Corte Costituzionale, sentenza 12 gennaio 2023 n. 2
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui include i telefoni cellulari tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente di cui il questore può vietare, in tutto o in parte, il possesso o l’utilizzo; va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 76 del d.lgs. n. 159 del 2011, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 15 Cost., dal Tribunale ordinario di Sassari, sezione penale.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
l.– Il Tribunale ordinario di Sassari, sezione penale, dubita, in riferimento agli artt. 3 e 15 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui prevede che il questore, nell’adottare la misura di prevenzione dell’avviso orale cosiddetto “rafforzato” nei confronti di persone definitivamente condannate per delitti non colposi, possa vietare loro di possedere o utilizzare «qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente», e perciò anche telefoni cellulari, in quanto ricompresi in tale ultima definizione.
Il giudice a quo include nella censura anche l’art. 76, comma 2, del medesimo codice antimafia, che punisce con la reclusione e la multa la trasgressione ai divieti di cui alla disposizione prima descritta.
Premesso che la disponibilità di un telefono cellulare costituirebbe oggi presupposto indispensabile per poter effettivamente esercitare la libertà di comunicare, ritiene il rimettente che le due norme censurate consentano limitazioni a tale libertà, non già per atto motivato dell’autorità giudiziaria, come richiede l’art. 15 Cost., bensì direttamente tramite una decisione dell’autorità amministrativa, in violazione quindi della riserva di giurisdizione prevista dall’evocata disposizione costituzionale. Inoltre, in lesione congiunta degli artt. 3 e 15 Cost., proprio la circostanza che l’avviso orale “rafforzato” non sia adottato dall’autorità giudiziaria – nell’ambito di un procedimento assistito dalle garanzie del contraddittorio, idoneo a consentire una modulazione degli effetti del divieto in base alle esigenze del caso concreto – comporterebbe un sacrificio sproporzionato della libertà di comunicazione rispetto alla contrapposta esigenza di prevenzione dei reati.
Infine, quale ulteriore ed autonoma violazione dell’art. 3 Cost., il giudice a quo ritiene che i destinatari del divieto del questore di possedere e usare telefoni cellulari siano trattati in modo ingiustamente deteriore rispetto a coloro che sono raggiunti dalle misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 4 cod. antimafia: mentre, in questo secondo caso, l’autorità giudiziaria può inibire la frequentazione di specifiche categorie di persone (ma non impedire ogni relazione sociale) e può vietare l’accesso a determinati luoghi d’incontro (ma non a tutti), i destinatari dell’avviso orale “rafforzato” per decisione amministrativa subirebbero, invece, una limitazione generalizzata e indiscriminata di tutte le loro comunicazioni con terzi. E ciò avverrebbe, aggiunge il rimettente, con riferimento a soggetti che presenterebbero caratteristiche di pericolosità inferiori rispetto a quelli interessati dalle misure di cui all’art. 4 cod. antimafia.
2.– Anche la Corte di cassazione, sezione quinta penale, censura l’art. 3, comma 4, cod. antimafia, nella parte in cui prevede che il questore – nell’adottare la misura di prevenzione dell’avviso orale “rafforzato” – possa vietare il possesso e l’utilizzo di qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente, e quindi anche dei telefoni cellulari, sottolineando che, tramite il divieto in questione, sarebbe anche possibile vietare l’accesso ad internet.
La disposizione violerebbe innanzitutto l’art. 15 Cost., poiché l’attribuzione all’autorità amministrativa del potere di proibire il possesso o l’utilizzo di strumenti essenziali per comunicare si porrebbe in contrasto con la previsione della riserva di giurisdizione contemplata dal parametro costituzionale evocato. Inoltre, la circostanza che la norma censurata consenta un siffatto divieto senza un limite minimo e massimo di durata vanificherebbe la stessa tutela offerta dalla riserva di legge contenuta nell’art. 15 Cost., in base al quale apposite «garanzie» devono accompagnare l’atto motivato dell’autorità giudiziaria. Allo stesso modo, in lesione anche dell’art. 3 Cost., nel consentire che l’accesso a strumenti essenziali per esercitare la libertà di comunicare e di manifestare il proprio pensiero possa essere impedito senza limiti di tempo, la disposizione censurata permetterebbe restrizioni non proporzionate a tali libertà fondamentali.
Inoltre, sempre sul presupposto che il divieto del questore possa riguardare anche l’accesso a internet, l’ordinanza di rimessione sottolinea ampiamente come la norma censurata comporti l’impossibilità di disporre, senza limiti di durata, di strumenti essenziali non solo per comunicare, ma anche per ricevere informazioni. Del resto, possesso e uso di qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente rientrerebbero non solo nella sfera di applicazione dell’art. 15 Cost., in quanto norma costituzionale posta a tutela della libertà di comunicare, ma anche dell’art. 21 Cost., quale disposizione che tutela la libertà di espressione, anche nella sua «dimensione passiva» di «libertà di ricevere informazioni».
L’ordinanza segnala come la tutela della libertà di espressione rivestirebbe un’importanza centrale per la democraticità dell’ordinamento, «costituendo un diritto al contempo individuale e sociale». Garantire l’accesso alla rete, da questo punto di vista, sarebbe un compito di cui lo Stato risulterebbe investito, anche sulla base del principio di eguaglianza sostanziale, espresso dall’art. 3, secondo comma, Cost.
A fronte di tutto ciò, proprio in violazione degli artt. 3, secondo comma, e 21 Cost., la disposizione censurata consentirebbe invece che aspetti fondamentali della libertà di manifestazione del pensiero siano ristretti senza limiti di tempo, in frontale contrasto con il «diritto sociale» ad un comportamento delle autorità pubbliche che dovrebbe invece essere volto a favorire la libera circolazione delle idee e la formazione di un’opinione pubblica consapevole.
Infine, l’art. 3, comma 4, cod. antimafia violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 8 e 10 CEDU.
Sottolineando, sulla scorta della giurisprudenza della Corte EDU, l’importanza della possibilità di accedere alla rete internet ai fini del rispetto dell’art. 10 CEDU, e considerando che l’ambito di applicazione dell’art. 8 CEDU comprende certamente anche le conversazioni telefoniche e i messaggi di posta elettronica, il giudice a quo sostiene che l’avviso orale rafforzato dal divieto di possedere e utilizzare il telefono cellulare – pur perseguendo uno scopo legittimo, ovvero la «prevenzione dei reati» – non poggerebbe su una sufficiente base legale, risultando la qualità della legge nazionale non idonea a soddisfare lo standard di prevedibilità ed accessibilità elaborato dalla Corte di Strasburgo, proprio a causa della mancata previsione della durata della misura.
3.– Le due ordinanze di rimessione hanno in comune una delle due disposizioni censurate, con riferimento a parametri costituzionali in parte coincidenti, sotto profili largamente comuni, e con argomentazioni sovrapponibili. Ponendo, pertanto, analoghe questioni di legittimità costituzionale, i due giudizi vanno riuniti e decisi con un’unica pronuncia.
4.– Le questioni di legittimità costituzionale riguardano in particolare l’istituto dell’avviso orale cosiddetto “rafforzato”.
Mentre l’avviso orale cosiddetto “semplice” comporta unicamente l’invito rivolto ai soggetti di cui all’art. 1 cod. antimafia a tenere una condotta conforme alla legge (art. 3, commi 1 e 2, cod. antimafia), il comma 4, oggetto delle odierne censure, attribuisce al questore anche il potere di inibire alla persona attinta da avviso orale il possesso o l’uso, in tutto o in parte, di determinati mezzi e strumenti. La misura di prevenzione in questione è adottabile sul presupposto che si tratti di «persone che risultino definitivamente condannate per delitti non colposi» (comma 4); il questore può inoltre colpire con le medesime interdizioni i soggetti sottoposti a sorveglianza speciale, anche in questo caso quando definitivamente condannati per delitti non colposi (comma 5).
La trasgressione dei divieti contenuti nell’avviso orale “rafforzato” è presidiata dalla previsione di una sanzione penale. L’art. 76, comma 2, cod. antimafia prescrive, infatti, che chiunque violi il divieto di cui all’art. 3, commi 4 e 5, «è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da euro 1.549 a euro 5.164».
5.– L’ordinanza del Tribunale di Sassari (r.o. n. 164 del 2021) include nelle proprie censure anche il menzionato art. 76, comma 2, cod. antimafia. In effetti, il giudice a quo riferisce di doversi pronunciare sulla responsabilità penale di un imputato del reato previsto e punito proprio dal citato art. 76, comma 2, per essere stato colto in possesso di un telefono cellulare, e ritiene dunque di coinvolgere la norma incriminatrice nelle proprie doglianze. Tuttavia, in riferimento a questa disposizione, l’ordinanza è priva di qualunque argomentazione, ciò che rende inammissibile la relativa questione di legittimità costituzionale (ex multis, di recente, sentenze n. 263, n. 256 e n. 128 del 2022).
Questa preliminare delimitazione dell’oggetto non ha conseguenze sull’ammissibilità della questione riferita, dal medesimo rimettente, all’art. 3, comma 4, cod. antimafia, ovvero alla disposizione che fonda il divieto del questore. La giurisprudenza di legittimità e di merito è infatti costante nell’ammettere che il giudice penale, pronunciandosi sulla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui al citato art. 76, comma 2, esercita incidentalmente un sindacato sulla legittimità dell’ordine del questore di cui all’art. 3, comma 4, cod. antimafia, dal cui esito deriva, in caso di illegittimità, il proscioglimento dell’imputato (di recente Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 17 settembre-24 novembre 2021, n. 43301, e 27 maggio-2 settembre 2021, n. 32667).
Inoltre, fuga ogni dubbio sulla rilevanza della presente questione, la circostanza per cui la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione che dà fondamento al potere dell’autorità pubblica di adottare la misura di prevenzione, la cui inosservanza è oggetto di accertamento nel giudizio principale, vale a «porre nel nulla» la misura medesima (sentenza n. 109 del 1983; in senso analogo, sentenza n. 126 del 1983).
6.– Entrambe le ordinanze di rimessione intendono censurare unicamente il potere del questore di vietare possesso e uso di apparati di comunicazione radiotrasmittente, non già degli altri mezzi e strumenti elencati dall’art. 3, comma 4, cod. antimafia (sul presupposto, del tutto corretto, che il questore possa separatamente decidere il divieto di alcuni soltanto tra i mezzi ed oggetti elencati dalla disposizione citata). Ciò vale anche per l’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione: se è vero che il dispositivo di quest’ultima, testualmente, coinvolge nelle censure di legittimità costituzionale l’intero comma 4, tuttavia la motivazione fuga ogni dubbio in proposito, riferendosi unicamente all’inibizione di possesso e uso di un telefono mobile, in quanto ritenuto apparato di comunicazione radiotrasmittente.
La costante giurisprudenza di questa Corte – secondo cui l’oggetto del giudizio costituzionale deve essere appunto individuato interpretando il dispositivo dell’ordinanza di rimessione alla luce della sua motivazione (ex multis, di recente, sentenze n. 149 e n. 148 del 2022) – consente, perciò, di correttamente delimitare, nei termini testé riferiti, il thema decidendum.
7.– Tutto ciò posto, le censure da scrutinare nel merito presuppongono innanzitutto una ricognizione del significato dell’espressione «qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente», contenuto nell’art. 3, comma 4, cod. antimafia.
Entrambe le ordinanze accolgono l’interpretazione affermatasi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui tale espressione è idonea a includere nel proprio orizzonte di senso i telefoni mobili o cellulari, e proprio su questa base formulano le descritte censure di violazione degli artt. 3 e 15 Cost.
Una simile interpretazione, consolidatasi nella forma del diritto vivente, ha da tempo condotto a superare i dubbi relativi alla portata della disposizione censurata.
Tra i vari mezzi e strumenti di cui il questore può vietare il possesso o l’utilizzo, «in tutto o in parte», ai soggetti che si trovino nelle condizioni previste dallo stesso art. 3 cod. antimafia, gli apparati di comunicazione radiotrasmittente risultano enunciati per primi dal comma censurato. Il loro inserimento tra i possibili oggetti di un avviso orale del questore risale alla legge n. 128 del 2001. L’elenco originario, trasfuso in seguito nel d.lgs. n. 159 del 2011 (dopo esser stato ulteriormente integrato ad opera dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009), poneva gli apparati ricordati accanto a «radar e visori notturni, indumenti e accessori per la protezione balistica individuale, mezzi di trasporto blindati o modificati al fine di aumentarne la potenza o la capacità offensiva, ovvero comunque predisposti al fine di sottrarsi ai controlli di polizia, nonché programmi informatici ed altri strumenti di cifratura o crittazione di conversazioni e messaggi».
Si tratta, all’evidenza, di un catalogo di strumenti di uso non comune, quasi di natura eccezionale, il cui impiego parrebbe indicativo della volontà di compiere specifiche attività delittuose offensive o difensive (per sottrarsi ai controlli delle forze dell’ordine), anche mediante l’uso o l’esibizione della forza.
Un’interpretazione più coerente con tale contesto normativo e con la ratio legis avrebbe potuto allora suggerire che gli specifici apparati di comunicazione radiotrasmittente oggetto di divieto del questore possono essere soltanto quelli, anch’essi di uso non comune, univocamente e abitualmente destinati ad un determinato scopo criminoso, e tali anche da evidenziare una specifica volontà di usare la tecnologia per danneggiare le indagini di polizia o sfuggire ai relativi controlli.
I lavori preparatori della legge n. 128 del 2001 (seduta del 24 gennaio 2001 della Camera dei deputati), per parte loro, mostrano la presenza di un emendamento al testo legislativo, non approvato, che al divieto relativo, in generale, agli apparati di comunicazione radiotrasmittente affiancava proprio la previsione di un distinto e specifico divieto relativo agli apparati di telefonia mobile, sul presupposto, quindi, che questi ultimi non fossero ricompresi tra i primi. La circostanza non è irrilevante e tuttavia resta ambiguo il significato della mancata approvazione dell’emendamento, non emergendo con chiarezza se ciò suoni conferma della voluntas legis di escludere i telefoni mobili dal novero degli apparati radiotrasmittenti, oppure se sia stata ritenuta superflua la menzione esplicita dei telefoni cellulari, accanto ad una definizione già di per sé generica e onnicomprensiva («qualsiasi» apparato di comunicazione radiotrasmittente).
Sotto un ulteriore profilo, potrebbe essere oggetto di dubbi il significato di senso comune trasmesso dalla locuzione “apparati di comunicazione radiotrasmittente”, sia nel 2001, all’epoca dell’approvazione della disposizione censurata, sia, a maggior ragione, nell’epoca attuale. Non sembra impossibile sostenere, infatti, che, già nel 2001 (quando i telefoni cellulari non costituivano più una rarità), la locuzione “apparato di comunicazione radiotrasmittente” esibisse – ed esibisca ancor più oggi, considerata l’universale diffusione dei telefoni mobili – un significato di senso comune evocatore di apparati ben diversi dai telefoni cellulari (come i walkie-talkie e simili).
Fatto sta che, superando del tutto i dubbi e le possibili diverse letture della disposizione, la giurisprudenza di legittimità – a partire da Corte di cassazione, sezione feriale, sentenza 1° settembre-1° ottobre 2009, n. 38514, seguita da almeno altre sei pronunce (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 24 febbraio-2 aprile 2021, n. 127793, 22 settembre-14 ottobre 2020, n. 28551, 26 febbraio-17 giugno 2019, n. 26628, 11 settembre 2018-7 gennaio 2019, n. 314 e 3 dicembre 2013-3 luglio 2014, n. 28796; sezione settima penale, ordinanza 18 ottobre 2018-7 gennaio 2019, n. 294) e con un’indiretta conferma da parte delle Sezioni unite civili, sentenza 2 maggio 2014, n. 9560, sia pur nella diversa materia delle tasse su concessioni governative – ha stabilito con nettezza che il telefono cellulare rientra a pieno titolo nella nozione di apparato di comunicazione radiotrasmittente. Questa interpretazione è basata, da un lato, su un criterio testuale, che eliminerebbe ogni incertezza sull’intenzione del legislatore derivante dall’analisi dei lavori preparatori, ed è, dall’altro, aderente al significato strettamente tecnico dell’espressione “apparato di comunicazione radiotrasmittente”, escludendo il rilievo di un eventuale significato di senso comune non coincidente, in ipotesi, con quello tecnico: per apparato di comunicazione radiotrasmittente si deve intendere qualsiasi apparecchio in grado di inviare onde radio e di trasmetterle, o ad un altro apparato analogo, o ad un impianto in grado di riceverle.
Da questo punto di vista, afferma la citata sentenza Cass. n. 38514 del 2009, seguita dai menzionati arresti in senso conforme, «il telefono cellulare è un apparecchio radiotrasmittente o radioricevente per la comunicazione in radiotelefonia, collegato alla rete telefonica di terra tramite centrali di smistamento denominate stazioni radio base».
8.– La premessa interpretativa da cui muovono entrambe le ordinanze di rimessione è dunque fedele alla costante lettura fornita dalla descritta giurisprudenza di legittimità, che costituisce ormai, come ricordato, diritto vivente. Ciò fuga ogni dubbio quanto all’ammissibilità delle questioni sollevate. Esse vanno perciò decise assumendo che l’art. 3, comma 4, cod. antimafia, nella parte in cui si riferisce a «qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente», consenta al questore di vietare il possesso e l’uso anche di telefoni cellulari.
9.– Sulla base di questa premessa, le questioni sono fondate, per violazione dell’art. 15 Cost.
La Costituzione tutela la libertà (e la segretezza) della corrispondenza, che all’epoca costituiva l’archetipo di riferimento, ma estende la garanzia ad ogni forma di comunicazione, aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata. Al tempo stesso, in termini generali, le regole attinenti al mezzo che, per comunicare, venga di volta in volta utilizzato sono cosa in sé diversa dalla disciplina relativa al diritto fondamentale ora in esame: anzi, sempre in termini generali, ben può dirsi che limitazioni relative all’uso di un determinato mezzo o strumento non necessariamente si convertono in restrizioni al diritto fondamentale che l’impiego di quel mezzo o strumento consenta, per avventura, di soddisfare.
Esiste tuttavia un limite, superato il quale la disciplina che incide sul mezzo – in ragione del particolare rilievo che questo riveste a livello relazionale e sociale – finisce per penetrare all’interno del nucleo essenziale del diritto, determinando evidenti ricadute restrittive sulla libertà tutelata dalla Costituzione. Esattamente questo accade, in forza di ciò che l’art. 3, comma 4, cod. antimafia consente di fare al questore, oltretutto in una materia, quella delle misure di prevenzione, di particolare delicatezza, perché finalizzata a consentire forme di controllo, per il futuro, sulla pericolosità sociale di un determinato soggetto, ma non deputate alla punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato (di recente, sentenza n. 180 del 2022). Le esigenze di prevenzione ben possono giustificare incisive misure restrittive, quali quelle che il questore può assumere sulla base dell’art. 3, comma 4, cod. antimafia, ma non possono che assoggettarsi all’evocato imperativo costituzionale.
È difficile pensare che il divieto di possesso e uso di un telefono mobile – considerata l’universale diffusione attuale di questo strumento, in ogni ambito della vita lavorativa, familiare e personale – non si traduca in un limite alla libertà di comunicare, «spazio vitale che circonda la persona» (sentenze n. 81 del 1993 e n. 366 del 1991), in quanto attinente alla sua dimensione sociale e relazionale. Da questo punto di vista, il telefono cellulare ha assunto un ruolo non paragonabile a quello degli altri strumenti evocati dai rimettenti. Rivelerebbe, inoltre, un senso d’irrealtà l’obiezione per cui la libertà di comunicare, privata del telefono mobile, ben potrebbe ancora oggi essere soddisfatta attraverso mezzi diversi, come gli apparati di telefonia fissa.
L’art. 15 Cost. definisce la libertà di comunicazione come inviolabile. Questa Corte ha stabilito, in particolare, che tale qualificazione implica che il contenuto essenziale della libertà non può subire restrizioni, se non in ragione della necessità di soddisfare un interesse pubblico costituzionalmente rilevante, «sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia che la disciplina prevista risponda ai requisiti propri della riserva assoluta di legge e la misura limitativa sia disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria» (ancora sentenza n. 366 del 1991; nello stesso senso, sentenza n. 81 del 1993).
Le esigenze di prevenzione e difesa sociale ben possono giustificare, si è detto, misure restrittive, e queste possono incidere anche su diritti fondamentali. Ma, proprio ove ciò accada, le garanzie costituzionali reclamano osservanza. Nel caso della disposizione censurata ciò non avviene: la misura limitativa non è disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria, bensì, direttamente, dall’autorità amministrativa, cui è attribuito perciò un potere autonomo e discrezionale, senza nemmeno la necessità di successiva comunicazione all’autorità giudiziaria (per un’analoga fattispecie, pure oggetto di pronuncia di illegittimità costituzionale, sentenza n. 100 del 1968).
Questa Corte, sin dal primo anno della propria attività, non ha esitato a dichiarare l’illegittimità costituzionale di disposizioni di legge contenenti misure di prevenzione, assunte su decisione dell’autorità amministrativa, che avevano effetti restrittivi sulla libertà personale, in violazione della riserva di giurisdizione costituzionalmente prescritta (sentenza n. 2 del 1956, sull’ordine di rimpatrio con traduzione ordinata dal questore; sentenza n. 11 del 1956, in tema di cosiddetta ammonizione del questore, a causa di una sorta di «degradazione giuridica» cui era sottoposto l’individuo in virtù del provvedimento dell’autorità di polizia; entrambe le pronunce sono riprese, di recente, dalla sentenza n. 24 del 2019).
Nella giurisprudenza costituzionale, è già stato inoltre chiarito il significato sostanziale, e non puramente formale, dell’intervento dell’autorità giudiziaria, in presenza di misure di prevenzione che comportino restrizioni rispetto a diritti fondamentali assistiti da riserva di giurisdizione. Il vaglio dell’autorità giurisdizionale risulta infatti associato alla garanzia del contraddittorio, alla possibile contestazione dei presupposti applicativi della misura, della sua eccessività e sproporzione, e, in ultima analisi, consente il pieno dispiegarsi allo stesso diritto di difesa (sentenze n. 113 del 1975 e n. 68 del 1964; si vedano, inoltre, le sentenze n. 177 del 1980 e n. 53 del 1968).
Analogamente a quanto questa Corte ha già stabilito con riguardo a misure di prevenzione restrittive della libertà personale, va dunque affermato che anche la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione limitative della libertà protetta dall’art. 15 Cost. è «necessariamente subordinata all’osservanza del principio di legalità e alla esistenza della garanzia giurisdizionale (sentenza n. 11 del 1956). Si tratta di due requisiti ugualmente essenziali ed intimamente connessi, perché la mancanza dell’uno vanifica l’altro rendendolo meramente illusorio» (sentenza n. 177 del 1980).
In un caso (sentenza n. 419 del 1994, pronunciata in riferimento alla misura di prevenzione del cosiddetto «soggiorno cautelare», che poteva essere disposto dal procuratore nazionale antimafia, in presenza di indici di pericolosità di reati associativi di stampo mafioso di particolare allarme sociale), la sentenza d’accoglimento, fondata sulla natura non giurisdizionale dell’organo chiamato ad adottare la misura limitativa della libertà personale, ha avuto cura di precisare l’ininfluenza, ai fini del rispetto della riserva di giurisdizione, dell’eventuale previsione di un riesame del giudice, su iniziativa dell’interessato. Già in quell’occasione, fu osservata la natura meramente eventuale di questo vaglio, attivabile su impulso del destinatario della misura. Ciò va ribadito nell’odierna questione: quel che conta, ai fini del rispetto della riserva di giurisdizione costituzionalmente imposta, è la titolarità del potere di decidere, direttamente e definitivamente, la misura stessa. Se tale potere è conferito ad un’autorità non giudiziaria, nessun riferimento ad una «fattispecie a formazione progressiva», sulla base della previsione di un eventuale, successivo intervento del giudice, può emendare il vizio di legittimità costituzionale.
Da questo punto di vista, non ha dunque pregio l’osservazione dell’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui il divieto del questore sarebbe «pienamente» assistito dal controllo dell’autorità giudiziaria, «essendo opponibile, successivamente alla denegata richiesta di revoca, davanti al Tribunale in composizione monocratica, nella forma dell’incidente di esecuzione».
10.– Come accade nell’ambito delle stesse misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria (ai sensi, ad esempio, dell’art. 5, comma 1, cod. antimafia), ben può spettare anche al questore la titolarità del potere di proporre che a un determinato soggetto sia imposto il divieto di possedere o utilizzare un telefono cellulare, ma non gli compete di adottare il provvedimento, poiché l’art. 15 Cost. non lo consente: la decisione non può che essere dell’autorità giudiziaria, con le procedure, le modalità e i tempi che compete al legislatore prevedere, nel rispetto della riserva di legge prevista dalla Costituzione.
L’art. 3, comma 4, cod. antimafia va dunque dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 15 Cost., nella parte in cui – sul presupposto che il telefono cellulare rientra tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente – consente al questore di vietarne, in tutto o in parte, il possesso e l’utilizzo.
La rimozione del potere di decisione spettante al questore, infine, comporta l’assorbimento delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale sollevate: sia quella inerente alla presunta lesione del diritto di accesso alla rete, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 21 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 10 CEDU; sia quelle concernenti, da un lato, l’asserito deteriore trattamento riservato ai destinatari del divieto di possedere e usare telefoni cellulari rispetto a coloro che sono raggiunti dalle misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria ex art. 4 cod. antimafia, e dall’altro, la circostanza che la disposizione censurata consenta un siffatto divieto senza un limite minimo e massimo di durata.