Massima
In contesti dominati dall’emergenza, come nel caso di una pandemia, può assumersi vieppiù difficile pretendere determinati comportamenti da taluni consociati, sovente posti dinanzi alla soverchiante responsabilità di vere e proprie “scelte tragiche”; è in simili temperie che riprende vigore l’impostazione dottrinale, di ascendenza germanica ed afferente alla c.d. “colpevolezza”, imperniantesi sulla concreta inesigibilità di un comportamento diverso rispetto a quello – penalmente rilevante – in concreto tenuto dal soggetto attivo del reato, assumendo quest’ultimo alfine “non rimproverabile”; e ciò tanto sulla scorta di “esimenti codificate” quanto, sovente, affidandosi alla – non da tutti ammessa – percorribilità della via analogica in bonam partem, massime in ambito di rapporti familiari con precipuo riguardo a determinati reati contro l’amministrazione della giustizia, siccome cristallizzati all’art.384 c.p.
Crono-articolo
Durante tutta l’epoca repubblicana e fino al primo impero, è l’opera della giurisprudenza romana a produrre diritto positivo: sono indefiniti i rapporti giuridici in relazione ai quali i prudentes “creano” la norma da applicare, attraverso la c.d. interpretatio prudentium, e ciò prendendo sovente spunto dai precedenti resi su casi analoghi.
Tanto premesso in via generale, occorre tuttavia precisare – lo è stato fatto notare dalla dottrina – come presso i Romani ogni decisione della “giurisprudenza” abbia un’efficacia particolare e trovi il proprio fondamento giuridico sull’auctoritas del singolo giurista o magistrato che la prende: da questo punto di vista, la disciplina dettata per il caso singolo non può assurgere a norma di efficacia generale idonea a disciplinare, in quanto tale, altri casi secondo il paradigma dell’analogia (siccome elaborato in epoca successiva).
In altri termini, se per la disciplina di rapporti analoghi si è in precedenza deciso in un certo modo, ciò formalmente non rileva ai fini della decisione del nuovo caso che, seppure appunto analogo, è “normato” dal singolo giurista (magistrato, giureconsulto) che se ne occupa e dall’auctoritas che da esso promana.
Dal punto di vista sostanziale, nondimeno, non può negarsi il peso esercitato dalla tradizione giuridica pregressa e, con esso, la forza degli exempla resi in fattispecie analoghe già “decise” e dunque “normate” dalla giurisprudenza che contribuisce a plasmare tale tradizione. Senza dire che, dinanzi a casi che presentano una qualche somiglianza, sono le stesse esigenze di giustizia e di equità ad imporre soluzioni non dissimili.
Questo significa che, quand’anche non in modo cosciente secondo i termini moderni, i Romani fanno certamente applicazione del ragionamento analogico, seppure non assumendolo mai come procedimento mentale che consente ad una conclusione raggiunta con norme generali di essere logicamente applicata a fattispecie speciali non normate.
Nel tardo impero, ed in particolare nelle costituzioni imperiali del periodo di Diocleziano, compaiono poi espressioni come “ad exemplum“, “ad instar“, “ad similitudinem“, che stanno a significare come l’Imperatore disciplini una specifica fattispecie ispirandosi a quella di altra fattispecie simile; e tuttavia, anche in questo caso, dal punto di vista formale non si ha vera e propria analogia dal momento che ancora una volta è la potestas dell’Imperatore a normare il singolo caso specifico, seppure sostanzialmente rifacendosi alla disciplina di un precedente caso analogo.
Ad un certo punto tuttavia, i giudici iniziano ad utilizzare la decisione contenuta in un rescritto imperiale al dichiarato fine di decidere casi analoghi, onde se il rescritto imperiale poggia “dall’alto” sull’auctoritas dell’Imperatore, l’applicazione che ne viene fatta “dal basso” dalla giurisprudenza si atteggia ormai a vera e propria estensione analogica delle relative statuizioni. Ciò spinge Giustiniano – che assume il procedimento analogico pericoloso in ottica di certezza del diritto – a vietare l’interpretazione analogica delle proprie disposizioni da parte dei giuristi e dei giudici, sul presupposto onde (Digesto, costituzione “Tanta”) “imperatori soli concessum est et leges condere et interpretari” (spetta dunque al solo Imperatore elaborare le leggi ed interpetarle).
Quanto alla inesigibilità, molti brocardi di origine romanistica affondano le proprie radici logiche proprio nella necessità di adattare l’astrattezza, talvolta assai rigida, di una norma, alla concretezza del singolo caso oggetto di scandaglio, al fine di non scadere in vere e proprie iniquità nel nome di un rispetto (solo) formale della legge: “summum ius, summa iniuria”; “fiat iustitia pereat mundus”.
Altro principio importante è quello compendiantesi nell’espressione “ad impossibilia nemo tenetur”, onde a nessuno può essere chiesta una prestazione impossibile, proprio perché tale.
Si tratta, per l’appunto, di “principi” e, dunque, di precetti capaci di disciplinare “macro-categorie” di casi, con possibilità di applicazione “estesa” anche ad ipotesi apparentemente estranee al relativo usbergo precettivo e, tuttavia, concretamente ad esso sottese per corredo di “analoga ratio”. Affermazioni che, nondimeno, fanno i conti, con il sospetto che durante tutta l’esperienza giuridica romanistica circonda il fenomeno analogico quale potenziale “limite” alla auctoritas o alla potestas di chi decide ciascun singolo caso.
1865
Il 25 giugno viene varato il R.D. n.2358, codice civile del Regno d’Italia, secondo l’art.3 delle cui “disposizioni sulla pubblicazione, interpretazione ed applicazione della legge in generale” nell’applicare la legge non si può attribuirle altro senso che quello fatto palese dal proprio significato delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore (comma 1); qualora poi una controversia non si possa decidere con una precisa disposizione di legge, si avrà riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe ed ove il caso rimanga tuttavia dubbio si deciderà secondo i principi generali del diritto (comma 2).
Stando poi al successivo art.4, le leggi penali e quelle che restringono il libero esercizio dei diritti o formano eccezione alle regole generali o ad altre leggi non si estendono oltre i casi e tempi in esse espressi.
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, il cui art.1, prevede che nessuno possa essere punito per un fatto che non sia “espressamente” preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite.
Interessante notare come la parola “espressa”, riferita a “disposizione di legge”, venga proposta alla Commissione preparatoria del codice sin dal 1866, su impulso del prof. Giampaolo Tolomei: una proposta che viene accolta dalla Commissione confluendo nella versione finale del codice, proprio al fine di escludere ogni base all’applicazione dell’analogia in materia penale.
Si pone tuttavia in dottrina il problema della eventuale ammissibilità dell’analogia nelle ipotesi in cui essa “giovi”; e si atteggi dunque, rispetto al reo, “in bonam partem”.
1930
Il codice penale all’art.1 prevede, sulla scia del precedente del 1889, che nessuno possa essere punito per un fatto che non sia “espressamente” preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite, così indirettamente negando cittadinanza all’applicazione analogica, in perfetta continuità col codice Zanardelli.
Resta tuttavia ancora una volta sotto traccia l’eventuale ammissibilità dell’applicazione analogica c.d. in bonam partem, investente – come tale – norme di esclusione della punibilità del reo, con in primo piano le scriminanti previste agli articoli da 50 a 54 del codice, un peculiare ruolo di primo piano svolgendo in proposito l’art.51 in tema di esercizio di un diritto e di adempimento di un dovere.
Per quanto riguarda le fattispecie di parte speciale rilevanti, significativo l’art.384 in tema di delitti contro l’amministrazione della giustizia, alla stregua del cui comma 1 nei casi previsti dagli articoli 361, 362, 363, 364, 365, 366, 369, 372, 373, 374 e 378, non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un “prossimo congiunto” da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
Per “prossimi congiunti” agli effetti della legge penale si intendono, ai sensi dell’art.307, comma 4, gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti; nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole.
Per il comma 2 dell’art.384 ridetto, nei soli casi preveduti dagli articoli 372 (falsa testimonianza) e 373 (falsa perizia o interpretazione) del codice la punibilità è altresì esclusa se il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto essere assunto come testimonio, perito o interprete, ovvero avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere testimonianza, perizia o interpretazione.
Si tratta di una disposizione che sarà successivamente integrata in guisa consistente, ampliando il “rinvio” anche ad altre figure di delitti contro l’amministrazione della giustizia, in aggiunta alle due originariamente contemplate ab origine.
In tema di “reati collegati”, peraltro, il precedente art.61, comma 1, n.2 annovera (all’opposto) tra le circostanze “aggravanti” comuni quella di aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato (c.d. nesso teleologico), così contribuendo a colorare l’art.384 c.p. di potenziale “eccezionalità”.
Ancora, di sicuro rilievo l’art.649 in tema di delitti contro il patrimonio, onde (comma 1) non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dal precedente titolo in danno: 1) del coniuge non legalmente separato; 2) di un ascendente o discendente o di un affine in linea retta, ovvero dell’adottante o dell’adottato; 3) di un fratello o di una sorella che con lui convivano.
Si tratta di fatti punibili a querela della persona offesa laddove commessi a danno del coniuge legalmente separato, ovvero del fratello o della sorella che non convivano con l’autore del fatto, ovvero dello zio o del nipote o dell’affine in secondo grado con lui conviventi (comma 2).
Disposizioni dunque in bonam partem che non si applicano – nondimeno – ai delitti preveduti dagli articoli 628 (rapina), 629 (estorsione) e 630 (sequestro di persona a scopo di estorsione) e ad ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone.
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, codice civile, le cui disposizioni preliminari annoverano l’art.14 alla cui stregua le leggi penali – assieme peraltro a quelle che fanno “eccezione” a regole generali o ad altre leggi: le c.d. leggi eccezionali – non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati: in sostanza, le leggi penali e quelle eccezionali non sono applicabili in via analogica.
Importante anche l’art.12 delle c.d. preleggi in tema di interpretazione, onde nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore; se tuttavia una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe (analogia legis) e, se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato (analogia iuris).
Donde da un lato la astratta possibilità di una applicazione analogica di norme penali “in bonam partem” e, dall’altro, la possibilità esattamente opposta, nel prisma di una concezione che vede i precetti capaci di escludere la punizione (come nel caso delle c.d. scriminanti) quali vere e proprie norme “eccezionali” rispetto alla regola generale della punizione di determinati fatti e come tali, per l’appunto, non applicabili per analogia.
1948
La Costituzione, entrata in vigore il 01 gennaio, ribadisce che è una legge a dover prevedere quali comportamenti siano punibili e a quali pene sia soggetto il reo che li pone in essere; in particolare viene in rilievo la disposizione di cui all’art.25, comma 2, della Carta, alla cui stregua nessuno può essere punito se non in forza di una “legge” che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
Ciò anche in relazione all’art.24 sul diritto di difesa e all’art.27 sul principio di colpevolezza e sulle finalità di prevenzione della norma penale (e di connessa, tendenziale rieducazione della pena), che vengono frustrate se il cittadino non è in grado di capire cosa viene punito e se il giudice, per parte sua, può punire o non punire secondo propria, arbitraria discrezione, applicando la legge penale – giusta analogia – anche a casi ai quali essa letteralmente non dovrebbe applicarsi.
1975
Il 7 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.4343, Manieri, onde il concetto di pericolo attuale di danno grave alla persona ex art.54 c.p. va interpretato in senso restrittivo, operando la scriminante dello stato di necessità soltanto quando tale pericolo investa la vita o l’integrità fisica del soggetto agente.
Si tratta di un orientamento che tende ad escludere l’effettualità (analogica) della scriminante in ipotesi di c.d. esigenza abitativa, laddove viene in rilievo un pericolo meramente “patrimoniale”.
1978
*Il 30 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.7344, Raimondi, onde il concetto di pericolo attuale di danno grave alla persona ex art.54 c.p. va interpretato in senso restrittivo, operando la scriminante dello stato di necessità soltanto quando tale pericolo investa la vita o l’integrità fisica del soggetto agente.
Si tratta di un orientamento che tende ad escludere l’effettualità (analogica) della scriminante in ipotesi di c.d. esigenza abitativa, laddove viene in rilievo un pericolo meramente “patrimoniale”.
1979
Il 13 giugno esce la sentenza della Corte EDU Marckx e Belgio, alla cui stregua la nozione di “famiglia” da accogliersi in sede di applicazione dell’art. 8, CEDU su diritto al rispetto della vita privata “e familiare” è quello di famiglia di fatto, potendosi dunque prescindere dal crisma matrimoniale.
Per il Collegio, l’art. 8 ridetto presuppone infatti l’esistenza di una “famiglia” e tutela – come tale – sia la famiglia “naturale” che la famiglia legittima.
* * *
*Il 07 novembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.947, Nabil Hasten, onde il concetto di pericolo attuale di danno grave alla persona ex art.54 c.p. va interpretato in senso restrittivo, operando la scriminante dello stato di necessità soltanto quando tale pericolo investa la vita o l’integrità fisica del soggetto agente.
Si tratta di un orientamento che tende ad escludere l’effettualità (analogica) della scriminante in ipotesi di c.d. esigenza abitativa, laddove viene in rilievo un pericolo meramente “patrimoniale”.
1981
Il 4 dicembre esce la sentenza della sezione III della Corte di Cassazione n.10772 che muove dal presupposto onde – massime in tema di c.d. esigenza abitativa – va negata “l’inevitabilità altrimenti” dell’occupazione di immobili altrui e, con essa, “l’inesigibilità” di un diverso comportamento del soggetto attivo del pertinente reato.
Ciò sul presupposto onde alla mancanza di un alloggio si può trovare rimedio, per l’appunto, “altrimenti”, dimorando temporaneamente presso parenti o amici.
1984
Il 23 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione, n.667, Oneda , che si occupa di dolo eventuale con riguardo al ricorso a pratiche emotrasfusionali ed al pertinente conflitto tra legge religiosa (nel caso di specie, il “credo” dei Testimoni di Geova) e la legge penale dello Stato.
Il caso concerne una piccola talassemica, bisognevole, per poter sopravvivere, di continue trasfusioni di sangue; i genitori danno corso in un primo momento alle pertinenti pratiche emotrasfusionali, sino a quando non aderiscono appunto alla fede religiosa dei testimoni di Geova, che vieta tale terapia.
Le trasfusioni proseguono regolarmente per un certo periodo, avendo il servizio sociale ospedaliero segnalato la situazione al competente Tribunale per i minorenni, che ha adottato un provvedimento ad hoc per imporre la cura della piccola in forma coatta; in seguito, si verificano tuttavia problemi dovuti anche ad una grave carenza delle strutture sanitarie che, dopo un iniziale attivismo, si disinteressarono del caso, nonostante il Tribunale dei minori abbia per l’appunto emesso un provvedimento per risolvere in maniera definitiva il problema concernente l’assistenza terapeutica della minore in parola.
Ne discende un consistente rallentamento delle trasfusioni ematiche che comporta, a propria volta, un degrado biologico degli organi vitali della bimba, rivelatosi alfine letale.
Per la Corte, nel caso di specie, l’inerzia delle pubbliche strutture non può valere ad esimere da responsabilità i genitori, quali portatori di uno specifico obbligo giuridico di assistenza verso la propria prole; assume tuttavia come si imponga in ogni caso la valutazione dell’incidenza dei provvedimenti autoritativi giurisdizionali sull’elemento psicologico del reato, avendo potuto tali provvedimenti determinare in essi, per così dire, un “affidamento”, ovvero una speranza che, per effetto di una volontà diversa dalla loro, potessero essere praticate le cure dovute, così evitandone un attivo e diretto interessamento, ritenuto peccaminoso.
Alla stregua di tali considerazioni la pronunzia della Corte di merito, che ha ritenuto l’esistenza del dolo eventuale, viene per l’appunto dal Collegio cassata con rinvio, sottendendosi una sorta di “concorso” operativo tra il provvedimento del Tribunale per i Minorenni, l’affidamento da esso ingenerato nei genitori della piccola e la “inesigibilità” di un loro diverso contegno, siccome difforme dal proprio credo religioso.
1986
Il 18 novembre esce a sentenza della Corte costituzionale n.237 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 307, comma quarto, e 384 del codice penale, in relazione all’art. 29 Cost., sollevata con ordinanze n. 751/80, n. 193/85, n. 573/85, rispettivamente dal Tribunale di Novara, dal Giudice istruttore del Tribunale di Camerino, dalla Corte d’assise di Rovigo; dichiara altresì inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 307, comma quarto, e 384 codice penale, in relazione all’art. 3 Cost., sollevata dal Tribunale di Torino, nonché dal Tribunale di Novara, dal Giudice istruttore del Tribunale di Camerino e dalla Corte d’assise di Rovigo.
La Corte rammenta in primis come agli effetti della legge penale, l’art. 307, comma quarto, del relativo codice fornisca l’elencazione tassativa dei “prossimi congiunti” e vi ricomprenda il coniuge.
Questi, pertanto, non é punibile, giusta il successivo art. 384, allorché costretto a salvare da grave ed inevitabile nocumento l’altro coniuge, così incorrendo con la propria condotta, tra le altre ipotesi contemplate, nel reato di favoreggiamento personale.
Ma – rammenta la Corte – il Tribunale di Novara, il Giudice istruttore del Tribunale di Camerino, la Corte di assise di Rovigo sospettano di illegittimità costituzionale le richiamate disposizioni, assumendone contrasto con l’art. 29, primo comma, della Costituzione: l’omesso inserimento nella elencazione dei prossimi congiunti del convivente more uxorio alla pari del coniuge mostrerebbe – ad avviso dei remittenti – il non volersi tener conto, nella realtà sociale e nell’ordinamento, dei vincoli di solidarietà pur insiti nella famiglia di fatto.
Per contro, la relativa tutela – tanto più opportuna e ravvivata quando esiste prole – troverebbe presupposto di applicazione analogica, così testualmente il Giudice istruttore di Camerino, proprio nel dettato dell’art. 29 Cost.
Prospettata in tali precisi termini di riferimento, la questione é tuttavia per la Corte priva di fondatezza.
L’art. 29 riguarda, infatti, la famiglia fondata sul matrimonio (sent. n. 30 del 1983): come del resto fu pressoché univocamente palesato in sede di Assemblea Costituente la compagine familiare risulta, nel precetto, strettamente coordinata con l’ordinamento giuridico, sì che rimane estraneo al contenuto delle garanzie ivi offerte ogni altro aggregato pur socialmente apprezzabile, divergente tuttavia dal modello che si radica nel rapporto coniugale.
E che gli stessi Costituenti così divisassero doversi intendere la ripetuta norma, fornisce una obiettiva riprova la votazione per divisione, che ne seguì in aula. Fu esplicitamente rifiutato, infatti, un voto inteso a disgiungere, nell’art. 29, primo comma, la locuzione “diritti della famiglia come società naturale” dall’altra “fondata sul matrimonio“; si procedette – all’incontro – dapprima al voto sul riconoscimento dei diritti familiari, accorpandosi, in successiva votazione, la frase “come società naturale fondata sul matrimonio“, rimasta avvinta in inscindibile endiadi.
Senonché, prosegue la Corte, i giudici a quibus cui si aggiunge il Tribunale di Torino deducono ancora l’illegittimità della normativa penale di cui innanzi, in relazione all’art. 3 Cost.
La convivenza di fatto, si assume, rivestirebbe oggettivamente connotazioni identiche a quelle scaturenti dal vincolo matrimoniale: e dunque una diversità di garanzie – o addirittura l’assenza di queste – verrebbe a vulnerare il principio di uguaglianza.
Orbene, la Corte – sia pure per oggetti specifici insorti da diversa fattispecie – rammenta di avere già avuto modo di pronunciarsi, in passato, sul merito della situazione di convivenza more uxorio anche nei termini del confronto sopra descritti. E, in punto specifico, ebbe già a rilevarsi la inapprezzabilità del rapporto di fatto poiché privo esso delle caratteristiche di certezza e di stabilità, proprie della famiglia legittima, osservandosi – tra l’altro – che la coabitazione può venire a cessare unilateralmente e in qualsivoglia momento (sentenza n. 45 del 1980).
Va poi ricordato, per completezza, come non avesse mancato la Corte medesima, peraltro, di porre l’accento (sentenza n. 6 del 1977) sulla opportunità di una valutazione legislativa degli interessi dedotti, carenti, allo stato, di tutela positiva.
In effetti, un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare – anche a sommaria indagine – costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.). Tanto più – in ciò concordando con i giudici remittenti – allorché la presenza di prole comporti il coinvolgimento attuativo d’altri principi, pur costituzionalmente apprezzati: mantenimento, istruzione, educazione.
In altre parole, si é in presenza di interessi suscettibili di tutela, in parte positivamente definiti (si vedano ad es. gli artt. 250 e 252 del codice civile nel testo novellato con la legge 19 maggio 1975 n. 151), in parte da definire nei possibili contenuti.
Comunque, chiosa la Corte, per le basi di fondata affezione che li saldano e gli aspetti di solidarietà che ne conseguono, siffatti interessi appaiono meritevoli indubbiamente, nel tessuto delle realtà sociali odierne, di compiuta obiettiva valutazione.
Nella fattispecie tuttavia, prosegue il Collegio, l’adeguatezza in concreto di misure protettive d’ordine positivo scaturenti dalla valorizzazione di legami affettivi esistenti di fatto (cfr. sentenza n. 198 del 1986) trascende – e proprio per l’esigenza di una complessa chiarezza normativa – i ristretti termini del caso, rivolto al mero intento di parificare il binomio coniuge/convivente in presenza dei reati richiamati dall’art. 384 c.p., tra cui il 378.
Più incisivamente, va osservato che l’impugnato art. 307, comma quarto racchiude la nozione positiva di prossimo congiunto con una portata di integrazione generale nel sistema legislativo penale: la prospettata parificazione della convivenza e del coniugio varrebbe adunque, per la Corte, a coinvolgere automaticamente non solo le altre ipotesi di reato contenute nell’art. 384 pure impugnato, ma – ben più ampiamente – altri istituti di ordine processuale penale, quali la ricusazione del giudice (art. 64, nn. 3 e 4 cod. proc. pen.); la facoltà di astensione dal deporre (art. 350) già esaminata dalla Corte nella ricordata sentenza n. 6 del 1977; la titolarità nella richiesta di revisione delle sentenze di condanna e di connesso esercizio dei relativi diritti (artt. 556,564) ovvero nella presentazione di domanda di grazia (art. 595).
D’altronde, una volta parificato, in ipotesi, il rapporto “di fatto” a quello (“di diritto”) del coniugio, non sarebbe dato sottrarsi, contestualmente, alla necessità di regolare la posizione dell’eventuale coniuge separato, sia per il caso di coerenza d’intenti che di conflittualità con il convivente.
Ma su di una regolamentazione esaustiva di tal sorta, necessariamente involgente, senz’altro, scelte e soluzioni di natura discrezionale, la Corte assume di non avere facoltà di pronunciarsi senza invadere quelle competenze che spettano al Parlamento, nel razionale esercizio di un potere che il solo legislatore é chiamato ad esercitare; per il che la Corte rinnova la sollecitazione contenuta nella sentenza n. 6 del 1977, facendone conseguire l’inammissibilità della dedotta questione.
1987
Il 21 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.2906, Musselli, che si occupa della fattispecie di c.d. false comunicazioni sociali, o falso in bilancio, ex art.2621 c.c.
Per il Collegio, ove la falsità delle scritture sia finalizzata esclusivamente a occultare illeciti commessi precedentemente, come la corruzione o il contrabbando, ed i conseguenti profitti, non è possibile attribuire ai responsabili l’occultamento del provento dei reati, non potendosi “esigere” un comportamento che si risolverebbe nell’autodenuncia degli stessi illeciti e dei relativi profitti.
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Il 6 giugno esce la sentenza della Sezione III della Cassazione n. 4964, alla cui stregua va negato che la necessità economica, sub specie di c.d. esigenza abitativa, possa far scattare la scriminante dello stato di necessità ex art.54 c.p., la quale ultima fa riferimento al pericolo attuale di un danno grave alla persona, non potendo dunque operare (neppure analogicamente) in presenza di un vulnus ad interessi tipicamente “patrimoniali”.
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*Il 04 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.12253, Iudicello, onde il concetto di pericolo attuale di danno grave alla persona va interpretato in senso restrittivo, operando la scriminante dello stato di necessità soltanto quando tale pericolo investa la vita o l’integrità fisica del soggetto agente.
Si tratta di un orientamento che tende ad escludere l’effettualità (analogica) della scriminante ridetta in ipotesi di c.d. esigenza abitativa, laddove viene in rilievo un pericolo meramente “patrimoniale”.
1988
Il 7 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.423 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649, n. 1, del codice penale, sollevata dal Pretore di Pinerolo con ordinanza del 2 maggio 1987, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione.
Per la Corte la non punibilità, prevista dalla norma impugnata si fonda sulla presunzione che, ove i coniugi non siano legalmente separati, sussista una comunanza di interessi che assorbe il fatto delittuoso. Tant’é che nella ipotesi di separazione legale la punibilità ricorre, sia pure a querela della persona offesa.
Siffatto regime palesa che il legislatore rimette alla volontà del coniuge legalmente separato l’applicazione della legge penale, laddove esclude che questa possa intervenire in costanza della convivenza coniugale.
Fattispecie tutt’affatto diversa, soggiunge la Corte, e quella della convivenza more uxorio, per propria natura fondata sulla affectio quotidiana – liberamente e in ogni istante revocabile – di ciascuna delle parti.
Nel caso di specie che ha dato origine alla questione di costituzionalità, la denuncia-querela della persona offesa, nonché la sottrazione di mobili suppellettili ed elettrodomestici dall’abitazione comune ad opera della convivente, che li ha trasportati in altro alloggio ove si é stabilita con il figlio nato dal rapporto con il querelante, sono atti concludenti che attestano la revocazione dell’affectio e dunque il venir meno della convivenza more uxorio.
Non sembrano pertanto ravvisabili per la Corte, nella norma impugnata, in occasione del giudizio di cui all’ordinanza del Pretore di Pinerolo, profili di contrasto con i valori costituzionali contenuti negli artt. 2 e 3 della Costituzione.
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Il 22 settembre viene varato il D.p.R. n.477, nuovo codice di procedura penale, secondo il cui art.199, rubricato “facoltà di astensione per i prossimi congiunti”, i prossimi congiunti dell’imputato non sono obbligati a deporre; devono tuttavia deporre quando hanno presentato denuncia, querela o istanza ovvero essi o un loro prossimo congiunto siano offesi dal reato (comma 1); il giudice, a pena di nullità, avvisa le persone predette della facoltà di astenersi chiedendo loro se intendono avvalersene (comma 2).
Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano anche a chi è legato all’imputato da vincolo di adozione; si applicano inoltre, limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza coniugale: a) a chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale “conviva o abbia convissuto” con esso; b) al coniuge separato dell’imputato; c) alla persona nei cui confronti sia intervenuta sentenza di annullamento o cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con l’imputato (comma 3).
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Il 20 dicembre esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.1122 che dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice penale, sollevata, in relazione agli artt. 3 e 31 della Costituzione, dal Pretore di Bologna.
La Corte rammenta che, con la sentenza n. 423 del 24 marzo 1988, ha già dichiarato la non fondatezza di analoga questione, osservando, in particolare, come la convivenza more uxorio sia per propria natura fondata sulla affectio quotidiana liberamente ed in ogni istante revocabile di ciascuna delle parti.
Il richiamo, operato dal giudice a quo nel caso di specie, all’art. 31 della Costituzione, non concreta per la Corte un argomento nuovo rispetto a quelli a suo tempo esaminati onde vale, a riguardo, il medesimo ordine di considerazioni circa l’intrinseca aleatorietà di tale rapporto e la conseguente razionalità del collegamento operato dall’art. 649, primo comma, del codice penale tra l’esclusione della punibilità e taluni dati incontrovertibili ed agevolmente riscontrabili, quali i vincoli di parentela, affinità, adozione ed, appunto, coniugio.
Del pari non appare appropriato al Collegio il riferimento all’art. 572 del codice penale, posto che l’estensione del concetto di famiglia operata dalla giurisprudenza da un lato, e dall’altro l’esclusione della necessità della coabitazione si collegano necessariamente all’esigenza di tutelare un soggetto passivo in posizione di intrinseca, peculiare debolezza a fronte dell’ampia accezione dell’elemento materiale proprio di una fattispecie criminosa la quale, anche per la particolarità della relativa struttura (reato abituale e condotta plurima), non può sicuramente proporsi quale tertium comparationis.
1989
Il 25 febbraio esce la sentenza della sezione VI della Corte di Cassazione n.3137 che muove dal presupposto onde – massime in tema di c.d. esigenza abitativa – va negata l’inevitabilità dell’occupazione di immobili altrui sul presupposto per il quale alla mancanza di un alloggio si può trovare rimedio, per l’appunto, “altrimenti”, considerato come la moderna organizzazione sociale viene incontro a chi possa trovarsi in pericolo di vita con i più disparati mezzi assistenziali.
* * *
Il 21 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.8767, De Nile, che si occupa di una fattispecie di falso in bilancio in cui le falsità contabili sono state dirette ad occultare il reato di contrabbando.
Per il Collegio, ancora una volta, l’obbligo di fedeltà documentale è “esigibile” quando le operazioni o i movimenti economico-finanziari che si dovrebbero annotare non presentino già carattere di illecito penale, mentre non è esigibile in caso contrario, dovendosi scongiurare l’autodenuncia.
Si tratta di prese di posizione pretorie che confortano quella parte della dottrina che assume l’ipotesi di “scusabilità” prevista dall’art. 384 c.p., debitamente interpretata alla luce dell’art. 24, comma 2, Cost., configurare un vero e proprio principio generale, operante in tutte le situazioni in cui sia prescritta per legge una condotta che conduca all’autoincriminazione.
* * *
Il 22 giugno esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.352 che dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 384 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dalla Corte di assise di Rovigo.
La Corte rammenta come un’analoga questione, avente ad oggetto il combinato disposto degli artt. 307, quarto comma, e 384 del codice penale, sia già stata dichiarata inammissibile, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, con sentenza n. 237 del 1986.
In tale decisione la Corte ha preso altresì in considerazione la conformità della norma denunciata all’art. 2 della Costituzione, osservando che, se pure “un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare – anche a sommaria indagine – costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche“, la “parificazione della convivenza e del coniugio” coinvolgerebbe automaticamente altri istituti, anche “di ordine processuale penale“, così da comportare “scelte e soluzioni di natura discrezionale“, sulle quali “questa Corte non avrebbe facoltà di pronunciarsi senza invadere quelle competenze che spettano al Parlamento, nel normale esercizio di un potere che il solo legislatore è chiamato ad esercitare“.
1990
*Il 17 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.7015, Sinatra, onde il concetto di pericolo attuale di danno grave alla persona va interpretato in senso restrittivo, operando la scriminante dello stato di necessità soltanto quando tale pericolo investa la vita o l’integrità fisica del soggetto agente.
Si tratta di un orientamento che tende ad escludere l’effettualità (analogica) della scriminante in ipotesi di c.d. esigenza abitativa, laddove viene in rilievo un pericolo meramente “patrimoniale”.
1996
Il 18 gennaio esce la sentenza della Corte costituzionale n.8 che dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 384, primo comma, 378 e 307, quarto comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Torino; e dichiara altresì non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 384, primo comma, 378 e 307, quarto comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 29 della Costituzione, sempre dal Tribunale di Torino.
Per la Corte la sollevata questione non può essere accolta in riferimento ad alcuno dei parametri invocati, per i concorrenti motivi di infondatezza e di inammissibilità siccome esposti subito di seguito.
Per quanto attiene alla censura sollevata in riferimento all’art. 29 della Costituzione, a ragione l’ordinanza del Tribunale rimettente sottolinea la notevole diffusione della convivenza di fatto, quale rapporto tra uomo e donna ormai entrato nell’uso e comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale.
Ma questa trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, cui la giurisprudenza della Corte assume di non essere indifferente, non autorizza peraltro la perdita dei contorni caratteristici delle due figure in una visione unificante come quella che risulta dalla radicale ed eccessiva affermazione, contenuta nell’ordinanza di rimessione, secondo la quale la convivenza di fatto rivestirebbe oggettivamente connotazioni identiche a quelle che scaturiscono dal rapporto matrimoniale e dunque le due situazioni in nulla differirebbero, se non per il dato estrinseco della sanzione formale del vincolo.
La Corte, al contrario, in diverse decisioni il cui orientamento non può che essere qui confermato (sentenze nn. 310 del 1989, 423 e 404 del 1988 e 45 del 1980), ha posto in luce la netta diversità della convivenza di fatto, “fondata sull’affectio quotidiana – liberamente e in ogni istante revocabile – di ciascuna delle parti” rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato da “stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri … che nascono soltanto dal matrimonio“.
Ma ciò che nel giudizio di legittimità costituzionale più conta è per il Collegio che la Costituzione stessa ha dato, delle due situazioni, una valutazione differenziatrice. Tale valutazione esclude l’ammissibilità, secondo un punto di vista giuridico-costituzionale, di affermazioni omologanti, del tipo di quella riferita nell’ordinanza di rimessione.
La Corte, nella sentenza n. 237 del 1986 – che costituisce precedente specifico per la decisione della questione in esame -, riconosciuta la rilevanza costituzionale del “consolidato rapporto” di convivenza, ancorché rapporto di fatto, lo ha tuttavia distinto dal rapporto coniugale, secondo quanto impongono il dettato della Costituzione e gli orientamenti emergenti dai lavori preparatori. Conseguentemente, ha ricondotto il primo all’ambito della protezione, offerta dall’art. 2, dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali e il secondo a quello dell’art. 29 della Costituzione.
Tenendo distinta l’una dall’altra forma di vita comune tra uomo e donna, si rende possibile riconoscere a entrambe la loro propria specifica dignità; si evita di configurare la convivenza come forma minore del rapporto coniugale, riprovata o appena tollerata e non si innesca alcuna impropria “rincorsa” verso la disciplina del matrimonio da parte di coloro che abbiano scelto di liberamente convivere. Soprattutto si pongono le premesse per una considerazione giuridica dei rapporti personali e patrimoniali di coppia nelle due diverse situazioni, considerazione la quale – fermi in ogni caso i doveri e i diritti che ne derivano verso i figli e i terzi – tenga presente e quindi rispetti il maggior spazio da riconoscersi, nella convivenza, alla soggettività individuale dei conviventi; e viceversa dia, nel rapporto di coniugio, maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, cioè come stabile istituzione sovraindividuale.
Questa valutazione costituzionale del rapporto di convivenza rispetto al vincolo coniugale non può per la Corte essere contraddetta da opposte visioni dell’interprete. I punti di vista di principio assunti dalla Costituzione valgono innanzitutto come criteri vincolanti di comprensione e classificazione, e quindi di assimilazione o differenziazione dei fatti sociali giuridicamente rilevanti.
La pretesa equiparazione della convivenza di fatto al rapporto di coniugio, nel segno della riconduzione di tutte e due le situazioni sotto la medesima protezione dell’art. 29 della Costituzione, risulta così infondata.
La distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale, come tali, non esclude affatto tuttavia, prosegue il Collegio, la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie, ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’invocato art. 3 della Costituzione: un controllo, già in passato esercitato numerose volte dalla Corte costituzionale, il quale, senza intaccare l’essenziale diversità delle due situazioni, ha tuttavia condotto talora a censurare l’ingiustificata disparità di trattamento (a danno ora della famiglia di fatto, ora della famiglia legittima) delle analoghe condizioni di vita che derivano dalla convivenza e dal coniugio (sentenze nn. 559 del 1989, 404 del 1988 e 179 del 1976).
Nella prospettiva della ragionevolezza delle determinazioni legislative, il Tribunale rimettente fonda la propria richiesta sulla ratio comune alle cause di non punibilità previste dall’art. 384 del codice penale – in riferimento a ciascuno dei titoli di reato ivi elencati – a favore dei prossimi congiunti, ratio di tutela del legame di solidarietà tra i componenti il nucleo familiare e del sentimento che li unisce.
Poiché tale sentimento e tale legame possono valere con la stessa intensità tanto per i componenti della famiglia legittima quanto per quelli della famiglia di fatto, non vi sarebbe alcun ragionevole motivo – ad avviso del Tribunale rimettente – per discriminare questi ultimi dalla protezione accordata ai primi.
Ma neppure sotto questo profilo – che pur si basa innegabilmente su un dato di fatto incontestabile – la questione può per la Corte essere accolta. Essa infatti mira, come risultato, a una decisione additiva che manifestamente eccede i poteri della Corte costituzionale a danno di quelli riservati al legislatore.
Innanzitutto, l’estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma generale e quelle che viceversa sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che è da riconoscersi ed è stato riconosciuto dalla Corte appartenere primariamente al legislatore (sentenze nn. 385, 267 e 32 del 1992, quest’ultima in tema di cause di improcedibilità; n. 1063 del 1988; ordinanza n. 475 del 1987; sentenza n. 241 del 1983).
Nel caso di specie, si tratterebbe di mettere a confronto l’esigenza della repressione di delitti contro l’amministrazione della giustizia, e quindi la garanzia di efficacia della funzione giudiziaria penale, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall’altro. Ma non è detto che i beni di quest’ultima natura debbano avere esattamente lo stesso peso, a seconda che si tratti della famiglia di fatto e della famiglia legittima.
Per la famiglia legittima, non esiste soltanto un’esigenza di tutela delle relazioni affettive individuali e dei rapporti di solidarietà personali. A questa esigenza, può sommarsi quella di tutela dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità, un bene che i coniugi ricercano attraverso il matrimonio, mentre i conviventi affidano al solo loro impegno bilaterale quotidiano. Posto che la posizione del convivente meriti riconoscimento, essa non necessariamente deve dunque coincidere con quella del coniuge dal punto di vista della protezione dei vincoli affettivi e solidaristici.
Ciò legittima per il Collegio, nel settore dell’ordinamento penale che qui interessa, soluzioni legislative differenziate, della cui possibile varietà dà abbondante dimostrazione la comparazione tra le legislazioni di numerosi Paesi.
In più, un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità che assumesse in ipotesi la pretesa identità della posizione spirituale del convivente e del coniuge, rispetto all’altro convivente o all’altro coniuge, oltre a rappresentare la premessa di quella totale equiparazione delle due situazioni che – come si è detto – non corrisponde alla visione fatta propria dalla Costituzione, determinerebbe ricadute normative conseguenziali di portata generale che trascendono l’ambito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.
Non ci sarebbe motivo infatti, chiosa ancora il Collegio, per limitare l’equiparazione del convivente al coniuge, nell’ambito del primo comma dell’art. 384 del codice penale, al solo caso del favoreggiamento personale, anche perché una tale limitazione determinerebbe di per sé ulteriori problemi di costituzionalità, sotto il profilo dell’irrazionalità, all’interno delle stesse fattispecie previste dal medesimo articolo.
Ma soprattutto si dovrebbe aprire il problema dell’equiparazione in tutti gli altri numerosi casi di previsioni legislative, talora anche in malam partem (ad es. articoli 570, 577, ultimo comma, 605 del codice penale), che danno rilievo, ai più diversi fini e nei più diversi campi del diritto, all’esistenza di rapporti di comunanza di vita di tipo familiare.
Sotto il profilo dell’irragionevolezza, la dedotta questione di costituzionalità è dunque inammissibile.
Le sopra esposte ragioni di infondatezza e di inammissibilità conducono così il Collegio a confermare gli orientamenti espressi nella precedente sentenza n. 237 del 1986 .
Senonché, il Tribunale rimettente rileva la novità dell’ordine normativo nel quale la questione ora riproposta viene a collocarsi. Tale novità è rappresentata dalla norma del vigente codice di procedura penale (art. 199) che estende la facoltà di astensione dal prestare testimonianza (facoltà cui corrisponde il dovere del giudice, a pena di nullità, di darne avviso all’interessato), dai prossimi congiunti (comma 1) a chi (comma 3, lettera a)), “pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso…”, sia pure limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza: una disciplina applicabile altresì alle informazioni assunte da parte del pubblico ministero nelle indagini preliminari (art. 362 del codice di procedura penale, come novellato dall’art. 5 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992, n. 356) e alle sommarie informazioni assunte a iniziativa della polizia giudiziaria (art. 351, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 4 della predetta novella).
Da tale nuova disciplina processuale, che prevede dunque un’ampia, anche se non totale, assimilazione del convivente al coniuge rispetto alle dichiarazioni rese all’autorità, discendono poi conseguenze sostanziali per entrambi. L’art. 384, secondo comma, del codice penale prevede una causa di non punibilità relativamente ai reati di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) e di false informazioni al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen.) – ma non anche relativamente alle false dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria: comportamento non previsto come reato specifico ma suscettibile di integrare, in presenza degli altri elementi previsti dalla legge, la fattispecie del favoreggiamento personale – quando il soggetto richiesto di fornire informazioni o assunto come teste avrebbe dovuto essere avvertito della relativa facoltà di astenersi; ipotesi, quest’ultima, che oggi, a causa della suddetta estensione operata dall’art. 199 del nuovo codice di procedura penale, riguarda, oltre che il coniuge, anche il convivente.
Dalla descritta evoluzione dell’ordinamento nel senso dell’avvicinamento della posizione del convivente a quella del coniuge rispetto alla facoltà di astensione, nonché rispetto all’obbligo del relativo avviso e alla causa di non punibilità prevista nel caso di omesso avviso, il Tribunale rimettente trae ragione per ribadire l’incongruenza della disciplina riguardante le dichiarazioni rese dal convivente in sede di sommarie informazioni assunte a iniziativa della polizia giudiziaria.
Il fatto materiale, infatti, potrebbe essere il medesimo,consistendo in false dichiarazioni, dichiarazioni rilevanti però a titolo di favoreggiamento personale davanti alla polizia giudiziaria e a titolo di false informazioni o di falsa testimonianza davanti al pubblico ministero o al giudice. Ma solo in questi due ultimi casi e non nel primo valendo la causa di non punibilità prevista dal secondo comma dell’art. 384 del codice penale, analogo comportamento – le false dichiarazioni nel caso di omesso avviso della facoltà di astensione – può andare esente da pena se tenuto davanti al pubblico ministero o al giudice, ma non se tenuto davanti alla polizia giudiziaria, pur nell’identità delle norme processuali presupposte.
Affinché tali rilievi critici del giudice rimettente, in ordine all’accennato motivo di irrazionalità della normativa vigente, possano avere accesso all’esame della Corte, dovrebbero tuttavia – rammenta il Collegio – essere formulati nell’ambito di una questione di costituzionalità essenzialmente diversa da quella presente, l’ipotizzata discriminazione concernendo non più soggetti distinti (il coniuge e il convivente) ma il medesimo soggetto (nella specie: un convivente), a seconda dell’autorità ricevente le relative dichiarazioni, e riguardando una diversa causa di non punibilità: non quella prevista nel primo, ma quella apprestata dal secondo comma dell’art. 384 del codice penale.
Pertanto, se tale era l’intento del giudice rimettente, la via non poteva certo essere quella effettivamente percorsa della richiesta equiparazione del convivente al coniuge sotto il profilo del primo comma dell’art. 384 del codice penale: una via, conclude la Corte, oltre che infondata e inammissibile per i motivi predetti, anche artificiosa.
1997
Il 24 gennaio viene varata la legge costituzionale n.1, istitutiva di una Commissione Bicamerale che, insediatasi, vara un progetto di riforma costituzionale; il relativo art.129 punta ad introdurre il generale divieto di interpretare le leggi penali in modo analogico o estensivo, così accomunando sotto il medesimo divieto tanto l’analogia quanto l’interpretazione estensiva, e peraltro collocando l’analogia nell’ambito della interpretazione.
1998
Il 31 gennaio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.1245, Cusani, onde l’obbligo di veridicità del bilancio e delle altre comunicazioni sociali è finalizzato anche a prevenire scorrettezze nella gestione delle società, ragione per cui sarebbe irragionevole un’interpretazione che privasse di sanzione la violazione di tale obbligo proprio quando destinato a coprire precedenti, gravi scorrettezze sulla base del c.d. rischio di autoincriminazione.
In altri termini, per il Collegio va dunque escluso che il falso in bilancio possa essere scriminato dall’inesigibilità da parte degli amministratori di una condotta di autodenuncia in ordine a reati in precedenza commessi.
Quella scandagliata dalla Corte è una fattispecie dove peraltro già in sede di merito era stata esclusa la configurabilità di una declinazione “sostanziale” del noto principio “nemo tenetur se detegere”; che opera piuttosto (come peraltro confermato dalla stessa Corte costituzionale) solo in ambito processuale.
Né potrebbe sottacersi l’operatività ratione materiae dell’art.61, n.2, c.p. che – laddove stigmatizza quale circostanza aggravante l’orientamento di un delitto ad occultarne (oltre che ad eseguirne) un altro (c.d. nesso teleologico) – reca seco la natura eccezionale dell’art.384 c.p. confinandone l’usbergo precettivo ai soli delitti contro l’amministrazione della giustizia ivi esplicitamente previsti, in presenza delle condizioni del pari ivi esplicitamente indicate (necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave pregiudizio alla libertà e all’onore).
* * *
Il 01 ottobre viene varato un D.M. che nomina una Commissione ministeriale per la riforma del codice penale (c.d. “Progetto Grosso”), che propone un nuovo art.2, comma 1, del codice in cui viene espressamente previsto il divieto di analogia in materia penale, nel solco dell’art.14 delle disposizioni preliminari al codice civile; viene tuttavia chiarito che il divieto di analogia riguarda le sole norme incriminatrici, e non già quelle di favore, potendosi ammettere (sulla scia della dottrina più accreditata) una analogia in bonam partem.
2000
Il 25 luglio esce la sentenza della Corte costituzionale n.352 che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Imperia.
Posto che le censure del giudice a quo attengono esclusivamente alla violazione dell’art. 3 Cost. (l’asserito contrasto con l’art. 24 Cost. non è in alcun modo motivato e rappresenta, comunque, un mero riflesso della denuncia della norma impugnata sul piano del rispetto del principio di uguaglianza), va per la Corte ribadito come essa abbia già in più occasioni affermato — anche con specifico riferimento al disposto dall’art. 649 cod. pen. — che la convivenza more uxorio è diversa dal vincolo coniugale, e a questo non meccanicamente assimilabile al fine di desumerne l’esigenza costituzionale di una parificazione di trattamento: essa, infatti, manca dei caratteri di stabilità e certezza propri del vincolo coniugale, essendo basata sull’affectio quotidiana, liberamente ed in ogni istante revocabile (sentenza n. 8 del 1996; sentenza n. 423 del 1988; ordinanza n. 1122 del 1988).
In tale prospettiva, non può ritenersi dunque irragionevole ed arbitrario per il Collegio che — particolarmente nella disciplina di cause di non punibilità, quale quella in esame, basate sul «bilanciamento» tra contrapposti interessi (quello alla repressione degli illeciti penali e quello del valore dell’unità della famiglia, che potrebbe essere pregiudicato dalla repressione) — il legislatore adotti soluzioni diversificate per la famiglia fondata sul matrimonio, contemplata nell’art. 29 della Costituzione, e per la convivenza more uxorio: venendo in rilievo, con riferimento alla prima, a differenza che rispetto alla seconda, non soltanto esigenze di tutela delle relazioni affettive individuali, ma anche quella della protezione dell’«istituzione familiare», basata sulla stabilità dei rapporti (sentenza n. 8 del 1996), di fronte alla quale soltanto si giustifica l’affievolimento della tutela del singolo componente, ravvisata da alcuni nell’art. 649 c.p..
Di qui l’impossibilità di qualificare come illogica e «discriminatoria» la mancata estensione del medesimo regime ad una situazione di fatto quale la convivenza more uxorio.
Né ad inficiare la validità della conclusione vale per la Corte il rilievo della parificazione del convivente al coniuge riguardo alla facoltà di astensione dalla testimonianza, operata dall’art. 199 cod. proc. pen. (parificazione per vero ampia, ma non totale, giacché per il convivente, a differenza che per il coniuge non legalmente separato, la facoltà di astensione è limitata dalla legge ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza), non potendosi far discendere dalla norma invocata dal giudice a quo come termine di raffronto un principio di assimilazione dotato di vis espansiva fuori del caso considerato.
Come si legge invero, rammenta la Corte, nella relazione ministeriale al progetto di nuovo codice di procedura penale, la facoltà di astensione riconosciuta al convivente more uxorio si connette anche all’invito a suo tempo formulato dalla Corte medesima, la quale — nel dichiarare infondata, in parte qua, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 350 cod. proc. pen. del 1930 (costituente l’antecedente storico dell’art. 199 del codice vigente) — aveva auspicato una valutazione del legislatore riguardo alla tutela da accordare agli interessi connessi al rapporto di convivenza (sentenza n. 6 del 1977).
La soluzione in concreto adottata rappresenta il frutto di una scelta rispetto all’alternativa — pure prospettata in iniziative legislative rimaste senza seguito — di incidere sulla definizione generale della nozione di «prossimi congiunti», offerta dall’art. 307, quarto comma, cod. pen., includendovi anche il convivente: in sostanza, con apprezzamento discrezionale non censurabile, il legislatore penale ha preferito limitare l’assimilazione a singole situazioni ben individuate (come egualmente è avvenuto, dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, ad esempio in rapporto alla circostanza aggravante dei delitti di prostituzione e pornografia minorile di cui all’art. 600-sexies, secondo comma, cod. pen., aggiunto dalla legge 3 agosto 1998, n. 269), anziché procedere ad un «allineamento» generale ed indiscriminato dei due rapporti.
Anche l’argomento che il rimettente ritiene di poter trarre dall’asserita identità di ratio fra le due norme poste a confronto — l’art. 199 cod. proc. pen. e l’art. 649 cod. pen. — denuncia, del resto, evidenti limiti di validità.
La disposizione del codice di rito sancisce, bensì, la prevalenza delle relazioni affettive familiari sull’interesse della collettività alla punizione dei reati, ma in un’ottica di preminente salvaguardia del membro della famiglia chiamato a rendere testimonianza, al quale è riconosciuta la facoltà (esercitabile o meno, sulla base del proprio personale apprezzamento) di sottrarsi al relativo obbligo e, così, all’alternativa fra deporre il falso o nuocere al congiunto.
Tale facoltà resta peraltro esclusa, in virtù dell’espresso disposto dell’art. 199, comma 1, secondo periodo, cod. proc. pen., quando l’interessato (o un suo prossimo congiunto) sia offeso dal reato: onde risulta privo di pregio l’argumentum a fortiori evocato dal giudice a quo, secondo cui il riconoscimento della preminenza dell’interesse della famiglia sull’interesse pubblico al perseguimento degli illeciti penali, sotteso alla previsione processuale in parola, si imporrebbe a maggior ragione — rendendo così irrazionale il disallineamento della sfera soggettiva di operatività delle due norme — nelle ipotesi avute di mira dall’art. 649 cod. pen. (ipotesi nelle quali il congiunto è, per l’appunto, offeso dal reato).
Di contro, come già dalla Corte accennato, la disposizione del codice penale, almeno con la radicale esclusione della punibilità sancita dal primo comma, protegge l’istituzione familiare in una prospettiva in certo qual senso inversa, e, cioè, anche ad eventuale discapito del singolo componente, il quale viene privato della tutela penale offerta dalle norme incriminatrici poste a presidio del patrimonio pure se abbia, nel caso concreto, un personale interesse alla punizione del colpevole.
La non omogeneità – prosegue il Collegio – della situazione regolata dalla disposizione assunta come tertium comparationis impedisce pertanto, di ravvisare il censurato profilo di irragionevolezza della norma sottoposta a scrutinio di costituzionalità.
D’altronde la Corte, in analoga occasione – nella quale era parimenti in discussione la razionalità dei limiti soggettivi di applicazione della causa di non punibilità prefigurata dall’art. 384, primo comma, cod. pen., nel confronto con il disposto dell’art. 199, comma 3, lett. a) cod. proc. pen. – ha rilevato che un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità, la quale assumesse a base la pretesa identità di posizione tra convivente e coniuge, rispetto all’altro convivente o coniuge, avrebbe effetti di sistema eccedenti l’ambito del singolo giudizio di costituzionalità.
Si aprirebbe in tal modo – conclude la Corte – il problema dell’estensione al convivente — talora anche in malam partem (artt. 570, 577, ultimo comma, 591, ultimo comma, 605 cod. pen.) — del complesso delle disposizioni della legge penale sostanziale e processuale (e anche della legge extrapenale) che, a diversi fini, fanno riferimento al rapporto di coniugio (sentenza n. 8 del 1996): opera di revisione, questa, che esorbita dai compiti e dai poteri della Corte medesima.
* * *
Il 7-8 dicembre viene proclamata a Nizza la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che segna un significativo avanzamento nelle possibilità di tutela della molteplicità e varietà delle relazioni di tipo familiare.
Ciò in specie sulla base della previsione normativa di cui all’art. 9 della Carta – peraltro rafforzata dall’ulteriore previsione di garanzia dettata nell’art. 33, par. 1, della Carta (secondo cui “è garantita la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale“) – che, pur ispirandosi al contenuto di altre norme internazionali (ad es., l’art. 12 CEDU, l’art. 23, comma 2, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato dall’Assemblea generale dell’ONU il 16 dicembre 1966, ratificato con I. n. 881/1977, nonchè l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), che regolano la materia enunciando in forma unitaria il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, presenta una formulazione letterale più ampia.
Essa infatti, nel rinviare alle diverse legislazioni nazionali che ne disciplinano l’esercizio, riconosce e garantisce separatamente due diritti, isolando il diritto di fondare una famiglia dal vincolo matrimoniale stricto sensu inteso e in tal modo creando le condizioni per estenderne la tutela anche in favore di altre forme di relazione familiare.
Il “diritto di sposarsi“, infatti, viene riconosciuto, tra le libertà fondamentali tutelate dal capo secondo, in modo disgiunto rispetto al “diritto di fondare una famiglia“, così realizzando una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto, in quanto la meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso la scelta, del tutto legittima, di convivere senza matrimonio viene riconosciuta e tutelata anche al di fuori della presenza di vincoli formali nei rapporti familiari.
Al tradizionale favor per il matrimonio, come verrà osservato in dottrina, si sostituisce in tal modo la pari dignità di ogni forma di convivenza alla quale una legislazione nazionale decida di dare la sua regolamentazione.
* * *
Il 22 dicembre esce la sentenza della sezione V della Cassazione n.6929, Musotto, onde – in tema di concorso esterno in associazione di tipo camorristico-mafioso – va esclusa la ricorrenza delle concrete condizioni al cospetto delle quali è possibile invocare la c.d. inesigibilità nel caso di un imprenditore agricolo la cui tenuta di campagna sia stata messa a disposizione dell’organizzazione e di un relativo capo in stato di latitanza.
Per il Collegio, va piuttosto adeguatamente valorizzato l’interesse lucrativo perseguito dal proprietario terriero fiancheggiatore il quale, grazie all’apporto logistico fornito ai capi della compagine criminale, nonché agli affiliati tutti del sodalizio, si è trovato nella condizione di ottimamente e con profitto svolgere il ruolo di mediatore d’affari nel territorio controllato dall’organizzazione mafiosa de qua.
2003
Il 4 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.24290 che – superando il precedente orientamento, assai più rigoroso, in senso opposto [SI RINVIA SUL PUNTO ALL’APPOSITO CRONO PERCORSO SULLO STATO DI NECESSITA’] – aderisce all’orientamento pretorio orientato a fondare il c.d. diritto alla casa su talune norme della Costituzione, e segnatamente sull’art.2 in tema di diritti inviolabili dell’uomo, quali diritti fondamentali per la concreta attuazione dei quali si palesa essenzialmente strumentale proprio l’abitazione, nonché sull’art.3, comma 2, Cost., stante come la mancanza di un alloggio dignitoso finisca con il compulsare l’effettivo sviluppo della persona umana in tale norma inscritto.
Per il Collegio, ai fini del riconoscimento dell’esimente dello stato di necessità, nel concetto di danno grave “alla persona” di cui alla formulazione dell’art.54 c.p. rientrano anche tutte quelle situazioni che pongano in serio pericolo solo indirettamente l’integrità fisica, attentando direttamente a beni primari avvinti alla personalità, trai quali deve essere ricompresa anche l’esigenza abitativa.
Si tratta di una interpretazione di tipo estensivo del concetto di danno grave alla persona che si attua attraverso l’inclusione in esso dei c.d. diritti inviolabili e del vulnus ad essi inferto; si impone, nondimeno, una più attenta e penetrante indagine giudiziaria orientata a circoscrivere la sfera d’azione dell’esimente in parola ai soli casi in cui siano indiscutibilmente presenti tutti gli altri elementi costitutivi della stessa, e dunque la necessità (di commettere reato) e l’inevitabilità del pericolo che si vuole fronteggiare, dovendosi tenere in debito conto le esigenze di tutela dei diritti dei terzi incisi dall’azione criminosa e dunque involontariamente coinvolti, diritti che non possono essere vulnerati o compressi se non in presenza di situazioni eccezionali chiaramente comprovate.
2004
Il 20 aprile esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.121 che dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 307 e 384 del codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria, e la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 307 e 384 del codice penale, sollevata, in riferimento all’art. 2 della Costituzione, sempre dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria.
La Corte rammenta come argomentazioni analoghe a quelle formulate dal rimettente a sostegno della piena assimilabilità delle situazioni di coniugio e convivenza di fatto sono state rigettate con la sentenza n. 8 del 1996 – pronuncia che il giudice a quo omette peraltro di considerare – nel dichiarare in parte infondata e in parte inammissibile analoga questione, essendosi ribadito come esistano nell’ordinamento ragioni costituzionali che giustificano un differente trattamento normativo tra i due casi, trovando il rapporto coniugale tutela diretta nell’art. 29 della Costituzione, mentre il rapporto di fatto fruisce della tutela apprestata dall’art. 2 della Costituzione ai diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali.
Nella citata pronuncia, la Corte rammenta di avere inoltre sottolineato che, se da un lato la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude affatto la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 della Costituzione (cfr., a tale proposito, la sentenza n. 416 del 1996), dall’altro lato, tuttavia, al di fuori di tali specifici casi che possono rendere necessaria una identità di disciplina, ogni intervento in tal senso rientra nella sfera di discrezionalità del legislatore.
Pertanto, sotto il profilo della asserita violazione dell’art. 3 della Costituzione non v’è ragione di discostarsi dalle conclusioni raggiunte nella citata sentenza n. 8 del 1996, tanto più che «un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità che assumesse in ipotesi la pretesa identità della posizione spirituale del convivente e del coniuge, rispetto all’altro convivente o all’altro coniuge, oltre a rappresentare la premessa di quella totale equiparazione delle due situazioni che […] non corrisponde alla visione fatta propria dalla Costituzione, determinerebbe ricadute normative conseguenziali di portata generale che trascendono l’ambito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale» (sentenza n. 8 del 1996);
Quanto alla asserita violazione dell’art. 2 della Costituzione – parametro considerato nella citata pronuncia n. 8 del 1996 come pertinente alla tutela della convivenza di fatto -, le sopra esposte considerazioni, e in particolare la difforme considerazione dei due casi (art. 2 per la convivenza e art. 29 per il coniugio), portano ad escludere per il Collegio che si possa configurare come costituzionalmente necessaria una tutela del rapporto di convivenza che passi attraverso il riconoscimento di una generalizzata esclusione della punibilità delle condotte indicate dall’art. 384, primo comma, cod. pen., qualora poste in essere per salvare il proprio convivente more uxorio da un grave e irreparabile nocumento nella libertà o nell’onore.
Di conseguenza, sotto tale ulteriore profilo la questione di costituzionalità appare alla Corte manifestamente infondata.
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Il 30 dicembre viene varata la legge n.311 che introduce nel decreto legislativo 74.00 in materia di reati tributari l’art.10 bis in tema di omesso versamento di ritenute.
2006
Il 18 settembre esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.30779 che rammenta come la giurisprudenza di legittimità abbia stabilito che – al fine di individuare la sussistenza del giustificato motivo, idoneo ad escludere la configurabilità in capo allo straniero del reato di inosservanza all’ordine del Questore di lasciare il territorio dello Stato – le ragioni che, in base all’art. 14, comma 1, D. Lgs. n. 286 del 1998, legittimano la Pubblica Amministrazione a non procedere all’esecuzione dell’espulsione con accompagnamento coattivo dello straniero alla frontiera (cioè la necessità di soccorso, la difficoltà nell’ottenimento dei documenti per il viaggio, l’indisponibilità del vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo) costituiscono indici di riconoscimento della inesigibilità della condotta richiesta allo straniero medesimo, in applicazione del principio “ad impossibilia nemo tenetur“.
In particolare, costituisce giustificato motivo l’inadempimento conseguente o alle condizioni di assoluta impossidenza dello straniero il quale non possa recarsi nel termine alla frontiera né acquistare il biglietto di viaggio, o al mancato rilascio, da parte della competente autorità consolare, dei documenti necessari, peraltro sollecitamente richiesti dallo straniero stesso.
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Il 4 luglio viene varato il decreto legge n.223 che introduce nel decreto legislativo 74.00 in materia di reati tributari l’art.10.ter in tema di omesso versamento dell’Iva.
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Il 4 luglio viene varata la legge n.248 che converte, con modificazioni, il decreto legge n.223.
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Il 26 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.35967 alla cui stregua – nel solco di una collaudata giurisprudenza conforme – l’art.384, comma 1, c.p. va assunto quale norma eccezionale, laddove essa individua tassativamente tanto i soggetti legittimiati a beneficiare della pertinente “scusante” quanto i reati la commissione dei quali implica, in forza di essa, una non punibilità del soggetto agente.
Ne discende, per il Collegio, la impossibilità di applicare analogicamente l’art.384, comma 1, c.p. al convivente more uxorio.
2007
Il 23 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione civile n.4211 alla cui stregua laddove le trasfusioni di sangue si rendano necessarie per scongiurare il pericolo di vita del paziente, il sanitario che le effettui – quand’anche a conoscenza del rifiuto del paziente stesso, nella fattispecie in quanto Testimone di Geova – pone in essere un comportamento scriminato ex articolo 54 c.p. che esclude la sussistenza di un qualsiasi danno risarcibile.
Per la Corte dunque i configura la inesigibilità di una condotta diversa da parte del medico, pur a fronte del rifiuto all’emotrasfusione oppostogli dal paziente per motivi religiosi.
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Il 13 dicembre esce la sentenza della I sezione della Corte EDU, Emonet c. Svizzera, in tema di violazione dell’art. 8 della Cedu (diritto al rispetto della vita privata e familiare).
La Corte condanna per violazione dell’art. 8 ridetto la Svizzera a cagione delle disposizioni del pertinente codice civile che hanno determinato la cessazione di ogni legame familiare della ricorrente con la madre a seguito della relativa adozione da parte del convivente “di fatto” della madre stessa, quando al contrario non sarebbe stato previsto tale effetto nell’ipotesi di adozione della figlia da parte del coniuge “di diritto” della ridetta madre.
La Corte sottolinea come la legge svizzera, le cui conseguenze peraltro erano ignorate dalla ricorrente al momento della richiesta di adozione, non ha tenuto in considerazione i legami biologici e la peculiarità della situazione frustrando le aspettative degli interessati senza che vi fosse alcun terzo beneficiato.
La sentenza è importante perché conferma l’orientamento della Corte EDU nel senso di assumere applicabile – e, prima ancora, riferibile – l’art.8 della CEDU non già solo alla famiglia fondata sul matrimonio, quanto anche alla “famiglia naturale” e, dunque, alla convivenza di fatto.
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Sempre il 13 dicembre viene firmato il Trattato di Lisbona, che apporta ampie modifiche al Trattato sull’Unione europea e al Trattato che istituisce la Comunità europea.
Con la relativa entrata in vigore, la Carta di Nizza ha il medesimo valore giuridico dei Trattati, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1 novellato, del Trattato sull’Unione europea, e si pone dunque come pienamente vincolante per le Istituzioni europee e gli Stati membri e, allo stesso livello di Trattati e Protocolli ad essi allegati, come vertice dell’ordinamento dell’Unione europea, con conseguente disapplicabilità delle norme interne contrastanti.
I paragrafi 2 e 3 dell’art.6, anch’essi novellati, consentono nella sostanza all’Unione Europea di aderire alla CEDU; quando ciò dovesse accadere (con la procedura di cui al protocollo n.8 annesso al Trattato), i diritti fondamentali CEDU non saranno comunque, secondo l’interpretazione dottrinale, comunitarizzati tout court, ma la relativa tutela verrà considerata quale principio generale del diritto dell’Unione, così come già avviene per le tradizioni costituzionali dei singoli Stati membri.
Ai sensi del relativo art.51, le disposizioni della Carta si applicano alle Istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri, esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione, onde i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze (comma 1), la Carta medesima non introducendo competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione, né modificando le competenze e i compiti definiti dai Trattati.
In sostanza dunque, nelle materie penali “a rilevanza eurounitaria” (ma non anche fuori di esse) si applica la Carta ridetta.
2008
Il 14 febbraio esce la sentenze delle SSUU della Cassazione n.7208, Genovese, che si pone nel solco di decisioni meno recenti e – nel considerare l’art. 384, primo comma, c.p. – oltre a negarne la natura di causa oggettiva di esclusione dell’antigiuridicità, lo qualificano come un’esimente «basata sul principio dell’inesigibilità di un comportamento diverso, come tale da escludere la colpevolezza» (così, Sez. 1, n. 11855 del 03/07/1980, Mastini, Rv. 146627; nonché Sez. 6, 25/10/1989, Milioto; Sez. 6, 10/02/1997, Puzone).
Per il Collegio «coglie certamente nel segno» quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità (ad es., Sez. 6, n. 44761 del 04/10/2001, Mariotti, Rv. 220326) che afferma, concordemente con la dottrina, che l’art. 384 cod. pen. trova la propria giustificazione nell’istinto alla conservazione della propria libertà e del proprio onore (nemo tenetur se detegere) e nell’esigenza di tener conto, agli stessi fini, dei vincoli di solidarietà “familiare” in senso lato, essendo l’intenzione del legislatore quella di riconoscere prevalenti e quindi tutelare i motivi di ordine affettivo.
Per il Collegio, ancora, «deve darsi atto della sussistenza di una strettissima connessione tra l’istituto, di natura sostanziale, dell’art. 384 c.p. e la prescrizione processuale contenuta nell’art.199 c.p.p.», dal momento che a fondamento di tali disposizioni vi è la medesima giustificazione e perché la ratio dell’astensione dal rendere testimonianza in capo ai prossimi congiunti dell’imputato, riconosciuta dalla citata norma del codice di rito, va «unanimemente ravvisata proprio nella tutela del sentimento familiare (latamente inteso) e nel riconoscimento del conflitto che può determinare, in colui che è chiamato a rendere testimonianza, tra il dovere di deporre e dire la verità, e il desiderio o la volontà di non danneggiare il prossimo congiunto».
2009
*Il 18 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.20827 alla cui stregua – nel solco di una collaudata giurisprudenza conforme – l’art.384, comma 1, c.p. va assunto quale norma eccezionale, laddove essa individua tassativamente tanto i soggetti legittimiati a beneficiare della pertinente “scusante” quanto i reati la commissione dei quali implica, in forza di essa, una non punibilità del soggetto agente.
Ne discente, per il Collegio, la impossibilità di applicare analogicamente l’art.384, comma 1, c.p. al convivente more uxorio.
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L’8 maggio esce la sentenza della Corte costituzionale n.140 che dichiara ancora una volta non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 384, primo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione, dal Tribunale di Como.
La Corte premette che, come lo stesso rimettente mostra di non ignorare, essa è stata già chiamata a decidere sul tema (sentenze n. 8 del 1996 e n. 237 del 1986; ordinanze n. 121 del 2004 e n. 352 del 1989).
In tali pronunzie si è posto in luce che, senza dubbio, la convivenza more uxorio costituisce un rapporto ormai entrato nell’uso ed è comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale; ma si è anche aggiunto che questa trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, cui la giurisprudenza della Corte non è indifferente (sentenza n. 8 del 1996, in motivazione), non autorizza la perdita dei contorni caratteristici delle due figure, collocandole in una visione unificante secondo la quale la convivenza di fatto rivestirebbe connotazioni identiche a quelle nascenti dal rapporto matrimoniale, sicché le due situazioni in sostanza differirebbero soltanto per il dato estrinseco della sanzione formale del vincolo.
Al riguardo, si deve ribadire per il Collegio quanto già più volte affermato, cioè che la convivenza more uxorio è diversa dal vincolo coniugale e non può essere assimilata a questo per desumerne l’esigenza costituzionale di una parità di trattamento. La stessa Costituzione ha valutato le due situazioni in modo diverso, ed il dato assume rilievo determinante in un giudizio di legittimità costituzionale. Infatti il matrimonio forma oggetto della specifica previsione contenuta nell’art. 29 Cost., che lo riconosce elemento fondante della famiglia come società naturale, mentre il rapporto di convivenza assume anch’esso rilevanza costituzionale, ma nell’ambito della protezione dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali garantita dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 237 del 1986).
Come la Corte rammenta di avere già rilevato, «Tenendo distinta l’una dall’altra forma di vita comune tra uomo e donna, si rende possibile riconoscere a entrambe la loro specifica dignità; si evita di configurare la convivenza come forma minore del rapporto coniugale, riprovata o appena tollerata, e non si innesca alcuna “impropria” rincorsa verso la disciplina del matrimonio da parte di coloro che abbiano scelto di liberamente convivere. Soprattutto si pongono le premesse per una considerazione giuridica dei rapporti personali e patrimoniali di coppia nelle due diverse situazioni, considerazione la quale – fermi in ogni caso i doveri e i diritti che ne derivano verso i figli e i terzi – tenga presenti e quindi rispetti il maggior spazio da riconoscersi, nella convivenza, alla soggettività individuale dei conviventi; e viceversa dia, nel rapporto di coniugio, maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, cioè come stabile istituzione sovraindividuale» (sentenza n. 8 del 1996).
Quest’ultimo profilo, che richiama il connotato istituzionale della famiglia fondata sul matrimonio, il quale non può essere ridotto al rango di elemento meramente formale, giova a sottolineare per il Collegio un ulteriore elemento differenziale tra la convivenza di fatto, basata sull’affectio di ciascuna delle parti, e il rapporto coniugale, caratterizzato anche dalla maggiore stabilità.
In questo quadro, l’aspetto dei comuni sentimenti affettivi, che ben possono essere presenti in un rapporto di coniugio come in uno stabile rapporto di convivenza, non è idoneo a superare le diversità tra le due situazioni poste in luce dalla giurisprudenza della Corte. Tali diversità, senza escludere la riconosciuta rilevanza giuridica della convivenza di fatto, valgono però a giustificare che la legge possa riservare in linea di principio all’una e all’altra situazione un trattamento non omogeneo.
È ben vero che, in relazione ad ipotesi particolari, si possono riscontrare tra convivenza more uxorio e rapporto coniugale caratteristiche tanto comuni da rendere necessaria una identità di disciplina, che la Corte può garantire attraverso il controllo di ragionevolezza imposto dall’art. 3 Cost. e che, in presenza di determinati presupposti, ha in concreto realizzato (sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988, nelle quali l’elemento unificante tra le due situazioni è stato ravvisato nell’esigenza di tutelare il diritto sociale all’abitazione, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost.).
Ma nel caso in esame, chiosa il Collegio, il rimettente individua il dato, che dovrebbe porre sullo stesso piano la posizione del convivente e quella del coniuge, negli stabili vincoli affettivi comuni ad entrambe le situazioni, trascurando di verificare se i risultati, cui l’assimilazione così postulata conduce, siano compatibili con i poteri della Corte in relazione alla discrezionalità riservata al legislatore.
Innanzitutto, l’estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma generale e quelle che viceversa sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che è da riconoscersi, ed è stato riconosciuto dalla Corte, appartenere primariamente al legislatore (sentenze n. 385 del 1992, n. 267 del 1992, n. 32 del 1992, quest’ultima in tema di cause di improcedibilità; n. 1063 del 1988 e n. 241 del 1983; ordinanza n. 475 del 1987).
Come il Collegio dichiara di avere già affermato nella sentenza n. 8 del 1996, «nel caso di specie si tratterebbe di mettere a confronto l’esigenza della repressione di delitti contro l’amministrazione della giustizia, e quindi la garanzia di efficacia della funzione giudiziaria penale, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall’altro. Ma non è detto che i beni di quest’ultima natura debbano avere esattamente lo stesso peso, a seconda che si tratti della famiglia di fatto e della famiglia legittima. Per la famiglia legittima non esiste soltanto un’esigenza di tutela delle relazioni affettive individuali e dei rapporti di solidarietà personali. A questa esigenza può sommarsi quella di tutela dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità, un bene che i coniugi ricercano attraverso il matrimonio, mentre i conviventi affidano al solo loro impegno bilaterale quotidiano.
Posto che la posizione del convivente meriti riconoscimento, essa non necessariamente deve dunque coincidere con quella del coniuge dal punto di vista della protezione dei vincoli affettivi e solidaristici. Ciò legittima, nel settore dell’ordinamento penale che qui interessa, soluzioni legislative differenziate, della cui possibile varietà dà abbondante dimostrazione la comparazione tra le legislazioni di numerosi paesi.
In più, una eventuale dichiarazione di incostituzionalità che assumesse in ipotesi la pretesa identità della posizione spirituale del convivente e del coniuge, rispetto all’altro convivente o all’altro coniuge, oltre a rappresentare la premessa di quella totale equiparazione delle due situazioni che – come si è detto – non corrisponde alla visione fatta propria dalla Costituzione, determinerebbe ricadute normative consequenziali di portata generale che trascendono l’ambito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale».
Nell’ordinanza di rimessione non si trovano persuasivi argomenti, idonei a superare le considerazioni sopra richiamate, che devono per la Corte essere ribadite, sicché la norma denunziata si sottrae alle censure mosse sotto il profilo della ragionevolezza.
Non può condurre a diverse conclusioni l’assunto del rimettente, che pone l’accento, a sostegno della sua tesi, sull’art. 199 del codice di procedura penale, evidentemente per desumerne una sorta di favor evolutivo del legislatore verso la parità di trattamento dei due rapporti (benché il punto non sia sviluppato in modo esplicito).
Invero, rammenta ancora una volta il Collegio, detta norma, nel terzo comma, lettera a), estende la facoltà di astensione dei prossimi congiunti dall’obbligo di deporre a chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con lui, limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato medesimo durante la convivenza.
Ma essa, richiamata anche negli articoli 362 e 351 cod. proc. pen., contrariamente a quanto opinato dal giudice a quo, dimostra che, quando il legislatore ha inteso attribuire rilevanza giuridica al rapporto di convivenza, anziché intervenire sulla definizione generale della nozione di “prossimi congiunti” contenuta nell’art. 307, quarto comma, cod. pen. includendovi anche il convivente, ha ritenuto di operare scelte selettive e mirate a casi determinati.
In sostanza, come la Corte ha già rilevato (sentenza n. 352 del 2000, riferita alla fattispecie ex art. 649 cod. pen.), il legislatore penale – nell’ambito del suo apprezzamento discrezionale non censurabile perché esercitato in modo non irragionevole – ha preferito limitare l’assimilazione a singole situazioni ben individuate, invece di procedere ad un “allineamento” generale ed indiscriminato dei due rapporti.
Alla stregua delle precedenti considerazioni restano escluse, pertanto, non solo la violazione del parametro costituzionale individuato nell’art. 3, ma anche la violazione degli articoli 2 e 29 Cost., perché, per quanto sopra esposto, la tutela costituzionale in essi prevista opera su piani diversi e non sovrapponibili.
2010
Il 22 novembre esce la sentenza della V sezione della Cassazione penale n.41139 onde non può essere applicata al convivente “more uxorio“, resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente, la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli artt. 384, comma primo, e 307, comma quarto, cod. pen., i quali non includono nella nozione di prossimi congiunti il convivente “more uxorio“.
Ciò sulla scia di Corte cost. 121 del 2004 e 140 del 2009.
Per il Collegio – nel solco di una collaudata giurisprudenza conforme – l’art.384, comma 1, c.p. va assunto quale norma eccezionale, laddove essa individua tassativamente tanto i soggetti legittimati a beneficiare della pertinente “scusante” quanto i reati la commissione dei quali implica, in forza di essa, una non punibilità del soggetto agente.
Ne discende la impossibilità di applicare analogicamente l’art.384, comma 1, c.p. al convivente more uxorio.
2012
Il 9 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.9265 onde lo stato di necessità ex art.54 c.p., nella specifica e limitata ipotesi dell’occupazione di beni altrui, può essere invocato solo per un pericolo attuale e transitorio, non certo per sopperire alla necessità di trovare un alloggio al fine di risolvere in via definitiva la propria esigenza abitativa, dacché il requisito del pericolo “attuale” richiesto dalla norma pertinente presuppone indefettibilmente che, nel momento in cui il soggetto agente opera contra ius commettendo il reato che si pretende scriminato al fine di scongiurare un danno grave alla persona, il pericolo che si intende fronteggiare sia imminente e, come tale, ben individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio.
Vanno pertanto escluse per il Collegio tutte quelle situazioni di pericolo a carattere non contingente, e come tali connotate da una sorta di cronicità che le fa inevitabilmente protrarre nel tempo.
Viene in rilievo per il Collegio il diritto di proprietà del soggetto che subisce l’occupazione, onde si impone una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art.54 c.p., alla luce dell’art.42 Cost., non potendosi che pervenire ad una pertinente nozione in grado di conciliare l’attualità del pericolo che si intende scongiurare con l’esigenza di tutela del ridetto diritto di proprietà del terzo, che non può subire una compressione duratura nel tempo dacché, in caso contrario, si verificherebbe di fatto un’ipotesi di esproprio senza indennizzo o, comunque, un’alterazione della destinazione della proprietà al di fuori di ogni procedura legale o convenzionale.
Si assiste dunque da parte della Corte ad un bilanciamento tra l’ampliamento progressivamente riconosciuto del novero di beni la cui lesione implica danno “personale”, da un lato, ed un del pari progressivo contingentamento della sfera di operatività dello stato di necessità, applicabile nei soli casi in cui si presentino in modo certo ed indiscutibile i requisiti della necessità (di commettere il reato scriminato) e della inevitabilità altrimenti del pericolo che si intende fronteggiare, stante l’eccezionalità che sola giustifica il conculcamento eventuale di diritti di terzi incolpevoli.
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Il 3 aprile esce la sentenza della Grande Camera della Corte EDU n.42857 che assume conforme alla convenzione, e dunque legittimo, il mancato riconoscimento al convivente more uxorio di quella facoltà di astenersi dal deporre e, dunque, dal rivestire la qualità di testimone, che è invece attribuita al coniuge o comunque alla parte di una coppia sposata o registrata.
Si tratta di una pronuncia assai importante per il relativo incidere in senso negativo sulla questione dell’applicabilità dell’art.384, comma 1, c.p. al convivente more uxorio in un contesto, come quello italiano, dove invece è possibile per il convivente astenersi dal deporre in virtù dell’esplicita presa di posizione in proposito del legislatore del processo penale, all’art.199 c.p.p.
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Il 18 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.40912, che si colloca in un più garantista solco pretorio alla cui stregua al convivente more uxorio va assunta applicabile la “scusante” di cui all’art.384, comma 2, c.p., trattandosi di soggetto cui è garantita la facoltà di astenersi dalla deposizione ai sensi dell’art.199, comma 3, c.p.p.
2013
Il 12 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.37425 in tema di omissione di versamenti fiscali onde il mancato adempimento, da parte dell’imputato “contribuente”, al dovere – prodromico a quello di versamento in senso stretto – di organizzare le proprie risorse giusta accantonamento delle somme dovute al Fisco rende del tutto irrilevante la successiva crisi di liquidità, maturata al tempo della scadenza del pertinente obbligo di pagamento.
Sono fatti salvi – per il Collegio – i casi in cui il mancato accantonamento dipenda non da una libera scelta dell’agente ma da fattori che sfuggano al relativo controllo, come può accadere – con riguardo all’Iva – allorché sul contribuente permanga l’obbligo di pertinente versamento anche laddove egli non abbia effettivamente ricevuto il relativo ammontare dall’acquirente del bene ceduto o dal fruitore del servizio reso.
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Il 3 maggio esce la sentenza della Sezione II della Cassazione n.19147 alla cui stregua l’illecita occupazione di un bene immobile è da assumersi scriminata dallo stato di necessità conseguente al danno grave alla persona, che ben può consistere anche nella compromissione del diritto di abitazione, sempre che ricorrano per tutto il tempo dell’illecita occupazione gli elementi costitutivi della scriminante, quali l’assoluta necessità della condotta criminosa e l’inevitabilità del pericolo che si intende fronteggiare con essa.
Nella specie, in cui gli imputati hanno stabilmente occupato un immobile trasformandolo nella propria residenza abituale, la Corte afferma che lo stato di necessità, nella specifica e limitata ipotesi dell’occupazione di beni altrui, può essere invocato solo per un pericolo attuale e transitorio e non per sopperire alla necessità di trovare un alloggio al fine di risolvere, in via definitiva, la propria esigenza abitativa.
2014
Il 15 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.20266 che, in tema di omesso versamento fiscale, assume (sulla scia della più tollerante giurisprudenza di merito) un atteggiamento meno rigido nei confronti del contribuente rispetto alle SSUU del 2013, attribuendo – almeno in linea teorica – maggiore rilievo scusante alla c.d. crisi di liquidità sofferta dal contribuente medesimo.
Per il Collegio, più in specie, la crisi di liquidità esclude la volizione del fatto-reato, purché ricorrano indicatori puntuali in ordine alla impossibilità, incolpevole per il contribuente, di adempiere alle pertinenti obbligazioni tributarie: l’imputato può per la Corte invocare la assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto, palesandosi necessaria, ai fini dell’esclusione del dolo, una dimostrazione precisa della indipendenza della crisi rispetto a scelte del contribuente e della inidoneità delle misure, diverse dalla (e alternative alla) violazione del precetto penale allo scopo di fronteggiarla altrimenti.
2015
Il 25 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.8352 alla cui stregua, in tema di omissioni del contribuente e crisi di liquidità, quest’ultima può avere efficacia scusante in forza della inesigibilità da parte del contribuente di una diversa condotta, ovvero della forza maggiore, a condizione che l’omissione tributaria derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla relativa volontà e che sfuggono al relativo dominio finalistico.
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Il 5 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.9655 alla cui stregua in tema di illecita occupazione di un alloggio popolare, lo stato di necessità può essere invocato solo per un pericolo attuale e transitorio e non per sopperire alla necessità di trovare un alloggio al fine di risolvere in via definitiva la propria esigenza abitativa, tanto più che l’edilizia popolare è destinata a risolvere le esigenze abitative dei non abbienti attraverso procedure pubbliche e regolamentate.
Per la Corte va dunque esclusa nel caso di specie la sussistenza della scriminante invocata dal ricorrente in ragione dello stato di gravidanza della relativa coniuge, dovendosi assumere del pari irrilevante la circostanza che il precedente assegnatario dell’immobile lo abbia liberato in favore dell’imputato, spettando tale funzione all’ente pubblico preposto.
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Il 30 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione penale n.34147, Agostino e altri, Rv. 264630, alla cui stregua, in tema di favoreggiamento personale, la causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma primo, cod. pen. in favore del coniuge opera anche in favore del convivente “more uxorio“.
Per il Collegio va confutata l’attualità dell’opinione espressa dal Giudice delle leggi in ordine alla concezione di famiglia cui fare riferimento, dovendosi piuttosto richiamare la giurisprudenza della Corte EDU, la quale considera la famiglia in senso dinamico, come una formazione sociale in perenne divenire, e non come un istituto statico ed immutabile, essendo irrilevante che il rapporto familiare sia sanzionato dall’accordo matrimoniale.
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Il 4 agosto esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.34147 che si pone in consapevole contrasto con l’orientamento dominante – corroborato anche dalle plurime prese di posizione conformi della Corte costituzionale – in ordine alla inapplicabilità dell’art.384, comma 1, c.p. alla convivenze more uxorio.
Per il Collegio, lungi dal dover necessariamente ricorrere al procedimento analogico, è piuttosto sufficiente una interpretazione estensiva per includere, per l’appunto, i conviventi more uxorio tra i soggetti beneficiari della scusante prevista dall’art.384, comma 1, c.p., sol che si consideri non più attuale la posizione espressa proprio dal Giudice delle Leggi in ordine alla concezione di “famiglia” da assumere a concreto parametro di scandaglio.
Più nel dettaglio, per il Collegio quanto affermato dalla Corte costituzionale appare non più coerente con la sensibilità sociale, dacché oggi famiglia e matrimonio hanno un significato diverso e più ampio rispetto a quello che veniva loro attribuito all’epoca dell’entrata in vigore del codice penale ancora vigente e la stabilità del rapporto, con il venir meno l’indissolubilità del matrimonio, non costituisce più caratteristica assoluta e inderogabile ed anzi spesso caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio.
Ciò, rammenta la Corte, tenuto anche nel debito conto del concetto di “famiglia” fatto proprio a livello convenzionale dalla Corte EDU laddove – dinanzi ad una famiglia da intendersi come formazione sociale in perenne divenire e, dunque, “dinamica” piuttosto che “statica” – essa fa applicazione dell’art.8 della CEDU in materia di tutela de diritto al rispetto della vita privata e familiare assumendo tutt’affatto irrilevante la presenza, o meno, di un crisma derivante dal matrimonio.
Non mancano critiche dottrinali alla dissenting opinion qui palesata dalla Corte, sulla scorta tanto della stessa giurisprudenza della Corte EDU – che, se da un lato applica l’art.8 anche alla famiglia c.d. “naturale”, dall’altra ha recentemente assunto conforme alla CEDU il mancato riconoscimento della facoltà di astenersi dal testimoniare (riconosciuta alle coppie coniugate o registrate) anche ai conviventi more uxorio – quanto in considerazione della natura “eccezionale” da annettersi all’art.384, comma 1, c.p., tale da precluderne l’applicazione analogica.
Per la dottrina critica ridetta, neppure potrebbe attivarsi un percorso di ermeneusi “estensiva”, stante il chiaro tenore letterale della disposizione, insuperabile per l’interprete, che parla di “coniuge” attraverso un rinvio (tacito, giusta riferimento ai c.d. “prossimi congiunti”) all’art.307, comma 4, c.p., e che dunque esclude recisamente la pertinente applicazione al convivente more uxorio.
Nonostante le critiche serrate, il pronunciamento del Collegio è importante perché riaccende il dibattito intorno all’art.384, comma 1, c.p., aprendo un contrasto di giurisprudenza che sarà fecondo per il futuro.
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Il 29 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.43599 alla cui stregua, in tema di omissioni del contribuente e crisi di liquidità, non può invocarsi quale causa di forza maggiore per il legale rappresentante di un’impresa lo stato di dissesto imputabile alla precedente gestione, quando risulti che l’agente al momento del relativo subentro nella carica aveva la consapevolezza della crisi di liquidità medesima e non era nell’impossibilità – a lui non ascrivibile – di intraprendere veruna iniziativa per fronteggiare tale situazione.
2016
Il 20 maggio viene varata la tanto attesa (e, per molti versi, contestata) legge n.76 (c.d. legge Cirinnà), recante “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, che si articola in un solo articolo con poco meno di 70 comma (per la precisione, 69) e che disciplina in modo organico le c.d. unioni civili omosessuali, da un lato, e le convivenze di fatto, dall’altro.
Viene istituita l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione, che può essere costituita da 2 persone maggiorenni dello stesso sesso mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni (comma 2); l’ufficiale di stato civile provvede poi alla registrazione dell’atto di unione civile tra persone dello stesso sesso nell’archivio dello stato civile (comma 3).
Su di un piano più generale (comma 20) – al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso – le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso; tale regime di “estensione” non si applica tuttavia alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella legge de qua, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184, restando fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti.
Dinanzi a tale ultima disposizione, vengono a delinearsi in dottrina due distinte linee ermeneutiche, la prima delle quali, più estensiva, ne deduce la piena equiparazione delle parti di unione civile ai coniugi ad ogni fine, compreso quello penale, con conseguente sussunzione delle prime nel novero dei c.d. prossimi congiunti di cui all’art.307, comma 4, c.p. e con conseguente possibilità di applicare alle unioni civili l’art.384, comma 1, c.p. (ma non anche alle convivenze more uxorio, che pure la novella disciplina ex novo, definendo conviventi di fatto “le persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”).
Per la seconda opzione interpretativa, all’opposto, il comma 20 dell’articolo unico della Legge Cirinnà non ha la capacità di incidere sull’area soggettiva di applicabilità dell’art.384, comma 1, c.p. neanche limitatamente ai componenti delle c.d. unioni civili; l’estensione a questi ultimi delle “prerogative coniugali”, siccome operata dalla novella, si impone – in questo quadro – solo come necessaria al fine di assicurare “l’effettività della tutela dei diritti ed il pieno adempimento degli obblighi”, appunto, tra persone dello stesso sesso unite civilmente, condizione da assumersi non sussistente in relazione all’art.384 c.p., a meno di non volere assumere la “scusante” ivi inscritta quale strumento finalizzato appunto a presidiare l’adempimento degli obblighi di assistenza morale derivanti dall’unione civile.
2017
Il 19 gennaio viene varato il decreto legislativo n.5, recante adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76.
Si tratta di 9 articoli che provvedono al ridetto adeguamento, come ad esempio nel caso dell’art.3, comma 1, lettera a), che in tema disciplina anagrafica assume “famiglia”, per l’appunto, agli effetti anagrafici anche l’insieme di persone legate da vincoli di “unione civile”, all’uopo novellando l’art.4 del D.p.R. 223.89.
Importante l’art.2, che modifica l’art.199 c.p.p. (facoltà di astensione dei prossimi congiunti) il cui comma 3, nella nuova formulazione, afferma applicabili i precedenti comma 1 e 2 anche a chi è legato all’imputato da vincolo di adozione ed inoltre, limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza coniugale “o derivante da un’unione civile tra persone dello stesso sesso”:
- a) a chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso;
- b) al coniuge separato dell’imputato;
- c) alla persona nei cui confronti sia intervenuta sentenza di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio “o dell’unione civile” tra persone dello stesso sesso contratti con l’imputato.
Muta anche la categoria dei “prossimi congiunti” di cui all’art.307, comma 4, c.p., venendovi inserite anche le parti di un’unione civile tra persone dello stesso sesso.
Significativa altresì l’estensione della causa di non punibilità di cui all’art.649 c.p., in tema di reati contro il patrimonio in ambito “familiare”, anche alla “parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso” (art. 649, primo comma, numero 1-bis, cod. pen.).
Resta tuttavia ancora “fuori gioco” – in tema di applicabilità dell’art.384 e dell’art.649 c.p. – la convivenza alla cui base non vi sia né un matrimonio, né tampoco una unione civile, e dunque la convivenza di fatto o more uxorio.
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Il 21 aprile esce l’ordinanza del Tribunale di Matera in composizione monocratica che solleva, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede «la non punibilità anche dei fatti criminosi previsti dal titolo XIII del libro II del Codice Penale commessi in danno di un convivente more uxorio».
Le questioni di legittimità costituzionale vengono sollevate nell’ambito di un procedimento penale a carico di soggetto «imputato del reato previsto e punito dall’art. 646 c.p. “perché al fine di procurarsi un profitto, avendo il possesso di indumenti, effetti personali e documenti dell’ex convivente […] e del loro figlio […], se ne appropriava rifiutandone la restituzione”»;
Il giudice lucano rimettente riferisce che l’applicazione dell’art. 649 cod. pen. era stata espressamente invocata dalla difesa dell’imputato, che ne aveva eccepito l’illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede – per l’appunto – la non punibilità anche per i fatti commessi in danno del convivente more uxorio, considerando che nel caso di specie tale qualifica soggettiva si sarebbe configurata in capo alla «persona offesa dal reato costituitasi parte civile, avuto riguardo all’accertata sua intercorsa relazione personale di convivenza di fatto con l’imputato […] e dalla cui unione è nato il loro figlio minore»;
Il Tribunale ordinario di Matera – dopo aver ricordato che l’art. 649 cod. pen. riconosce la non punibilità in riferimento ai delitti contro il patrimonio di cui al Titolo XIII del Libro II del codice penale (con alcune deroghe relative agli artt. 628, 629 e 630 cod. pen. e di ogni altro delitto contro il patrimonio commesso con violenza alla persona) posti in essere nei confronti del coniuge non legalmente separato, dell’ascendente, del discendente, dell’affine in linea retta, dell’adottante, dell’adottato e del fratello o della sorella conviventi – sottolinea che il decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 6, recante «Modificazioni ed integrazioni normative in materia penale per il necessario coordinamento con la disciplina delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettera c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», ha aggiunto in quell’articolo anche il riferimento alla parte dell’unione civile fra persone dello stesso sesso (art. 649, primo comma, numero 1-bis, cod. pen.).
Secondo il giudice rimettente, la ratio originaria della previsione della causa di non punibilità risiederebbe «nell’esigenza di evitare turbamenti nelle relazioni familiari sull’assunto che l’applicazione di una sanzione penale renderebbe irreparabilmente compromessi i rapporti intrafamiliari, così vanificando la riconciliazione del nucleo familiare, inteso e concepito nel rispetto di quanto statuito dall’art. 29 della nostra Carta fondamentale in guisa di “società naturale fondata sul matrimonio”»;
Pur definendo la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) quale «complesso portato ed agognato punto di approdo della presa d’atto di un mutato costume sociale e dell’esistenza di nuclei familiari ontologicamente differenti dalla classica famiglia fondata sul vincolo matrimoniale con effetti civili», il giudice a quo ritiene che il legislatore con tale legge abbia inteso «irrazionalmente e/o comunque riduttivamente regolamentare le sole unioni civili tra persone dello stesso sesso», provvedendo a coordinarne la disciplina attraverso le modificazioni e le integrazioni introdotte con il citato d.lgs. n. 6 del 2017, che ha aggiunto, all’art. 649, primo comma, cod. pen., il riferimento alla parte dell’unione civile, ma non al convivente more uxorio.
Il giudice lucano rimettente ritiene tuttavia che alla luce della «sua esegesi letterale e nel perimetro rigoroso del precipuo rispetto del principio di legalità, inteso anche quale tassatività della fattispecie penale», non sia perciò possibile applicare la disposizione censurata ai fatti commessi in danno del convivente more uxorio, escludendo quindi di poter pervenire a un’estensione analogica della disposizione, pure invocata dalla difesa dell’imputato.
Il Tribunale riferisce, ad un tempo, di non ignorare che la Corte costituzionale, in diverse occasioni, ha dichiarato la non fondatezza di analoga questione, ritenendo la convivenza more uxorio non assimilabile al rapporto di coniugio (vengono citate le sentenze n. 352 del 2000, n. 8 del 1996 e n. 423 del 1988 e l’ordinanza n. 1122 del 1988).
Ciononostante, il giudice rimettente ritiene che la «valutazione della disposizione codicistica […] deve, ad ogni buon conto, essere attuata alla stregua dell’attuale realtà sociale, senza alcun dubbio profondamente mutata rispetto a quella esistente ed esaminata dal Legislatore storico, nell’ottica di un’esegesi in sintonia ed al passo con i tempi dello stesso concetto costituzionale di famiglia concepita in guisa di un luogo di sviluppo armonico della persona, fondato ed ispirato da uno stretto e stabile rapporto di solidarietà reciproca»;
In particolare, il giudice rimettente concede che, in ragione del «tempo ormai remoto in cui è stata concepita ed emanata» la disposizione censurata, non potevano essere considerati istituti o situazioni di fatto emersi solo successivamente, ma ritiene che sia irragionevole e discriminatorio non ricomprendere fra i soggetti che beneficiano della causa di non punibilità in esame «anche i partecipi di una convivenza more uxorio, ovvero persone di sesso diverso»;
A sostegno delle proprie argomentazioni, chiosa ancora il Collegio, il giudice a quo richiama l’art. 199, comma 3, lettera a), del codice di procedura penale, che equipara il coniuge a chi conviva o abbia convissuto con l’imputato in relazione alla facoltà di astenersi dal deporre, affinché «vada, re melius perpensa, nuovamente considerato anche il segnalato parallelismo della ratio legis posta a base» di tale disposizione e di quella censurata, che mirerebbero entrambe a salvaguardare la prevalenza dell’unità della famiglia rispetto alle esigenze di giustizia della collettività.
Il giudice rimettente ritiene che, anche alla luce del rilievo assegnato alla convivenza di fatto dalla legge n. 76 del 2016, il mancato riconoscimento della causa di non punibilità per il convivente more uxorio violi il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), nonché il diritto di difesa (art. 24 Cost.), poiché si precluderebbe «la fruizione, nelle ipotesi di cui alla medesima norma di diritto penale sostanziale, della speciale causa di non punibilità», risultando «irrazionale il disallineamento della sfera soggettiva e di operatività della norma […], non derivando, di converso, dall’accoglimento del sollevato incidente di costituzionalità alcun vulnus alla protezione della “istituzione familiare” tutelata in via primaria dall’art. 29 della Carta costituzionale»;
In questa prospettiva, non si terrebbe conto del fatto che la fisionomia dell’originaria istituzione famigliare fondata sul matrimonio tutelata dall’art. 29 Cost. è «mutata sul piano sociale e culturale e dei costumi al punto da essersi dovuta disciplinare, persino, l’unione civile di persone del medesimo sesso e tanto da sembrare a fortiori meritevole di pari dignità e tutela la posizione di un convivente di fatto more uxorio, anche di sesso diverso dal proprio partner»;
Da ultimo, nel caso oggetto del giudizio emergerebbe «il dato fattuale di una convivenza more uxorio tra l’imputato e la persona offesa, dalla cui unione è nato, persino, un figlio, a comprova di una pregressa stabilità di rapporti e di una comunanza di vita ed interessi, non suscettibile di affievolimento od inesistenza di tutela, neppure parziale, anche a preservazione di una possibile riconciliazione delle parti»;
Di conseguenza, sussisterebbe per il giudice rimettente la rilevanza delle questioni, poiché l’art. 649 cod. pen. costituirebbe disposizione di applicazione necessaria, almeno con riguardo alla posizione del figlio dell’imputato, influendo altresì sulla definizione del giudizio, poiché l’eventuale sentenza di accoglimento inciderebbe sulle formule di proscioglimento o quanto meno sulla formula del dispositivo della decisione.
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Il 12 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 3647 alla cui stregua, in tema di reati tributari, il delitto di omesso versamento di ritenute dovute o certificate di cui all’art. 10-bis d.leg. 10 marzo 2000 n. 74 differisce da quello previsto dall’art. 10-ter medesimo decreto legislativo (omesso versamento Iva) per l’oggetto, che solo nel primo caso (e non anche nel secondo) è costituito da somme già nella disponibilità del debitore.
Ne consegue che, in caso di carenza di liquidità di impresa, se l’omesso versamento dell’Iva può astrattamente derivare dall’inadempimento altrui, al contrario l’impossibilità di adempiere all’obbligazione di versamento delle ritenute non può essere giustificata, ai sensi dell’art. 45 c.p., dalla insolvenza dei debitori, essendo di pertinenza del sostituto d’imposta la decisione di distrarre a scopi diversi le somme di denaro dovute all’erario e che egli ha nella propria disponibilità.
2018
Il 13 agosto esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.38593 che scandaglia una fattispecie in tema di omesso versamento dell’Iva, giustificata dal ricorrente con la crisi del mercato immobiliare e con i problemi finanziari della società da lui rappresentata.
Per il Collegio il principio della non esigibilità di una condotta diversa da parte del soggetto agente – sia che lo si voglia ricollegare alla ratio della colpevolezza, riferendolo ai casi in cui l’agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui «umanamente» pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla ratio dell’antigiuridicità riferendolo per l’appunto a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell’agente di uniformare la condotta al precetto penale – non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate.
Ciò in quanto per il Collegio le condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali sono posti dalle norme stesse senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l’analogia iuris.
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Il 16 marzo esce l’ordinanza della Corte costituzionale n.57 alla cui stregua vanno dichiarate manifestamente inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 649, primo comma, cod. pen., censurato – in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. – dal Tribunale di Matera nella parte in cui, a seguito della novella apportata dal D.Lgs. n. 6 del 2017, prevede che la causa di non punibilità prevista per i delitti contro il patrimonio operi anche a beneficio della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, e non anche del convivente more uxorio.
Nell’ordinanza di rimessione il soggetto nei cui confronti si procede nel processo a quo viene espressamente definito quale ex convivente, oltre a farsi riferimento alla convivenza in termini di relazione pregressa.
Come peraltro confermato anche dagli atti del giudizio principale, precisa nondimeno la Corte, la condotta per la quale si procede sarebbe stata posta in essere in epoca successiva alla cessazione della convivenza.
Da tale circostanza – laddove venisse accertata nel processo a quo la responsabilità dell’imputato nei confronti della ex convivente – consegue per il Collegio, inequivocabilmente, l’inapplicabilità della disposizione censurata ed il connesso difetto di rilevanza della questione di costituzionalità scandagliata.
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Il 30 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 53939 in tema di favoreggiamento personale, onde la causa di esclusione della punibilità prevista per chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento alla libertà personale o all’onore opera anche nelle ipotesi in cui il soggetto abbia agito per evitare un’accusa penale, per l’appunto, a carico del “congiunto”.
La Corte precisa in proposito che l’art. 384 c.p. prevede – a differenza dell’art.54 c.p. – una causa di esclusione della colpevolezza e non dell’antigiuridicità della condotta, in quanto rende inesigibile un comportamento conforme alle norme indicate al 1° comma di tale norma.
2019
Il 14 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione penale n. 11476, Cavassa Samuel, onde la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 cod. pen. è applicabile anche nei confronti dei componenti di una famiglia di fatto e dei loro prossimi congiunti.
Va infatti recepita per il Collegio un’interpretazione “in bonam partem” che consenta la parificazione, sul piano penale, della convivenza “more uxorio” alla famiglia fondata sul matrimonio, l’equiparazione ai coniugi dei soli componenti di un’unione civile, prevista dal d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, non escludendo l’estensione della causa di non punibilità per l’appunto ai conviventi “more uxorio“, soluzione già peraltro consentita dal preesistente quadro normativo, oltre che dalla nozione di famiglia desumibile dall’art.8 CEDU, ricomprendente anche i rapporti di fatto.
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Il 15 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 21133 onde, in tema di maltrattamenti, l’autore del pertinente reato non può invocare, a propria discolpa, l’inesigibilità di un comportamento diverso da quello tenuto siccome coartato dalla volontà di altri, che abbia imposto un proprio modello culturale improntato ad autoritarismo maschilista.
Ciò in quanto, per la Corte, il principio della non esigibilità non trova applicazione al di là delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate.
2020
Il 17 gennaio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.1825 secondo la quale va rimessa alle Sezioni Unite la soluzione della questione se la causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 1, c.p. sia o meno applicabile al convivente more uxorio.
Osserva la Corte che la questione sottesa ad entrambi i motivi di ricorso, pregiudiziale rispetto al loro vaglio, è appunto la applicabilità della causa scriminante o scusante di cui all’art. 384, comma 1, cod. pen. al convivente more uxorio.
In ordine alla questione – rammenta il Collegio – sono stati espressi due opposti orientamenti.
Secondo un primo orientamento prevalente, non può essere applicata al convivente “more uxorio“, resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente, la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli artt. 384, comma primo, e 307, comma quarto, cod. pen., i quali non includono nella nozione di prossimi congiunti il convivente “more uxorio” (cfr. Corte cost. 121 del 2004 e 140 del 2009)(Sez. 5, n. 41139 del 22/10/2010, Migliaccio, Rv. 248903).
La decisione, nel solco di Sez. 6 n. 35967 del 28/09/2006, Cantale, Rv. 234862, ha osservato che l’esclusione del convivente more uxorio manifestamente non si pone in contrasto con i principi di cui all’art. 3 Cost., avuto anche riguardo a quanto già affermato dalla stessa Corte costituzionale con pronunce nn. 124 del 1980, 39 del 1981, 352 del 19 89, 8 del 1996, 121 del 2004.
In particolare, come ribadito dalla Corte costituzionale con ordinanza n. 121 del 2004 (ud. 10-12-2003); gli artt. 307 e 384 c.p. non includono nella nozione di prossimi congiunti anche il convivente “more uxorio“, oltre il coniuge, finanche separato di fatto o legalmente.
Tale assetto normativo non è neppure contrario alla Carta costituzionale (in special modo, con riferimento all’art. 3 Cost.) in quanto esistono, nell’ordinamento, ragioni costituzionali che giustificano un differente trattamento normativo tra i due casi, trovando il rapporto coniugale tutela diretta nell’art. 29 Cost., mentre il rapporto di fatto fruisce della tutela apprestata dall’art.2 Cost. ai diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali, con la conseguenza che ogni intervento diretto a rendere una identità di disciplina rientra nella sfera di discrezionalità del legislatore.
Ancora più di recente, con sentenza n. 140 del 2009, del resto, il giudice delle leggi ha affermato, riprendendo i principi già espressi, che la convivenza more uxorio è diversa dal vincolo coniugale in ragione della diversità delle pertinenti norme di copertura e tale diversità giustifica che la legge possa riservare trattamenti giuridici non omogenei.
Infatti, se è vero che, in relazione ad ipotesi particolari, si possono riscontrare tra i due istituti caratteristiche tanto comuni da rendere necessaria un’identità di disciplina, che la Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza, nella specie, l’estensione di cause di non punibilità comporta un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti che appartiene primariamente al legislatore.
Si tratterebbe, insomma, di mettere a confronto l’esigenza della repressione di delitti contro l’amministrazione della giustizia, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall’altro, ma non è detto che i beni di quest’ultima natura debbano avere necessariamente lo stesso peso, a seconda che si tratti della famiglia di fatto o della famiglia legittima, per la quale sola esiste un’esigenza di tutela non solo delle relazioni affettive, ma anche dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità.
Ciò legittima nel settore dell’ordinamento penale soluzioni legislative differenziate.
Per tale essenziale ragione, il contrario orientamento espresso in materia dalla sent. n. 22398 del 22/01/2004, Rv. 229676, citata nel ricorso è rimasta isolata nel panorama giurisprudenziale, appare non condivisibile.
Due più recenti decisioni – prosegue tuttavia la Corte – hanno espresso un opposto orientamento. Secondo Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino e altri, Rv. 264630, in tema di favoreggiamento personale, la causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma primo, cod. pen. in favore del coniuge opera anche in favore del convivente “more uxorio” confutando l’attualità dell’opinione espressa dal Giudice delle leggi in ordine alla concezione di famiglia cui fare riferimento e richiamando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale considera la famiglia in senso dinamico, come una formazione sociale in perenne divenire, e non come un istituto statico ed immutabile, essendo irrilevante che il rapporto familiare sia sanzionato dall’accordo matrimoniale.
Nello stesso solco, prosegue la Corte, si è posta Sez. 6 n. 11476 del 19/09/2018, Cavassa Samuel, Rv. 275206, che ha affermato che la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 cod. proc. pen. è applicabile anche nei confronti dei componenti di una famiglia di fatto e dei loro prossimi congiunti, dovendosi recepire un’interpretazione “in bonam partem” che consenta la parificazione, sul piano penale, della convivenza “more uxorio” alla famiglia fondata sul matrimonio, argomentandosi che l’equiparazione ai coniugi dei soli componenti di un’unione civile, prevista dal d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, non esclude l’estensione della causa di non punibilità ai conviventi “more uxorio“, trattandosi di soluzione già consentita dal preesistente quadro normativo, oltre che dalla nozione di famiglia desumibile dall’art.8 CEDU, ricomprendente anche i rapporti di fatto.
Le due decisioni innovative – prosegue il Collegio – sono state criticate dalla dottrina secondo la quale il discostamento dal precedente consolidato orientamento, innanzitutto, si pone in tensione con le regole generali dell’interpretazione estendendo oltre il dato letterale una norma eccezionale e tassativa quanto ai soggetti che la possono invocare, tanto da far prospettare – all’epoca della prima delle due decisioni – un necessario interpello della Giudice delle leggi o un più auspicabile intervento del legislatore.
Con riferimento alla ultima decisione del 2019 è stato osservato che la riscrittura giurisprudenziale dell’esimente in parola involge poteri dei quali è istituzionalmente affidataria la Corte Costituzionale per superare i limiti che il giudice comune incontra nella «correzione» delle norme.
Le critiche della dottrina, chiosa ancora la Corte, appaiono peraltro in linea con lo specifico orientamento di legittimità – riguardante il tema della c.d. inesigibilità della condotta, ambito nel quale la prevalente dottrina situa la disposizione in parola – secondo il quale il principio della non esigibilità di una condotta diversa – sia che lo si voglia ricollegare alla “ratio” della colpevolezza riferendolo ai casi in cui l’agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui “umanamente” pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla “ratio” dell’antigiuridicità riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell’agente di uniformare la condotta al precetto penale – non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate, in quanto le condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali sono posti dalle norme stesse senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l'”analogia juris” (Sez. 3, n. 38593 del 23/01/2018, Del Stabile, Rv. 273833).
Ove si dovessero, in qualche modo, ritenere superabili il limite letterale e la natura eccezionale della norma in parola, la interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata dichiaratamente posta a base dell’orientamento innovativo e l’obiettivo dell’ermeneusi, vanno confrontati – da un lato, come ricordato dalla sentenza Migliaccio – con i ripetuti interventi della Corte Costituzionale che ha ritenuto costituzionalmente non illegittima l’esclusione dal novero dei soggetti indicati dall’art. 384, comma 1, cod. pen. con riferimento all’art. 307, comma 4, cod. pen. del convivente di fatto, giustificando il diverso trattamento delle diverse situazioni e non costituendo l’estensione una soluzione costituzionalmente necessaria; dall’altro, con la decisione espressa dalla Grande Camera della Corte di Strasburgo nel caso Van der Heijden v. Netherlands del 3 aprile 2012 che ha escluso la violazione dell’art. 8 CEDU laddove la legislazione interna costringa una persona a testimoniare nell’ambito di procedimenti penali a carico del convivente senza conferirle la facoltà di astensione riconosciuta invece al coniuge e al convivente registrato.
Con tale ultima decisione, si è annotato, la Corte di Strasburgo, seguendo la dottrina del margine di apprezzamento riservato agli Stati, ha in qualche misura fornito argomenti per sostenere la non irragionevolezza di trattamenti differenziati fra coniugi e conviventi, quantomeno nel settore processuale.
La dichiarata interpretazione valoriale a sostegno della innovazione deve inoltre confrontarsi – conclude il Collegio – con quanto emerge dal più recente intervento di cui al decreto legislativo n. 6 del 2017, conseguente alla c.d. legge Cirinnà del 2016 («Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze»), con il quale si è ampliata la cerchia dei «prossimi congiunti» per ricomprendervi i soggetti uniti civilmente e non anche i conviventi di fatto.
A tal proposito, la dottrina ha osservato che quella compiuta dal legislatore delegato del 2017 nell’ammodernare il concetto di “prossimità” con il riferimento alla sola parte dell’unione civile, è stata una scelta ben precisa – e non una svista involontaria – derivante dal limitato oggetto della delega legislativa, che non lasciava all’esecutivo alcun margine per includere anche i conviventi more uxorio nell’articolo 307, comma 4, cod. pen.
Ritiene, pertanto, il Collegio che il rilevato contrasto giurisprudenziale – che esplicita l’emersione di questioni che coinvolgono lo stesso esercizio della funzione nomofilattica in rapporto ai relativi presupposti, contenuti e limiti – impone appunto di sottoporre alle Sezioni unite la seguente questione di diritto: « se l’ipotesi di cui all’art. 384, comma 1, cod. pen. sia applicabile al convivente more uxorio».
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Il 27 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.10694 alla cui stregua l’abusiva occupazione di un bene immobile è scriminata dallo stato di necessità conseguente al pericolo di danno grave “alla persona”, che ben può consistere anche nella compromissione del diritto di abitazione ovvero di altri diritti fondamentali della persona riconosciuti e garantiti dall’art. 2 Cost., sempre che ricorrano, per tutto il tempo dell’illecita occupazione, gli altri elementi costitutivi della scriminante, quali l’assoluta necessità della condotta e l’inevitabilità del pericolo
Ne consegue per la Corte che la stessa può essere invocata solo in relazione ad un pericolo attuale e transitorio e non per sopperire alla necessità di reperire un alloggio al fine di risolvere in via definitiva la propria esigenza abitativa.
Più nel dettaglio la sentenza impugnata – per la Corte – ha riconosciuto la scriminante dello stato di necessità senza evidenziare alcuno degli elementi riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte medesima come necessari per la configurazione della scriminante ridetta.
Premesso che nel caso in esame non si verte in materia di edilizia residenziale pubblica, trattandosi, invece, dell’occupazione di una villetta sottoposta a custodia in un procedimento di esecuzione immobiliare, deve, comunque, rilevarsi per il Collegio che, secondo la consolidata e condivisibile giurisprudenza della Corte di legittimità, l’illecita occupazione di un bene immobile é scriminata dallo stato di necessità conseguente al danno grave alla persona, che ben può consistere anche nella compromissione del diritto di abitazione ovvero di altri diritti fondamentali della persona riconosciuti e garantiti dall’art. 2 Cost., sempre che ricorrano, però, per tutto il tempo dell’illecita occupazione, gli altri elementi costitutivi della scriminante, quali l’assoluta necessità della condotta e l’inevitabilità del pericolo (Sez. 6, n. 28115 del 05/07/2012, Sottoferro e altri, Rv. 253035), elementi in alcun modo evidenziati nella sentenza impugnata, se non con un generico riferimento all’ “esigenza di un alloggio” da parte del R. e della T..
In tal modo – prosegue il Collegio – la sentenza impugnata non si è conformata alla giurisprudenza della Corte che, nel riconoscere un’interpretazione estensiva del concetto di danno grave alla persona, mediante l’inclusione dei diritti inviolabili, impone, però, una più attenta e penetrante indagine giudiziaria, diretta a circoscrivere la sfera di azione della esimente ai soli casi in cui siano indiscutibilmente presenti gli altri elementi costitutivi della stessa, quali i requisiti della necessità ed della inevitabilità del pericolo, tenuto conto delle esigenze di tutela dei diritti dei terzi involontariamente coinvolti, diritti che non possono essere compressi se non in condizioni eccezionali e chiaramente comprovate (Sez. 2, n. 24290 del 19/03/2003, PG in proc. Bocchino, Rv. 225447) ed ha, altresì, evidenziato che lo stato di necessità può essere invocato solo per fronteggiare un pericolo attuale e transitorio e non per sopperire alla necessità di trovare un alloggio al fine di risolvere in via definitiva la propria esigenza abitativa (Sez. 2, n. 9655 del 16/01/2015, Cannalire, Rv. 263296).
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Il 16 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.21158, che torna ad occuparsi della fattispecie di omesso versamento di ritenute certificate, c.d. “crisi di liquidità” e forza maggiore, dichiarando nella specie inammissibile il ricorso spiccato dal reo, assunto dal giudice di merito responsabile del reato di cui all’art. 10-bis, d Igs. n. 74 del 2000 perché, nella qualità di legale rappresentante della società X, dichiarata fallita con sentenza del 21/03/2013, ha omesso di versare, nel termine previsto per la dichiarazione annuale mod. 770, le ritenute operate, a fini fiscali, sulle retribuzioni corrisposte ai dipendenti nell’anno 2011 per un ammontare pari a 188.022, euro.
I motivi di ricorso di cui al caso di specie, che per il Collegio possono essere esaminati congiuntamente, ripropongono la questione della incidenza della crisi di impresa (o crisi di liquidità) sul dolo del reato, posto che l’inadempimento dell’obbligazione tributaria è per lo più ricondotto a causa di forza di maggiore. La Corte pare ricondurre la forza maggiore a fattore che esclude l’elemento soggettivo del reato (colpevolezza).
Le questioni sollevate con il ricorso trovano per il Collegio risposta negli approdi ermeneutici di Sez. U., n. 37425 del 28/03/2013, Favellato, secondo la quale:
- a) il reato di omesso versamento delle ritenute certificate (art. 10-bis d.lgs n. 74 del 2000), che si consuma con il mancato versamento – per un ammontare superiore ad euro cinquantamila – delle ritenute complessivamente risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti entro la scadenza del termine finale per la presentazione della dichiarazione annuale, non si pone in rapporto di specialità ma di progressione illecita con l’art. 13, comma primo, D.Lgs. n. 471 del 1997, che punisce con la sanzione amministrativa l’omesso versamento periodico delle ritenute alla data delle singole scadenze mensili, con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni (sia penale che amministrativa);
- b) nell’illecito amministrativo di cui al comma 1 dell’art. 13 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, infatti, il presupposto è costituito dalla erogazione di somme comportanti l’obbligo di effettuazione della ritenuta alla fonte (artt. 23 ss. d.P.R. n. 600 del 1973) e di versamento della stessa all’Erario con le modalità stabilite (art. 3 d.P.R. n. 602 del 1973), la condotta omissiva si concretizza nel mancato versamento della ritenuta mensile e il termine per l’adempimento è fissato al giorno 15 (poi passato al 16) del mese successivo a quello di effettuazione della ritenuta (art. 8 d.P.R. n. 602 del 1973);
viceversa, nell’illecito penale di cui all’art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il presupposto è costituito sia dalla erogazione di somme comportanti l’obbligo di effettuazione deIle ritenute alla fonte (artt. 23 ss. d.P.R. n. 600 del 1973) e di versamento deIle stesse all’Erario con le modalità stabilite dall’art. 3 d.P.R. n. 60 del 1973), sia iI rilascio al soggetto sostituito di un certificazione attestante l’ammontare complessivo delle somme corrisposte e delle ritenute operate nell’anno precedente (v. art. 4, commi 6-ter e 6-q ater, d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322); la condotta omissiva si concretizza nel mancato versamento, per un ammontare superiore a Euro cinquantamila, delle ritenute complessivamente operate nell’anno di imposta e risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti; il termine per l’adempimento è individuato in quello previsto (in riferimento all’epoca dei fatti, 30 settembre ovvero 31 ottobre, a seconda dell’utilizzo del Modello 770 semplificato o – come avvenuto nel caso di specie – del Modello 770 ordinario: art. 4 d.P.R. n. 332 del 1998) per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta relativa a l’anno precedente.
Pur nella comunanza di una parte dei presupposti (erogazione di somme comportanti l’obbligo di effettuazione delle ritenute alla fonte e di versamento delle stesse all’Erario con le modalità stabilite) e della condotta (omissione di uno o più dei versamenti mensili dovuti), gli elementi costitutivi dei due illeciti divergono in alcune componenti essenziali, rappresentate in particolare: dal requisito della “certificazione” delle ritenute, richiesto per il solo illecito penale; dalla soglia minima dell’omissione, richiesta per il solo illecito penale; dal termine di riferimento per l’assunzione di rilevanza dell’omissione, fissato, per l’illecito amministrativo, al giorno quindici (poi passato al sedici) del mese successivo a quello di effettuazione delle ritenute, e coincidente, per l’illecito penale, con quello previsto per la presentazione (entro le date del 30 settembre ovvero del 31 ottobre) della dichiarazione annuale di sostituto di imposta relativa al precedente periodo d’imposta;
- c) la conclusione assunta in ordine al rapporto sussistente, in via generale, fra le diposizioni in discorso non si pone in contrasto con l’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU, né con l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che sanciscono il principio del ne bis in idem in materia penale.
Anzitutto – chiosa il Collegio – nella specie, come si è visto, non si può parlare di identità del fatto; in ogni caso, poi, il principio suddetto si riferisce solo ai procedimenti penali e non può, quindi, riguardare l’ipotesi dell’applicazione congiunta di sanzione penale e sanzione amministrativa tributaria (in tal senso, espressamente, Corte di giustizia U.E., 26/02/2013, Aklagaren c. Hans Akerberg Franssen) (principio ribadito dalla Corte anche successivamente alla pronuncia della Corte E.D.U. nel procedimento Grande Stevens c/Italia; cfr., sul punto, Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, Zanchi);
- d) il reato in esame è punibile a titolo di dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, non essendo richiesto che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo, specifico, di evadere le imposte; la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine lungo previsto;
- f) il debito verso il Fisco è collegato al pagamento delle retribuzioni. Ogni qualvolta il sostituto d’imposta effettua tali pagamenti insorge a relativo carico l’obbligo di accantonare le somme dovute all’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere l’obbligazione tributaria. L’introduzione della norma penale, stabilendo nuove condizioni e un nuovo termine per la propria applicazione, estende evidentemente la detta esigenza di organizzazione su scala annuale.
Non può, quindi, essere invocata, per escludere a colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta (protrattasi, in sede di prima applicazione della norma, nel 2005) di non far debitamente fronte alla esigenza predetta.
Sviluppando e riprendendo – chiosa a questo punto la Corte – il tema della «crisi di liquidità» d’impresa quale fattore in grado di escludere la colpevolezza, tema solo accennato nella citata sentenza delle Sezioni Unite, la Corte medesima ha ulteriormente precisato che è necessario che siano assolti, sul punto, precisi oneri di allegazione che devono investire non solo l’aspetto della non imputabilità al contribuente della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non potesse essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure da valutarsi in concreto.
Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il proprio patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla relativa volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055).
Occorre però, per il Collegio, sgombrare definitivamente il campo da un equivoco di fondo che rischia di alterare la corretta impostazione dogmatica del problema: per la sussistenza del reato in questione non è richiesto il fine di evasione, tantomeno l’intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto.
Quando il legislatore ha voluto attribuire all’elemento soggettivo del reato il compito di concorrere a tipizzare la condotta e/o quello di individuare il bene/valore/interesse con essa leso o messo in pericolo, lo ha fatto in modo espresso, escludendo, per esempio, dall’area della penale rilevanza le condotte solo eventualmente (e dunque non intenzionalmente) volte a cagionare l’evento (art. 323, cod. pen., artt. 2621, 2622, 2634, cod. civ., art. 27, comma 1, d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39), incriminando, invece, quelle ispirate da un’intenzione che va oltre la condotta tipizzata (i reati a dolo specifico).
Il dolo del reato in questione è integrato dunque, per la Corte, dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della relativa illiceità, non richiedendo la norma, quale ulteriore requisito, un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto con il precetto violato.
Gli argomenti utilizzati dal ricorrente a sostegno della fondatezza della oggettiva impossibilità di adempiere appaiono dunque alla Corte, alla luce della considerazioni che precedono, frutto di un’operazione dogmaticamente errata che tende ad attrarre nell’orbita del dolo generico requisiti che, per definizione, non gli appartengono e che si collocano piuttosto nell’ambito dei motivi a delinquere o che ne misurano l’intensità (art. 133 cod. pen.).
La scelta di non pagare – precisa il Collegio – prova (già di per sé) il dolo; i motivi della scelta non lo escludono.
L’oggettiva impossibilità di adempiere può per il Collegio avere riIevanza solo se integra una causa di forza maggiore che, come noto, esclude la suitas della condotta. Secondo l’impostazione tradizionale, è la «vis cui resisti non potest», a causa della quale l’uomo «non agit sed agitur» (Sez.1, n. 900 del 26/ 0/1965, Sacca, Rv. 100042; Sez. 2, n. 3205 del 20/12/1972, Pilla, Rv. 123904; Sez. 4, n. 8826 del 21/04/1980, Ruggieri, Rv. 145855).
Per questa ragione, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, la forza maggiore rileva come causa esclusiva dell’evento, mai quale causa concorrente di esso (Sez. 4, n. 1492 del 23/11/1982, Chessa, Rv. 157495; Sez. 4, n. 1966 del 06/12/1966, Incerti, Rv. 104018; Sez. 4 n. 2138 del 05/12/1980, Biagini, Rv. 148018); essa sussiste solo e in tutti quei casi in cui la realizzazione dell’evento stesso o la consumazione della condotta antigiuridica sia dovuta all’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando, e mai quando egli si trovi già in condizioni d illegittimità (Sez 4, n. 8089 del 13/0571982, Galasso, Rv. 155131; Sez. 5, n. , 513 del 26/03/1979, ,Geiser, Rv. 14213; Sez. 4, n. 1621 del 19/01/1981, Rv. 17858; Sez. 4 n. 284 deI 18/92/1964, Acchiarld , Rv. 099191).
Poiché la forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente medesimo, la Suprema Corte rammenta di avere sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante. (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880; Sez 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. i n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv. 165822).
Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati omissivi integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990, Iannone, Rv. 184856), che deve sussistere al momento della consumazione del reato (che si perfezione con la inutile scadenza del termine), non un attimo prima, né un attimo dopo.
Ne consegue che: a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perché non esclude la suitas della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare Ia forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dal mancato pagamento alla singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità; d) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla relativa volontà e che sfuggono al relativo dominio finalistico.
Si deve rimarcare peraltro, prosegue la Corte, in linea con quanto già aveva ricordato la sentenza Sez. U, Favellato, che le somme ritenute dal sostituto di imposta e mai versate costituiscono parte integrante della retribuzione lorda o del compenso dovuto al sostituito e, in quanto retribuzione/compenso, voce di costo per l’impresa, deducibile, come spesa o componente negativo di reddito, ai sensi degli artt. 95 e 109, d.P.R. n. 917 del 1986); si tratta di somme che sono nella piena disponibilità del sostituto di imposta che la destina ad altri scopi.
Ne consegue che, nel caso di omesso versamento delle ritenute certificate, l’impossibilità di adempiere è difficilmente giustificabile, ai sensi dell’art. 45 c.p., sia con la decisione di distrarre ad altri scopi il denaro che è di pertinenza dl sostituito, e che tuttavia resta nelle mani del sostituto proprio perché si tratta di somme dovute all’Erario, sia con la mancanza della provvista necessaria al pagamento.
Il meccanismo della sostituzione di imposta è strumentale all’esigenza di garantire allo Stato il pagamento di quanto gli è dovuto; quando il sostituto “tradisce” la relativa funzione di garanzia appropriandosi di fatto del denaro liquido di pertinenza del sostituito ed utilizzandolo ad altri fini, tale scelta esclude la causa di forza maggiore che per esser tale, come detto, agendo dall’esterno, deve essere subìta dall’autore del reato il quale, da “dominus” dell’azione pertinente, si trasforma in inanimata causa fisica dell’evento ineluttabile (e ciò, come detto, senza considerare che la retribuzione lorda costituisce elemento negativo di reddito che concorre a determinare l’imponibile diminuendolo).
Si tratta dunque di una pronuncia assai rigorosa nell’escludere la ricorrenza della forza maggiore al cospetto di reati a struttura omissiva propria, massime se avvinti alla materia tributaria e ai connessi interessi erariali dello Stato, e che esclude recisamente l’operare di una scusante in termini di inesigibilità di una condotta diversa rispetto a quella, omissiva, concretamente tenuta dal soggetto agente.
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Il 26 novembre viene pubblicata l’informazione provvisoria n.22 delle SSUU penali della Cassazione, che avvisa come sia stato deciso – salva successiva pubblicazione del pertinente iter motivazionale – che la causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 1, del Codice penale è applicabile al convivente more uxorio.
Nella nota le SU precisano di avere dunque risposto affermativamente alla questione controversa ad esse sottoposta, concernente – per l’appunto – l’applicabilità, anche al convivente di fatto, della causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 1, c.p., prevista per i casi di cui agli articoli 361, 362, 363, 364, 365, 366, 369, 371-bis, 371-ter, 372, 373, 374 e 378 – e quindi dei reati di omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio, omessa denuncia aggravata, omessa denuncia di reato da parte del cittadino, omissione di referto, rifiuto di uffici legalmente dovuti, autocalunnia, false informazioni al pubblico ministero, false dichiarazioni al difensore, falsa testimonianza, falsa perizia o interpretazione, frode processuale e favoreggiamento personale – per chi abbia commesso il fatto essendovi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
Stanti le plurime prese di posizione in senso opposto della Corte costituzionale, si profila un possibile contrasto tra questo decisum delle SSUU della Cassazione e l’impostazione opposta tradizionalmente assunta, al contrario, dal Giudice delle Leggi che, se dovesse confermare il proprio orientamento rigoroso, finirebbe con l’escludere una valenza erga omnes della assimilazione – in termini di “scusabilità” ex art.384 c.p. – del convivente more uxorio al coniuge la quale opererebbe invece, caso per caso, in forza di singole decisioni giurisdizionali.
2021
Il 26 gennaio esce l’ordinanza della VII sezione della Cassazione n.3059 che rammenta come la giurisprudenza di legittimità abbia stabilito che – al fine di individuare la sussistenza del giustificato motivo, idoneo ad escludere la configurabilità in capo allo straniero del reato di inosservanza all’ordine del Questore di lasciare il territorio dello Stato – le ragioni che, in base all’art. 14, comma 1, D. Lgs. n. 286 del 1998, legittimano la Pubblica Amministrazione a non procedere all’esecuzione dell’espulsione con accompagnamento coattivo dello straniero alla frontiera (cioè la necessità di soccorso, la difficoltà nell’ottenimento dei documenti per il viaggio, l’indisponibilità del vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo) costituiscono indici di riconoscimento della inesigibilità della condotta richiesta allo straniero medesimo, in applicazione del principio “ad impossibilia nemo tenetur“.
In particolare, costituisce giustificato motivo l’inadempimento conseguente o alle condizioni di assoluta impossidenza dello straniero il quale non possa recarsi nel termine alla frontiera né acquistare il biglietto di viaggio, o al mancato rilascio, da parte della competente autorità consolare, dei documenti necessari, peraltro sollecitamente richiesti dallo straniero stesso (Sez. 1, n. 40827 del 05/02/2019, Pg in proc. Markovic, Rv. 277449; Sez. 1, n. 30779 del 7/7/2006, Pg in proc. Farina Fontan, Rv. 234883).
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Il 3 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.4261 in tema di omesso versamento di imposte, secondo la quale è innanzi tutto pacifico che nel caso di specie siano state operate dall’imprenditore scelte diverse, magari anche teoricamente tese al rilancio ovvero alla conservazione aziendali, rispetto a quella di adempiere al debito fiscale, per cui non può affermarsi che sia venuta meno la piena consapevolezza di violare il precetto omettendo il pagamento dovuto.
Ai fini infatti della sussistenza del reato non è richiesto il fine di evasione, tantomeno l’intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto, il dolo del reato in questione essendo integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della relativa illiceità, non richiedendo la norma, quale ulteriore requisito, un atteggiamento anti-doveroso di volontario contrasto con il precetto violato.
D’altro canto, prosegue il Collegio, quanto al preteso dubbio circa la sussistenza di una “forza maggiore” impeditiva di differenti determinazioni, essa si configura come un evento, naturalistico o umano, che fuoriesce dalla sfera di dominio dell’agente e che è tale da determinarlo incoercibilmente (vis maior cui resisti non potest) verso la realizzazione di una determinata condotta, attiva od omissiva, la quale, conseguentemente, non può essergli giuridicamente attribuita (in questa direzione Sez. 5, n. 23026 del 03/04/2017, Mastrolia, Rv. 270145).
In particolare, occorre la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il relativo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, tra l’altro in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla propria volontà e ad allo stesso non imputabili.
In altre parole, la forza maggiore sussiste per la Corte solo e in tutti quei casi in cui la realizzazione dell’evento stesso o la consumazione della condotta antigiuridica è dovuta all’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando, e non può quindi ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente. In tal modo è stato sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880; Sez. 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv. 165822).
Nei reati omissivi integra pertanto la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990, Iannone, Rv. 184856). Sì che: a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perché non esclude la suitas della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare la forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dai mancati accantonamenti e dal mancato pagamento alla singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità; d) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore, che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico.
Il provvedimento impugnato ha così invece evocato la realizzazione di altre scelte imprenditoriali, laddove le vicissitudini lamentate appaiono legate all’ineludibile rischio d’impresa (cfr. Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, Zanchi, Rv. 259190; cfr. altresì, ad es., Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi, Rv. 263128).
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Il 17 marzo esce l’’importantissima sentenza delle SSUU n.10381 alla cui stregua l’art. 384, primo comma, cod. pen., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
La Sezione rimettente – principia il Collegio – ha correttamente rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale avente ad oggetto l’ambito applicativo dell’art. 384, primo comma, cod. pen., con riferimento alla possibilità di farvi rientrare anche i casi di convivenze di fatto.
L’orientamento, allo stato prevalente, che esclude l’applicabilità dei casi di non punibilità previsti dalla norma in questione alle situazioni di convivenza more uxorio, giustifica tale soluzione in base ad almeno tre ordini di ragione.
Innanzitutto, si ritiene determinante l’espresso riferimento contenuto nell’art. 384 cod. pen. ai “prossimi congiunti“, la cui definizione è offerta dall’art. 307, quarto comma, cod. pen., disposizione generale all’interno del codice penale, che identifica la categoria dei prossimi congiunti esclusivamente nel coniuge, oltre che negli ascendenti, discendenti, fratelli, affini nello stesso grado, zii e nipoti, senza ricomprendervi il convivente.
In questo modo la nozione di prossimi congiunti viene ricondotta esclusivamente ai membri della famiglia fondata sul matrimonio, negando ogni possibile parificazione della convivenza more uxorio (in questo senso, Sez. 2, n. 7684 del 09/03/1982, Turatello, Rv. 154880; Sez. 6, n. 6365 del 20/02/1988, Melilli, Rv. 178467; Sez. 1, n. 9475 del 05/05/1989, Creglia, Rv. 181759; Sez. 6, n. 132 del 18/01/1991, Izzo, Rv. 187017; Sez. 2, n. 20827 del 17/02/2009, Agate, Rv. 244725, Sez. 5, n. 41139 del 22/10/2010, Migliaccio, Rv. 248903).
In secondo luogo, le decisioni che formano oggetto di questo indirizzo interpretativo escludono l’assimilabilità del rapporto di fatto al vincolo coniugale e, richiamando la giurisprudenza costituzionale che in più occasioni ha ritenuto infondate le questioni di costituzionalità dell’art. 384 cod. pen., sottolineano la diversità tra il rapporto coniugale, caratterizzato da stabilità e reciprocità di diritti e doveri, e la convivenza di fatto, fondata, invece, su una affectio che può essere revocata in ogni momento, evidenziando, inoltre, la differente tutela riservata alle due situazioni dalla stessa Costituzione, che solo nell’art. 29 riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, mentre la famiglia di fatto viene presa in considerazione sulla base dell’art. 2 Cost. (cfr., Corte cost. n. 8 del 1996 e n. 121 del 2004).
Proprio sulla base di questi argomenti – prosegue il Collegio – la Corte ha ritenuto inammissibile la questione di costituzionalità dell’art. 384 cod. pen., sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., tenendo conto della diversa copertura costituzionale del rapporto di convivenza e di quello coniugale, rilevando come la piena assimilazione di tali situazioni rientri nelle scelte discrezionali del legislatore (Sez. 6, n. 35967 del 28/09/2006, Cantale, Rv. 234862).
L’esclusione dell’equiparazione sul piano interpretativo del convivente al coniuge, in vista dell’applicabilità della causa di non punibilità ai sensi dell’art.384 cod. pen., viene motivata evidenziando anche le conseguenze in malam partem di una tale operazione, conseguenze rinvenibili in tutti quei casi in cui il vincolo familiare rileva per la configurabilità di taluni reati, come ad esempio quelli previsti dagli artt. 570, 577, secondo comma, n. 1, 605, primo comma , n. 1, cod. pen.
Infine, prosegue la Corte, l’esclusione della estensibilità fa leva sulla qualificazione della norma come causa di non punibilità che, in quanto norma eccezionale, non può essere applicata analogicamente (in questo senso si esprime anche l’ordinanza di rimessione).
Si sostiene che spetterebbe sempre al legislatore prevedere l’estensione della non punibilità attraverso un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse, sicché andrebbe operato un confronto tra «l’esigenza della repressione di delitti contro l’amministrazione della giustizia, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall’altro», rilevando come non possa dirsi «che i beni di quest’ultima natura debbano avere necessariamente lo stesso peso a seconda che si tratti della famiglia di fatto o della famiglia legittima, per la quale sola esiste un’esigenza di tutela non solo delle relazioni affettive, ma anche dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità».
Per queste ragioni si assume che debbano ritenersi legittime soluzioni legislative differenziate con riferimento alla causa di non punibilità di cui all’art. 384 cit. (così, Sez. 5, n. 41139 del 22/10/2010, Rv. 248903, nonché Sez. 2, n. 20827 del 17/02/2009, cit.; in termini analoghi, Sez. 1, n. 9475, del 05/05/1989, cit.; Sez. 6, n. 6365 del 20/02/ 1988, cit. e Sez. 2, n. 7684 del 09/03/1982, cit.), non essendo consentito al giudice ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l’analogia (Sez. 3, n. 38593 del 23/01/2018, Del Stabile, Rv. 273833).
Da ultimo, si è sottolineato il rilievo che deve essere attribuito al recente intervento legislativo con cui, a seguito della riforma che ha disciplinato le unioni civili tra persone dello stesso sesso e regolamentato le convivenze (legge 20 maggio 2016, n. 76, c.d. legge Cirinnà), è stata espressamente ampliata la cerchia dei “prossimi congiunti” di cui all’art. 307, quarto comma, cod. pen., ricomprendendovi i soggetti uniti civilmente, ma non anche i conviventi di fatto (d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6): secondo l’ordinanza di rimessione, si sarebbe trattato di una scelta ben precisa del legislatore, non di una semplice “svista“, dal momento che la legge delega non lasciava alcun margine per includere anche i conviventi di fatto nell’art. 307 cit.
L’orientamento favorevole all’estensione della causa di non punibilità anche al convivente more uxorio – prosegue a questo punto la Corte – si è sviluppato più di recente ed annovera un minor numero di decisioni. La prima in ordine temporale è Sez. 6, n. 22398 del 22/01/2004, Esposito, Rv. 229676, che però afferma il principio della applicabilità dell’art. 384 cod. pen. al convivente senza un particolare approfondimento, prospettando una possibile applicazione analogica della causa di non punibilità.
Più articolato è il ragionamento condotto da Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino, Rv. 264630: in questo caso la Corte di cassazione, disattendendo la soluzione offerta dalla precedente sentenza Esposito, riconosce che l’art. 384 cod. pen., in quanto causa speciale di non punibilità, ha natura di norma eccezionale che, quindi, non può ricevere un’applicazione analogica, e si basa, invece, su una lettura aperta delle nozioni di famiglia e di coniugio, sottolineando come oggi termini come “matrimonio” e “famiglia” hanno un significato diverso e più ampio rispetto a quello risalente all’epoca dell’entrata in vigore del codice penale, evidenziando, inoltre, come «la stabilità del rapporto, con il venire meno dell’indissolubilità del matrimonio, non costituisce più una caratteristica assoluta e inderogabile ed anzi spesso caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio».
La sentenza registra una vistosa contraddizione nella stessa giurisprudenza di legittimità, che, da un lato, nega l’equiparazione tra famiglia di fatto e famiglia legittima, dall’altro, invece, attribuisce rilievo alla convivenza: questa giurisprudenza ondivaga, anche quando è produttiva di effetti in malam partem, come è avvenuto ritenendo configurabile il reato di maltrattamenti anche nel caso in cui la condotta delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente (prima dell’ultima modifica dell’art. 572 cod. pen.), ha fornito comunque una nozione “moderna” di famiglia, intesa come un consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e di solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo (tra le tante, Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008, Rv. 239726); lo stesso è accaduto in tema di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, in cui la Corte di cassazione ha preso in considerazione tra i redditi dei familiari anche quello del convivente more uxorio (cfr., nell’ambito di un orientamento consolidato, Sez. 4, n. 109 del 26/10/2005, Curatolo, Rv. 232787).
Analoga tendenza a favore di una assimilazione tra le due tipologie di “famiglia” si è verificata, secondo la sentenza Agostino, nelle interpretazioni che hanno portato ad effetti in bonam partem, ad esempio in materia di riconoscimento dell’attenuante della provocazione e dell’estensione della causa di non punibilità dell’art. 649 cod. pen. al convivente: anche in questi casi la giurisprudenza di legittimità ha valorizzato l’esistenza di un rapporto affettivo che può dar luogo ad una convivenza more uxorio.
Nei due esempi sopra indicati, prosegue il Collegio, l’attenuante della provocazione e la causa di non punibilità ex art. 649 cod. pen. hanno trovato applicazione con riguardo a soggetti legati da un vincolo non matrimoniale, ma comunque caratterizzato da una convivenza duratura, fondata sulla reciproca assistenza e su comuni ideali e stili di vita (cfr., Sez. 6, n. 12477 dl 18/10/1985, Cito, Rv. 171450 e Sez. 4, n. 32190 del 21/05/2009, Trasatti, Rv. 244692).
A sostegno di questa interpretazione estensiva la sentenza Agostino ha invocato anche la nozione di famiglia accolta dall’art. 8 Cedu, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che vi fa rientrare anche i legami di fatto particolarmente stretti, fondati su una stabile convivenza (Corte EDU, 13/06/1979, Marchx c. Belgio; Corte EDU, 13/12/2007, Emonet c. Svizzera). In conclusione, la sentenza in esame, in presenza della «mutevole rilevanza penale della famiglia di fatto emergente dalle applicazioni giurisprudenziali» conclude ritenendo che solo accogliendo una nozione di famiglia e di coniugio in linea con i mutamenti sociali avvenuti negli ultimi anni è possibile «ricondurre il sistema a coerenza, evitando soluzioni che contrastano – prima ancora che con una visione unitaria del tema – con il senso comune».
Alle medesime conclusioni è pervenuta, più recentemente, Sez. 6, n. 11476 del 19/09/2018, Cavassa, Rv. 275206, che per la prima volta ha esaminato la questione relativa alla estensibilità della causa di non punibilità alla luce della nuova normativa introdotta dalla legge 20 maggio 2016, n. 76, che, come è noto, ha istituito l’unione civile tra persone dello stesso sesso e ha, inoltre, offerto una regolamentazione anche per le convivenze di fatto.
La sentenza, preso atto che a seguito della legge n. 76 del 2016 il coordinamento circa le ricadute sul piano penale della nuova disciplina ha riguardato solo le unioni civili, prevedendo, in particolare, l’inclusione, ad opera del d.lgs. n. 6 del 2017, di tale nuova formazione sociale nella nozione di “prossimi congiunti” attraverso la modifica dell’art. 307, quarto comma, cod. pen., nonché l’introduzione, per mezzo dello stesso d.lgs. cit., di una disposizione generale come il nuovo art. 574-ter cod. pen. – che riferisce, agli effetti penali, il termine matrimonio anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso -, senza operare alcun coordinamento dei profili penali con lo statuto delle convivenze more uxorio, ha comunque escluso che i “silenzi” sulle convivenze di fatto attribuibili alla legge n. 76 del 2016 e ai provvedimenti successivi possano «costituire un insormontabile impedimento per estendere a ogni forma di convivenza la disciplina che si ricava, in tema di equivalenza della figura del convivente a quella del coniuge, dal complesso quadro storico-evolutivo della materia».
In sostanza, prosegue la Corte, il riferimento è soprattutto al quadro e ai principi cui è pervenuta quella giurisprudenza di legittimità che, seppure in limitati settori, ha riconosciuto la parificazione giuridica delle convivenze di fatto al coniugio.
Secondo la sentenza in esame «una diversa impostazione, fondata sul dato formale, obiettivamente significativo, ma, tuttavia, non conformata con il sistema normativo di riferimento (…) porta con sé il rischio di implicare – quanto meno con riguardo agli effetti in “bonam partem” – profili di incerta compatibilità costituzionale in punto di diversificazione delle tutele offerte alla parte dell’unione civile rispetto al convivente di fatto».
In altri termini, si assume come la ricerca di una effettiva coerenza all’interno del sistema non può che condurre ad una parità di trattamento, anche sul terreno penale, della famiglia legittima e di quella more uxorio ed è la stessa sentenza a sostenere che, attraverso quella che definisce “interpretazione valoriale“, può essere superato il contrasto con la Costituzione e riconoscere applicabile l’istituto dell’art. 384, primo comma, cod. peri. ai rapporti di convivenza, anche dopo la legge n. 76 del 2016.
Segue l’impostazione della sentenza Cavassa anche Sez. 1, n. 40122 del 16/05/2019, Balice (non mass.), che ai fini della verifica della sussistenza di un effettivo rapporto di convivenza richiama l’art. 1, comma 37, legge n. 76 del 2016, secondo cui per l’accertamento della stabile convivenza deve farsi riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui agli artt. 4 e 13, comma 1, lett. b), del d.P.R. 23 maggio 1989, n. 223.
Possono essere ricomprese in questo secondo orientamento anche Sez. 4, n. 23118 del 21/03/2017, De Paola (non mass.) e Sez. 3, n. 6218 del 12/01/2018, Giacono (non mass.) che si limitano a ribadire, senza ulteriori argomentazioni, le conclusioni della sentenza Agostino.
Nell’ordinanza di rimessione – chiosa il Collegio – questo orientamento viene criticato, riportando le perplessità della dottrina secondo cui il tentativo di operare il superamento della giurisprudenza consolidata rischia di porsi in «tensione con le regole generali dell’interpretazione estendendo oltre il dato letterale una norma eccezionale e tassativa quanto ai soggetti che la possono invocare, tanto da far prospettare (…) un necessario interpello del Giudice delle leggi o un più auspicabile intervento del legislatore».
Prima di procedere all’esame della questione rimessa, appare necessario alla Corte – a questo punto verificare se la fattispecie concreta possa essere comunque risolta attraverso l’applicazione del secondo comma dell’art. 384 cod. pen., così come ipotizzato dalla difesa nella memoria da ultimo depositata.
Tale norma, che prevede una speciale causa di non punibilità in favore, tra l’altro, di soggetti che per legge avrebbero dovuto essere avvertiti della facoltà di astenersi dal rendere informazioni al pubblico ministero o dichiarazioni nel corso delle indagini difensive ovvero testimonianza al giudice, richiamando i corrispondenti reati di cui agli artt. 371-bis, 371-ter e 372 cod. pen. (oltre all’art. 373 cod. pen., che riguarda la falsa perizia), è stata, come noto, dichiarata costituzionalmente illegittima, perché contraria al canone di razionalità delle scelte legislative (art. 3 Cost.), nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni fornite alla polizia giudiziaria da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi a norma dell’art. 199 cod. proc. pen. (Corte cost. n. 416 del 1996).
Con l’aggiunta di questo nuovo caso di non punibilità, per effetto della sentenza costituzionale citata, sono oggi ricomprese nell’art. 384, secondo comma, cod. pen. anche le condotte di favoreggiamento poste in essere attraverso false informazioni rese alla polizia giudiziaria da parte dei soggetti indicati nell’art. 199 cod. proc. pen., tra cui è menzionato espressamente anche il convivente.
E’ evidente – prosegue la Corte – che, se si dovesse ritenere applicabile il secondo comma del citato art. 384, sarebbe superata la questione oggetto della rimessione.
Nondimeno, un tale esito non può trovare spazio per il Collegio nella fattispecie concreta, in quanto deve escludersi che l’imputata dovesse essere avvertita della facoltà di astenersi. Infatti, nel corso delle indagini preliminari l’avvertimento della facoltà di astenersi di cui all’art. 199 cod. proc. pen., che si riferisce alle c.d. dichiarazioni endo-processuali, non è dovuto ai prossimi congiunti – e ai conviventi – del soggetto che non abbia ancora assunto la qualità di indagato (cfr., Sez. 1, n. 41142 del 17/07/2017, Z., Rv. 273971; Sez. 1, n. 16215 del 30/01/2008, Taddeo, Rv. 239497).
Nella specie, F. ha reso informazioni alla polizia giudiziaria nell’immediatezza dell’incidente stradale, in una fase di primissimo accertamento, in cui non vi era alcun elemento indiziario o di mero sospetto che potesse far ritenere sussistente un reato, tanto è vero che le relative dichiarazioni non risultano formalmente verbalizzate dalla polizia giudiziaria, bensì raccolte come “osservazioni delle parti interessate“, cioè come dichiarazioni rese ai fini della responsabilità civile da incidente stradale.
Peraltro, in quella fase non era emerso alcun elemento da cui la polizia giudiziaria avrebbe potuto desumere l’esistenza di un rapporto di convivenza tra F. e T. , tale da giustificare l’avvertimento di cui all’art. 199 cod. proc. per).
L’esame della questione posta dall’ordinanza di rimessione, che ha il proprio fulcro nell’ampiezza applicativa dell’art. 384 cod. pen., si intreccia, necessariamente, con il tema della mancata equiparazione, nel nostro ordinamento, della convivenza more uxorio alla famiglia legittima.
La famiglia di fatto condivide con la famiglia legittima la scelta di una condivisione di un percorso di vita comune, basato sull’affectio, sulla stabilità, sulla convivenza e sulla responsabilità della cura ed educazione dei figli. La differenza attiene alla formalizzazione del rapporto, un elemento che non assume una veste solo convenzionale, ma rappresenta l’esteriorizzazione del diverso atteggiamento che caratterizza le due convivenze, la prima, quella matrimoniale, basata su una dichiarata volontà di assumere reciproci obblighi di “fedeltà, di assistenza morale e materiale e di collaborazione“, la seconda connotata dalla spontaneità di una scelta liberamente revocabile dalle parti.
E’ questa distinzione che impedisce, nelle decisioni della giurisprudenza costituzionale a cui si è già fatto cenno (Corte cost. n. 45 del 1980; n. 237 del 1986; n. 423 e n. 404 del 1988; n. 140 del 2009; n. 138 del 2010), che le due situazioni possano trovare uguale fondamento nell’art. 29 Cost., con la conseguenza che, pur riconoscendo “la rilevanza costituzionale del ‘consolidato rapporto’ di convivenza“, occorre tenerlo distinto dal rapporto coniugale, riconducendo il primo nell’ambito della protezione, offerta dall’art.2 Cost., dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali e il secondo nello schema del citato art. 29.
Le due situazioni non differiscono soltanto in ragione del dato estrinseco della sanzione formale del vincolo, poiché, fermi in ogni caso i diritti e i doveri che ne derivano verso i figli e i terzi, nella dimensione della convivenza di fatto si tende a riconoscere spazio alla soggettività individuale, mentre in quella del rapporto di coniugio si attribuisce maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, intesa cioè come stabile comunità di persone legate da vincoli di solidarietà, di fedeltà e di condivisione su base paritaria.
L’indirizzo che porta a negare l’estensione della causa di non punibilità alle semplici convivenze di fatto, indirizzo a cui sembra ispirata anche l’ordinanza che ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, trova forza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha sempre escluso la irragionevolezza della mancata inclusione nell’art. 384, primo comma, cod. pen. dei conviventi more uxorio, sostenendo, reiteratamente, che una tale questione fuoriuscisse dai limiti delle sue attribuzioni, spettando al legislatore la scelta di operare una simile modifica rientrante nella materia penale (Corte cost., n. 237 del 1986; n. 352 del 1989; n. 8 del 1996; n. 121 del 2004, n. 140 del 2009).
In sostanza, la giustificazione circa la diversa regolamentazione viene rintracciata nella maggiore “stabilità” della famiglia legittima – anche dopo che è venuta meno l’indissolubilità del vincolo coniugale -, considerando che il differente regime della famiglia more uxorio si fonda sulla volontà delle parti, che liberamente decidono di non contrarre matrimonio, optando per una tipologia di unione con minori vincoli giuridici, ma in una comunione materiale e spirituale di vita che può coincidere in ciò che caratterizza il matrimonio stesso.
Si è precisato che «quando il legislatore ha inteso attribuire rilevanza giuridica al rapporto di convivenza, anziché intervenire sulla definizione generale della nozione di “prossimi congiunti” contenuta nell’art. 307, quarto comma, cod. pen. includendovi anche il convivente, ha ritenuto operare scelte selettive e mirate a casi determinati» (così, Corte cost. n. 140 del 2009).
Peraltro, sempre secondo la Corte costituzionale «un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità, la quale assumesse a base la pretesa identità di posizione tra convivente e coniuge, rispetto all’altro convivente o coniuge, avrebbe effetti di sistema eccedenti l’ambito del singolo giudizio di costituzionalità», in quanto l’estensione al convivente del complesso delle norme penali che si riferiscono al rapporto di coniugio avrebbe forti ricadute sull’intero sistema – anche relativamente a disposizioni extrapenali – compresi possibili effetti in malam partem, con conseguenze che solo il legislatore potrebbe regolare attraverso una riforma organica (Corte cost., n. 352 del 2000).
Le decisioni della Corte di cassazione favorevoli ad un allargamento della portata applicativa dell’art. 384 cod. pen. alle coppie di fatto richiamano spesso la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che invece dalle sentenze ascrivibili nell’orientamento contrario, tra cui la stessa ordinanza di rimessione, viene svalutata o, meglio, ritenuta scarsamente significativa.
Invero, chiosa ancora la Corte, anche la Corte EDU, così come la Corte costituzionale, riconosce la discrezionalità del legislatore nel prevedere diverse soglie di tutela dei vincoli discendenti dal matrimonio e dalla convivenza di fatto in relazione alla necessità di proteggere i contro-interessi in gioco.
La Corte EDU, infatti, da un lato riconduce nella sfera applicativa dell’art. 8 CEDU, nella parte in cui protegge la “vita familiare“, la tutela dei vincoli affettivi discendenti dalla convivenza di fatto; dall’altro lato, tuttavia, considera legittima la limitazione di tale diritto in ragione dell’esigenza di tutelare gli interessi connessi all’amministrazione della giustizia penale, riconoscendo altresì la possibilità di bilanciamenti differenziati per le coppie sposate e le convivenze di mero fatto, secondo la discrezionale valutazione del legislatore (cfr., Corte EDU, 03/04/ 2012, Van der Heijdel c. Netherlands).
Risulta interessante rilevare come la vita dei conviventi di fatto rientri nella concezione di vita “familiare” ormai da tempo elaborata dalla Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 8, par. 1, CEDU (cfr., Corte EDU, 13/06/1979, Marckx c. Belgio; Corte EDU, 26/05/1994, Keegan c. Irlanda; Corte EDU, 05/01/2010, Jaremowicz c. Polonia; Corte EDU, 27/04/2010, Moretti e Benedetti c. Italia; Corte EDU, 24/06/2010, Schalk and Kopf c. Austria; da ultimo, Corte EDU, 21/07/2015, Oliari ed altri c. Italia).
L’ambito soggettivo della nozione di “vita familiare” ai sensi dell’art. 8 CEDU include, secondo la giurisprudenza europea, sia le relazioni giuridicamente istituzionalizzate (famiglia legittima), sia le relazioni fondate sul dato biologico (famiglia naturale), sia, infine, quelle che costituiscono “famiglia” in senso sociale, alla condizione che sussista l’effettività di stretti e comprovati legami affettivi.
Una nozione, dunque, dalla portata applicativa assai ampia, senza dubbio più estesa rispetto a quella cui fa riferimento la diversa disposizione normativa dell’art. 12 CEDU (riferibile alla sola famiglia fondata sul matrimonio), che permette alla Corte europea di ricomprendervi sia quest’ultima, sia quella basata sulla relazione di fatto tra conviventi (Corte EDU, 26/05/1994, Keegan c. Ireland; Corte EDU, 18/12/1986, Johnston c. Irlanda, § 55; Corte EDU, 13/06/1979, Marckx c. Belgio; v., inoltre, Corte EDU, 13/12/2007, Emonet ed altri c. Svizzera).
Tuttavia, prosegue la Corte, la prospettiva seguita dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – con le su citate disposizioni di cui agli artt. 8 e 12, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo – non presenta, in relazione alla materia qui esaminata, sostanziali punti di divergenza rispetto alle linee direttrici del modello normativo disegnato nella Costituzione italiana (ex artt. 2 e 29 Cost.), poiché sia nel sistema convenzionale che in quello interno sono riconosciuti, e costituiscono oggetto di tutela, i diritti dei singoli che nascono, si esprimono e si sviluppano all’interno di un nucleo familiare, fatta salva la possibilità di un trattamento non omogeneo correlato alla diversità dei modelli di relazioni familiari, alla luce di un giusto bilanciamento operato, a livello nazionale, fra le legittime istanze di tutela di interessi generali (ad es., sicurezza nazionale, protezione della salute o della morale, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, ecc.) e le esigenze di protezione dei diritti fondamentali della persona (Corte EDU, 07/07/ 1989, Soering c. Regno Unito).
Non è riconoscibile, allora, alcun contrasto nel panorama delle ragioni argomentative che sorreggono i moduli interpretativi utilizzati dalla Corte costituzionale e dalla Corte EDU, poiché sia nel sistema interno che in quello convenzionale le diverse tipologie di unioni familiari rappresentano fenomeni distinti l’uno dall’altro, il cui pacifico riconoscimento, fondato sulla non esclusività della specifica tutela garantita alla famiglia fondata sul matrimonio e, al contempo, sulla consapevolezza della pari dignità delle scelte legate all’avvio di una convivenza senza matrimonio, non determina l’effetto di una generale equiparazione fra modelli che restano comunque diversi e, come tali, non possono essere appiattiti l’uno sull’altro, né fra loro integralmente assimilati.
Invece, chiosa a questo punto il Collegio, un significativo avanzamento nelle possibilità di tutela della molteplicità e varietà delle relazioni di tipo familiare si registra nella più recente previsione normativa dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata dal Parlamento europeo il 14 novembre 2000, formalmente proclamata a Nizza il 7-8 dicembre 2000 e divenuta giuridicamente vincolante (ex art. 6, par. 1, TUE) a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
La su citata disposizione normativa – peraltro rafforzata dall’ulteriore previsione di garanzia dettata nell’art. 33, par. 1, della Carta (secondo cui “è garantita la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale“) – pur ispirandosi al contenuto di altre norme internazionali (ad es., l’art. 12 CEDU, l’art. 23, comma 2, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato dall’Assemblea generale dell’ONU il 16 dicembre 1966, ratificato con I. n. 881/1977, nonchè l’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), che regolano la materia enunciando in forma unitaria il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, presenta una formulazione letterale più ampia, poiché, nel rinviare alle diverse legislazioni nazionali che ne disciplinano l’esercizio, riconosce e garantisce separatamente i due diritti, isolando il diritto di fondare una famiglia dal vincolo matrimoniale stricto sensu inteso e in tal modo creando le condizioni per estenderne la tutela anche in favore di altre forme di relazione familiare.
Il “diritto di sposarsi“, infatti, viene riconosciuto, tra le libertà fondamentali tutelate dal capo secondo, in modo disgiunto rispetto al “diritto di fondare una famiglia“, così realizzando una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto, in quanto la meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso la scelta, del tutto legittima, di convivere senza matrimonio viene riconosciuta e tutelata anche al di fuori della presenza di vincoli formali nei rapporti familiari.
Al tradizionale favor per il matrimonio, come si è osservato in dottrina, si sostituisce in tal modo la pari dignità di ogni forma di convivenza alla quale una legislazione nazionale decida di dare la sua regolamentazione.
Si è visto – prosegue la Corte – come sia nell’ordinanza di rimessione, sia nella memoria dell’Avvocato generale, una delle critiche più “forti” alla possibile estensione dell’art. 384 cit. alle coppie di fatto riguardi la circostanza che il legislatore, con la legge 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. legge Cirinnà), ha introdotto una disciplina per le unioni civili tra persone dello stesso sesso, dettando anche una minima regolamentazione relativa alle convivenze di fatto, senza tuttavia inserire nessuna disposizione riguardante una piena equiparazione tra le due diverse situazioni, riscrivendo l’art. 307 cod. pen. con l’inserimento tra i “prossimi congiunti” anche della «parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso», ma omettendo ogni riferimento alle coppie di fatto e senza “toccare” l’art. 384 cod. pen.
In questo modo, si assume, il legislatore avrebbe manifestato la sua volontà di non operare alcuna equiparazione delle convivenze di fatto, escludendo definitivamente ogni possibile interpretazione estensiva della nozione di “coniuge” che ricomprenda anche il “convivente“.
Come dire che non si è in presenza di una “lacuna” dell’ordinamento, dal momento che il legislatore non vuole alcuna equiparazione, tanto meno ai fini dell’applicazione della scusante ex art. 384 cod. pen. (N, 16 Invero, deve ritenersi che con la legge c.d. Cirinnà il legislatore ha inteso offrire una tutela legale a situazioni affettive mai regolamentate prima, offrendo una disciplina, di fatto, analoga a quella prevista per le famiglie legittime, prevedendo anche le necessarie ricadute penalistiche, con il successivo d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6.
Si è trattato, quindi, di un intervento volto ad occuparsi di situazioni del tutto diverse dalle convivenze di fatto, che, come si è visto, basano la loro unione sulla spontaneità di una scelta liberamente revocabile dalle parti; la disciplina delle “unioni civili” si è basata, invece, proprio sulla richiesta di stabilità del rapporto, sul modello della famiglia legittima.
Il fatto che con la legge del 2016 il legislatore nulla abbia previsto per le convivenze, ad eccezione di un tentativo di definizione e della equiparazione alle coppie coniugate per una serie di profili analiticamente elencati, tra cui l’unico riguardante la materia penale è quello sulla parificazione dei diritti del convivente a quelli del coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario (art. 1, comma 38, legge n. 76 del 2016), per la Corte non può certo significare una implicita contrarietà alla possibilità di riconoscere una serie di diritti in favore delle convivenze more uxorio, né tanto meno alla estensibilità della scusante di cui all’art. 384 cod. pen. al convivente.
Il legislatore, semplicemente, si è occupato di disciplinare le situazioni riguardanti le unioni tra persone dello stesso sesso, avendo ben presente il percorso legislativo e giurisprudenziale che ha condotto verso una tendenziale equiparazione tra la convivenza coniugale e quella more uxorio, ferme restando le differenze di base delle due situazioni.
L’assenza di una legge che disciplini organicamente il fenomeno della convivenza more uxorio non significa che tale modello di relazione ed i relativi effetti giuridici siano sforniti di tutela nel diritto positivo. I numerosi interventi normativi e la stessa evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali hanno consentito, sia pure frammentariamente, di riconoscere ai componenti la famiglia di fatto singole posizioni soggettive meritevoli di tutela analogamente a quelle proprie dei membri della famiglia legittima.
Si pensi sul piano normativo, chiosa ancora la Corte, al tema della filiazione. In questo delicatissimo settore si è stabilito nell’ordinamento una completa identità tra la famiglia matrimoniale e quella non matrimoniale con riguardo al rapporto genitori-figli, che oggi risulta unitariamente disciplinato dagli artt. 315-bis ss. cod. civ., uniche essendo le regola in materia di diritti e doveri del figlio e di responsabilità genitoriale.
Fra le disposizioni normative espressamente riferite ai conviventi devono poi menzionarsi, per la loro oggettiva rilevanza, quelle che consentono:
- a) di richiedere l’interdizione o la nomina di un amministratore di sostegno per il partner (art. 417 cod. civ.);
- b) di ammettere la coppia non coniugata ad avvalersi della procreazione assistita (art. 5 della I. 15 febbraio 2004, n. 40);
- c) di astenersi dal rendere dichiarazioni nel processo penale (art. 199, comma 3, cod. proc. pen., per il convivente dell’imputato);
- d) di presentare domanda di grazia al Presidente della Repubblica in favore del condannato (art. 681 cod. proc. pen.).
Nella medesima linea vanno altresì richiamate, a mero titolo esemplificativo, le disposizioni normative che riguardano la possibilità di adottare ordini di protezione contro gli abusi familiari, pur se commessi da conviventi o in danno di conviventi (legge 4 aprile 2001, n. 154); quella che prevede la rilevanza del periodo di mera convivenza ai fini della verificazione della stabilità della coppia in vista dell’adozione (art. 6, legge n. 149/2001); quelle, infine, dettate dal legislatore in tema di disciplina dei congedi parentali (legge n. 53/2000; d.lgs. n. 151/2001) e di assicurazione sulla responsabilità civile (ex art. 129, comma 2, lett. b), della legge n. 209/2005).
E’ soprattutto nella giurisprudenza, sia civile che penale, che si assiste ad una progressiva e continua tendenza a garantire analoghi diritti alle convivenze di fatto. A titolo esemplificativo, si pensi che la giurisprudenza civile riconosce al convivente separato l’assegnazione della casa familiare, analogamente a quanto si prevede per il coniuge separato o divorziato, in presenza di prole (Sez. civ. 1, n. 10102 del 26/05/2004, Rv. 573134).
L’assegnazione della casa familiare in favore del convivente separato è stata poi normativamente regolata ex art. 337-sexies cod. civ.
Va evidenziato anche l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente “more uxorio” ed il figlio naturale non riconosciuto, a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto coniugale (Sez. civ. 3, n. 12278 del 07/06/2011, Rv. 618134); Sez. civ. 3, n. 23725 del 16/09/2008, Rv. 604690; v., inoltre, Sez. civ. 3, n. 7128 del 21/03/2013, Rv. 625496).
Nella giurisprudenza penale, che più interessa in questa sede, si afferma – chiosa ancora la Corte – un’esplicita equiparazione tra la convivenza coniugale e quella more uxorio a proposito della valutazione della sussistenza dei requisiti per l’ammissione al gratuito patrocinio per i non abbienti. (tra le tante, Sez. 4, n. 15715 del 20/03/2015, Rv. 263153; v., inoltre, Sez. 4, n. 44121 del 20/09/2012, Rv. 253643).
Analoga estensione, ancora, è avvenuta in tema di costituzione di parte civile, ove si è precisato che la lesione di qualsiasi forma di convivenza, purché dotata di un minimo di stabilità tale da fondare una ragionevole aspettativa di un futuro apporto economico, rappresenta legittima causa petendi di un’azione risarcitoria proposta dinanzi al giudice penale competente per l’illecito che ha causato detta lesione (Sez. 4, n. 33305 del 08/07/2002, dep. 04/10/2002, Rv. 222366; Sez. 4, n. 19487 del 05/11/2013, dep. 2014, Rv. 262350).
Ulteriori ampliamenti della tutela penale riconosciuta alla convivenza di fatto sono riscontrabili con riferimento al diritto all’inviolabilità del domicilio, con il riconoscimento anche al convivente dell’esercizio del diritto di esclusione (Sez. 5, n. 6419 del 05/04/1974, Rv. 128059).
Particolarmente rilevante deve poi ritenersi l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità formatasi in merito ai presupposti di configurabilità del reato di cui all’art. 572 cod. pen., che nel perseguire la condotta di colui che “maltratta una persona della famiglia” considera famiglia — sulla base di una pacifica linea interpretativa – non soltanto quella legittima fondata sul matrimonio, ma anche quella di fatto, connotata da un rapporto tendenzialmente stabile, fondato su legami di reciproca assistenza e protezione.
Si è così affermato che sono da considerare persone della famiglia anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di generare figli, di avere beni in comune e di dare vita ad un nucleo stabile e duraturo (v., ex plurimis, Sez. 6, n. 21239 del 24/01/2007, Gatto Rv. 236757; Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008, B., Rv 239726; Sez. 5, n. <24688 del 17/03/2010, B., Rv. 248312; Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472;).
Si tratta di una giurisprudenza risalente già agli anni settanta, che questa volta, nell’equiparare la convivenza al rapporto coniugale vero e proprio, di fatto ha operato una estensione in malam partem, seppur finalizzata alla tutela della vittima del reato, fino a quando il legislatore con la novella del 1 ottobre 2012, n. 172, ha parzialmente riformato la previsione della norma incriminatrice in esame, cambiando la rubrica da “maltrattamenti in famiglia” in “maltrattamenti contro familiari e conviventi“, così precisando che soggetto passivo del reato non è soltanto “una persona della famiglia“, ma “una persona della famiglia o comunque convivente“.
Il legislatore del 2016, con la legge c.d. Cirinnà è, quindi, intervenuto in presenza di un quadro complessivo, normativo e giurisprudenziale, in cui risulta evidente l’interesse di salvaguardare la famiglia, sia legittima che di fatto, come pure, sotto altro e più specifico versante, tutelare l’interesse del soggetto passivo al rispetto della sua personalità nello svolgimento dei rapporti che lo legano, affettivamente, ma non solo, con altra persona con la quale ha istaurato uno stabile rapporto di convivenza e dalla quale può e deve pretendere assoluto rispetto verso condotte che risultino abitualmente lesive della propria integrità fisica o morale.
Un quadro complesso, sicuramente disorganico, che non poteva essere ignorato, sicché il relativo “silenzio” sulle coppie di fatto acquista un significato neutro, spiegabile con l’obiettivo principale della legge di occuparsi delle c.d. unioni civili e con la consapevolezza che le convivenze di fatto non sono certo prive di tutela, anzi sono oggetto di una regolamentazione dovuta, soprattutto, ma non solo, agli interventi della giurisprudenza.
L’ordinamento, dunque, sia pure all’infuori di una visione organica del fenomeno, e procedendo sempre attraverso interventi eterogenei e settoriali posti in essere nelle più varie direzioni, avverte il rilievo delle implicazioni legate alla esigenza di preservare la sostanza delle strutture fondamentali della società, non mancando di valorizzare, entro tale prospettiva, anche le numerose potenzialità applicative sottese alla progressiva introduzione di specifiche forme di garanzia della tendenziale continuità dei rapporti a vario titolo riconducibili al diverso modello della relazione familiare de facto.
Le forme di tutela sinora illustrate, assai spesso ricorrenti nella prassi, confermano la rilevanza assunta dal riconoscimento del carattere “familiare” delle relazioni che si sviluppano all’interno della convivenza di fatto e delle connesse esigenze di protezione che, in quanto “relazioni di famiglia“, ad essa competono.
Tuttavia, l’assenza di una disciplina organica della materia lascia trasparire evidenti incoerenze del sistema, se non veri e propri “effetti paradossali“, alcuni dei quali, nei limiti dell’attività interpretativa, possono essere quantomeno ridotti.
Escluso – chiosa a questo punto il Collegio – che la disciplina introdotta dalla legge c.d. Cirinnà sulle unioni civili, con le successive, conseguenti integrazioni inserite nel codice penale, possano avere l’effetto di “impedire” un’interpretazione estensiva dell’art. 384 cod. pen. alle coppie di fatto e ricostruito il quadro normativo complessivo, così come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale e anche da quella europea, nonché dalla giurisprudenza di legittimità, il Collegio rileva come entrambi gli orientamenti contrapposti, cui si è fatto riferimento nei paragrafi precedenti, sebbene con approcci diversi, diano per scontato il carattere eccezionale della norma contenuta nell’art. 384, primo comma, cod. pen.
Così, la stessa ordinanza che ha rimesso la questione, coerentemente, indica come uno dei principali ostacoli all’estensione applicativa del primo comma dell’art. 384 la natura eccezionale della disposizione, che ne preclude l’applicazione analogica in favore delle coppie di fatto, rifacendosi peraltro alla stessa giurisprudenza costituzionale, secondo cui «l’estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali, comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse confliggenti, in primo luogo quelle che sorreggono la norma derogatoria: un giudizio che è da riconoscersi ed è stato riconosciuto da questa Corte appartenere primariamente al legislatore» (Corte cost., n. 140 del 2009).
Peraltro, anche le sentenze che propongono di estendere l’ambito applicativo dell’art. 384 facendo leva sull’evoluzione normativa, attraverso una lettura aperta dell’istituto della “famiglia” nella Costituzione e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, finiscono per riconoscere il carattere eccezionale della norma in questione (così, Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, Agostino, cit.).
Ebbene, riprende a questo punto la Corte, se si dovesse convenire che siamo in presenza di una disposizione avente natura di norma eccezionale occorrerebbe riconoscere l’estrema difficoltà di operare un’estensione dell’«esimente» al di là del suo tenore letterale, perché si violerebbe il disposto dell’art. 14 delle preleggi.
La questione, invece, deve essere affrontata verificando la natura dell’art. 384, primo comma, cod. pen., attraverso una lettura costituzionalmente orientata che valorizzi l’elemento della colpevolezza e, soprattutto, inserita nell’ambito delle disposizioni penali che regolamentano istituti analoghi.
Sembra definitivamente superato l’orientamento secondo cui l’art. 384, primo comma, cod. pen. contiene una causa di non punibilità in senso stretto, in cui la rinuncia alla pena ubbidisce a ragioni di opportunità politica, che sono del tutto estranee al tema del disvalore oggettivo del fatto o della “situazione esistenziale psicologica dell’agente“, come pure l’altro, meno recente, che qualifica la disposizione come una causa di giustificazione, in cui vengono bilanciati contrapposti interessi, istituto somigliante allo stato di necessità, in cui pure viene esclusa la responsabilità di colui che pone in essere una condotta costretto dalla necessità di evitare un grave nocumento.
Vanno, invece, condivise le riflessioni della dottrina più avvertita che ravvisa nella previsione in esame una causa di esclusione della colpevolezza, meglio una “scusante” soggettiva, che investe la colpevolezza.
Come è noto, vengono ricomprese in questa definizione le ipotesi in cui l’agente pone in essere un fatto antigiuridico, agendo anche con dolo, nella consapevolezza di violare la legge, e in cui l’ordinamento si astiene dal muovergli un rimprovero, prendendo atto che la sua condotta è stata determinata dalla presenza di circostanze peculiari, che hanno influito sulla relativa volontà, sicché non si può esigere un comportamento alternativo.
Con riferimento all’art. 384, primo comma, cod. pen., i legami di natura affettiva che legano l’agente con il prossimo congiunto (sia esso il genitore o il figlio o il fratelli o il coniuge o lo zio o il nipote…) fanno sì che l’ordinamento sceglie di non punire i reati considerati nella disposizione citata quando siano stati realizzati per salvare la libertà o l’onore di un prossimo congiunto.
A queste conclusioni è pervenuta anche la giurisprudenza di legittimità più recente, che in alcune decisioni ha stabilito che l’art. 384, primo comma, cod. pen., esclude la colpevolezza, non l’antigiuridicità della condotta, trattandosi di una esimente «connessa alla particolare situazione soggettiva in cui viene a trovarsi l’agente, che rende inesigibile un comportamento conforme alle norme indicate dal comma 1 dello stesso art. 384» (Sez. 5, n. 18110 del 12/03/2018, Esposito, Rv.273181, in un caso in cui si è negato che l’esimente in questione potesse essere applicata anche al concorrente nel reato commesso dal soggetto non punibile; nello stesso senso, Sez. 6, n. 34543 del 23/05/2019, Germino, non mass.; Sez. 6, n. 15327 del 14/02/2019, Quaranta, Rv. 275320; Sez. 6, n. 51910 del 29/11/2019, Buonaiuto, Rv. 278062; Sez. 6, n. 34777 del 23/09/2020, Nitti, Rv. 280148 che, proprio in tema di favoreggiamento personale, ha precisato che l’art. 384 cod. pen., quale causa di esclusione della colpevolezza e non di esclusione della antigiuridicità della condotta, opera solo nel caso in cui, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, valutate secondo il parametro della massima diligenza esigibile, si presenti all’agente come l’unica in grado di evitare un grave pregiudizio per la libertà o per l’onore proprio o altrui; inoltre, v., Sez. 6, n. 11476 del 19/09/2018, Cavassa, cit., in motivazione).
Si tratta di sentenze che, seppure con motivazioni non sempre dedicate specificamente alla questione, prendono una posizione decisa sulla natura dell’esimente, dando luogo ad un vero indirizzo giurisprudenziale.
Peraltro, analogo orientamento lo si rintraccia anche in decisioni meno recenti che, nel considerare l’art. 384, primo comma, oltre a negarne la natura di causa oggettiva di esclusione dell’antigiuridicità, lo qualificano come un’esimente «basata sul principio dell’inesigibilità di un comportamento diverso, come tale da escludere la colpevolezza» (così, Sez. 1, n. 11855 del 03/07/1980, Mastini, Rv. 146627; nonché Sez. 6, 25/10/1989, Milioto; Sez. 6, 10/02/1997, Puzone).
Infine, su questa stessa linea interpretativa si sono poste le Sezioni Unite (Sez. U, n. 7208 del 29/11/2007, dep. 2008, Genovese, non massimata sul punto), le quali hanno asserito che «coglie certamente nel segno» quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità (ad es., Sez. 6, n. 44761 del 04/10/2001, Mariotti, Rv. 220326) che afferma, concordemente con la dottrina, che l’art. 384 cod. pen. trova la propria giustificazione nell’istinto alla conservazione della propria libertà e del proprio onore (nemo tenetur se detegere) e nell’esigenza di tener conto, agli stessi fini, dei vincoli di solidarietà “familiare” in senso lato, essendo l’intenzione del legislatore quella di riconoscere prevalenti e quindi tutelare i motivi di ordine affettivo.
In questa decisione, le Sezioni Unite hanno affermato che «deve darsi atto della sussistenza di una strettissima connessione tra l’istituto, di natura sostanziale, dell’art. 384 c.p. e la prescrizione processuale contenuta nell’art.199 c.p.p.», dal momento che a fondamento di tali disposizioni vi è la medesima giustificazione e perché la ratio dell’astensione dal rendere testimonianza in capo ai prossimi congiunti dell’imputato, riconosciuta dalla citata norma del codice di rito, va «unanimemente ravvisata proprio nella tutela del sentimento familiare (latamente inteso) e nel riconoscimento del conflitto che può determinare, in colui che è chiamato a rendere testimonianza, tra il dovere di deporre e dire la verità, e il desiderio o la volontà di non danneggiare il prossimo congiunto».
Il riconoscimento alla disposizione di cui al primo comma dell’art. 384 della valenza di causa di esclusione della colpevolezza, comporta che la ragione della non punibilità va ricercata nella «particolare situazione emotiva vissuta dal soggetto», tale da rendere “inesigibile” l’osservanza del comando penale.
Spiega la Corte come a differenza delle cause di giustificazione, in cui la rinuncia alla pena avviene perché, in presenza di quelle situazioni considerate dal legislatore, l’ordinamento non riconosce più l’antigiuridicità della condotta, invece nelle cause di esclusione della colpevolezza (c.d. scusanti soggettive) il disvalore oggettivo della condotta non viene meno, ma l’ordinamento prende in considerazione «i riflessi psicologici della situazione esistenziale che il soggetto si trova a vivere» ed è proprio in considerazione di questa particolare situazione che, come è stato efficacemente detto da autorevole dottrina, «l’ordinamento penale non se la sente di incrudelire con la sua sanzione».
L’art. 384 cod. pen. non si basa su considerazioni di mera opportunità che giustificano la non punibilità, né appare fondato su un bilanciamento di interessi contrapposti, che lo farebbero qualificare come una causa di giustificazione, ma tipizza una situazione oggettiva in cui il procedimento motivazionale del soggetto risulta “alterato“, tanto da poter escludere la colpevolezza attraverso la valorizzazione del coinvolgimento psichico: infatti, l’esimente prevede che il soggetto deve aver commesso il fatto perché costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un nocumento grave che attenti alla libertà o all’onore, presupposti e condizioni che danno rilievo a situazioni che, come già si è detto, determinano una alterazione della “motivabilità” della condotta realizzata dall’agente.
Alla condotta dell’agente, che risulti “motivata” secondo quanto prevede la norma, corrisponde un abbassamento della pretesa statuale, in base alla ratio dell’inesigibilità.
Il superamento di quelle posizioni che attribuiscono alla disposizione in questione natura di causa di non punibilità in senso stretto e il riconoscimento all’esimente in parola della natura di scusante a struttura soggettiva, quindi che investe direttamente la colpevolezza, ha delle importanti ricadute sul piano ermeneutico quando si va a verificarne l’applicabilità ai casi non espressamente considerati.
Il tema è quello della possibilità di applicazione analogica in bonam partem dell’art. 384, primo comma, cod. pen., una volta che sia stata esclusa la relativa natura di causa di non punibilità in senso stretto.
A seguito di un lungo dibattito – prosegue la Corte – oggi può dirsi superata l’opinione che attribuisce al divieto di analogia un carattere assoluto, nel senso che sia rivolto tanto alle norme penali incriminatrici, quanto alle norme di “favore“, funzionale ad assicurare la certezza del comando penale; infatti, il divieto di analogia è finalizzato ad assicurare, più che la certezza, l’esigenza di garantire le libertà del cittadino, libertà che vengono messe in pericolo se si riconosce al giudice il potere di applicare analogicamente – in senso sfavorevole – norme incriminatrici, mentre un tale pericolo non ricorre in presenza di una applicazione di norme di favore.
Il divieto di analogia in materia penale, ricondotto all’art. 25 Cost., del quale si sottolinea, appunto, la dimensione garantistica, non si riferisce all’intera materia penale, ma si rivolge alle sole disposizioni punitive: in sostanza, si esclude che vi siano impedimenti di carattere costituzionale che consentano operazioni di interpretazione analogica che operino nel senso di un restringimento dei confini di ciò che è penalmente rilevante, ammettendo l’esperibilità di un intervento analogico in bonam partem.
In sostanza, l’art. 25, comma 2, Cost. proibisce solo l’analogia in malam partem.
Si tratta di posizioni condivise dalla giurisprudenza di legittimità che considera l’interpretazione analogica in bonam partem pacificamente ammessa nel campo penale (tra le tante, Sez. 5, n. 10054 del 22/05/1980, Taormina, Rv. 146121).
Riconosciuto il carattere “relativo” del divieto di analogia, riferito alla sola interpretazione delle norme penali sfavorevoli, occorre verificare i limiti di un’interpretazione analogica in bonam partem, in presenza di una disposizione generale, come l’art. 14 preleggi, che esclude comunque l’applicazione analogica delle leggi eccezionali.
In altri termini, si tratta di vedere se anche l’interpretazione analogica in bonam partem sia ostacolata in presenza di leggi eccezionali. Si è visto che proprio il riconoscimento all’art. 384, primo comma, cod. pen., della natura di norma di carattere eccezionale ha costituito una delle ragioni prevalenti per far negare alla Corte costituzionale (sent. n. 140 del 2009) la possibilità di applicazione dell’esimente alle coppie di fatto, impostazione seguita, in parte, dalla giurisprudenza di legittimità e ripresa in questo processo anche nell’ordinanza di rimessione nonché nella memoria dell’Avvocato generale.
Tradizionalmente sono ritenute eccezionali quelle norme che introducono discipline derogatorie rispetto alla portata di leggi generali, sebbene in questo caso il rapporto che viene a stabilirsi è tra legge speciale e legge generale; più corretta appare l’impostazione, suggerita da un’attenta e autorevole dottrina, che individua la disposizione eccezionale là dove deroga ad un principio generale dell’ordinamento.
Dall’eccezionalità della norma deriva l’impossibilità di attivare il procedimento di interpretazione analogica. Le cause di non punibilità in senso stretto, in quanto norme eccezionali, sono considerate escluse dall’applicazione analogica. In questo caso, l’esclusione del ricorso all’analogia è affermato in quanto esse derivano il carattere eccezionale dal fatto che sono «riconducibili a valutazioni di opportunità estrinseche rispetto al fatto di reato».
Al contrario, si ritiene che non abbiano carattere eccezionale le cause di giustificazione e quelle di esclusione della colpevolezza, per le quali può riconoscersi uno spazio per l’applicazione analogica.
In particolare, per le scusanti si ritiene che possa negarsi la natura di norme eccezionali ogni qualvolta siano espressione di un principio generale dell’ordinamento, sebbene non manchino opinioni contrarie, secondo cui le «eventuali lacune in materia di scusanti possono essere colmate solo dal legislatore e non dal giudice in via analogica», opinioni che, d’altra parte, non sono condivise da chi sottolinea come la stessa “inesigibilità” sia una causa generale di esclusione della colpevolezza.
Si è visto che la disposizione dell’art. 384, primo comma, cod. pen., non può essere considerata come una causa di non punibilità in senso stretto, ma piuttosto una scusante soggettiva, che investe la colpevolezza, impedendo la punizione in presenza di una condotta che viene percepita come inesigibile. Queste – per la Corte – caratteristiche portano ad escludere la valenza eccezionale della norma – così come intesa dall’art. 14 preleggi — che non introduce una deroga alle norme generali e che può essere oggetto di un procedimento di applicazione analogica proprio perché espressione dei principi generali nemo tenetur se detegere e ad impossibilia nemo tenetur, riconducibili al principio di colpevolezza di cui all’art. 27, comma 1, Cost., sotto il profilo della necessaria valutazione della possibilità per il soggetto di poter agire diversamente.
L’esimente in questione costituisce manifestazione di un principio immanente al sistema penale, quello cioè della “inesigibilità” di una condotta conforme a diritto in presenza di circostanze particolari, tali da esercitare una forte pressione sulla motivazione dell’agente, condizionando la sua libertà di autodeterminazione. Nel nostro ordinamento è ben presente il principio generale volto ad escludere che possa esservi una condotta colpevole in presenza di un precetto penale che non risulti esigibile. La causa di esclusione della colpevolezza di cui al citato art. 384 è espressione del principio generale contenuto nell’art. 27 Cost. (Corte cost. n. 364 del 1988), tale da giustificare un’applicazione analogica nei “casi simili“.
Una volta riconosciuta all’art. 384, primo comma, cod. pen. la natura di scusante soggettiva ed esclusa di conseguenza ogni valenza eccezionale della disposizione stessa, la relativa applicazione anche alle coppie di fatto trova per il Collegio piena giustificazione.
Una giustificazione la cui legittimazione trova forza non solo nel complessivo quadro normativo e giurisprudenziale cui si è fatto riferimento – univocamente diretto a offrire una piena tutela alle situazioni di convivenza di fatto -, quanto piuttosto nella stessa struttura, funzione e natura della disposizione in esame.
Va riconosciuto che nella specie l’applicazione della scusante al “convivente” si pone in linea proprio con la ratio della causa di esclusione della colpevolezza. Insomma, si tratta di operare una interpretazione di una norma di favore concernente la colpevolezza in piena conformità alla ratio della scusante stessa, che determina una lettura “analogica” della norma che le consente di esplicare tutta la propria portata con coerenza e razionalità.
Infatti, in presenza di una scusante basata su una situazione soggettiva della persona chiamata a rendere una dichiarazione all’autorità giudiziaria ovvero a fornire indicazioni alla polizia giudiziaria contro un proprio parente, che si trovi dinanzi alla alternativa – che può risultare drammatica – tra l’adempimento di un dovere sanzionato penalmente e la protezione dei propri affetti, risulta del tutto “incoerente” negare che non ricorra la medesima condizione soggettiva, sia che si tratti di persone coniugate, sia che si tratti di persone conviventi. In entrambi i casi il conflitto interiore è identico.
In entrambi i casi l’art. 384 cit. considera inesigibile la condotta oggetto della norma penale violata, per mancanza della “colpevolezza” dell’agente. D’altra parte, l’art. 384, primo comma, cod. pen. più che funzionale alla tutela dell’«unità familiare», appare volto a garantire il singolo componente che si trovi nell’alternativa di porre in essere un reato ovvero di non nuocere a un prossimo congiunto. In questo senso, si è evidenziato come la disposizione sia posta a «tutela del singolo familiare sull’interesse della collettività e dello Stato alla punizione».
La ratio corrisponde perfettamente a quella dell’art. 199 cod. proc. pen., come hanno evidenziato le Sezioni Unite (sent. n. 7208 del 29/08/2007, Genovese, cit.), riconoscendo che l’art. 384 cod. pen. si ricollega al principio generale dell’ordinamento nemo tenetur se detegere, allo scopo di salvaguardare i vincoli di solidarietà “familiare“, scopo che ha di mira anche l’art. 199 cit., relativo alla facoltà di astensione dei prossimi congiunti dell’imputato dal rendere testimonianza.
Anche nella disposizione processuale l’oggetto della tutela è il “sentimento affettivo“, la motivabilità dell’agente, in presenza di un conflitto interiore tra rendere una dichiarazione pregiudizievole per il “parente” e non danneggiarlo. Una simile lettura del rapporto tra le due norme citate e dell’inserimento di esse nella tematica della “famiglia“, trova conferma anche nella sentenza n. 352 del 2000 della Corte costituzionale, secondo cui «la disposizione del codice di rito sancisce la prevalenza delle relazioni affettive familiari sull’interesse della collettività alla punizione dei reati, ma in un’ottica di preminente salvaguardia del membro della famiglia, chiamato a rendere testimonianza, al quale è riconosciuta la facoltà (…) di sottrarsi al relativo obbligo e, così, all’alternativa fra deporre il falso o nuocere al congiunto».
Può dirsi che l’art. 199 cod. proc. pen. acquista una funzione di indirizzo interpretativo in ordine alla estensione della scusante prevista dall’art. 384 alle coppie di fatto, considerato che la facoltà di astensione è riferita anche a chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, conviva o abbia convissuto con lui. Il mancato riconoscimento dell’estensione della scusante di cui all’art. 384, primo comma, cod. pen., anche al convivente determinerebbe un problematico rapporto con il secondo comma dello stesso articolo, dal momento che il convivente more uxorio, sebbene gli sia riconosciuto, come per il coniuge, il diritto all’avvertimento in funzione dell’astensione di cui all’art. 199 cod. proc. pen., con conseguente non punibilità in caso di omissione, non sarebbe invece tutelato nell’ipotesi prevista dal primo comma in cui abbia posto in essere un comportamento che sia ritenuto inesigibile.
Insomma, l’art. 384, primo comma, così come l’art. 199 cod. proc. pen., è volto a tutelare la libertà del singolo componente della “famiglia“.
Ciò avviene valorizzando il coinvolgimento psicologico dell’agente, dando rilievo alla situazione di conflitto che altera “il procedimento di motivabilità“, che coinvolge la sfera della “colpevolezza“. La struttura, la funzione e la natura della scusante dell’art. 384, primo comma, così come ricostruita, consente di concludere riconoscendo una assoluta parità delle situazioni in cui possono venirsi a trovare il coniuge e il convivente, nel senso che l’esistenza di un conflitto determinato da sentimenti affettivi, non può essere valutato differentemente a seconda che l’unione tra due persone sia fondata o meno sul vincolo matrimoniale.
Affermata la possibilità di applicare “analogicamente” la causa di esclusione della colpevolezza anche nei confronti di chi abbia commesso uno dei reati indicati nell’art. 384, primo comma, cod. pen. per “salvare” il convivente di fatto, ne deriva la necessità che la situazione di “convivenza” risulti in base ad elementi di prova rigorosi.
La dimostrazione della ricorrenza della situazione della convivenza potrà essere dimostrata anche dall’imputato, attraverso allegazioni da cui risultino elementi specifici che pongano il giudice in condizione di accertarne l’esistenza. Riguardo ai caratteri della “convivenza“, la legge n. 76 del 2016 definisce conviventi due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, di fatto utilizzando i risultati di una consolidata giurisprudenza civile e anche penale, che richiede la sussistenza di un grado di stabilità e di continuatività del legame affettivo, in qualche modo assimilabile al rapporto coniugale.
A seguito della citata legge del 2016 la stabilità della convivenza può oggi essere accertata anche attraverso la dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4 e alla lettera b) del comma 1 dell’art. 13 del regolamento di cui al d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, dichiarazione che, secondo alcuni, avrebbe istituito il nuovo genere di coppie di fatto “registrate“, sebbene sia discussa la valenza costitutiva di tale dichiarazione, tuttavia ai fini penali potrà costituire un forte elemento di prova, ferma restando che la convivenza potrà comunque essere dimostrata attraverso qualsiasi mezzo di prova.
Può quindi alfine formularsi per la Corte il seguente principio di diritto: “l’art. 384, primo comma, cod. pen., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore“.
Passando all’esame del ricorso, preliminarmente deve escludersi per il Collegio che il reato, commesso il 31 luglio 2012, sia estinto per prescrizione: infatti, al termine massimo di sette anni e sei mesi previsto per la prescrizione del reato di favoreggiamento personale, vanno aggiunti i periodi di sospensione verificatisi nel corso del primo grado di giudizio, come già indicati dalla Corte di appello (per complessivi 343 giorni), nonché le sospensioni di ufficio dal 9 marzo all’il maggio 2020 (pari a 64 giorni), per effetto dei “rinvii di ufficio” disposti con i decreti legge n. 11 dell’8 marzo 2020, n. 18 del 17 marzo 2020 e n. 23 dell’8 aprile 2020, e quella dal 12 maggio al 30 giugno (pari a 50 giorni), in base alla previsione contenuta nell’art. 83, comma 9, del decreto legge n. 18 cit., in considerazione del rinvio dell’udienza al 26 giugno 2020 (v., Sez. U, n. 5292, del 27/11/2020, Sanna); infine, va calcolata la sospensione dal 24 settembre 2020 al 26 novembre 2020 (pari a 62 giorni) per il rinvio di cortesia dell’udienza richiesto dalla difesa.
Ciò premesso, il ricorso per la Corte è fondato.
La Corte di appello di Cagliari ha ritenuto inapplicabile l’estensione dell’art. 384, primo comma, cod. pen., al convivente more uxorio, assumendo trattarsi di una norma eccezionale, che prevede la non punibilità in casi ben individuati e caratterizzati da presupposti formali indiscutibili, riferendosi, a titolo esemplificativo, al matrimonio, all’unione civile, al rapporto di filiazione, sottolineando, al contrario, la «fluidità e fragilità del rapporto di mera convivenza».
Ha, inoltre, rilevato che all’imputata incombeva l’onere di dare una dimostrazione dell’esistenza della convivenza, dimostrazione che non vi è stata, non avendo chiesto neppure la rinnovazione dell’istruttoria in appello. Infine, ha ritenuto non decisivo il fatto che F. avesse la residenza anagrafica presso T..
L’interpretazione che la Corte di appello ha dato dell’art. 384 cit. si rivela per il Collegio erronea alla luce del principio di diritto che esso ha testé affermato.
Inoltre, va evidenziato per la Corte che, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici di secondo grado, la difesa della ricorrente nell’atto di appello, dopo aver sostenuto che la esistenza della convivenza more uxorio tra T. e F. avrebbe potuto essere desunta dal certificato anagrafico e dalla carta di identità di quest’ultima, depositati in atti, ha espressamente richiesto la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per acquisire la testimonianza di L.T., padre di N.T., sul rapporto di convivenza tra i due.
Ne deriva che l’erronea applicazione dell’art. 384, primo comma, cit., unitamente all’omessa considerazione del motivo di appello sulla rinnovazione, oggetto di una specifica deduzione con il ricorso per cassazione, determina l’annullamento della sentenza impugnata, con il rinvio degli atti ad altra sezione della Corte di appello di Cagliari che, nel caso in cui risulterà accertata la convivenza della ricorrente con N.T., al momento della dichiarazione resa alla polizia giudiziaria, applicherà il principio di diritto affermato con la presente sentenza.
* * *
Il 14 maggio esce la sentenza della Corte Costituzionale n. 98, che dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 521 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Torre Annunziata, in composizione monocratica.
Ad avviso della Corte, le questioni sono inammissibili per non essersi l’ordinanza di rimessione adeguatamente confrontata con gli argomenti contrari alla riqualificazione giuridica del fatto contestato nel giudizio a quo, riqualificazione dalla quale dipende la rilevanza delle questioni prospettate.
Più nel dettaglio, precisa la Corte, l’imputato è chiamato a rispondere del delitto di atti persecutori di cui all’art. 612-bis, primo e secondo comma, del codice penale. In esito al dibattimento, il rimettente ritiene di dover riqualificare i fatti contestati – immutati nella loro materialità – nella diversa e più grave fattispecie di maltrattamenti in famiglia, di cui all’art. 572 cod. pen. Avendo prospettato alla difesa dell’imputato tale possibile riqualificazione, e avendo il difensore chiesto – a fronte di tale modifica in iure – di essere ammesso al rito abbreviato, il rimettente solleva le questioni di legittimità costituzionale sopra indicate, aventi ad oggetto la disposizione del codice di procedura penale – l’art. 521, comma 1 – che consente al giudice di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, nella parte in cui non prevede la possibilità per l’imputato di richiedere il giudizio abbreviato relativamente al fatto così come diversamente qualificato.
La riqualificazione – da atti persecutori aggravati a maltrattamenti in famiglia – dei fatti contestati all’imputato costituisce dunque il presupposto logico che condiziona l’applicazione nel giudizio a quo della disposizione, della cui legittimità costituzionale il giudice dubita.
Tale riqualificazione, osserva la Corte, riposa sul rilievo, svolto con ricchezza di argomenti dall’ordinanza di rimessione, che le condotte – moleste, minacciose, ingiuriose e violente – contestate all’imputato siano state commesse nel quadro di una relazione affettiva stabile tra l’imputato e la persona offesa, pur nella riconosciuta assenza di convivenza.
Secondo quanto riferisce il rimettente, dall’istruttoria dibattimentale è emersa l’esistenza di un rapporto affettivo tra i due, dipanatosi in un arco temporale di circa quattro mesi, nel corso del quale – in particolare – la donna era solita frequentare la casa ove l’uomo viveva con la madre e la sorella, e nella quale lei stessa talvolta si tratteneva.
Il pubblico ministero aveva qualificato le condotte contestate all’imputato come atti persecutori ai sensi dell’art. 612-bis cod. pen., con l’aggravante prevista dal secondo comma di tale disposizione, che prevede l’aumento della pena quando il fatto sia commesso, tra l’altro, «da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa».
Ritiene invece il rimettente che la stabilità della relazione affettiva, desunta in particolare dall’assidua frequentazione da parte della persona offesa della famiglia dell’imputato, imponga di riqualificare le condotte come maltrattamenti in famiglia ai sensi dell’art. 572, primo comma, cod. pen.: disposizione, quest’ultima, applicabile a chiunque «maltratta», per la parte che qui rileva, «una persona della famiglia o comunque convivente». Ciò in quanto il sintagma «una persona […] comunque convivente» andrebbe letto come riferito a un «contesto affettivo protetto», caratterizzato da «legami affettivi forti e stabili, tali da rendere particolarmente difficoltoso per colui che patisce i maltrattamenti sottrarsi ad essi e particolarmente agevole per colui che li perpetua proseguire».
In tale ipotesi, dunque, il più grave delitto di maltrattamenti in famiglia assorbirebbe l’ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che verrebbe dunque ad abbracciare le sole ipotesi di relazioni affettive non caratterizzate (o non più caratterizzate) da una «attuale condivisione di spazi e progetti di vita che condizionano fortemente la capacità di reagire della vittima».
Questa lettura troverebbe conforto, osserva il rimettente, in varie pronunce della Corte di cassazione, che hanno ricondotto allo spettro applicativo dell’art. 572 cod. pen. fatti commessi nell’ambito di relazioni caratterizzate dalla «condivisione di progetti di vita», e hanno affermato il principio secondo cui l’art. 572 cod. pen. «è applicabile non solo ai nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale».
Pertanto, il delitto sarebbe configurabile «anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza» (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 7 febbraio-9 maggio 2019, n. 19922, nonché – nello stesso senso – sezione sesta penale, sentenza 18 marzo-15 luglio 2014, n. 31121 e, pur escludendo nel caso di specie il reato de quo, sezione sesta penale, sentenza 7 maggio-27 maggio 2013, n. 22915. Si vedano altresì, in epoca successiva all’ordinanza di rimessione, sezione sesta penale, sentenza 21 ottobre-1° dicembre 2020, n. 34086, concernente una coppia che, pur non convivendo, pagava congiuntamente un appartamento utilizzato come base per incontri clandestini; sezione sesta penale, sentenza 6 novembre 2019-11 febbraio 2020, n. 5457, relativa a una coppia non convivente, la cui relazione durava da appena due mesi).
Tuttavia, tale orientamento risale, come correttamente osserva il rimettente, ad epoca antecedente alla introduzione dell’art. 612-bis cod. pen., e si è formato in larga misura con riferimento a ipotesi concrete caratterizzate dal venir meno di una preesistente convivenza (la sentenza n. 19922 del 2019 sopra citata concerneva, ad esempio, una coppia che aveva convissuto per circa dieci anni; e parimenti concernono ex conviventi Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 3 novembre-22 dicembre 2020, n. 37077; sezione terza penale, sentenza 12 giugno-28 ottobre 2019, n. 43701; sezione sesta penale, sentenza 13 dicembre 2017-24 gennaio 2018, n. 3356), specie quando dalla convivenza siano nati anche dei figli (ex aliis Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 6 ottobre 2020-4 febbraio 2021, n. 4424; sezione sesta penale, sentenza 28 settembre-20 novembre 2017, n. 52723; sezione sesta penale, sentenza 20 aprile-22 maggio 2017, n. 25498).
Non a caso, una recente sentenza della Corte di cassazione – invero successiva all’ordinanza di rimessione – ha escluso il delitto di maltrattamenti in famiglia in un’ipotesi assai simile a quella oggetto del processo a quo, caratterizzata da una relazione «instaurata da non molto tempo» e da una “coabitazione” consistita soltanto «nella permanenza anche per due o tre giorni consecutivi nella casa dell’uomo, ove la donna si recava, talvolta anche con la propria figlia» (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 23 novembre 2020-25 gennaio 2021, n. 2911).
La giurisprudenza di legittimità, considerata alla luce dei casi di volta di volta esaminati, fornisce dunque indicazioni assai meno univoche di quanto appaia dall’ordinanza di rimessione circa la possibilità di sussumere entro la figura legale descritta dall’art. 572 cod. pen., e non in quella di cui all’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., condotte abusive poste in essere nel contesto di una relazione affettiva con le caratteristiche illustrate nell’ordinanza di rimessione, ove si dà atto in particolare dell’assenza di convivenza (presente o passata) tra i due protagonisti della vicenda.
Ma, soprattutto, nel procedere alla qualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio il rimettente omette di confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello di fonti primarie dall’art. 14 delle Preleggi nonché – implicitamente – dall’art. 1 cod. pen., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta) (sentenza n. 447 del 1998).
Il divieto di analogia, osserva la Corte, non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore.
Ciò vale non solo per il nostro, ma anche per altri ordinamenti ispirati alla medesima prospettiva, come dimostra la giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale tedesco, secondo cui in materia penale «il possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo della sua legittima interpretazione da parte del giudice» (BVerfGE 73, 206, (235); in senso conforme, più recentemente, BVerfGE 130, 1 (43); 126, 170 (197); 105, 135 (157); 92, 1 (12)).
Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale (su quest’ultimo profilo, si vedano in particolare le sentenze n. 96 del 1981 e n. 34 del 1995, nonché, con riferimento alle sanzioni amministrative di carattere punitivo, n. 121 del 2018): corollari posti a tutela sia del principio “ordinamentale” della separazione dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e irrilevanti (ordinanza n. 24 del 2017), nonché – evidentemente – tra le diverse figure di reato; sia della garanzia “soggettiva”, riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d’azione (sentenza n. 364 del 1988).
È evidente infatti che la ratio della riserva assoluta di legge in materia penale, che assegna alla sola legge e agli atti aventi forza di legge il compito di stabilire quali siano le condotte costituenti reato, sul presupposto che una simile decisione – destinata potenzialmente a ripercuotersi in maniera drammatica sul diritto «inviolabile» (art. 13 Cost.) alla libertà personale dei destinatari della norma penale – spetti soltanto ai rappresentanti eletti a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 230 del 2012, n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse consentito di applicare pene al di là dei casi espressamente previsti dalla legge.
Per altro verso, il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce l’ovvio pendant dell’imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di «formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati» (sentenza n. 96 del 1981). Tale imperativo mira anch’esso a «evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito» (sentenza n. 327 del 2008), nonché quelli tra le diverse fattispecie di reato; ma, al tempo stesso, mira altresì ad assicurare al destinatario della norma «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (così, ancora, la sentenza n. 327 del 2008, nonché la sentenza n. 5 del 2004).
Tanto che proprio rispetto al mandato costituzionale di determinatezza della norma incriminatrice questa Corte ha recentemente rammentato che «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» (sentenza n. 115 del 2018). La garanzia soggettiva che la determinatezza della legge penale mira ad assicurare sarebbe, in effetti, anch’essa svuotata, laddove al giudice penale fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura.
E dunque, il pur comprensibile intento, sotteso all’indirizzo giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con l’interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque […] convivente» con l’autore del reato; requisiti che circoscrivono – per quanto qui rileva – l’ambito delle relazioni nelle quali le condotte debbono avere luogo, per poter essere considerate penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 572 cod. pen.
Il divieto di analogia in malam partem impone, più in particolare, di chiarire se davvero possa sostenersi che la sussistenza di una relazione, come quella che risulta intercorsa tra imputato e persona offesa nel processo a quo, consenta di qualificare quest’ultima come persona (già) appartenente alla medesima “famiglia” dell’imputato; o se, in alternativa, un rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro possa già considerarsi, alla stregua dell’ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di “convivenza”.
In difetto di una tale dimostrazione, l’applicazione dell’art. 572 cod. pen. in casi siffatti – in luogo dell’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l’ipotesi di condotte commesse a danno di persona «legata da relazione affettiva» all’agente – apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal rimettente, ma comunque preclusa dall’art. 25, secondo comma, Cost.
Il mancato confronto con le implicazioni del divieto costituzionale di applicazione analogica della legge penale in malam partem in relazione al caso di specie comporta dunque una lacuna motivazionale sulla rilevanza delle questioni prospettate, che ne determina l’inammissibilità (da ultimo, sentenza n. 57 del 2021).
Questioni intriganti
In cosa consiste la c.d. “inesigibilità” e che rapporti ha, in generale, con l’analogia?
- per capire bene il nesso che avvince analogia e c.d. inesigibilità, occorre muovere dal concetto di “cause di esclusione della colpevolezza”;
- in determinate situazioni, il soggetto agente va assunto – alla stregua di una valutazione della legge – soggettivamente “non rimproverabile” di un fatto che si presenta “oggettivamente” illecito (e penalmente rilevante);
- la non rimproverabilità, e dunque l’impossibilità di addebitare a titolo di rimprovero il fatto al soggetto agente ridonda in pertinente “non punibilità”, che viene dunque esclusa;
- dal punto di vista del comportamento del soggetto agente, si suol dire in questi casi che dal medesimo era “inesigibile” un comportamento diverso, quello che sarebbe stato coerente con il dettato della legge penale e, dunque, tale da non far incorrere il soggetto agente nel fatto inadempimento reato;
- si tratta di una categoria assai ampia, nella quale vengono – non senza dissenting opinion – annoverate figure tutt’affatto eterogenee, accomunate dal solo fatto di escludere, per l’appunto, la punizione del soggetto agente; a titolo esemplificativo: e.1) costringimento fisico; e.2) forza maggiore; e.3) caso fortuito; e.4) stato di necessità; e.5) commissione del fatto – qualificato come fatto inadempimento reato contro la Giustizia – per salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento alla libertà o all’onore;
- in sostanza, secondo questa prospettiva la colpevolezza e, dunque, la rimproverabilità del fatto inadempimento reato ad un dato soggetto, viaggia di pari passo con la esigibilità da quel soggetto del comportamento doveroso e penalmente non rilevante; onde, laddove tale contegno sia “inesigibile”, non potrebbe predicarsi la colpevolezza di quel soggetto;
- la volontà di quest’ultimo si richiede che si formi in presenza di “circostanze concomitanti” a carattere “normale”; solo queste ultime infatti possono consentire che il processo motivazionale che è alla base di un dato comportamento umano e che ne fonda la pertinente decisione sia “fisiologico”, autorizzando il sistema penale ad esigere da un dato soggetto un contegno conforme alla norma dalla cui violazione discende fatto inadempimento reato;
- si tratta di una impostazione che affonda le proprie radici in una nota dottrina tedesca, che ha trovato un parziale seguito anche in Italia, e sulla quale poggia la teoria, per l’appunto, della c.d. inesigibilità (Nichtzumutbarkeit): la colpevolezza, intesa come rimproverabilità di un fatto inadempimento reato ad un dato soggetto a titolo di dolo o di colpa, richiede imprescindibilmente che al pertinente contegno non facciano da sfondo condizioni tali da dover ammettere che non si sarebbe potuto umanamente pretendere da quel soggetto un contegno diverso da quello in concreto tenuto e tale da consentire il rispetto del precetto penale in concreto violato;
- dal punto di vista ricostruttivo-sistematico, si sarebbe al cospetto di un forma di limite intrinseco alla legge che si impernia su norme le quali sono parte di un dato ordinamento giuridico, pur non assurgendone al rango né di norme scritte, né tampoco di norme consuetudinarie; si tratta dunque, nella sostanza, di un canone o “principio” che consente di non punire chi sia stato nella assoluta impossibilità di comportarsi in modo diverso da quanto in concreto fatto a questo principio potendo precipuamente ricondursi: i.1) talune specifiche fattispecie affioranti, expressis verbis, dal tessuto ordinamentale vigente, come nelle ipotesi del caso fortuito e della forza maggiore ex art.45 c.p., del costringimento fisico ex art.46 c.p., dello stato di necessità ex art.54 c.p., ovvero ancora della causa di non punibilità di cui all’art.384 c.p. (fatto rilevante come delitto contro l’amministrazione della giustizia e commesso da chi vi sia stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore); i.2) talune fattispecie non expressis verbis previste dalla legge penale e tuttavia capaci di far scattare in ogni caso la non punibilità del soggetto agente in forza della c.d. eadem ratio, attivando l’applicazione analogica, a guisa di valvola capace di rendere flessibile il sistema giusta applicazioni in bonam partem, per l’appunto, non fondate su espliciti addentellati di legge; in tal modo, cause di esclusione della colpevolezza non codificate trovano cittadinanza nel sistema penale, sotto l’usbergo categoriale della “inesigibilità”, valorizzando il principio dell’analogia iuris e, dunque, dei principi generali dell’ordinamento giuridico, al fine di scongiurare punizioni che vanno assunte non giustificate;
- notissimi taluni esempi addotti in proposito dalla dottrina che ammette la categoria della c.d. inesigibilità: j.1) un medico, esausto – in un contesto epidemico o pandemico – per l’attività svolta durante tutta la giornata, rifiuta la visita notturna all’ennesimo ammalato; j.2) un automobilista – allo scopo di sottrarsi ad un potenziale linciaggio da parte degli astanti – omette di soccorrere la persona investita; j.3) un alpinista in cordata che, finito in condizioni estreme (ad esempio, nel bel mezzo di una improvvisa tormenta), al fine di non precipitare taglia la corda che lo avvince ad un compagno di scalata, così facendolo precipitare a sua volta;
- non mancano tuttavia voci critiche, che si appuntano su diverse ed articolate argomentazioni: k.1) in generale, non è rintracciabile alcun fondamento normativo alla teoria della c.d. inesigibilità, né si spiega realmente perché – in un dato contesto – non si sarebbe potuto agire altrimenti; k.2) sul crinale oggettivo, non si rinviene alcun calibro univoco capace di adeguatamente supportare la qualificazione di un dato comportamento come esigibile, e dunque punibile, o all’opposto inesigibile, e dunque non punibile, come palesa la vaghezza e genericità delle espressioni (“ragionevolmente”, “umanamente”) di solito usate per giustificare le tutt’affatto eterogenee ipotesi in cui in concreto scatterebbe la ridetta inesigibilità; k.3) sul versante soggettivo, non è identificabile un modello standard al quale parametrare la condotta che si assume inesigibile (e, come tale, non rimproverabile), dacché “astrattamente” si scade nell’evanescenza di una figura che è tutt’affatto incerta e relativa, mentre “concretamente” si rischia di giustificare (e, dunque, non punire) qualsivoglia contegno “sedicente inesigibile” dal singolo soggetto agente, come nel noto esempio del medico esausto (la relativa omissione era davvero inesigibile? O poteva piuttosto esigersene un contegno opposto e conforme al precetto penale, nonostante la acclarata stanchezza?); k.4) al fine di scongiurare la punizione di determinati comportamenti, sovente non occorre scomodare i principi dell’ordinamento e l’analogia per forgiare dal nulla la “novella” categoria dell’inesibilità allorché sia piuttosto sufficiente fare ricorso all’applicazione di scriminanti codificate, con particolare riguardo allo stato di necessità (del quale l’art.384 c.p. altro non rappresenterebbe che un caso particolare, e che opera anche, ex art.54, comma 3, in caso di altrui minaccia, con la foggia del costringimento psichico) e alla legittima difesa; del resto, “inesigibile” vuol dire sovente “non psichicamente esigibile” ed è quanto accade nelle ipotesi di forza maggiore e di costringimento fisico (evento, quand’anche previsto, non voluto e comunque inevitabile) e di caso fortuito (evento non voluto ed imprevedibile); k.5) ammettere la categoria della inesigibilità significa attribuire al giudice un assai ampio margine di discrezionalità in ottica non punitiva, potendo egli individuare la condotta punibile sulla base di criteri avulsi dal (o quanto meno labilmente avvinti al) principio di legalità, particolarmente pregnante in materia penale anche laddove si tratti di operare in bonam partem, sol che si pensi alla eccezionalità delle disposizioni che escludono la punibilità al cospetto di dati comportamenti e, con essa, al divieto di analogia consacrato all’art.14 delle preleggi.
Dove, nello specifico, l’analogia intercetta l’inesigibilità in termini più strettamente “personali”?
- vi è un settore nel quale l’analogia e l’inesigibilità si intersecano in guisa consistente, e che attiene strettamente alla persona del soggetto del cui comportamento penalmente doveroso, asseritamente inesigibile, in concreto si tratta;
- esso attiene all’ampio spettro dei c.d. conflitti “di doveri” e dei c.d. conflitti “motivazionali”;
- per quanto concerne il c.d. conflitto di doveri, dinanzi ad un solo soggetto si pongono – in termini di dovuta ottemperanza e con connotati di “scelta tragica” – più doveri, per l’appunto, in conflitto tra loro, come nel caso, purtroppo assai ricorrente in contesti epidemici o pandemici, del medico chiamato ad applicare l’unico respiratore disponibile a due o più pazienti in pericolo di vita, dovendo dunque in sostanza scegliere chi beneficiare e chi, all’opposto, sfavorire a valle della scelta;
- in questi casi, adempiere ad uno dei doveri alternativi, ad esempio nei confronti di X, implica indefettibilmente il venire meno all’osservanza dell’omologo dovere nei confronti di Y; e che si tratti di “dovere” assai più che di obbligo discende proprio dalla impossibilità, ex ante, di identificare con certezza il destinatario del comportamento doveroso (e, dunque, il creditore della pertinente prestazione);
- non trovandosi dinanzi ad un obbligo comportamentale assistito dai predicati della chiarezza e dalla inequivocità, stante appunto la presenza di una c.d. “scelta tragica”, si esclude in simili evenienze l’illiceità della pertinente condotta e, con essa, la relativa antigiuridicità oltre che, in ultima analisi, la stessa “esigibilità” di una condotta conforme al precetto penale;
- del pari di “inesigibilità” di una condotta doverosa conforme al precetto penale si discorre in presenza di c.d. conflitti “motivazionali”, laddove affiora una pervicace frizione tra norme penali, da un lato, e norme etico-religiose, dall’altro; la dottrina adduce ormai ad esempio classico, sulla scorta di consistente giurisprudenza sul punto, le fattispecie in cui a commettere un reato sia stato, per convinzioni religiose, un appartenente alla confessione dei Testimoni di Geova, a cagione della propria radicata e convinta contrarietà alle emotrasfusioni;
- a chi ha ritenuto in questi casi operativa la scriminante codificata dell’esercizio del diritto ex art.51 c.p., sub specie di diritto (per giunta, con radici costituzionali) di “libertà religiosa”, si è opposto come il sistema non possa consentire che restino impuniti coloro che commettano reati per il semplice fatto di agire sotto l’impulso di una propria concezione di natura, per l’appunto, etica o religiosa, neppure secondo il più “sfumato” spettro delle c.d. cause di esclusione della colpevolezza (tra le quali, per l’appunto, l’”inesigibilità altrimenti”); se infatti può escludersi la sanzione (vieppiù laddove penalmente connotata) dinanzi a fatti di “mero esercizio” della libertà religiosa, il diritto penale – osserva la dottrina più critica – non può non ritrovare il proprio più ampio vigore precettivo laddove sia conclamata la dannosità sociale del contegno tenuto, nel caso di specie, dal soggetto attivo del reato, capace di mettere in pericolo o di ledere irreversibilmente beni giuridici come il bene della vita di cui al soggetto passivo, giungendosi altrimenti col lasciar prevalere – in ottica di tragico bilanciamento tra valori in conflitto tra loro – la convinzione etico-religiosa di X rispetto alla vita (o, comunque, all’incolumità individuale) di Y;
- l’inesigibilità della condotta penalmente doverosa non sembra dunque – neppure attraverso il grimaldello dell’analogia iuris e, dunque, facendo ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico – poter consentire una sostanziale non punibilità di chi commetta gravi reati in nome di proprie convinzioni etico religiose, quantunque queste ultime – in fattispecie dolose – possano consentire al giudice di calibrare ed individualizzare il trattamento sanzionatorio del soggetto agente secondo il parametro della c.d. “intensità del dolo” di cui all’art.133, comma 1, n.3 c.p., valorizzando all’uopo le c.d. “circostanze anormali concomitanti”; né, sempre secondo la dottrina maggioritaria, potrebbe invocarsi a fini di esclusione della punibilità il principio dell’analogia legis, predicando una operatività estesa di singole norme che disciplinano, del pari, singole scusanti, dovendo assumersi queste ultime il precipitato di una precisa scelta legislativa che non può operare oltre la fattispecie, per l’appunto, ad essa specificamente riconnessa (in sostanza, si tratterebbe dunque di norme “eccezionali”): si è al cospetto talvolta di particolari categorie di reati (si pensi all’art.384 c.p.), di particolari tipi di situazioni – specificamente previste – che impongono di escludere l’esigibilità di un comportamento diverso rispetto a quello, penalmente rilevante, in concreto tenuto dal soggetto agente a cagione di una tutt’affatto peculiare incidenza psicologica, siccome all’uopo normata, delle concrete circostanze fattuali sulla dinamica operativa del soggetto ridetto, con connessa intenzionalità legislativa di quelle “lacune” che solo apparentemente, in realtà, sono tali e che non possono dunque essere colmate attraverso il procedimento analogico sub specie legis;
- dinanzi alle (più o meno compatte) prese di posizione della dottrina più autorevole si registra, nondimeno, un (opposto) atteggiamento ondivago della giurisprudenza, con particolare riferimento ai reati in materia tributaria e “commerciale” (come nel classico caso del falso in bilancio), oltre che sul terreno del concorso esterno in associazione mafiosa.
Cosa occorre rammentare in particolare della “scusante” di cui all’art.384 c.p. in rapporto ad “inesigibilità altrimenti” ed analogia?
- una delle questioni che più hanno animato il dibattito giurisprudenziale degli ultimi anni è stata la possibile estensione della ipotesi di “inesigibilità altrimenti” e, dunque, di inesigibilità di un comportamento diverso da quello – penalmente rilevante – in concreto tenuto dal soggetto agente, siccome scolpita all’art.384 c.p. e coinvolgente taluni delitti contro l’Amministrazione della giustizia, al convivente more uxorio;
- tale norma si articola in due comma di diverso tenore (il primo “originario”, seppure in seguito novellato; il secondo più recente), ciascuno dei quali procede ad una elencazione tassativa di delitti, per l’appunto, contro l’Amministrazione della giustizia, cui corrispondono due diverse cause di non punibilità; b.1) nel comma 1 il riferimento va ad un fatto che sia stato compiuto dal soggetto agente per la necessità di salvare sé medesimo o un “prossimo congiunto” da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore; sono prossimi congiunti quelli definiti tali dall’art.307, comma 4, c.p.; b.2) nel comma 2 il riferimento va ad un fatto, sempre compiuto dal soggetto agente, compendiantesi in dichiarazioni mendaci da lui rilasciate al cospetto di una previsione di legge processuale che imponeva di non ascoltarlo né di obbligarlo a deporre, o che comunque ne imponeva l’avvertimento in ordine alla pertinente possibilità di astenersi dal dichiarare;
- la norma ridetta – che configura una c.d. “scusante”, dalla quale scaturisce la non punibilità del soggetto agente – ha suscitato un acceso dibattito con riguardo ai c.d. conviventi more uxorio, ai quali: c.1) si applica senz’altro il comma 2 dell’art.384 c.p., stante il pertinente combinato disposto con l’art.199 c.p.p., che attribuisce la facoltà di astenersi dal deporre, tra gli altri, proprio al “convivente”; c.2) a rigore, non si applica il comma 1 dell’art.384, dacché il “convivente” non sembra annoverabile tra i “prossimi congiunti” siccome definiti dall’art.307, comma 4, c.p.;
- una soluzione è stata rinvenuta nella potenziale applicazione in via analogica dell’art.384, comma 1, c.p. anche al convivente more uxorio, sollecitata da parte della dottrina;
- soluzione in passato a lungo contrastata dalla giurisprudenza – anche della Corte costituzionale – sulla base della considerazione onde la ridetta norma è improntata a tassatività, sia dal punto di vista dei soggetti che possono fruire della pertinente “scusante” (inapplicabile per il Giudice delle Leggi al di fuori della “istituzione famiglia”), sia con riguardo ai delitti contro l’Amministrazione della giustizia ai quali essa è applicabile, dovendosi dunque assumere quale vera e propria norma “eccezionale”, come tale non applicabile in via analogica; per tale orientamento, che esclude essersi al cospetto di una “lacuna involontaria della legge”, difatti: e.1) è tassativa la “situazione scusante”, ovvero la “necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”; e.2) è preciso e del pari sufficientemente delineato il grado di pressione psicologica che tale situazione esercita sul soggetto agente, e dal quale ne discende l’efficacia scusante, stante la costrizione ad agire in un certo modo derivante dalla necessità di compiere l’azione di salvataggio, da un lato, e la gravità ed inevitabilità del nocumento alla libertà o all’onore che ne deriverebbe per sé o per un “prossimo congiunto” in caso di contegno opposto, dall’altro; e.3) sono tassative, infine, le fattispecie delittuose che possono essere scusate dalla norma, compendiandosi nei delitti contro l’amministrazione della giustizia previsti e puniti dagli articoli da 361 a 366 c.p., 371 bis e 371 ter c.p., da 372 a 374 c.p. e 378 c.p.;
- con l’avvento della legge n.76.16, c.d. legge Cirinnà – che disciplina da un lato le c.d. unioni civili tra persone dello stesso sesso, dall’altro le convivenze di fatto o “more uxorio” – la problematicità del tema si è vieppiù acuita; difatti: f.1) per quanto riguarda le convivenze more uxorio, è rimasto il problema dell’applicabilità dell’art.384, comma 1, c.p., risolto solo dalla giurisprudenza delle SSUU della Cassazione (e, dunque, solo in via pretoria) in senso affermativo, ma con possibilità di sempre possibili “discostamenti” futuri e senza dunque una precisa valenza erga omnes; f.2) alle “unioni civili” – dopo qualche dubbio iniziale – a partire dall’entrata in vigore del decreto legislativo 6.17 appare invece sempre e senz’altro applicabile per precisa scelta dello stesso Legislatore il ridetto art.384, comma 1, c.p., stante ormai l’esplicito disposto del nuovo art.307, comma 4, c.p., alla cui stregua sono “prossimi congiunti” anche le parti di una unione civile tra persone dello stesso sesso.