Corte Costituzionale, sentenza 25 marzo 2024, n. 47
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, in composizione monocratica, solleva tre distinti gruppi di questioni di legittimità costituzionale, concernenti le particolari misure introdotte dagli artt. 9 e 10 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito.
1.1.– Il giudice a quo dubita, in primo luogo, della legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 2, del citato decreto, in forza del quale, nei casi di reiterazione delle condotte di cui all’art. 9, commi 1 e 2, il questore, «qualora dalla condotta tenuta possa derivare pericolo per la sicurezza», può disporre, per un periodo non superiore a dodici mesi, il divieto di accesso a una o più delle aree di cui all’art. 9 (cosiddetto DASPO urbano).
Ad avviso del rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto, anzitutto, con l’art. 16 Cost., in quanto, nel subordinare l’applicazione della misura alla sussistenza di un possibile pericolo per la sicurezza, farebbe riferimento a un concetto di sicurezza molto più ampio di quello contemplato dalla disposizione costituzionale quale ragione di possibili limitazioni alla libertà di circolazione: concetto da intendere, in base alle indicazioni di questa Corte, come garanzia della libertà dei cittadini di svolgere le loro attività al riparo da offese alla loro personalità fisica e morale.
La misura prefigurata dalla disposizione in esame costituirebbe, infatti, uno strumento di tutela della «sicurezza urbana», quale definita dall’art. 4 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito: nozione che esorbita dal mantenimento dei presupposti dell’ordinato vivere civile, abbracciando anche profili di carattere estetico o attinenti ai costumi, quale il «decoro urbano».
Sarebbe violato, altresì, l’art. 3 Cost., per difetto di ragionevolezza e proporzionalità della misura, in quanto la norma denunciata non esige nemmeno che sussista un pericolo per la sicurezza così largamente intesa, e cioè che appaia probabile la verificazione di un pregiudizio per essa, ma richiede soltanto che vi sia la possibilità, non qualificata, di tale pericolo. Verrebbe, di conseguenza, imposto un sacrificio a un diritto fondamentale senza che ciò sia strettamente necessario, essendo meramente eventuale il pericolo per l’interesse che il legislatore ha inteso tutelare.
La norma censurata si porrebbe in contrasto, da ultimo, con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 Prot. n. 4 CEDU, concernente la libertà di circolazione, in quanto non individuerebbe con sufficiente precisione i presupposti di applicazione della misura. La «non chiarissima» descrizione della condotta di cui all’art. 9, comma 1, il concetto «onnivoro o quanto meno ambiguo» di sicurezza e il fatto che, ai fini dell’adozione del divieto di accesso, basti un pericolo anche solo eventuale per quest’ultima, attribuirebbero, infatti, margini di discrezionalità troppo ampi alle autorità amministrative, in contrasto con il principio affermato dalla Corte EDU nella sentenza 23 febbraio 2017, De Tommaso contro Italia.
1.2.– Il rimettente dubita, in secondo luogo, della legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 1, e 10, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, i quali prevedono che, contestualmente all’accertamento delle condotte illecite di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 9, l’organo accertatore ordini al trasgressore l’allontanamento per quarantotto ore dal luogo in cui è stato commesso il fatto.
Tali disposizioni violerebbero in modo ancor più evidente l’art. 16 Cost., in quanto l’applicazione della misura in questione, limitativa anch’essa della libertà di circolazione, conseguirebbe automaticamente alla rilevazione delle condotte illecite, a prescindere da ogni collegamento con motivi di sicurezza (o sanità) e senza lasciare alcun margine di apprezzamento all’organo accertatore.
1.3.– Da ultimo, il Tribunale fiorentino censura l’individuazione delle condotte illecite suscettibili di dar luogo all’ordine di allontanamento e al divieto di accesso, operata dall’art. 9, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, reputandola contrastante con l’art. 3 Cost.
Sarebbe, infatti, irragionevole colpire con le misure in discorso chi, violando divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, tenga condotte che impediscano l’accessibilità e la fruizione delle infrastrutture dei trasporti – condotte normalmente prive di rilevanza penale – quando invece analoghe misure non sono previste nei confronti di chi, nelle stesse aree, ponga in essere condotte ben più pericolose per la sicurezza e penalmente rilevanti, quali partecipazione a risse, minacce, percosse, lesioni, porto di armi bianche o di oggetti atti ad offendere senza giustificato motivo.
2.– Prodromica all’analisi delle singole questioni è una sintetica ricostruzione del panorama normativo di riferimento.
Le questioni vertono sui due istituti – l’ordine di allontanamento e il divieto di accesso a specifiche aree cittadine – introdotti dagli artt. 9 e 10 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito (disposizioni successivamente interessate da plurime modifiche di segno ampliativo), nel quadro di un complesso di interventi urgenti finalizzati – secondo quanto si afferma nella premessa del provvedimento – «a rafforzare la sicurezza delle città e la vivibilità dei territori», nonché «al mantenimento del decoro urbano».
Gli istituti in parola – e particolarmente il secondo – assumono come archetipo il divieto di accesso inteso a contrastare i fenomeni di violenza nel corso delle manifestazioni sportive (DASPO), previsto dall’art. 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive) e ascritto, per communis opinio, al novero delle misure di prevenzione personali atipiche.
Nella specie, l’idea di fondo – espressa nella relazione al disegno di legge di conversione C. 4310 – è che uno dei fattori del degrado delle città sia rappresentato dall’occupazione di determinate aree pubbliche, particolarmente «sensibili» in quanto costituenti «punti nevralgici della mobilità», o comunque sia ad alta frequentazione, da parte di soggetti che, stazionandovi indebitamente e spesso svolgendo attività abusive o moleste, ne compromettono la libera e piena fruibilità, contribuendo con ciò a creare un senso di insicurezza negli utenti. Fenomeno in relazione al quale – sempre secondo la citata relazione – «si registra difficoltà o inopportunità di intervenire con forme esclusivamente sanzionatorie».
Le aree prese in considerazione a tal fine sono primariamente quelle serventi rispetto ai servizi di trasporto: in specie, le aree interne delle infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, nonché le relative pertinenze (art. 9, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito). È, peraltro, previsto che i regolamenti di polizia urbana possano estendere le misure in discorso ad ulteriori aree urbane “sensibili”, da essi specificamente individuate: in particolare, quelle «su cui insistono presidi sanitari, scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici», nonché quelle «destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli, ovvero adibite a verde pubblico» (art. 9, comma 3).
Il meccanismo di tutela è articolato.
L’art. 9, comma 1, assoggetta a sanzione amministrativa pecuniaria da cento a trecento euro chiunque, «in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi», ponga in essere «condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione» delle aree considerate. Contestualmente all’accertamento della condotta illecita, al trasgressore viene inoltre ordinato l’allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto. Come precisato dall’art. 10, comma 1, l’ordine è impartito per iscritto dall’organo accertatore, deve essere motivato e cessa di avere efficacia decorse quarantotto ore dall’accertamento. La sua violazione dà luogo all’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di importo doppio.
In forza del comma 2 dell’art. 9, il provvedimento di allontanamento è altresì adottato nei confronti di chi, nelle medesime aree, commetta gli illeciti di ubriachezza (art. 688 del codice penale), atti contrari alla pubblica decenza (art. 726 cod. pen.), esercizio abusivo del commercio (art. 29 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, recante «Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59»), esercizio abusivo dell’attività di parcheggiatore o guardamacchine (art. 7, comma 15-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, recante il «Nuovo codice della strada») e vendita abusiva di biglietti di accesso a manifestazioni sportive (art. 1-sexies del decreto-legge 24 febbraio 2003, n. 28, recante «Disposizioni urgenti per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive», convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2003, n. 88), ferme restando le sanzioni amministrative previste per tali illeciti dalle disposizioni richiamate.
L’art. 10, comma 2, stabilisce poi che, nel caso di reiterazione delle condotte indicate dai commi 1 e 2 dell’art. 9, «qualora dalla condotta tenuta possa derivare pericolo per la sicurezza», il questore può vietare, con provvedimento motivato, al trasgressore di accedere, per un periodo non superiore a dodici mesi, a una o più delle aree in questione, «espressamente specificate nel provvedimento», individuando modalità applicative del divieto compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del destinatario. L’inosservanza del divieto è punita con l’arresto da sei mesi a un anno.
Il divieto ha una durata maggiore (da dodici mesi a due anni) e la sua inosservanza è punita con pena più elevata (arresto da uno a due anni) qualora le condotte siano poste in essere da soggetto condannato negli ultimi cinque anni, con sentenza definitiva o confermata in grado di appello, per reati contro la persona o il patrimonio (art. 10, comma 3).
3.– Ciò premesso, giova, per comodità di trattazione, prendere prioritariamente in esame la questione avente ad oggetto la misura dell’ordine di allontanamento, regolata dagli artt. 9, comma 1, e 10, comma 1, del d.l. n. 24 del 2017, come convertito: misura che il rimettente reputa incompatibile con l’art. 16 Cost., in quanto svincolata dalla verifica della sussistenza di motivi di sicurezza (o di sanità).
La questione si palesa inammissibile per difetto di rilevanza.
Il giudice a quo è, infatti, investito del processo penale nei confronti di una persona imputata della contravvenzione prevista dall’art. 10, comma 2, del citato decreto-legge, per aver violato il divieto di accesso in una stazione ferroviaria e nelle aree ad essa limitrofe disposto nei suoi confronti dal questore. Egli non è, dunque, chiamato ad occuparsi degli ordini di allontanamento che hanno preceduto tale divieto.
In base al chiaro dettato dell’art. 10, comma 2, presupposto del divieto di accesso è la «reiterazione delle condotte» previste dai commi 1 e 2 dell’articolo precedente, unitamente alla sussistenza di un possibile pericolo per la sicurezza. Di conseguenza, ove pure questa Corte dichiarasse l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che riguardano l’ordine di allontanamento, quale misura ulteriore rispetto alle sanzioni amministrative per esse comminate, la pronuncia non impedirebbe affatto all’istituto del divieto di accesso di operare, rimanendo perciò ininfluente nel giudizio a quo.
Rimane, comunque sia, la rilevanza della questione avente ad oggetto il solo art. 9, comma 1, sotto il profilo di cui si dirà infra al punto 6.
4.– Certamente rilevanti, per converso, sono le questioni che investono il divieto di accesso, di cui all’art. 10, comma 2, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito. Il riconoscimento dell’illegittimità costituzionale della misura travolgerebbe, infatti, anche la norma che ne incrimina la violazione e che il rimettente è chiamato ad applicare.
4.1– Quanto all’ammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 16 Cost., il rimettente muove dalla premessa che la misura in discussione implica una limitazione della libertà di circolazione del destinatario, inibendogli l’accesso, per un significativo lasso di tempo, ad aree urbane di norma liberamente fruibili da chicchessia. L’istituto dovrebbe confrontarsi, quindi, con la previsione della disposizione costituzionale evocata, la quale, nel garantire a ogni cittadino la possibilità di circolare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, fa salve le «limitazioni» che la legge stabilisce in via generale «per motivi di sanità o di sicurezza».
Al riguardo, il rimettente ricorda come questa Corte, occupandosi di altra misura di prevenzione, abbia ritenuto, sin dagli inizi della sua attività, che ai fini considerati deve attribuirsi «alla parola “sicurezza” il significato di situazione nella quale sia assicurato ai cittadini, per quanto è possibile, il pacifico esercizio di quei diritti di libertà che la Costituzione garantisce con tanta forza. Sicurezza si ha quando il cittadino può svolgere la propria lecita attività senza essere minacciato da offese alla propria personalità fisica e morale; è l’“ordinato vivere civile”, che è indubbiamente la meta di uno Stato di diritto, libero e democratico» (sentenza n. 2 del 1956).
La norma censurata, per converso, nel subordinare la misura alla sussistenza di un possibile pericolo per la sicurezza, farebbe riferimento – secondo il rimettente – a un concetto di «sicurezza» molto più ampio di quello ora indicato.
Nel frangente, il sostantivo evocherebbe, infatti, il concetto di «sicurezza urbana», quale risultante dalla definizione offerta dall’art. 4 dello stesso d.l. n. 14 del 2017, come convertito: definizione che fa perno su nozioni, quali quelli di «vivibilità» e «decoro», evocative (specie la seconda) anche di profili inerenti all’estetica e ai costumi, componendosi poi di un elenco non tassativo («anche») di interventi per il perseguimento dei fini considerati nel quale convivono – come emerge dalla relazione al disegno di legge di conversione – un’idea di «sicurezza primaria», intesa alla prevenzione dei reati («prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio»), e un’idea di «sicurezza secondaria», volta alla rimozione di situazioni di degrado e al promovimento di fattori di coesione sociale («riqualificazione, anche urbanistica, sociale e culturale», «recupero delle aree o dei siti degradati», «eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale», «promozione della cultura del rispetto della legalità», «affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile»).
Si tratterebbe, dunque – a parere del rimettente –, di un concetto «onnivoro», quasi «onnicomprensiv[o]»: in ogni caso, largamente esorbitante dalla salvaguardia delle condizioni per un ordinato vivere civile.
Ad avviso del giudice a quo, plurimi indici confermerebbero che la «sicurezza», avuta di mira dalla norma censurata, debba essere intesa proprio in questa ampia accezione: il Capo II del decreto, entro il quale la disposizione è collocata, fa espresso riferimento nel titolo al «decoro urbano»; l’art. 9, che prevede le condotte la cui reiterazione legittima il provvedimento del questore, reca a sua volta la rubrica «[m]isure a tutela del decoro di particolari luoghi»; la stessa tipologia di alcune di queste condotte richiama aspetti che esorbitano dai presupposti di un ordinato vivere civile; nell’art. 10, comma 2, il termine «sicurezza» non è accompagnato dall’aggettivo «pubblica», né associato all’ulteriore concetto di ordine.
Alla luce di ciò, il rimettente esclude, quindi, che sia possibile una interpretazione conforme a Costituzione della disposizione in esame.
Tanto basta ad assicurare l’ammissibilità della questione.
5.– Nel merito, tuttavia, l’approdo ermeneutico del rimettente si palesa non suscettibile di avallo. Conformemente a quanto sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, infatti, nel contesto della norma sottoposta a scrutinio il termine «sicurezza» può – e deve – essere inteso in un senso più ristretto e coerente con la natura di misura di prevenzione personale atipica, generalmente riconosciuta all’istituto in discussione, e al tempo stesso in linea con il dettato costituzionale: vale a dire propriamente nel senso di garanzia della libertà dei cittadini di svolgere le loro lecite attività al riparo da condotte criminose.
Molteplici argomenti, di ordine testuale, logico e sistematico, convergono in questa direzione.
Il d.l. n. 14 del 2017, come convertito, consta di due Capi, il primo dei quali reca disposizioni in ordine alla «[c]ollaborazione interistituzionale per la promozione della sicurezza integrata e della sicurezza urbana».
Entro tale Capo, la Sezione II si occupa specificamente della «[s]icurezza urbana»: formula della quale l’art. 4 offre una definizione «[a]i fini del presente decreto», ma che risulta, in fatto, impiegata esclusivamente nelle altre disposizioni che compongono la stessa Sezione (artt. 5, 6, 7 e 8).
Non, invece, nella disposizione censurata, collocata nel Capo successivo, ove si fa riferimento alla «sicurezza» tout court: dal che è lecito inferire che il legislatore non abbia voluto chiamare in gioco la definizione del citato art. 4, calibrata sulla prospettiva della «collaborazione interistituzionale», ma abbia inteso riferirsi a qualcosa di diverso, in linea con le caratteristiche dell’istituto che andava a regolare.
Il titolo del Capo II del decreto, entro il quale trova posto la previsione censurata – «[d]isposizioni a tutela della sicurezza delle città e del decoro urbano» – milita, d’altronde, in senso opposto a quello ipotizzato dal giudice rimettente.
Risponde, infatti, al canone ermeneutico di un legislatore razionale e non ridondante ritenere che l’espressione «sicurezza delle città» non sia stata nel frangente usata come sinonimo di «sicurezza urbana», giacché, se così fosse, non sarebbe stato necessario menzionare al suo fianco il «decoro urbano», che, in base alla definizione dell’art. 4, è una componente della «sicurezza urbana».
Ciò, a prescindere dalla scarsa plausibilità dell’ipotesi che il legislatore, dopo aver fornito la definizione di una determinata locuzione, si avvalga nello stesso testo normativo di una formula diversa per indicare il medesimo concetto.
È vero, poi, che l’art. 9 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, reca la rubrica «[m]isure a tutela del decoro di particolari luoghi». Si tratta, però, della disposizione che prevede, per le condotte ivi indicate, la sanzione amministrativa pecuniaria e l’ordine di allontanamento, il quale prescinde dalla condizione del possibile pericolo per la sicurezza, richiesta invece ai fini dell’adozione del divieto di accesso, regolato dal successivo art. 10 sotto l’omonima rubrica. Se ne deve dedurre che quest’ultimo non costituisce, negli intenti legislativi, una misura a tutela del decoro, ma della «sicurezza delle città», nei più ristretti sensi dianzi indicati.
Ancora, la medesima locuzione presente nella disposizione censurata («possa derivare [un] pericolo per la sicurezza») compare anche nell’art. 13-bis del d.l. n. 14 del 2017, come convertito (aggiunto dall’art. 21, comma 1-ter, del d.l. n. 113 del 2018, come convertito), che prevede un’altra fattispecie di divieto di accesso in luoghi urbani, diretta in modo specifico a prevenire i disordini negli esercizi pubblici e nei locali di pubblico intrattenimento: fattispecie rispetto alla quale è indubitabile, anche alla luce dei presupposti della misura, che il vocabolo «sicurezza» debba intendersi nel senso di prevenzione dei reati.
Un discorso analogo può farsi, altresì, con riguardo alla formula «per ragioni di sicurezza», presente nell’art. 13 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, a proposito dell’ulteriore figura di divieto di accesso finalizzata al contrasto dello spaccio di sostanze stupefacenti all’interno o in prossimità di locali pubblici o aperti al pubblico e di pubblici esercizi.
Come ricorda l’Avvocatura generale dello Stato, d’altro canto, questa Corte, occupandosi di questione inerente al riparto delle competenze legislative, ha già avuto modo di affermare che la disciplina del DASPO urbano persegue la finalità di evitare turbative dell’ordine pubblico nelle aree interessate, rientrando, perciò, nella materia «ordine pubblico e sicurezza», di competenza legislativa statale esclusiva ai sensi dell’art. 117, primo comma, lettera h), Cost.: materia alla quale vanno ascritte le disposizioni volte al «perseguimento degli interessi costituzionali alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza» (sentenza n. 195 del 2019).
In definitiva, quindi, affinché il divieto di accesso sia legittimamente disposto, non basta che la presenza del soggetto possa apparire non consona al decoro dell’area considerata, ma è necessario che la condotta sia associata ad un concreto pericolo di commissione di reati: la misura non deve, in conclusione, intendersi rivolta ad allontanare “oziosi e vagabondi”, come pure si era affermato nell’ampio dibattito parlamentare sviluppatosi in sede di conversione del d.l. n. 14 del 2017.
Cade, in questa prospettiva, la censura del rimettente di violazione dell’art. 16: intesa nei sensi ora lumeggiati, la norma in esame risulta compatibile con il precetto costituzionale evocato.
5.1.– Parimente non fondata è la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., per asserito contrasto con il principio di «proporzionalità/ragionevolezza».
Il Tribunale rimettente fa discendere il vulnus prospettato dal rilievo che la norma in discussione non richiede la sussistenza di un pericolo per la sicurezza, ma semplicemente che «dalla condotta tenuta possa derivare pericolo per la sicurezza».
Ai fini dell’adozione della misura, non occorrerebbe, dunque, che sia probabile la verificazione di un pregiudizio per l’interesse che si vuole tutelare – sia pur inteso, secondo il rimettente, nei sensi della «sicurezza urbana» di cui all’art. 4 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito – ma basterebbe una «mera possibilità non qualificata» di tale pregiudizio.
Ciò renderebbe la misura non proporzionata: essa comprimerebbe un diritto fondamentale – la libertà di circolazione – senza che sia «strettamente necessario», dato che il pericolo per l’interesse tutelato è solo eventuale.
Anche in questo caso, la ricostruzione ermeneutica del giudice a quo – reputata novamente non superabile a favore di una interpretazione costituzionalmente orientata, stante il dato letterale – non può essere condivisa.
Posto che, per quanto detto, la nozione di «sicurezza» cui deve aversi riguardo è diversa e più ristretta di quella ipotizzata dal rimettente (supra, punto 4.1.), è sufficiente osservare che le misure di prevenzione, allo stesso modo delle misure di sicurezza, si basano, per loro natura, su un giudizio prognostico, di tipo probabilistico, sulla futura condotta del soggetto che vi è sottoposto.
Ed è in questa ottica che la formula normativa in questione, pur sintatticamente non del tutto felice, va letta: l’uso del verbo servile («possa») si spiega con il fatto che si è di fronte a un pronostico su quanto è ben possibile che avvenga in futuro, e non già con un supposto intento legislativo di consentire la misura anche per arginare situazioni di pericolo remote o puramente congetturali.
Giova soggiungere che la norma richiede espressamente che il pericolo per la sicurezza emerga «dalla condotta tenuta» (non, dunque, dalla sola personalità dell’agente, desunta ad esempio dai precedenti penali). Affinché scatti la misura più incisiva del divieto di accesso il comportamento del soggetto deve risultare concretamente indicativo del pericolo che la sua presenza può ingenerare per i fruitori della struttura (ad esempio, in ragione dell’atteggiamento aggressivo, minaccioso o insistentemente molesto mostrato nei loro confronti).
Così interpretata, la disposizione si sottrae alla censura in esame.
5.2.– Le considerazioni dianzi svolte rendono piana la valutazione in senso similare della conclusiva censura di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 Prot. n. 4 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU: parametro che il rimettente reputa leso in ragione dell’asserita carenza di precisione e determinatezza della norma censurata nell’individuazione dei presupposti di applicazione della misura, la quale attribuirebbe eccessivi margini di discrezionalità all’autorità amministrativa, lasciando così l’individuo esposto al suo «sostanziale arbitrio».
A parere del Tribunale fiorentino, il deficit denunciato sarebbe il risultato della convergenza di tre fattori: la descrizione non ben definita della condotta di cui all’art. 9, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito (alla reiterazione della quale il divieto di accesso è collegato), l’ambiguità del concetto di sicurezza e il carattere solo eventuale del pericolo per quest’ultima.
Quanto al primo profilo, si deve però osservare come la condotta di cui al citato art. 9, comma 1 – la cui descrizione il rimettente reputa, in modo peraltro solo assertivo, «non chiarissima» –, sia individuata, per contro, in modo sufficientemente chiaro e puntuale.
Si richiede, come già ricordato, che il soggetto, violando divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, abbia impedito (e non soltanto limitato, come nel testo originario del decreto-legge) l’accessibilità o la fruizione di aree infrastrutturali di servizi di trasporto, ovvero di altre aree cittadine specificamente individuate dai regolamenti comunali nell’ambito di categorie predeterminate.
L’identificazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, come pure la determinazione degli esatti confini del concetto di impedimento dell’accessibilità o della fruizione delle aree in questione, costituiscono d’altronde problemi non eccedenti i normali compiti interpretativi affidati, in prima battuta, all’autorità amministrativa chiamata ad adottare la misura e, in seconda battuta, al giudice eventualmente chiamato a verificare la legittimità del suo operato.
Per l’applicazione del divieto, occorre, altresì, la reiterazione delle condotte, la quale, a propria volta, è definita in modo adeguato dalla norma generale di cui all’art. 8-bis della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), secondo cui si ha reiterazione quando, nei cinque anni successivi alla commissione di una violazione amministrativa, accertata con provvedimento esecutivo, lo stesso soggetto commette un’altra violazione della stessa indole.
Quanto, poi, agli altri due profili sotto i quali si manifesterebbe il supposto difetto di precisione e determinatezza della norma censurata, vale quanto osservato in precedenza.
Riguardo al concorrente requisito di applicabilità della misura, rappresentato dal pericolo per la sicurezza, va ribadito che tale sostantivo deve ritenersi evocativo, per le ragioni esposte (supra, punto 4.1.), non del dilatato concetto di cui all’art. 4 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, quanto piuttosto delle condizioni dell’ordinata convivenza civile, in particolare tramite la prevenzione dei reati. Mentre, per quanto attiene all’asserito carattere meramente eventuale – e perciò sfuggente – del pericolo che legittima il provvedimento, vanno richiamate le considerazioni precedentemente svolte circa il significato da attribuire alla locuzione «possa derivare pericolo per la sicurezza» (supra, punto 5.1.), tale da scongiurare il rischio paventato.
6.– Resta la conclusiva questione avente ad oggetto l’art. 9, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito: disposizione che, con specifico riguardo all’individuazione delle condotte illecite da essa operata, il rimettente reputa contrastante con l’art. 3 Cost., sul rilievo che sarebbe irragionevole colpire con le misure dell’ordine di allontanamento e del divieto di accesso condotte di impedimento all’accessibilità e alla fruizione delle aree delle infrastrutture di trasporto, normalmente prive di rilevanza penale, e non invece altre condotte costituenti reato e ben più pericolose per la sicurezza (quali partecipazione a risse, minacce, percosse, lesioni, porto di armi bianche o di oggetti atti ad offendere senza giustificato motivo).
La questione – che è rilevante, nella misura in cui l’individuazione censurata delimita anche i confini della misura del divieto di accesso (supra, punti 3 e 4) – non è, però, fondata.
Allo stesso modo dell’individuazione delle condotte punibili (ex plurimis, sentenze n. 212 del 2019, n. 79 del 2016, n. 229 del 2015 e n. 250 del 2010), anche la selezione delle condotte cui annettere misure a carattere preventivo del genere considerato rientra nella discrezionalità del legislatore, il cui esercizio è sindacabile, in sede di giudizio di legittimità costituzionale, solo ove trasmodi nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio.
Nella specie, onde contestare la ragionevolezza della scelta operata, il rimettente pone a raffronto fattispecie non omogenee e non utilmente comparabili. La selezione delle condotte alla cui reiterazione può conseguire la misura del divieto di accesso, effettuata tramite la norma censurata, è ispirata all’intento di individuare quelle tipologie di comportamenti che, sulla base dell’esperienza concreta, il legislatore ha ritenuto che contribuiscano maggiormente a generare un clima di insicurezza in determinate aree urbane, e che si caratterizzano per una indebita e prolungata occupazione di spazi nevralgici ai fini della mobilità o interessati, comunque sia, da rilevanti flussi di persone (supra, punto 2).
Come rilevato anche dall’Avvocatura dello Stato, il legislatore non ha mancato, peraltro, di prendere in considerazione, ai fini dell’applicazione di misure similari, anche fatti di diverso ordine e di diretto rilievo penale.
Di là dalla previsione del cosiddetto DASPO urbano aggravato nei confronti di chi ponga in essere le condotte di cui all’art. 9, commi 1 e 2, essendo stato condannato nell’ultimo quinquennio per reati contro la persona o il patrimonio (art. 10, comma 3), e di là dalla previsione per la quale, quando tali reati risultino commessi nelle aree di cui all’art. 9, la sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’osservanza del divieto, imposto dal giudice, di accedere ad aree o luoghi specificamente individuati (art. 10, comma 5), particolari figure di divieto di accesso ad aree urbane sono state poi introdotte, sempre sulla scorta dell’esperienza concreta, in funzione di contrasto dello spaccio di stupefacenti all’interno o in prossimità di locali pubblici o aperti al pubblico e di pubblici esercizi (art. 13), nonché ai fini della prevenzione di disordini negli esercizi pubblici e nei locali di pubblico intrattenimento (art. 13-bis).
Misura, quest’ultima, che ha come presupposto l’avvenuta denuncia del soggetto per varie ipotesi di reato, comprensive di quelle evocate dal rimettente come tertia comparationis.
In questo quadro, la scelta espressa dalla norma sottoposta a scrutinio si sottrae, dunque, alla censura mossale dal giudice a quo.
7.– Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione avente ad oggetto gli artt. 9, comma 1, e 10, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, va dichiarata inammissibile; quelle concernenti l’art. 10, comma 2, vanno dichiarate non fondate, nei sensi di cui in motivazione; quella relativa al solo art. 9, comma 1, va dichiarata non fondata.