciò chiarito, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in più occasioni, ha riconosciuto alla confisca natura di pena ai sensi dell’art. 7 della Convenzione EDU rilevando che tale misura non tende alla riparazione pecuniaria di un danno, ma si pone obiettivi preventivi e repressivi, funzioni queste che appartengono alle sanzioni penali. Secondo la giurisprudenza convenzionale, per rendere efficace la disposizione dell’art. 7 CEDU e la tutela da essa offerta, l’autorità giudiziaria deve essere libera di andare oltre le apparenze e valutare essa stessa se una particolare misura costituisca, nel merito, una «pena» nel senso del predetto art. 7 (così, G.I.E.M. S.R.L. e altri c. Italia cit.).
I criteri diagnostici che la Corte di Strasburgo ha enucleato per la riconoscibilità della natura penale di una sanzione possono riassumersi: 1) nella conseguenzialità dell’adozione della misura rispetto alla condanna per un reato; 2) nella natura e scopo della misura; 3) nella qualificazione operata dal diritto interno (o, in sua vece, dalla giurisprudenza); 4) nelle relative procedure di applicazione ed esecuzione; 5) nel grado di afflittività che la connota (Corte EDU, 9/02/1994 Welch c. Regno Unito).
Il punto di partenza per qualsiasi valutazione dell’esistenza di una pena, dunque, per la giurisprudenza convenzionale, è dato innanzitutto dall’imposizione della misura a seguito di una condanna per un «reato». Tuttavia, si tratta di uno solo dei vari criteri esistenti; l’assenza di una condanna da parte dei tribunali penali interni non è ritenuta sufficiente per escludere l’esistenza di una «pena» nel senso dell’art. 7 (G.I.E.M. S.R.L. e altri c. Italia §§ 215-219). A tal fine hanno rilievo, come anticipato, anche la natura e lo scopo della misura in questione (in particolare il suo scopo repressivo), la sua qualificazione nel diritto interno, le procedure associate alla sua adozione e alla sua esecuzione, nonché la sua gravità. La gravità della misura non è tuttavia decisiva di per sé, poiché molte misure non penali di natura preventiva possono avere un impatto sostanziale sulla persona interessata.
Non possono esservi dubbi, osserva la Corte, che la confisca per equivalente sia sussumibile in tutti i parametri di riconoscimento della sanzione penale indicati dalla giurisprudenza europea.
4.5. Possono ora trarsi le conclusioni sulla natura giuridica della confisca per equivalente.
Essa – nei soli casi di impossibilità di colpire, con la confisca diretta ex art. 240 cod. pen., il vantaggio illecito (ossia direttamente il profitto, il prodotto o il prezzo del reato) conseguito per il fatto criminoso commesso dal responsabile – è concepita come unico strumento adeguato a rimuovere in capo al soggetto attivo del reato le conseguenze del vantaggio economico dallo stesso o da altri illecitamente conseguito attraverso la sua condotta, indipendentemente dal nesso di pertinenzialità con il reato stesso, ossia indipendentemente da ogni collegamento del bene da confiscare con il fatto criminoso.
Consistendo in una “forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti”, la confisca per equivalente assume perciò un carattere preminentemente sanzionatorio (Sez. U, n. 41936 del 25/10/2005, Muci, in motivazione), aggredendo beni che, pur nella disponibilità, anche per interposta persona, dell’autore del reato, sono individuati, senza alcun nesso di pertinenzialità col fatto criminoso, in base alla loro corrispondenza con i benefici che il responsabile ha ottenuto o, in determinati casi, fatto indebitamente ottenere ad altri dalla commissione dell’illecito.
In altri termini, quando l’ordinamento, nell’impossibilità di apprendere coattivamente, in via diretta, il provento dell’illecito, consente di confiscare, peraltro obbligatoriamente, beni, sia pure del tutto leciti, di valore corrispondente al vantaggio illecito conseguito, ma del tutto scollegati dal reato, la confisca del provento del reato assume una funzione pienamente sanzionatoria.
Coglie indubbiamente nel segno il primo orientamento giurisprudenziale, passato in rassegna dall’ordinanza di rimessione, quando afferma che la confisca per equivalente svolge anche una funzione ripristinatoria o di riallineamento della situazione economica modificata a favore del beneficiario del vantaggio illecito derivante dalla commissione del reato, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile.
Una tale affermazione, tuttavia, non esclude, come lo stesso orientamento ammette, il carattere afflittivo della misura, tenuto conto del rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, e vale esclusivamente per riconoscere alla confisca per equivalente una natura poliedrica o multiforme in quanto, accanto al carattere sanzionatorio, la stessa presenta una finalità di recupero, atteso che essa trova applicazione nelle ipotesi in cui è impossibile confiscare in modo diretto, ai sensi dell’art. 240 cod. pen., il profitto, il prodotto o il prezzo del reato.
Siccome gli istituti che rientrano nella nozione di sanzione penale devono essere governati necessariamente dagli statuti di garanzia, per quanto qui interessa, predisposti dall’ordinamento interno (art. 25, secondo comma, Cost.) e da quello convenzionale (art. 7 CEDU), è la funzione sanzionatoria della confisca per equivalente che assorbe quella ripristinatoria e/o le eventuali altre concorrenti funzioni non penali, cui la confisca di valore si atteggi, e non viceversa.
- Ciò precisato, chiosa ancora la Corte, resta da stabilire, per dirimere il contrasto insorto, quale sia l’esatto ambito di operatività dell’art. 578-bis cod. proc. pen.
Il primo orientamento, facendo maggiormente leva sulla funzione ripristinatoria della confisca per equivalente, attribuisce natura esclusivamente processuale alla disposizione, affermando perciò che la sua applicazione sarebbe retta dal principio tempus regit actum.
Il secondo indirizzo, invece, valorizzando la natura sanzionatoria della confisca per equivalente ed attribuendo all’art. 578-bis cod. proc. pen. natura mista (sostanziale e processuale insieme), esclude l’applicabilità della disposizione ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della norma stessa, sulla base del divieto di retroattività connaturato alla natura penale dell’istituto (ex art. 25, secondo comma, Cost.) e alle garanzie convenzionali (art. 7 CEDU) applicabili nella materia penale.
5.1. Secondo il primo indirizzo interpretativo, espresso funditus dalla sentenza Consentino, l’art. 578-bis cod. proc. pen. avrebbe natura di disposizione processuale, perché non introduce nuovi casi di confisca, ma si limita a definire la cornice procedimentale entro cui può essere disposta la confisca senza condanna
Sul punto, le Sezioni Unite ritengono che i criteri enunciati col suddetto orientamento non consentano affatto di affermare la natura esclusivamente processuale della disposizione in parola.
Infatti, in disparte le questioni talvolta di non facile soluzione dirette a discernere la natura processuale o sostanziale di una disposizione normativa, avuto soprattutto riguardo agli scenari che la dottrina penalistica ha frequentemente tracciato a tale proposito, il fatto che una norma, collocata topograficamente nel codice di rito, non disciplini i requisiti tipici di una incriminazione non vale ad escludere per ciò solo la natura sostanziale di essa e la ficiale sua sussunzione nell’area regolata dal principio di legalità in materia penale e di tutti i suoi corollari esplicitamente o implicitamente enunciati da norme costituzionali poste a presidio dei diritti fondamentali della persona (principalmente gli artt. 2, 3, 13, 25, 27, 101, 111 Cost.), tra cui il divieto di retroattività in peius delle norme penali.
5.2. La dottrina, precisa la Corte, ha tradizionalmente attribuito la natura di norme di diritto penale sostanziale sia alle norme giuridiche che stabiliscono quali siano i reati e le pene ma anche a quelle che disciplinano le cause che condizionano, escludono o modificano la punibilità, riservando all’area del diritto processuale penale le norme giuridiche aventi ad oggetto l’attività degli organi statali diretta all’accertamento dello ius puniendi ed evidenziando come, accanto a norme di chiara collocazione, ve ne siano altre, principalmente quelle che attengono al decorso del tempo, le quali potrebbero essere rilevanti tanto per il processo quanto per i rapporti di diritto materiale e per le quali si pone sovente un problema di “riconoscibilità”.
Lo statuto garantistico, che il diritto costituzionale (art. 25, secondo comma, Cost.) riserva alle norme penali sostanziali, ha portato la dottrina, anche recente, a ritenere che, se l’art. 25, secondo comma, Cost. stabilisce che la sanzione penale può essere applicata (“nessuno può essere punito …”) a chi abbia commesso un fatto di reato, sempre che una legge sia entrata in vigore anteriormente alla commissione del fatto stesso (“… se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”), ciò significa che tutte le norme che alla commissione di un fatto, qualificato come reato, riconnettono l’effetto della punizione sono “coperte” dalla garanzia della irretroattività. Ciò comporta che il divieto di retroattività delle leggi penali sfavorevoli ricomprende nel concetto di “punizione” e di “legge penale” tutte le norme che incidano negativamente sull’an, sul quantum e sul quomodo della punibilità.
La recente giurisprudenza costituzionale ha attribuito natura sostanziale a norme dell’ordinamento penitenziario e dell’ordinamento processuale ritenute, in passato, anche dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 24561 del 30/05/2006, A., Rv. 233976 – 01), assoggettate al principio del tempus regit actum, ed ha affermato, coniugando il principio di irretroattività delle norme penali in peius con quello di prevedibilità, che il divieto di retroattività mira ad assicurare al destinatario della norma una ragionevole prevedibilità delle conseguenze cui si esporrà trasgredendo il precetto penale per garantirgli, in linea generale, la certezza di libere scelte d’azione e per consentirgli, nell’ipotesi in cui sia instaurato un procedimento penale a suo carico, di compiere scelte difensive sulla base di ragionevoli ipotesi circa i concreti scenari sanzionatori a cui potrebbe andare incontro in caso di condanna (Corte cost., sent. n. 32 del 2021).
Sulla scia della predetta decisione, la Corte costituzionale ha posto in evidenza il principio (di carattere generale) in forza del quale «quando ad una fattispecie di rilievo processuale conseguono significativi effetti di natura sostanziale produttivi di conseguenze in malam partem i quali impediscono che la fattispecie estintiva della punibilità si realizzi, la disciplina deve ritenersi coperta dal divieto di retroattività a causa della sua valenza sostanziale, pur mediata dalla regola processuale, cosicché la previsione normativa ricade comunque nell’area di applicazione del principio di legalità (…)», ribadendo che una persona accusata di un reato deve poter conoscere ex ante (ossia al momento della commissione del fatto) la fattispecie di reato, l’entità della pena con proiezione, entro certi limiti, anche alle modalità della sua espiazione (Corte cost., sent. n. 140 del 2021).
5.3. Occorre, poi, tenere conto anche del fascio di tutele convenzionali delineate dall’art. 7 CEDU, in stretta relazione, per quanto qui interessa, all’ambito di applicabilità del principio di irretroattività in peius nella materia penale, all’interno della quale la confisca per equivalente è classificata dall’ordinamento nazionale e da quello sovranazionale.
Siccome una delle ragioni poste a fondamento del divieto di retroattività della norma penale in peius risiede nell’esigenza di garantire al destinatario della norma una ragionevole prevedibilità circa le conseguenze cui si esporrà trasgredendo il precetto penale (le cosiddette libere scelte d’azione), il tempo in cui è realizzata la condotta vietata è centrale rispetto alle modifiche temporali del quadro esistente al momento del compimento delle scelte individuali.
Le Sezioni Unite hanno già affermato che, in tema di successione di leggi penali nel tempo, nel caso in cui l’evento del reato intervenga nella vigenza di una legge penale più sfavorevole rispetto a quella in vigore al momento in cui è stata posta in essere la condotta, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta (Sez. U, n. 40986 del 19/07/2018, P., Rv. 273934 – 01), richiamando, in coerenza con la ratio di garanzia del principio di irretroattività, l’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, che sancisce il divieto di applicazione retroattiva delle norme penali incriminatrici e, in generale, delle norme penali più severe, in modo da assicurare, come ha precisato la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che, nel momento in cui un imputato ha commesso l’atto che ha dato luogo all’azione penale, esista una disposizione legale che renda l’atto punibile e che la pena imposta non abbia superato i limiti fissati da tale disposizione (Corte EDU, sentenza 22 giugno 2000, Coéme c. Belgio, § 145).
Parallelamente, precisa la Corte, anche il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. esige che, al momento del fatto commesso, il soggetto abbia non soltanto la necessaria conoscibilità del precetto, ma anche la conoscibilità e prevedibilità della sanzione penale prevista per la relativa violazione. Sotto tale profilo, è allora utile osservare come l’art. 7 CEDU appresti uno scudo per assicurare che la norma penale sia “accessibile” per il destinatario, anche sotto il profilo sanzionatorio e che le conseguenze della condotta siano assistite dal requisito della “prevedibilità” (Corte cost. sent. n. 364 del 1988).
La giurisprudenza di legittimità ha precisato che l’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – così come conformemente interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU – non consente l’applicazione retroattiva dell’interpretazione giurisprudenziale di una norma penale, allorquando il risultato interpretativo non era ragionevolmente prevedibile nel momento in cui la violazione è stata commessa (Sez. 2, n. 21596 del 18/02/2016, Tronchetti Provera, Rv. 267164 – 01; Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013, Agrama, Rv. 256584 – 01).
Nel caso in esame, è possibile affermare che, allorquando il ricorrente ha posto in essere le condotte contestate, non fosse ragionevolmente prevedibile, al di fuori di una pronuncia di condanna in senso formale, l’applicazione di una sanzione penale, come la confisca per equivalente, nei casi in cui la legge penale ne avesse previsto l’irrogazione a seguito della realizzazione di un’infrazione penalmente rilevante (e il diritto vivente si è poi assolutamente consolidato in tale senso con l’arresto delle Sezioni Unite Lucci). Perciò, alla luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte EDU, si ricava che nel “fuoco della prevedibilità” debbano farsi rientrare anche le conseguenze sanzionatorie della condotta, in modo da garantire l’effettiva prevedibilità anche di esse al momento della commissione del fatto, senza che il legislatore, modificando la normativa, possa realizzare nei confronti del destinatario un effetto “a sorpresa” e, dunque, imprevedibile, in quanto ciò si porrebbe in contrasto con l’art. 7 CEDU e, quindi, con l’art. 117 Cost.
Come è stato puntualmente osservato, la prima garanzia per l’individuo, nell’ottica della Convenzione europea, consiste nell’esclusione della “sorpresa” e richiede invece la “prevedibilità” del limite posto dallo Stato al godimento di un diritto o all’esercizio di una libertà dell’individuo, sicché, in tale ottica, la “sorpresa” è essa stessa costitutiva di abuso.
Da ciò si ricava, da un lato, un obbligo per lo Stato di una preventiva e adeguata informazione sui precetti da osservare nonché su tutte le conseguenze sanzionatorie che derivano dalla loro violazione e, dall’altro, il diritto dei cittadini di accedere e calcolare in un preciso arco temporale, ossia al momento in cui è posta in essere la condotta, se e quale comportamento tenere, avendo essi il diritto a non essere sorpresi ex post da estensioni interpretative o da mutamenti dello stato di fatto non conoscibili e, dunque, non prevedibili ex ante. La Corte EDU ha poi precisato che le norme in materia di retroattività, contenute nell’art. 7 della Convenzione si applicano soltanto alle disposizioni che definiscono i reati e le pene che li puniscono, con la precisazione che, quando una disposizione che il diritto interno definisce processuale ha un’influenza sulla severità della pena da infliggere, per la Corte EDU tale disposizione deve essere qualificata come «diritto penale materiale», a cui è applicabile l’ultimo capoverso dell’articolo 7 § 1 (Scoppola c. Italia (n. 2), § 110-113, in tema di applicazione di una disposizione del codice di procedura penale relativa alla severità della pena da infliggere quando il processo si sia svolto secondo il rito abbreviato).
- Gli approdi cui è giunta la dottrina e l’esame della recente giurisprudenza costituzionale e convenzionale in materia restituiscono, pertanto, un quadro alla luce del quale, rispetto allo ius superveniens e all’operatività del principio di irretroattività, occorre avere riguardo all’intera disciplina «in forza» della quale si è o non si è «puniti». Tutto ciò porta, dunque, a superare una visione tutta incentrata sul momento statico, pure importante, dell’incriminazione, incapace tuttavia di “leggere” le nuove forme di penalità e le questioni, che si agitano nel diritto vivente, sulla modifica della natura della pena, tradizionalmente intesa, e sul conseguente “ampliamento” del concetto di sanzione.
Pertanto, una prima conclusione può trarsi, ossia che la natura anche di diritto sostanziale dell’art. 578-bis cod. proc. pen. rende inapplicabile la disposizione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge che tale disposizione ha introdotto.
Deve, quindi, ritenersi che la disposizione di cui all’art. 578-bis cod. proc. pen., abbia natura mista (processuale e sostanziale), come sostenuto dal secondo indirizzo giurisprudenziale, di cui si è dato ampiamente conto in precedenza (sub §§ 4 e ss.), che, sulla base anche della natura sostanziale della disposizione de qua, ha ritenuto applicabile ad essa sia il regime garantistico apprestato sia dall’art. 25, secondo comma, Cost. che quello convenzionale apprestato dall’art. 7 CEDU con particolare riferimento al divieto, che qui interessa, di retroattività in materia penale.
- Le Sezioni Unite possono ora trarre le conclusioni definitive per la soluzione del quesito rimesso.
Occorre soprattutto considerare come le sentenze che sostengono il primo orientamento non prendano in considerazione il fatto che l’art. 578-bis cod. proc. pen. – consentendo al giudice dell’impugnazione, allorquando è stata ordinata la confisca per equivalente, di decidere, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato – non sia una norma meramente ricognitiva di un principio esistente nell’ordinamento, sebbene non codificato, ma sia una norma che ha natura costitutiva in parte qua, perché attributiva del potere, in precedenza precluso al giudice, di mantenere in vita una pena (la confisca per equivalente) che, anteriormente all’introduzione dell’articolo 578-bis cod. proc. pen., non poteva, secondo il diritto vivente, in alcun modo essere applicata nel caso di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.
Dunque, conclude la Corte, la natura pienamente costitutiva della disposizione di cui all’art. 578- bis cod. proc. pen. esclude che la confisca di valore possa essere retroattivamente applicata a fatti commessi quando, nel caso di estinzione del reato, tale misura non era in alcun modo adottabile nei confronti dell’autore del reato, quand’anche ne fosse stata accertata la responsabilità penale.
Un tale principio, come si è visto, valeva per la confisca in forma diretta, ma non anche per la confisca di valore, la quale, per essere applicata, nei giudizi di merito, esige che sia stata emessa una sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti (come per la confisca nei reati tributari ex art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000) e che, per essere mantenuta nei giudizi di impugnazione, richiede che una espressa disposizione di legge (l’art. 578-bis cod. proc. pen. appunto) ne consenta il mantenimento e che rimanga inalterato il giudizio di responsabilità penale.
In conclusione, la questione posta dall’ordinanza di rimessione va risolta enunciando il seguente principio di diritto: «La disposizione dell’art. 578-bis cod. proc. pen. ha, con riguardo alla confisca per equivalente e alle forme di confisca che presentino comunque una componente sanzionatoria, natura anche sostanziale ed è, pertanto, inapplicabile in relazione ai fatti posti in essere anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 6, comma 4, d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, che ha introdotto la suddetta disposizione».
- Sulla base delle precedenti considerazioni, essendo entrambi i reati estinti per prescrizione, la sentenza impugnata, come in precedenza già precisato, va annullata senza rinvio.
Sebbene per ragioni in iure diverse da quelle enunciate nell’atto di impugnazione, in accoglimento del motivo di ricorso con il quale è stata eccepita l’illegittimità della disposta confisca per equivalente, la relativa statuizione è eliminata, ipso iure, per effetto della pronuncia di annullamento per intervenuta prescrizione dei reati di cui alla sentenza di condanna, che la confisca di valore aveva disposto.