Massima
Commesso il reato-inadempimento, accertata dallo Stato Apparato (magistratura) la relativa consistenza concreta ed imputabilità ad un dato soggetto – il colpevole condannato – quest’ultimo viene dichiarato obbligato ad espiare una pena nell’interesse dello Stato Comunità, con prestazione di tipo patrimoniale-pecuniario (multa o ammenda) ovvero di tipo personale (reclusione o arresto); detta obbligazione – cui fa da contraltare la c.d. pretesa punitiva dello Stato Comunità – può estinguersi giusta “adempimento”, attraveso la concreta espiazione della pena inflitta da parte del reo, ovvero per altre cause talvolta connesse al mero decorso del tempo, talaltra a decisioni di tipo clemenziale adottate dai competenti organi dello Stato Apparato.
Crono-articolo
Nel diritto romano, come non esiste un sistema giuridico penale isolato dal contesto giuridico generale, allo stesso modo è impossibile pensare alla categoria delle cause di estinzione della pena per come viene intesa nel diritto contemporaneo. Qualche notazione può tuttavia essere fatta in materia di provvedimenti clemenziali, iniziando col chiarire come già nel periodo repubblicano 2 istituti presentino i connotati tipici propri degli atti di clemenza: si tratta in particolare, da un lato, della provocatio ad populum, onde i condannati alla pena capitale potevano proporre una sorta di appello contro la sentenza di condanna inflitta loro dal Magistrato innanzi al Popolo Romano, assunto come unico depositario della sovranità: peraltro non tutti possono usufruire di tale peculiare strumento d’impugnazione, potendone beneficiare i soli cittadini pleno iure, ed essendone peraltro esclusi, sul crinale soggettivo, le donne, gli schiavi e gli stranieri e, su quello oggettivo, i colpevoli di parricidio, di alto tradimento e di impurità nei confronti delle sacerdotesse vestali; dall’altro, della in integrum restitutio, votata dai comizi e dotata della forma di legge, con la quale vengono rimesse le pene e si estingue il reato, ripristinandosi, a favore del condannato lo status di cittadino sulla scorta di un modello assimilabile ai moderni amnistia e indulto. Importante rammentare anche come in epoca repubblicana la natura penale di un’actio implichi la intrasmissibilità della pertinente legittimazione, tanto attiva quanto passiva, agli eredi: il che si traduce, in concreto (e seppure muovendo, come di consueto in ambito romanistico, dal crinale processuale), la sostanziale estinzione della pena. In epoca imperiale, Augusto concentra in sé il potere di grazia, dapprima esercitandolo congiuntamente al Senato e, dipoi, in via monocratica, con la conseguenza onde la clemenza assume i connotati: a) dell’indulgentia principis – coinvolgente la pena e resa a favore di una persona (specialis) o di più persone (generalis), ancora una volta sul modello della futura grazia e del futuro indulto: l’indulgentia specialis opera infatti solo dopo la condanna, ha un destinatario ben preciso, viene accordata dal Principe, non ha efficacia retroattiva e non pregiudica i diritti dei terzi; b) dell’abolitio che – ricordando in parte l’attuale amnistia – incide sull’azione penale con effetti ben più ampi recando seco, più a monte, l’estinzione del reato e che dapprincipio viene concessa (congiuntamente dall’Imperatore e dal Senato) in coincidenza con ricorrenze religiose, vittorie, lieti eventi come ad esempio la nascita di un figlio per l’Imperatore, integrando una abolitio straordinaria ma che – con il passare del tempo – viene via via soppiantata da abolitiones ordinarie o periodiche, in coincidenza (massime durante l’epoca degli imperatori cristiani) con le festività pasquali (nota quella che coinvolse il Cristo e Barabba a Gesusalemme nel I secolo d.C., in quel caso per commemorare la Pasqua ebraica). Per quanto riguarda la legittimazione degli eredi del danneggiato contro gli eredi del reo, nel Principato essa viene ammessa con riferimento alle ipotesi di furto, di rapina e di damnum iniuria datum, e tuttavia nei limiti dell’arricchimento del reo danneggiante, così confermandosi come si estingua la pertinente fattispecie sanzionatoria penale, rimanendo invece operative le conseguenze “civili” del fatto; la legittimazione resta peraltro intrasmissibile agli eredi nelle fattispecie di iniuria, laddove in primo piano è la (sola) persona dell’offeso nella relativa integrità fisica e morale.
1889
La codificazione liberale Zanardelli prevede tra le cause di estinzione della pena la morte del reo all’art.85, il cui comma 2, in caso appunto di morte del condannato, prevede l’estinzione anche della pena pecuniaria non soddisfatta e di tutti gli effetti penali della condanna medesima (che non si trasferiscono, dunque, agli eredi), pur ribadendo tuttavia come detta morte non impedisca l’esecuzione delle confische. Tra le cause di “condono” (oltre che di commutazione) della pena il codice annovera anche l’indulto e la grazia all’art.87, precisando tuttavia (art.89) come il condannato non abbia in ogni caso diritto alla restituzione delle cose confiscate (né delle somme pagate a titolo di pena pecuniaria). Al successivo art.95 viene poi prevista l’estinzione “della condanna” per decorso del tempo, e dunque per prescrizione, con torno temporale a scalare a seconda della gravità della pena inflitta. Rilevanti anche le norme in tema di riabilitazione di cui all’art.100 del codice.
1930
Nel codice penale Rocco vengono previste una serie di ipotesi di estinzione della pena, prima fra tutte la morte del reo dopo la condanna, di cui all’art.171; la morte del reo estingue anche l’obbligazione avente ad oggetto il pagamento delle spese di mantenimento negli stabilimenti di pena: in entrambi i casi viene dunque esclusa la trasmissione del pertinente obbligo agli eredi. In tema di amnistia, rilevante l’art.151 che la dichiara causa di estinzione del reato ma che, nella versione “impropria”, coinvolge anche le ipotesi in cui sia già intervenuta condanna irrevocabile, in questo caso estinguendo la pena. Per quanto concerne la prescrizione della pena, e dunque della pretesa punitiva “concreta” dello Stato a seguito di sentenza irrevocabile di condanna (anteriormente la prescrizione investe la pretesa punitiva “astratta” dello Stato, e dunque il reato), la disciplina viene dettata agli articoli 172 (per quanto concerne le pene previste per i delitti, reclusione e multa) e 173 (per quanto concerne le pene previste per le contravvenzioni, multa e ammenda), con termini di prescrizione più lunghi per reclusione e multa, essendo i delitti più gravi delle contravvenzioni. All’art.174 vengono poi disciplinati l’indulto e la grazia, quali istituti idonei a condonare in tutto o in parte la pena, ovvero a commutarla, con disciplina che per quanto riguarda le ricadute sulle misure di sicurezza va coordinata con quanto disposto dagli articoli 205 e 210. All’art.175 viene prevista – impropriamente, implicando non già una estinzione, quanto piuttosto una sospensione a tempo indeterminato di un effetto penale della condanna, orientata ad una miglior risocializzazione del condannato – la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale spedito a richiesta di privati non per fine elettorale. Gli articoli 176 e 177 prevedono poi la liberazione condizionale come peculiare ipotesi di “condizione” applicata alla liberazione del condannato (mancata commissione in un dato termine di un reato della stessa indole di quello oggetto della condanna), dalla quale dipende la stessa estinzione della pena. La riabilitazione è invece disciplinata dagli articoli 178 e seguenti, e concerne l’estinzione delle pene accessorie e degli altri effetti penali della condanna. Di rilievo infine l’art.183, comma 2, alla cui stregua laddove concorrano cause di estinzione del reato e cause di estinzione della pena, sono le prime a prevalere, anche se intervenute successivamente.
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza particolarmente importante in tema di estinzione della pena, specie nella fattispecie di morte del reo dopo la condanna, stante il corollario della intrasmissibilità della pena – “personale” essa stessa – ed in genere degli effetti penali della condanna, agli eredi. Importante anche l’art.79 della Carta, onde l’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale; la norma prevede al comma 2 che la legge che concede l’amnistia o l’indulto stabilisce il termine per la relativa applicazione e al comma 3 che in ogni caso l’amnistia e l’indulto non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del pertinente disegno di legge. Importante l’art.87, comma 11, che affida al Presidente della Repubblica il potere di concedere la grazia e di commutare le pene.
1973
Il 14 dicembre esce la sentenza della Cassazione che si occupa dell’ipotesi in cui la legge stabilisca dei limiti soggettivi per l’applicazione dell’indulto connessi, segnatamente, a coloro che in relazione ad una medesima condanna subita abbiano già goduto di precedenti indulti; più in specie, quando il condannato non ha fruito del beneficio, pur originariamente concessogli, per sopravvenuta revoca, ciò può costituire un requisito soggettivo negativo che dunque impedisce l’applicazione del nuovo indulto.
1975
Il 26 luglio viene varata la legge n.354 sull’ordinamento penitenziario, il cui articolo 54 disciplina la c.d. liberazione anticipata; alla stregua del comma 4 di tale norma, la parte di pena detratta per liberazione anticipata si considera come scontata ai fini della soglia per la liberazione condizionale di cui all’art.176 c.p.
1983
Il 24 febbraio esce la sentenza della Cassazione che afferma la liberazione condizionale ex art.176 c.p. costituire una fattispecie di causa estintiva della pena che si caratterizza per la circostanza onde – anche laddove si sia in presenza di tutti i presupposti di concedibilità di cui all’art.176 ridetto – essa non potrebbe essere automaticamente concessa al condannato, entrando piuttosto in gioco la discrezionalità del giudice penale che, valutando tutti i parametri di cui all’art.133 c.p., deve scandagliare in particolare i precedenti giudiziari del condannato medesimo.
1984
Il 7 giugno esce la sentenza della Corte costituzionale n.155 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 175, comma 1, c.p (nel testo introdotto con l’art. 104 della legge 24 novembre 1981, n. 689), nella parte in cui esclude che possano concedersi ulteriori non menzioni di condanne nel certificato del casellario giudiziale spedito a richiesta di privati, nel caso di condanne per reati anteriormente commessi a pene che, cumulate con quelle già irrogate, non superino i limiti di applicabilità del beneficio.
1986
Il 10 ottobre viene varata la legge n.663, c.d. legge Gozzini, il cui art.28 modifica l’art.176 c.p. in tema di liberazione condizionale, onde anche il condannato all’ergastolo che abbia scontato 26 anni di pena detentiva può essere ammesso al beneficio.
1987
Il 2 gennaio esce la sentenza della Cassazione che assume rilevante la recidiva ai fini dell’innalzamento della soglia di concedibilità della liberazione condizionale anche qualora essa sia stata bilanciata con una circostanza attenuante, rilevando lo status del soggetto condannato che, in quanto appunto “recidivo”, soggiace ad una soglia più elevata rispetto al condannato non recidivo.
1988
Il 17 marzo esce la sentenza della Corte costituzionale n.304 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 175, comma 1, c.p. nella parte in cui prevede che la non menzione nel certificato del casellario giudiziale di condanna a sola pena pecuniaria possa essere ordinata dal giudice quando non sia superiore a un milione, anziché ad una somma pari a quella risultante dal ragguaglio della pena detentiva di anni due, a norma dell’art. 135 cod. pen.
Il 22 settembre viene varato il D.p.R. n.477, codice di procedura penale, che all’art.672 disciplina l’applicazione dell’amnistia e dell’indulto in sede di esecuzione della pena. Importante in particolare il comma 4, alla cui stregua l’amnistia e l’indulto devono essere applicati, qualora il condannato ne faccia richiesta, anche se è terminata l’esecuzione della pena: si tratta di una disposizione che conferma come l’indulto (oltre all’amnistia) può trovare applicazione anche quando la pena principale sia già stata espiata, al fine di estinguere altri effetti della condanna come, ad esempio, una misura di sicurezza. Importante anche l’art.681 che disciplina la grazia, massime dal punto di vista (soggettivo) di chi può spiccare la pertinente richiesta al Capo dello Stato, a cominciare dallo stesso condannato, oltre che sul crinale del procedimento di relativa erogazione, con particolare riferimento all’istruttoria.
1989
Il 25 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.282 che, in tema di liberazione condizionale, assume – andando in contrario avviso rispetto alla giurisprudenza della Cassazione – come al cospetto di tutti i presupposti di concedibilità di cui all’art.176 c.p., essa vada assunta quale oggetto di un vero e proprio diritto del condannato, senza che possa subentrare in alcun modo la discrezionalità del giudice penale, la quale ultima rileva solo in termini di valutazione di uno dei presupposti medesimi, ovvero dell’intervenuto ravvedimento del condannato stesso.
1990
Il 7 febbraio viene varata la legge n.19 recante modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti, che elimina la condizione della non presenza di pene accessorie ai fini della concedibilità del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, che dunque può ora essere concessa anche in presenza di pene accessorie.
Il 9 maggio esce la sentenza della Cassazione secondo la quale, laddove il soggetto ammesso al beneficio della liberazione condizionale violi una o più delle prescrizioni afferenti alla libertà vigilata (che ne connota lo status), la revoca del pertinente beneficio da parte del Tribunale di Sorveglianza non può essere automatica, dovendo piuttosto basarsi sulla accertata incompatibilità di tali violazioni con il ravvedimento tipico della liberazione condizionale.
1992
Il 24 marzo esce la sentenza della Cassazione onde – poiché per essere ammessi al beneficio della liberazione condizionale occorre che il condannato stia scontando all’attualità una pena detentiva – non può esservi ammesso chi abbia superato la soglia legale di custodia cautelare, sia libero e sia in attesa di scontare la residua pena inflittagli con condanna irrevocabile.
Il 16 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione, Cursio, che afferma irrilevante, al fine di interrompere la prescrizione della pena, il verbale di vane ricerche del condannato, onde la prescrizione continua a decorrere senza che inizi un nuovo, pertinente periodo.
1993
Il 10 febbraio esce la sentenza della Cassazione secondo la quale, poiché l’ergastolo è una pena a carattere non temporaneo (perpetuo), ad esso non si applica l’indulto che, intervenendo con un condono della pena, presuppone una pena di tipo temporaneo.
1994
Il 14 febbraio esce la sentenza della Cassazione che, in tema di revoca della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, assume operativa tale revoca anche in presenza di sentenza di patteggiamento ex art.444 c.p.p., poiché per detta revoca è sufficiente che sia stata accertata la commissione di un nuovo delitto, quand’anche con sentenza (ancora) non irrevocabile.
Il 01 luglio esce la sentenza della Cassazione che assume l’ergastolo non incompatibile in senso assoluto con l’indulto, ma solo in senso relativo: laddove sia previsto un condono parziale della pena, l’indulto viene assunto incompatibile con l’ergastolo, ma il legislatore può sempre disporre con l’indulto un condono totale della pena che l’ergastolo compendia, ovvero una commutazione dell’ergastolo in una pena di specie diversa. L’indulto non può tuttavia comportare una riduzione della pena dell’ergastolo, neppure al limitato scopo di consentire al condannato di beneficiare di taluni istituti premiali del diritto penitenziario, dal momento che l’indulto ha finalità diverse da quelle rieducative cui sono connessi i ridetti istituti premiali.
1996
Il 27 febbraio esce la sentenza della Cassazione che esclude la possibilità di denegare la riabilitazione sulla scorta di meri precedenti penali o giudiziari del condannato istante. La pronuncia si inserisce nel solco del dibattito afferente alla c.d. buona condotta richiesta, con prove effettive e costanti, in capo all’istante: un presupposto che se per taluni deve compendiarsi in un comportamento positivo capace di palesare il ravvedimento del condannato, per altri può tradursi anche semplicemente in una prognosi di futura non pericolosità del soggetto istante medesimo.
Il 30 marzo esce la sentenza della Cassazione che afferma essere sempre vietata la concessione della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale a chi abbia subito una o più precedenti condanne per le quali il pertinente beneficio (che ha carattere discrezionale) non sia stato concesso.
L’8 maggio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione onde in tema di revoca della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, va assunta non operativa tale revoca in presenza di sentenza di patteggiamento ex art.444 c.p.p., poiché per detta revoca è sì sufficiente che sia stato accertata la commissione di un nuovo delitto, quand’anche con sentenza (ancora) non irrevocabile, e tuttavia la sentenza resa ai sensi dell’art.444 c.p.p. non contiene un accertamento di responsabilità penale.
1997
*Il 27 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.1 che ribadisce come in tema di revoca della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, vada assunta non operativa tale revoca in presenza di sentenza di patteggiamento ex art.444 c.p.p., poiché per detta revoca è sì sufficiente che sia stato accertata la commissione di un nuovo delitto, quand’anche con sentenza (ancora) non irrevocabile, e tuttavia la sentenza resa ai sensi dell’art.444 c.p.p. non contiene un accertamento di responsabilità penale.
1998
Il 23 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.418 che assume costituzionalmente illegittimo l’art.177 c.p. in tema di revoca della liberazione condizionale laddove si consideri detta revoca un effetto automatico della condanna, con sentenza definitiva, per un delitto o una contravvenzione della stessa indole, dovendo piuttosto il Tribunale di Sorveglianza comparare la gravità di tale (nuovo) reato con il periodo trascorso dal soggetto nello “status” di liberato condizionale, con particolare riguardo all’intervenuto rispetto delle prescrizioni della libertà vigilata, tenendo conto della afflittività di queste ultime e ritraendo le debite conclusioni in tema di predicabilità o meno, siccome tuttora persistente, di quel ravvedimento che condiziona la fruizione del beneficio.
2006
Il 18 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.200 che si occupa del c.d. caso Bompressi; la Corte viene chiamata a dirimere un conflitto di attribuzione promosso dal Presidente della Repubblica dinanzi all’atto con il quale il Ministro della Giustizia dichiara di non voler dar corso alla grazia che il Capo dello Stato ha nel caso di specie disposto. Per la Corte – che muove da una prospettiva ricostruttiva di tipo storico – si contendono il campo sostanzialmente (ed al netto delle possibili opzioni intermedie) le due tesi dell’atto “presidenziale” del solo Capo dello Stato, da un lato, e dell’atto “complesso” (con partecipazione paritaria) “presidenziale-ministeriale” e dunque del Presidente della Repubblica e del Ministro della Giustizia; la Corte abbraccia una interpretazione di tipo funzionale, dacché il potere di grazia risponde ad una causa di tipo fondamentalmente umanitario, onde rilevano tutta una serie di circostanze variabili di volta in volta (e dunque non astrattamente tipizzabili) ed avvinte alla persona del condannato o che comunque coinvolgono apprezzamenti di tipo equitativo; questo fa prevalere la tesi della grazia come atto clemenziale individuale del Presidente della Repubblica, tenuto anche conto di come detto atto impinga sull’esecuzione di una pena che ha inflitto in modo valido e definitivo un organo imparziale come il giudice, con le garanzie formali e sostanziali previste dal processo penale. A rilevare è dunque l’art.27, comma 3, Cost., non già e non tanto sul crinale della rieducazione (che pure non va trascurata), quanto piuttosto sul versante del senso di umanità, espressione di quel principio di solidarietà cristallizzato all’art.2 della Carta, onde il potere di grazia – tenuto anche conto del disposto dell’art.87, comma 11, della Costituzione – non può che essere riconosciuto al Presidente della Repubblica, che incarna un organo super partes espressione dell’unità nazionale (come tale estraneo al circuito democratico Parlamento-Governo) e che è chiamato, in quanto tale, a valutare in concreto la sussistenza o meno proprio di quel presupposto umanitario che giustifica, nel caso concreto, l’adozione del pertinente provvedimento di clemenza; ciò anche perché occorre evitare che l’espropriazione del risultato imparzialmente ottenuto dal potere giurisdizionale giusta celebrazione di un rituale processo penale sia reso appannaggio di organi del potere esecutivo. Dal punto di vista procedimentale, ai sensi dell’art.681 c.p.p. la domanda di grazia viene diretta al Presidente della Repubblica e presentata al Ministro della Giustizia, ma la grazia può essere concessa – all’evidenza, dal Capo dello Stato – anche in difetto di domanda o proposta, onde essa è prerogativa del Presidente della Repubblica che può estrinsecarsi anche nel solo provvedimento clemenziale ad iniziativa di quest’ultimo, senza che vi sia stata una apposita domanda. Il Ministro della Giustizia ha un ruolo importante nella fase istruttoria del procedimento, in quanto all’esito dell’istruttoria medesima (svolta anche sulla base di quanto riferitogli dagli organi giurisdizionali competenti: magistrato di sorveglianza e Procuratore generale presso la competente Corte d’Appello) egli propone al Capo dello Stato la concessione della grazia, ovvero provvede ad archiviare, ma delle archiviazioni deve comunque periodicamente informare il Presidente della Repubblica. Tanto che il Ministro della Giustizia ritenga sussistenti i presupposti di legittimità e di merito per l’erogazione della grazia, quanto che al contrario li assuma non presenti, l’ultima parola spetta sempre e comunque – valutate le ragioni umanitarie sottese all’istituto della grazia – al Capo dello Stato, mentre la controfirma ministeriale ha qui solo valore formale, a differenza degli atti governativi, nei quali invece la controfirma ha valore sostanziale assumendosi il Ministro (ed il Governo) la responsabilità politica dei relativi atti (art.89 Cost.). Per la Corte, più nel dettaglio, quando il Presidente della Repubblica esercita un potere proprio (ed è il caso, oltre che della concessione della grazia, anche della nomina di senatori a vita, ovvero dell’invio di messaggi alle Camere), la controfirma ministeriale ha mero valore formale, e non già sostanziale come normalmente accade per gli atti del Governo. Proprio perché la concessione della grazia è prerogativa del Presidente della Repubblica, tanto in caso di iniziativa diretta di quest’ultimo quanto nell’ipotesi in cui il Ministro abbia comunicato l’avvenuta archiviazione, il procedimento di concessione della grazia deve essere iniziato o proseguito in ogni caso dal Ministro medesimo, dando corso all’istruttoria pertinente, non potendo il Ministro (che pure può palesare le ragioni di legittimità o di merito che lo vedono contrario all’atto di clemenza) determinare in ogni caso un arresto procedimentale, circostanza che sterilizzerebbe il potere di concessione costituzionalmente affidato al Presidente della Repubblica.
2009
Il 9 gennaio esce la sentenza della sezione VI della Cassazione n.508, Gianotti, che si occupa dei rapporti tra indulto e sospensione condizionale della pena, assumendo i due istituti compatibili tra loro. Più in specie l’indulto – che è causa di estinzione della pena – estingue per l’appunto la pena sin da quando viene disposto, mentre la sospensione condizionale della pena estingue il reato solo quando è decorso il termine di 5 anni o di 2 anni previsto dal codice penale. In sostanza, anche a chi è condannato a pena condizionalmente sospesa può essere applicato l’indulto, stante anche il principio del favor rei che impone di applicare l’indulto quando ne derivano effetti vantaggiosi non conseguibili attraverso la sospensione condizionale della pena; peraltro secondo questo orientamento pretorio abbracciato dalla Cassazione non è neppure configurabile, sul crinale temporale, un concorso in senso tecnico tra i due istituti, proprio perché l’indulto opera immediatamente mentre la sospensione condizionale della pena opera solo – come causa di estinzione del reato – decorso il termine prescritto dalla legge penale.
L’11 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.15232 che assume incompatibile l’indulto con la sospensione condizionale della pena, dovendo essere sempre preferita quest’ultima perché, con l’estinguere il reato (e non già solo la pena) è idonea a produrre effetti più favorevoli per il condannato. Peraltro, l’indulto deve assumersi applicabile alle sole pene suscettibili di esecuzione effettiva, dovendosi tenere conto – sotto altro profilo – dell’art.183, comma 2, c.p. che, in caso di concorso tra cause di estinzione del reato e della pena, assume prevalere le cause di estinzione del reato. Secondo questo orientamento peraltro lo stesso condannato ha interesse a non vedersi applicato l’indulto sulla pena condizionalmente sospesa, dovendosi tenere conto che – al cospetto di altri titoli esecutivi (e dunque di altre condanne e di conseguenti altre pene) – l’indulto (ove operativo contestualmente alla sospensione condizionale) potrebbe essere applicato solo per la parte cumulata di pene che non ecceda la soglia stabilita dal provvedimento clemenziale medesimo, dopo tuttavia aver detratto la pena condizionalmente sospesa.
* Il 16 giugno esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.24920, che si occupa dei rapporti tra indulto e sospensione condizionale della pena, assumendo i due istituti compatibili tra loro. Più in specie l’indulto – che è causa di estinzione della pena – estingue per l’appunto la pena sin da quando viene disposto, mentre la sospensione condizionale della pena estingue il reato solo quando è decorso il termine di 5 anni o di 2 anni previsto dal codice penale. In sostanza, anche a chi è condannato a pena condizionalmente sospesa può essere applicato l’indulto, stante anche il principio del favor rei che impone di applicare l’indulto quando ne derivano effetti vantaggiosi non conseguibili attraverso la sospensione condizionale della pena; peraltro secondo questo orientamento pretorio abbracciato dalla Cassazione non è neppure configurabile, sul crinale temporale, un concorso in senso tecnico tra i due istituti, proprio perché l’indulto opera immediatamente mentre la sospensione condizionale della pena opera solo – come causa di estinzione del reato – decorso il termine prescritto dalla legge penale.
*Il 18 settembre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.38082, che si occupa dei rapporti tra indulto e sospensione condizionale della pena, assumendo i due istituti compatibili tra loro. Più in specie l’indulto – che è causa di estinzione della pena – estingue per l’appunto la pena sin da quando viene disposto, mentre la sospensione condizionale della pena estingue il reato solo quando è decorso il termine di 5 anni o di 2 anni previsto dal codice penale. In sostanza, anche a chi è condannato a pena condizionalmente sospesa può essere applicato l’indulto, stante anche il principio del favor rei che impone di applicare l’indulto quando ne derivano effetti vantaggiosi non conseguibili attraverso la sospensione condizionale della pena; peraltro secondo questo orientamento pretorio abbracciato dalla Cassazione non è neppure configurabile, sul crinale temporale, un concorso in senso tecnico tra i due istituti, proprio perché l’indulto opera immediatamente mentre la sospensione condizionale della pena opera solo – come causa di estinzione del reato – decorso il termine prescritto dalla legge penale.
*Il 30 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.41753, che assume incompatibile l’indulto con la sospensione condizionale della pena, dovendo essere sempre preferita quest’ultima perché, con l’estinguere il reato (e non già solo la pena) è idonea a produrre effetti più favorevoli per il condannato. Peraltro, l’indulto deve assumersi applicabile alle sole pene suscettibili di esecuzione effettiva, dovendosi tenere conto – sotto altro profilo – dell’art.183, comma 2, c.p. che, in caso di concorso tra cause di estinzione del reato e della pena, assume prevalere le cause di estinzione del reato. Secondo questo orientamento peraltro lo stesso condannato ha interesse a non vedersi applicato l’indulto sulla pena condizionalmente sospesa, dovendosi tenere conto che – al cospetto di altri titoli esecutivi (e dunque di altre condanne e di conseguenti altre pene) – l’indulto (ove operativo contestualmente alla sospensione condizionale) potrebbe essere applicato solo per la parte cumulata di pene che non ecceda la soglia stabilita dal provvedimento clemenziale medesimo, dopo tuttavia aver detratto la pena condizionalmente sospesa.
2010
Il 15 ottobre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.36837, che assume incompatibile l’indulto con la sospensione condizionale della pena, dovendo sempre prevalere la seconda come causa di estinzione del reato. Per le SSUU va innanzi tutto esclusa la rilevanza nel caso di specie dell’art.183, comma 2, c.p., stante la non contestuale attualità delle due cause estintive, operando l’indulto immediatamente ed essendo invece la operatività della sospensione condizionale della pena “condizionata”, appunto, al decorso di un certo periodo di tempo (di messa alla prova del condannato), onde la estinzione del reato resta – nel momento in cui viene disposta la sospensione condizionale – un evento meramente futuro ed incerto. Per la Corte quando viene applicata la sospensione condizionale della pena ai sensi degli articoli 163 e seguenti del codice penale si innesca una fattispecie a formazione progressiva con effetti diversi e non contestuali dal punto di vista diacronico: un primo effetto è immediato, ma meramente accessorio, e si compendia nella sospensione dell’esecuzione della pena , o meglio nel differimento della relativa, concreta esecuzione; un secondo effetto è invece futuro e meramente eventuale, e tuttavia principale, e si compendia appunto nella estinzione del reato oggetto di condanna. Quando viene applicato il beneficio della sospensione condizionale della pena gli effetti ridetti, strettamente collegati tra loro, vengono da subito previsti nella relativa operatività, rispettivamente, immediata e futura: un effetto riguarda la pena ed è immediato (essendone sospesa l’esecuzione); l’altro riguarda il reato, la cui estinzione non è tuttavia immediata, quanto piuttosto futura ed incerta, chiudendo la fattispecie a formazione progressiva di che trattasi solo laddove la “messa alla prova” abbia sortito effetti positivi. L’indulto si applica peraltro, precisa la Corte, esclusivamente a pene suscettibili di esecuzione (e non già a pene la cui esecuzione sia stata condizionalmente sospesa) e può riguardare anche più pene cumulate tra loro (dopo aver escluso le pene già espiate, quelle già estinte per altra causa e quelle comunque non eseguibili): in sostanza, l’indulto non è in grado di produrre effetti su una pena che, per essere stata condizionalmente sospesa, non è all’attualità operativa. Peraltro la sospensione condizionale della pena – che è sempre suscettibile di revoca, facendo aprire le porte del carcere – mira a tenere il condannato al di fuori dell’ambiente carcerario, presuppone una prognosi di astensione dalla futura commissione di altri reati e sospinge il condannato verso la non recidivanza, oltre che indurlo ad adempiere ad obblighi di particolare valore morale e sociale, palesando essa stessa, proprio per questo, finalità spiccatamente giuridico-sociali che verrebbero frustrate laddove dovesse assumersi prevalente l’indulto, dal momento che esso produrrebbe una immediata non revocabilità della sospensione condizionale della pena (quand’anche al cospetto del mancato adempimento da parte del condannato degli obblighi previsti dal provvedimento che la dispone), venendo così meno una remora per il condannato medesimo a tenere quel contegno che gli viene richiesto in vista del relativo reinserimento sociale. Precisa la Corte che lo stesso condannato non ha peraltro interesse all’applicazione dell’indulto, tenuto conto del fatto che esso andrebbe ad estinguere una pena che non è all’attualità in fase di esecuzione, sottraendo ad un tempo il pertinente quantum di pena estinguibile in caso di cumulo di condanne e di pene, così entrando in frizione con quel principio del favor rei che proprio la tesi orientata ad ammettere la compatibilità tra i due istituti adduce a freccia nel proprio arco ermeneutico. Qualora la fattispecie a formazione progressiva non giunga a conclusione con estinzione del reato, il condannato medesimo potrebbe poi sempre richiedere l’applicazione dell’indulto – quale causa estintiva di una pena ormai in fase di concreta esecuzione – avvalendosi dell’incidente di esecuzione ai sensi dell’art.672 c.p.p., atteso come la mancata applicazione immediata della pertinente misura indulgenziale (indulto) non è stata indotta da valutazioni di merito in sede di cognizione, ma per l’appunto solo dalla contestuale operatività della sospensione condizionale della pena.
2018
Il 5 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 39943 che ribadisce il consolidato orientamento secondo cui se in sede esecutiva non è consentito modificare la data del commesso reato, accertata nel giudizio di cognizione con sentenza passata in giudicato, quando, invece, il tempus commissi delicti non è indicato in modo preciso e con ben definiti riferimenti fattuali nel capo di imputazione, il giudice dell’esecuzione può prendere conoscenza del contenuto della sentenza e, occorrendo, degli atti del procedimento, per ricavarne tutti gli elementi da cui sia possibile desumere l’effettiva data del reato, ove essa sia rilevante ai fini della decisione che gli è demandata. Tali principi sono in linea con i ripetuti interventi della Corte che ha riconosciuto al giudice dell’esecuzione il potere-dovere di interpretare il giudicato e renderne espliciti il contenuto e i limiti, ricavando dalla sentenza irrevocabile tutti gli elementi, anche non chiaramente espressi, che siano necessari per le finalità esecutive
Il 1° ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 43231 onde secondo il combinato disposto dei commi 1, 2 e 4 dell’art. 657 cod. proc. pen., nello stabilire la pena detentiva irrogata con una sentenza di condanna da eseguire, il pubblico ministero deve considerare non solamente il periodo di custodia cautelare subito per il reato, per il quale vi è stata quella irrogazione di pena, ma anche il periodo di applicazione della custodia cautelare o di esecuzione di pena patita per un altro reato, laddove la limitazione della libertà sia rimasta sine titulo (ad esempio perché la condanna non è poi intervenuta o perché è stata revocata, oppure il reato è stato dichiarato estinto per amnistia o è stato concesso indulto), a condizione che tali custodia o pena siano state subite in epoca successiva alla data commissione del reato, per il quale deve essere determinata la pena detentiva da eseguire. La ratio di tale disposizione è illustrata nella Relazione governativa di accompagnamento al d.P.R. n. 447 del 1988 di approvazione del codice di procedura penale, nella parte in cui è sottolineato che, sotto l’aspetto cronologico, l’operatività dell’istituto della fungibilità era stata limitata con un ‘meccanismo’ analogo a quello già regolato dall’analogo art. 271, ult. comma, del codice abrogato con il quale si era voluto ribadire che «la detenzione sofferta a vuoto deve seguire e non precedere la commissione del reato, perché in caso contrario si verificherebbe l’assurda situazione di un periodo di carcerazione preventiva che costituisce una sorta di futura immunità da carcerazione per l’interessato. In altre parole, secondo la Corte, il recupero della detenzione ingiustamente sofferta deve funzionare come correttivo alle disfunzioni della macchina giudiziaria e compensazione dell’ingiusta detenzione, ma non certo come incentivo alla commissione successiva di azioni criminose». I precedenti della Cassazione hanno sostenuto che, qualora per un periodo di custodia cautelare ingiustamente sofferta sia stata ottenuta la riparazione pecuniaria prevista dall’art. 314 cod. proc. pen., lo stesso periodo non può essere computato a titolo di fungibilità sulla pena da espiare per altro reato: si desume, infatti, dal disposto di cui all’art. 314, comma 4, cod. proc. pen. (secondo cui il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione è escluso per quella parte della custodia cautelare che sia computata ai fini della determinazione della pena da eseguire) l’alternatività tra il suddetto istituto e quello della fungibilità, previsto dall’art. 657 cod. proc. pen., per cui è rimessa all’interessato la facoltà di scegliere quello del quale avvalersi; e ciò anche al fine di evitare l’ingiustificata disparità di trattamento che, altrimenti, si verificherebbe fra chi, avendo ottenuto la fungibilità, non potrebbe ottenere la riparazione e chi, invece, avendo ottenuto la riparazione, avrebbe diritto anche alla fungibilità. Tale orientamento è stato parzialmente posto in discussione dalle Sezioni unite, per le quali, ai fini della determinazione della pena da eseguire, vanno computati anche i periodi di custodia cautelare relativi ad altri fatti, per i quali il condannato abbia già ottenuto il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, stante la inderogabilità della disciplina dettata dall’anzidetta disposizione normativa e dovendosi escludere l’esistenza di una facoltà di scelta, da parte dell’interessato (pur quando ne sussisterebbe la possibilità, attesa la già intervenuta esecutività della sentenza di condanna all’atto della richiesta di riparazione), tra il ristoro pecuniario di cui all’art. 314 cod. proc. pen. e lo scomputo dalla pena da espiare della custodia cautelare ingiustamente sofferta, fermo restando che, al fine di evitare che l’interessato consegua una indebita locupletazione, il giudice investito della richiesta di riparazione può sospendere il relativo procedimento, ove gli risulti l’esistenza di una condanna non ancora definitiva a pena dalla quale possa essere scomputato il periodo di custodia cautelare cui la detta richiesta si riferisce, e che, ove la somma liquidata a titolo di riparazione sia stata già corrisposta, lo Stato può agire per il suo recupero esperendo l’azione di ingiustificato arricchimento di cui all’art. 2041 cod. civ.. La Corte tuttavia precisa che la declaratoria di fungibilità di cui all’art. 657 cod. proc. pen. non è automatica né necessariamente contestuale all’ordine di esecuzione e desumibile dal relativo fascicolo, ma va disposta con distinto decreto e discende da una autonoma valutazione, che investe la custodia cautelare subita non solo per gli stessi fatti, ma anche per reati diversi, nonché pene espiate per altri fatti, quando sia sopravvenuta revoca della condanna, amnistia o indulto, e può, a richiesta dell’interessato, operare su sanzioni pecuniarie o sostitutive, anziché su quelle detentive. L’istituto della fungibilità, quindi, deve ritenersi applicabile qualora si sia realizzata una legittima causa di revoca dell’indulto, che determini una pena da eseguire, e non può integrare una causa autonoma di revoca del già concesso beneficio dell’indulto, operativa ex officio, come ritenuto nel caso in esame.
Il 5 ottobre esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 44611 che, nel ribadire il principio secondo cui in materia di indulto, il giudice dell’esecuzione può revocare il beneficio sulla base della considerazione di una causa ostativa preesistente al riconoscimento del condono, a condizione che la stessa non sia stata nota al giudice concedente e non abbia costituito oggetto di valutazione, anche implicita, da parte di quest’ultimo, afferma che, ai fini della revoca dell’indulto, la preesistenza di una causa ostativa rispetto alla deliberazione del beneficio, rilevante ai sensi dell’art. 1, comma 3, legge n. 241 del 2006, costituisce una condizione necessaria ma non sufficiente all’adozione del provvedimento revocatorio, essendo indispensabile verificare che la preclusione constasse al giudice concedente, risultando dal fascicolo e avesse costituito oggetto di valutazione anche implicita. Solo in presenza di tale ulteriore condizione, infatti, il divieto del ne bis in idem impedisce la rivalutazione dell’applicazione del condono illegittimamente riconosciuto, che potrà essere effettuata soltanto laddove emergesse che l’esistenza di una preclusione alla concessione dell’indulto non risultava al momento della sua concessione. In questa cornice, la Corte ribadisce che, in materia di indulto, il divieto del ne bis in idem non opera in senso assoluto e inderogabile, ma comporta una valutazione allo stato degli atti, rebus sic stantibus, tenendo conto degli elementi processuali di cui disponeva il giudice concedente al momento della deliberazione. Ne consegue che l’effetto richiamato non può ritenersi operante laddove vengano prospettate o comunque emergano nuove circostanze di fatto ovvero nuove questioni di diritto, atteso che l’incidente di esecuzione non si fonda sulle medesime condizioni poste a fondamento di quello su cui si era formato il giudicato sulla misura clemenziale erroneamente concessa.
L’11 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 46132 che ribadisce il consolidato orientamento secondo cui, in tema di indulto e salva diversa disposizione di legge, il reato continuato va scisso – sia per l’ipotesi in cui, in ragione del titolo alcuni fra gli episodi criminosi unificati risultino esclusi ed altri compresi nel relativo provvedimento, che per quella in cui alcuni siano stati commessi prima ed altri dopo il termine di scadenza ivi stabilito – allo scopo di consentire che il beneficio venga riconosciuto per i singoli fatti che vi rientrano; di conseguenza, nel caso di commissione, da parte di chi abbia beneficiato dell’indulto concesso con la legge n. 421 del 2006, di delitti non colposi dal giudice della cognizione unificati dal vincolo della continuazione entro cinque anni dall’entrata in vigore della stessa legge n. 421, il giudice dell’esecuzione, in funzione dell’accertamento dei presupposti per la revoca di diritto di tale beneficio prevista dall’art. 1, comma 3, della medesima legge, dovrà accertare sulla base delle determinazioni del giudice della cognizione quale sia la pena rilevante allo scopo individuandola fra quelle in concreto inflitte per ciascun reato (per il reato più grave e per i c.d. “reati satellite”) dal giudice della cognizione e non alla pena risultante dal cumulo giuridico di ciascuna di tali sanzioni.
Il 15 novembre esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 51815 che esprime interessanti considerazioni con riguardo all’ovverruling in bonam partem in tema di indulto. In particolare, il massimo Consesso, partendo dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani che ha censurato l’overruling interpretativo in malam partem per violazione dell’art. 7 CEDU, rileva che non constano precedenti nazionali sulle ricadute della giurisprudenza di Strasburgo nel nostro sistema in subiecta materia, mentre nel caso dell’overruling in bonam partem, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 18288 del 21/01/2010, hanno affermato che il mutamento di giurisprudenza, intervenuto con decisione delle Sezioni Unite, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza rigettata: la Corte – in detta pronuncia – ha precisato, in particolare, che tale soluzione è imposta dalla necessità di garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona in linea con i principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il cui art. 7 include nel concetto di legalità sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale. La Corte costituzionale, però, con la sentenza n. 230 del 2012, in un caso in cui il giudice aveva dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 673 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevedeva la possibilità della revoca del giudicato a seguito di mutamento della giurisprudenza, ha ritenuto non manifestamente irrazionale che il legislatore, per un verso, valorizzasse, anche in ossequio ad esigenze di ordine costituzionale, la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, e delle Sezioni Unite in particolare – postulando, con ciò, che la giurisprudenza successiva si uniformasse «tendenzialmente» alle decisioni di queste ultime – e, dall’altro, omettesse di prevedere la revoca delle condanne definitive pronunciate in relazione a fatti che, alla stregua di una sopravvenuta diversa decisione dell’organo della nomofilachia, non erano previsti dalla legge come reato, col risultato di consentire trattamenti radicalmente differenziati di autori di fatti analoghi. Secondo la Corte costituzionale, in altri termini, nel nostro ordinamento, nonostante l’orientamento della Corte di Strasburgo, il cosiddetto diritto vivente non può avere la stessa funzione della legge, sicché non è idoneo a mettere in discussione il giudicato, soggiungendosi, peraltro, che la citata sentenza delle Sezioni Unite n. 18288 del 2010 e la sentenza Sez. 2, n. 19716 del 06/05/2010, non avevano mancato di porre adeguatamente in risalto il netto iato che separava gli istituti esaminati, riconducibili più correttamente all’ambito delle preclusioni, rispetto al giudicato vero e proprio. Fatta questa premessa, la Corte rileva che, in riferimento ad un caso di diffusione di materiale pedopornografico, il problema dell’overruling in malam partem non viene comunque in rilievo, essendo ormai generalizzato – come visto – il pericolo di diffusione del materiale realizzato utilizzando minorenni; con la conseguenza che l’esclusione di tale pericolo quale presupposto per la sussistenza del reato non determina in concreto un ampliamento dell’ambito di applicazione della fattispecie penale, essendo completamente mutato il quadro sociale e tecnologico di riferimento ed essendo parallelamente mutato anche il quadro normativo sovranazionale e nazionale. Risulta significativo – prosegue la Corte – che già la sentenza delle Sezioni Unite del 2000 individuasse una serie di elementi sintomatici liberamente apprezzabili dal giudice, anche disgiuntamente, ai fini della verifica della sussistenza del pericolo di diffusione tra i quali «la disponibilità materiale di strumenti tecnici di riproduzione e/o trasmissione, anche telematica idonei a diffondere il materiale pornografico in cerchie più o meno vaste di destinatari». E una tale disponibilità, che all’epoca di quella pronuncia era tutt’altro che scontata e doveva essere oggetto di specifico accertamento, è oggi assolutamente generalizzata, essendo la riproducibilità e trasmissibilità di immagini e video immediata conseguenza della loro produzione. A ciò deve aggiungersi che, pur con il superamento del presupposto del pericolo di diffusione ritenuto necessario dalla giurisprudenza tradizionale, la disposizione dell’art. 600 ter cod. pen. risulta comunque circoscritta nel suo ambito di applicazione dall’interpretazione restrittiva del concetto di “utilizzazione”, tale da escludere la cd. “pornografia domestica”.
Il 19 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 52105 ove viene ribadito che la preclusione di cui all’art. 172, ultimo comma, cod. pen opera solo se la condanna sopravvenuta riguarda, reati commessi dopo l’inizio del termine prescrizionale, e, dunque, dopo la irrevocabilità della sentenza di condanna. Il Collegio ricorda che tale soluzione ermeneutica appare in linea con la volontà del legislatore, illustrata nella relazione del guardasigilli al codice penale, laddove si fa espresso riferimento, come condizione preclusiva dell’estinzione della pena, “… all’azione criminosa del colpevole che intervenga durante il tempo utile per l’estinzione…“. L’istituto codicistico della estinzione delle pene per decorso del tempo si pone in termini di continuità rispetto all’istituto della “prescrizione della condanna” conosciuto dal codice Zanardelli (all’art. 96), che prevedeva come causa di interruzione del decorso del termine la commissione di un nuovo reato. Si tratta, infine, di interpretazione in favorem rei, e dunque congrua rispetto alla ratio dell’istituto.
2019
Il 7 febbraio esce la sentenza della IV sezione della Cassazione n. 5917 che ribadisce il principio secondo cui l’esecuzione di un ordine di carcerazione originariamente legittimo ma relativo ad una pena risultante estintasi, in ragione del lungo arco temporale intercorso tra l’emissione del titolo e la sua esecuzione, determina l’ingiustizia della detenzione sofferta e, dunque, la configurabilità del diritto all’equa riparazione.
* * *
Il 19 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 27359 onde, in caso di applicazione dell’indulto ad un soggetto nei cui confronti è stato emesso un mandato d’arresto europeo che comporti una riduzione della pena da espiare al di sotto del limite previsto per assicurare la consegna del reo, va verificato – in quanto compatibile con le finalità dell’art. 4, punto 6 della decisione quadro 2002/584/GAI (facilitare il reinserimento sociale della persona condannata) – se sia possibile trovare l’accordo dello Stato di emissione attraverso il meccanismo, previsto della decisione quadro 2008/909/GAI e dal decreto legislativo che vi ha dato attuazione, di preventiva interlocuzione.
Il Giudice, una volta stabilita la concessione al consegnando del beneficio dell’indulto, è tenuta ad informare le autorità dello Stato di emissione, in funzione della consultazione di cui all’art. 10, comma 3, d.lgs. n. 161 del 2010 (“Se la corte di appello ritiene di poter procedere al riconoscimento parziale, ne informa immediatamente, anche tramite il Ministero della giustizia, l’autorità competente dello Stato di emissione e concorda con questa le condizioni del riconoscimento e dell’esecuzione parziale, purché tali condizioni non comportino un aumento della durata della pena“).
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Il 24 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 27813 onde, seppure il giudice dell’esecuzione possa, nel silenzio del giudice della cognizione, sostituirsi ad esso ai fini del riconoscimento dell’indulto, nondimeno non è consentito al giudice della cognizione accordare il beneficio, delegando al giudice di esecuzione la quantificazione del segmento di pena in concreto dichiarato estinto, poiché nessuna norma prevede siffatta delega, che si risolverebbe in un non consentita abdicazione dall’esercizio della giurisdizione nell’ambito del procedimento di cognizione, illegittima se non dovuta a fattori oggettivi ed insuperabili, che impediscano una definitiva e completa statuizione sul punto, nella specie non evidenziati dalla sentenza impugnata.
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Il 20 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 51497 che ribadisce il consolidato orientamento secondo cui in tema di estinzione della pena pecuniaria per decorso del tempo, rileva, quale fatto impeditivo, il solo momento dell’inizio dell’esecuzione, a partire dal quale le concrete modalità e le scansioni temporali della procedura stessa risultano irrilevanti. In altri termini, l’inizio dell’esecuzione, che realizza la pretesa alla riscossione del credito dello Stato, è sufficiente ad evitare l’estinzione della pena e nessuna rilevanza – in mancanza di una previsione legislativa in tal senso – assume la circostanza che tale inizio sia avvenuto coattivamente, oppure con la collaborazione del condannato
2020
Il 30 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 4095 onde, con riguardo alla preclusione dell’estinzione della pena per prescrizione ex art. 172, settimo comma, cod. pen., la recidiva qualificata rileva, quale giudizio di accresciuta colpevolezza e pericolosità intesa come indice dell’inclinazione a delinquere, se il relativo accertamento è stato compiuto nel giudizio sfociato nella condanna di cui si tratta, ovvero in un diverso giudizio in relazione a un fatto commesso entro il termine di prescrizione, sicché risulta irrilevante la recidiva che sia stata accertata in data anteriore, perché essa non può modificare la valutazione compiuta nel successivo giudizio — nel quale è stata esclusa la sussistenza di una maggiore e accresciuta pericolosità —, ben potendo, invece, costituire un elemento per una successiva diversa valutazione di pericolosità che potrebbe condurre, in un diverso giudizio, all’accertamento di essa, risultando, infatti, irrilevante — ai fini della successiva declaratoria di recidiva — l’eventuale estinzione della pena ex art. 106 cod. pen.
La disposizione in discorso, infatti, stabilisce che «agli effetti della recidiva e della dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato, si tiene conto altresì delle condanne per le quali è intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena», così rendendo palese l’irrilevanza — ai fini della successiva declaratoria di recidiva — dell’eventuale estinzione della pena nel frattempo verificatasi.
Del resto, l’irrilevanza della recidiva dichiarata in un diverso e precedente giudizio è stata costantemente affermata dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo a situazioni in cui detta aggravante poteva determinare significative conseguenze in sede esecutiva.
Allorquando, infatti, il legislatore ha modificato l’art. 656, comma 9, lett. c), cod. proc. pen. (art. 9 della L. 5 dicembre 2005 n. 251), introducendo il divieto di sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi per i recidivi, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che il divieto di sospendere l’esecuzione delle pene detentive brevi in caso di recidiva reiterata è subordinato non già alla qualità di “recidivo” del condannato, bensì alla circostanza che la recidiva di cui all’art. 99, comma quarto, cod. pen. sia stata “applicata”, cioè effettivamente valutata in quanto circostanza aggravante soggettiva ed abbia perciò prodotto conseguenze concrete sulla pena irrogata.
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Il 10 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 17831 che ribadisce il principio per cui ai fini dell’estinzione della pena per decorso del tempo, nel caso di sospensione dell’esecuzione disposta dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. il termine di prescrizione decorre dalla data di irrevocabilità della condanna, ai sensi dell’art. 172, comma quarto, cod. pen., e non da quella del provvedimento di revoca della sospensione.
L’istituto della sospensione dell’esecuzione della pena, in quanto applicabile solo nel caso di condanna eseguibile, è estraneo alla ratio dell’art. 172, comma quinto, cod. pen., che disciplina i casi di condanna non eseguibile per la pendenza di un termine o di una condizione; né lo stesso configura alcuna causa di sospensione del predetto termine prescrizione.
L’art. 172 cod. pen., infatti, a differenza delle norme che disciplinano la prescrizione del reato prima della condanna (artt. 157 e segg. cod. pen.), non prevede cause di sospensione del termine di prescrizione della pena; trattandosi di norme penali sostanziali, non è consentito introdurre in via analogica una causa di sospensione del termine.
Il legislatore, pur avendo introdotto il meccanismo ex art. 656 cod. proc. pen., non ha integrato l’art. 172 cod. pen., prevedendo una specifica causa di sospensione del termine di prescrizione della pena, lasciando così immutata la disciplina originaria, pur in un diverso contesto processuale.
L’art. 172, comma 5, cod. pen. concorre, con la norma di cui al comma quarto, a determinare la decorrenza del termine di prescrizione.
L’art. 172 cod. pen. non prevede nemmeno l’istituto della interruzione della prescrizione, per lo meno nell’accezione propria della disciplina della prescrizione del reato, in quanto si dà rilievo solo all’inizio dell’esecuzione come momento di definitiva interruzione del decorso del termine.
Il termine di prescrizione della pena decorre, quindi, dalla data di irrevocabilità della condanna ovvero, nel caso di esecuzione già iniziata, dalla data in cui il condannato si è sottratto volontariamente alla esecuzione della pena (art. 172, comma quarto, cod. pen.).
Nel caso in cui l’esecuzione della pena sia subordinata alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione, il termine decorre dalla scadenza del termine e dal verificarsi della condizione.
La norma di cui all’art. 172, comma 5, cod. pen. è applicata nel caso di condanna a pena condizionalmente sospesa e nel caso di pena condonata, qualora la legge di indulto preveda la revocabilità del beneficio.
Per la giurisprudenza la ratio della norma consiste nel determinare la decorrenza del termine di prescrizione della pena dal momento della eseguibilità della condanna.
La procedura disciplinata dall’art. 656 cod. proc. pen. presuppone invece l’esecutività della condanna e, al fine di consentire l’accesso alle misure alternative alla detenzione direttamente dalla libertà, impone una sospensione dell’esecutività limitata al termine di giorni trenta concesso per proporre la richiesta di misure alternative.
L’istituto della sospensione dell’esecuzione della pena è estraneo alla ratio della norma sostanziale, dato che è applicabile solo nel caso di condanna eseguibile, mentre la norma disciplina i casi di condanna non eseguibile per la pendenza di un termine o di una condizione.
Trattandosi di norma penale sostanziale, non è consentito, essendo una interpretazione contra reum in via di analogia, estendere l’ambito di applicazione della norma di cui all’art. 172, comma quinto, cod. pen. al caso di sospensione dell’esecuzione della condanna imposta dalla legge.
* * *
Il 21 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 26334 che consolida l’orientamento secondo cui la demolizione dell’abuso edilizio è stata disegnata dal Legislatore come un’attività avente finalità ripristinatorie dell’originario assetto del territorio imposta all’autorità amministrativa, la quale deve provvedervi direttamente nei casi previsti dall’art. 27, comma 2 del TUE o attraverso la procedura di ingiunzione. Si tratta, dunque, di sanzioni amministrative, che prescindono dalla sussistenza di un danno e dall’elemento psicologico del responsabile, in quanto applicabili anche in caso di violazioni incolpevoli; come tali sono rivolte non solo alle persone fisiche, ma anche alle persone giuridiche ed agli enti di fatto e sono generalmente trasmissibili nei confronti degli eredi del responsabile e dei suoi aventi causa che a lui subentrino nella disponibilità del bene.
Posto quanto sopra, la Corte ha altresì affermato che l’ordine impartito dal giudice non è soggetto alla prescrizione quinquennale stabilita per le sanzioni amministrative dall’art. 28 della I. 689\81, che riguarda le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva e, stante la sua predetta natura, non si estingue neppure per il decorso del tempo ai sensi dell’art. 173 cod. pen., atteso che quest’ultima disposizione si riferisce alle sole pene principali.
2021
Il 12 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione Penale n. 813 onde, nel procedimento di revoca dell’indulto, deve osservarsi quanto stabilito dall’art. 666 c.p.p.; dunque, il provvedimento assunto de plano, senza fissazione dell’udienza in camera di consiglio e senza alcun avviso alle parti, è affetto da nullità di ordine generale e a carattere assoluto.
Questioni intriganti
In cosa si compendiano le cause di estinzione della pena?
- attraverso il processo (penale), il servizio Giustizia, uno dei più importanti dello Stato apparato, viene chiamato ad accertare se si è verificato un inadempimento “reato”, come tale penalmente sanzionato, e chi lo ha commesso;
- a fronte dell’inadempimento reato, prende infatti forma una pretesa punitiva dello Stato;
- accertato con condanna definitiva l’inadempimento-reato e chi lo ha commesso, viene a quegli irrogata dallo Stato apparato una sanzione punitiva, quale oggetto di una obbligazione patrimoniale (pena pecuniaria, ammenda) ovvero personale (reclusione, arresto);
- alla pretesa punitiva dello Stato corrisponde dunque una obbligazione personale o patrimoniale imposta al reo, quale oggetto di una obbligazione penalmente qualificata;
- si tratta di una obbligazione che ha dunque ad oggetto la “pena”, e che può estinguersi per tutta una serie di cause che vengono appunto definite cause di estinzione della pena, siccome concretamente (e definitivamente) inflitta al reo;
- si è dunque al cospetto da un lato una obbligazione in capo al reo e dall’altro di una corrispondente pretesa punitiva dello Stato Comunità (siccome accertata dallo Stato Apparato), che può estinguersi, non a caso, anche per prescrizione;
- una causa di estinzione della pena va immediatamente dichiarata nel processo, laddove vi intervenga;
- se concorre una causa di estinzione della pena con una causa di estinzione del reato inadempimento, va dichiarata quest’ultima perché più “a monte” è capace di estinguere il fatto illecito inadempimento penalmente rilevante cui la pena (pur estinta) andrebbe ricollegata;
- in presenza di più cause di estinzione della pena, vige il principio del favor rei che impone l’applicazione della causa estintiva, appunto, più favorevole al reo medesimo.
Quali sono le cause di estinzione della pena previste dal sistema?
- morte del reo dopo la condanna: ai sensi dell’art.171 c.p. se il reo muore dopo la condanna si estinguono la pena principale, le pene accessorie, le misure di sicurezza detentive, ogni altro effetto penale della condanna nonché l’obbligo avente ad oggetto le spese di mantenimento negli stabilimenti di pena; sul crinale civile, si estingue altresì l’obbligazione del responsabile civile per il pagamento della pena pecuniaria (art.188 c.p.), mentre non si estinguono le obbligazioni civili derivanti da reato che (a differenza della pena ed assimiliati, intrasmissibili) si trasmettono agli eredi;
- amnistia impropria: si tratta delle ipotesi, ex art.151 c.p. in cui essa interviene quando sia già intervenuta sentenza irrevocabile di condanna, atteggiandosi in simili fattispecie non già come “propria” (quale causa di estinzione del reato) ma come “impropria”, quale appunto causa di estinzione della pena principale, della quale fa cessare l’esecuzione estinguendo ad un tempo anche le pene accessorie e le misure di sicurezza (purché diverse dalla confisca, la quale dunque resta efficace quale ablazione reale); l’amnistia, anche nella versione impropria, viene consacrata in una legge ex art.79 Cost., e laddove tale legge nulla dica, non si estinguono gli altri effetti penali della condanna (onde si tiene conto di tale condanna ai fini della concessione della sospensione condizionale della pena, della recidiva e delle declaratorie di delinquenza abituale, professionale o per tendenza);
- prescrizione della pena: gli articoli 172 e 173 prevedono la prescrivibilità della reclusione e della multa da un lato (delitti) e dell’arresto e dell’ammenda dall’altro (contravvenzioni), lasciando fuori l’ergastolo, le pene accessorie e gli altri effetti penali della condanna che, dunque, non si prescrivono; il dies a quo è la sentenza irrevocabile di condanna e, laddove il condannato si sottragga volontariamente all’esecuzione già iniziata della pena (come nel caso dell’evasione), dal giorno di tale volontaria sottrazione; allorché la pena sia congiunta, detentiva e pecuniaria, si ha riguardo solo al decorso del tempo previsto per la pena detentiva (prescrivendosi dunque anche, contemporaneamente, la pena pecuniaria, anche se il condannato si sia sottratto alla relativa esecuzione); la presenza di una condizione sospensiva per l’esecuzione della pena sposta in avanti il dies a quo della prescrizione, che inizia a decorrere da quando si è verificato l’evento dedotto in condizione (come nel caso della sospensione condizionale della pena, ovvero della liberazione condizionale, entrambi benefici che, laddove revocati con sentenza definitiva, fanno appunto scattare l’evento condizionante e con esso il dies a quo della prescrizione della pena); la prescrizione della pena è diuturna e, come tale, non si sospende né si interrompe, ma decorre sic et simpliciter col decorso del tempo legalmente previsto; una posizione più aggravata anche ai fini della prescrizione della pena rivestono i recidivi aggravati e reiterati e i delinquenti c.d. qualificati (abituali, professionali e così via) mentre, all’opposto, laddove la sentenza di condanna unifichi le pene previste per più reati commessi (per esempio, in caso di reato continuato), per il principio del favor rei la prescrizione delle pene è “atomistica”, onde per ogni reato scatta il proprio termine di prescrizione della pertinente pena;
- indulto: viene previsto all’art.174 c.p., e si configura come proprio allorché interviene su una pena disposta con sentenza ormai in giudicato, ovvero come improprio laddove impinge sulla pena che applica il giudice della cognizione con propria sentenza; è il legislatore che lo dispone a prevedere – discrezionalmente – a quali reati l’indulto si applica, ovvero i limiti quantitativi di pena che l’indulto condona; la norma rinvia all’ultimo comma dell’art.151 c.p, con conseguente inapplicabilità dell’indulto ai recidivi aggravati e reiterati e ai delinquenti qualificati (abituali, professionali o per tendenza); l’indulto estingue la pena principale, ma non si estende né alle pene accessorie, né agli altri effetti penali della condanna, la legge potendo tuttavia disporre tale più ampia effettualità in senso favorevole al condannato; delle misure di sicurezza, ai sensi dell’art.210, comma 2, c.p., (sempre che non si tratti di misure di sicurezza inflitte in via accessoria alla reclusione superiore a 10 anni) cessa l’esecuzione solo se si “estingue” – per essere stata totalmente condonata – la pena principale, e dunque per quanto concerne l’indulto, la ridetta esecuzione delle misure di sicurezza non cessa laddove la pena principale sia condonata solo parzialmente, ovvero sia commutata;
- grazia: è prevista anch’essa all’art.174 c.p., ed incide sulla pena principale per estinguerla in modo totale o parziale; è di competenza non già del Parlamento ma del Presidente della Repubblica, che la dispone con decreto; salva diversa disposizione di detto decreto clemenziale, la grazia non si estende alle pene accessorie né agli altri effetti penali della condanna; quanto alla natura giuridica, la si addita quale atto politico del Presidente (né legislativo, né giurisdizionale), distinguendosi sul crinale strutturale diverse possibili opzioni ermeneutiche: e.1) è atto formalmente presidenziale e sostanzialmente ministeriale (del Ministro della Giustizia); e.2) è atto tanto formalmente quanto sostanzialmente presidenziale; e.3) è atto sostanzialmente presidenziale e formalmente ministeriale; e.4) è atto complesso o a partecipazione eguale;
- liberazione condizionale; è prevista dagli articoli 176 e seguenti del codice penale e produce la liberazione del condannato che è tuttavia “condizionale” perché produce effetti sempre che il condannato non commetta, nei termini previsti dalla legge, un reato della stessa indole; ove ciò non accada, la pena si estingue; più nel dettaglio, deve trattarsi di un condannato che – non avendo già usufruito del beneficio – abbia scontato almeno 30 mesi o, se trattasi di periodo superiore, almeno la metà della pena inflittagli (se recidivo reiterato o aggravato, almeno 4 anni, e comunque non meno dei ¾ della pena inflittagli), con calcolo che va effettuato alla data dell’istanza, e non già a quella in cui il giudice decide se attribuire o meno il beneficio; la pena residua non deve superare i 5 anni; durante il periodo di effettiva espiazione, il condannato deve avere tenuto un comportamento tale da far ritenere certo il proprio ravvedimento (non già una generica buona condotta carceraria, ma il giudizio prognostico favorevole del Tribunale di Sorveglianza in ordine al reinserimento sociale effettivo dell’istante), oltre ad aver adempiuto alle obbligazioni civili nascenti dal reato oggetto di condanna (salva tuttavia la prova di trovarsi nella impossibilità di adempierle); il condannato che abbia ottenuto la liberazione condizionale viene subito posto in libertà, gli viene sospesa l’eventuale misura di sicurezza e gli si applica la libertà vigilata assistita dal servizio sociale; decorso in tale condizione (c.d. di “vigilato in libertà”) il tempo di pena inflitta residuo (5 anni se si tratta di condannato all’ergastolo), la pena si estingue e le eventuali misure di sicurezza personali vengono revocate; al “vigilato in libertà” la liberazione condizionale può tuttavia essere revocata dal Tribunale di Sorveglianza ex art.177 c.p., riaprendosi le porte del carcere (status di detenuto), laddove egli commetta un delitto o una contravvenzione della stessa indole di quelle già oggetto di prima condanna, accertati con sentenza definitiva, ovvero violi una o più tra le prescrizioni inerenti alla libertà vigilata; si contrappongono poi sul crinale della pertinente natura giuridica diverse opzioni ermeneutiche: f.1) è causa di estinzione della pena; f.2) è una misura alternativa alla detenzione; f.3) è una particolare modalità di esecuzione della pena, che si estrinseca giusta liberazione condizionata; f.4) è una fattispecie di sospensione della pena detentiva con contestuale messa alla prova del condannato;
- riabilitazione: è prevista dagli articoli 178 e seguenti del c.p., e – salva diversa disposizione di legge – estingue le pene accessorie (applicabili in via autonoma rispetto alla pena principale ed incidenti sulla capacità giuridica del condannato: non vi è coinvolta né l’interdizione legale, che cessa col cessare della pena principale, né la pubblicazione della sentenza di condanna, che non implica alcuna incapacità giuridica per il condannato); estingue altresì gli altri effetti penali della condanna; essa si applica anche laddove la pena principale sia contenuta in una sentenza di condanna straniera riconosciuta ai sensi dell’art.12 c.p. e presuppone l’espiazione della pena principale da parte del condannato, unita alla buona condotta che egli palesa (con prove effettive e costanti) in una fase successiva alla ridetta espiazione (3 anni dal giorno in cui la pena principale è stata espiata o si è altrimenti estinta); è incompatibile con la buona condotta, e dunque con la stessa riabilitazione, il non aver adempiuto le obbligazioni civili derivanti da reato o l’essere sottoposto ad una misura di sicurezza (escluse la confisca e l’espulsione dello straniero dallo Stato); viene assunta, in presenza dei pertinenti presupposti, quale vero e proprio diritto del condannato e viene disposta con ordinanza costitutiva operante ex nunc, su istanza dell’interessato e secondo alcuni anche d’ufficio (ma non manca la tesi contraria, facendosi rilevare come, rispetto ad altre cause estintive, essa produca effetti contra reum, non impedendo l’iscrizione della condanna nel casellario giudiziale ai sensi degli articoli 686 e 687 c.p.p.); viene revocata con provvedimento (vincolato) che opera ex tunc (e dunque con effetti retroattivi), limitandosi il giudice ad accertare i pertinenti presupposti di legge, vale a dire l’aver commesso nei 5 anni successivi un delitto non colposo per il quale sia concretamente (e non già astrattamente, per via edittale) inflitta la reclusione per un tempo non inferiore a 3 anni; la revoca viene disposta dal Tribunale di Sorveglianza o anche dal giudice che condanna per il nuovo reato, nel qual caso il pertinente capo della sentenza di condanna è autonomamente appellabile;
- non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale: viene disciplinata all’art.175 c.p., non estingue alcunché e piuttosto sospende a tempo indeterminato un particolare effetto penale della condanna, vale a dire la menzione dell’intervenuta condanna medesima nel certificato del casellario giudiziale che i privati potrebbero richiedere e che, se annoverasse l’iscrizione della condanna medesima (come tale, “menzionata”), potrebbe risultare pregiudizievole per il condannato stesso, in particolare in ambito lavorativo; l’istante non vanta un diritto alla non menzione, che viene concessa piuttosto con provvedimento discrezionale del giudice, chiamato a valutare – ai sensi dell’art.133 c.p. – la personalità del condannato con prognosi positiva in ordine al relativo reinserimento sociale; la non menzione può essere concessa – anche d’ufficio (nel giudizio di appello, la non menzione d’ufficio è prevista esplicitamente dall’art.597, comma 5, c.p.p.) – in occasione di una prima condanna o, in caso di più condanne, allorché le pene inflitte tra loro cumulate non superino la soglia di concedibilità del pertinente beneficio; tale soglia equivale a 2 anni di reclusione o, in caso di pena pecuniaria, ad un quantum che, laddove ragguagliato a pena detentiva non superi i 2 anni di reclusione; se la condanna è a pena congiunta, la soglia è pari a 30 mesi (pena detentiva non superiore ai 2 anni + pena pecuniaria ragguagliata); laddove il condannato commetta un nuovo delitto, quand’anche accertato con sentenza non irrevocabile, la non menzione viene revocata di diritto;