Massima
La Pubblica Amministrazione opera normalmente attraverso procedimenti, atti e provvedimenti dai quali – in via immediata e diretta, o anche solo in via mediata e indiretta – possono scaturire danni a soggetti terzi, per lo più privati; non mancano tuttavia occasioni, seppure a rigore eccezionali, in cui il soggetto pubblico agisce (per bocca, braccia e gambe della persona fisica che opera in relativo conto) giusta condotte non sostenute neppure mediatamente da una epifania “attizia”, con possibili danni inferti ai privati il cui risarcimento va invocato innanzi al GO.
Crono-articolo
1865
Il 20 marzo esce la legge n. 2248, il cui allegato E reca la legge abolitrice del contenzioso amministrativo.
Secondo il relativo art.2, sono devolute alla giurisdizione ordinaria – l’unica rimasta operativa – tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione d’un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa.
Si tratta della disposizione – peraltro, tuttora in vigore – che disciplina la responsabilità dell’Amministrazione attribuendo la pertinente cognizione al GO, senza distinguere la pertinente attività “materiale” da quella c.d. provvedimentale; distinzione che emergerà successivamente e che darà la stura ai c.d. interessi legittimi (giustapposti, per l’appunto, ad atti e provvedimenti manifestazione di potere pubblico), con nascita e progressiva evoluzione della “alternativa” giurisdizione amministrativa.
* * *
Il 25 giugno viene varato il R.D. n.2358, codice civile liberale, che disciplina l’illecito all’art.1151 onde qualunque fatto dell’uomo che arreca danno ad altri, obbliga quello per colpa del quale è avvenuto a risarcire il danno.
Quando l’uomo che commette un fatto è avvinto ad un ente pubblico finisce – in forza della c.d. teoria organica – per impegnare la responsabilità di tale ente, purché se ne riscontri la colpa.
1936
Il 19 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.2143 alla cui stregua – nel solco di un orientamento giurisprudenziale che diverrà consolidato – il fatto che determinati comportamenti siano disciplinati dalla legge non li fa diventare atti autoritativi sindacabili (necessariamente o esclusivamente) in sede di giurisdizione amministrativa.
Ciò posto come la nozione di colpa (e responsabilità) extracontrattuale per i danni cagionati a terzi dalla pubblica amministrazione si riferisce, a norma dell’art. 43 c.p., non solo alle situazioni in cui questa abbia agito senza rispettare i canoni della diligenza, prudenza e perizia propri di chiunque operi nel mondo esterno, ma anche quando abbia violato norme di leggi o regolamenti relative all’organizzazione o allo svolgimento di un pubblico servizio.
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.262, nuovo codice civile, nel cui contesto affiora con maggiore evidenza la dicotomia tra fatto illecito “inadempimento” rispetto ad una obbligazione precostituita (c.d. responsabilità “contrattuale”) e fatto illecito perpetrato nei confronti di chi non sia già ad altro titolo “legato” al soggetto danneggiante (c.d. responsabilità aquiliana o violazione del “dovere” di neminem laedere).
Più in specie, ai sensi dell’art.1218 – significativamente rubricato “responsabilità del debitore” – il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo e’ stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
Stando invece al successivo art.2043 c.c., rubricato “risarcimento per fatto illecito”, qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad “altri” (non meglio individuati) un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.
Ai sensi poi dell’art.2050 chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per relativa natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare îl danno; mentre per il successivo art.2051 ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito.
1948
Il 01 gennaio entra in vigore la Costituzione repubblicana, che prevede in specie, all’art.28, che se da un lato i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti (comma 1), dall’altro in tali casi la responsabilità “civile” – non anche, dunque, quella penale e quella amministrativa – si estende (anche) allo Stato e agli enti pubblici.
1978
Il 6 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.3361, alla cui stregua la responsabilità per i danni derivanti dalla omessa manutenzione di strade vicinali private non può gravare sull’Amministrazione comunale territorialmente competente.
Ciò per la Corte atteso come i compiti di vigilanza e polizia, quale ad esempio il potere di disporre l’esecuzione di opere di ripristino a spese degli interessati, che ad essa competono su dette strade, non possono recare seco anche l’obbligo di provvedere “direttamente” a quella manutenzione, a carico piuttosto esclusivamente dei proprietari (privati) interessati.
1991
Il 14 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.2726 onde va affermata – contrariamente alla tesi tradizionale, di opposto tenore – la responsabilità ex art. 2050 c.c. dell’Amministrazione per i danni subiti da privati a causa dell’accensione di fuochi di artificio da parte di soggetto a ciò espressamente autorizzato, ove l’autorizzazione da parte del Sindaco non sia stata rispettosa delle norme di legge e delle regole di diligenza e prudenza poste a tutela dell’incolumità altrui.
1995
Il 01 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.3829 alla cui stregua va ammessa la responsabilità ex art. 2050 c.c. dell’Amministrazione ferroviaria laddove il danno prodotto si ricolleghi ad aspetti del servizio ferroviario che richiedano particolari cautele preventive, in quanto caratterizzati da connotati di pericolosità eccedenti il livello normale del rischio e tali da determinare una situazione anomala rispetto a quella ordinariamente richiesta per la sicurezza generale.
Per il Collegio, più in specie, va assunta operativa la presunzione di colpa ex art. 2050 c.c. nei confronti dell’Amministrazione ferroviaria che non si sia attivata per rimuovere la situazione di rischio, ad essa nota, ricollegabile al venir meno delle recinzioni dell’area ferroviaria ad opera di terzi.
2003
Il 13 gennaio esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.298 che – contravvenendo la propria “classica” giurisprudenza in senso opposto – assume come vada escluso che la demanialità di un bene, in sé stessa, possa essere causa automatica di esclusione dell’applicabilità dell’att. 2051 c.c..
Per il Collegio, solo ove si accerti “in concreto” (e non già meramente in astratto, per sorta di automatica presunzione assoluta) che le dimensioni del bene erano tali da escludere un’adeguata attività di vigilanza da parte dell’Amministrazione “custode” può negarsi l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. nei confronti della P.A. medesima.
* * *
Il 2 maggio esce la sentenza delle SSUU n.6719 che devolve alla giurisdizione del Go delle controversie relative alle domande proposte da investitori e azionisti nei confronti delle autorità di vigilanza (Banca d’Italia e Consob) per i danni conseguenti alla mancata, inadeguata o ritardata vigilanza su banche e intermediari va individuata nel fatto che, in esse, non viene in rilievo la contestazione di poteri amministrativi, quanto piuttosto l’omissione di comportamenti doverosi posti a tutela del risparmio che non investono scelte e atti autoritativi.
La ridetta giurisdizione del GO – vigente il criterio di riparto della giurisdizione (delineato dagli artt. 33 e 34 del d. Igs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituiti dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000 n. 205) che devolve al giudice amministrativi interi «blocchi di materie» – afferma l’estraneità al «blocco» della giurisdizione esclusiva – riguardante «tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare» (art. 7, comma 1, lett. a), della legge n. 205 del 2000) – delle controversie in tema di risarcimento dei danni vantati dai risparmiatori, i quali «rispetto all’esercizio dei poteri di vigilanza verso gli operatori del settore, non versano in situazione di interesse legittimo, con conseguente insussistenza della giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo».
* * *
Il 30 giugno viene varato il decreto legislativo n.196, codice in materia di protezione dei dati personali, il cui art.15 (danni cagionati per effetto del trattamento) chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile (comma 1) con danno non patrimoniale risarcibile anche in caso di violazione del precedente articolo 11 in tema di modalità del trattamento e requisiti dei dati (comma 2).
2004
Il 29 marzo esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.6199 alla cui stregua – in tema di responsabilità aquiliana della P.A. per lesione di diritti soggettivi – in caso di violazione del precetto del neminem laedere va assunta applicabile la disciplina generale di cui all’art. 2043 c.c..
Per il Collegio, incombe sul soggetto danneggiato l’onere di provare gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità, ovvero fatto illecito, danno ingiusto, nesso di causalità tra fatto e danno e, sul crinale soggettivo, dolo o colpa della P.A. agente.
* * *
Il 6 luglio esce l’importante sentenza della Corte costituzionale n.204 che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), come sostituito dall’art. 7, lettera a, della legge 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa), nella parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli» anziché «le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché».
La Corte dichiara altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 2, del medesimo decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera a, della legge 21 luglio 2000, n. 205 e l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 1, del medesimo decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7, lettera b, della legge 21 luglio 2000, n. 205, nella parte in cui prevede che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto «gli atti, i provvedimenti e i comportamenti» anziché «gli atti e i provvedimenti» delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti alle stesse equiparati, in materia urbanistica ed edilizia.
Per questa importante pronuncia, vanno dunque sottratte alla giurisdizione esclusiva del GA tutte le controversie investenti meri “comportamenti” dell’Amministrazione, ancorché inserentisi nel più generale ambito dei servizi pubblici.
* * *
*Il 01 ottobre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.19653 alla cui stregua – in tema di responsabilità aquiliana della P.A. per lesione di diritti soggettivi – in caso di violazione del precetto del neminem laedere va assunta applicabile la disciplina generale di cui all’art. 2043 c.c..
Per il Collegio, incombe sul soggetto danneggiato l’onere di provare gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità, ovvero fatto illecito, danno ingiusto, nesso di causalità tra fatto e danno e, sul crinale soggettivo, dolo o colpa della P.A. agente.
2005
*Il 23 febbraio esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.3745 alla cui stregua – in tema di responsabilità aquiliana della P.A. per lesione di diritti soggettivi – in caso di violazione del precetto del neminem laedere va assunta applicabile la disciplina generale di cui all’art. 2043 c.c..
Per il Collegio, incombe sul soggetto danneggiato l’onere di provare gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità, ovvero fatto illecito, danno ingiusto, nesso di causalità tra fatto e danno e, sul crinale soggettivo, dolo o colpa della P.A. agente.
* * *
Il 24 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.6332 onde vanno assunte appannaggio della giurisdizione del GO le domande risarcitorie aventi ad oggetto danni subiti da un privato in conseguenza dell’improvviso attraversamento della sede stradale da parte di fauna selvatica.
* * *
L’11 maggio esce l’importante sentenza della Corte costituzionale n.191 che, analogamente a quanto già affermato in tema di servizi pubblici dalla precedente sentenza n.204.04, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 53, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 325 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo B), trasfuso nell’art. 53, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), nella parte in cui, devolvendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative a «i comportamenti delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti ad esse equiparati», non esclude i comportamenti non riconducibili, nemmeno mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere.
* * *
Il 18 ottobre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.20117 che si occupa della classica fattispecie di l’inosservanza da parte della P.A. delle regole afferenti agli obblighi di sistemazione e manutenzione di una strada pubblica, nonché della inosservanza di regole tecniche, ovvero dei comuni canoni di diligenza e prudenza su di essa gravanti.
In simili casi, l’Amministrazione può essere chiamata in giudizio dal privato che ne resti eventualmente danneggiato davanti al GO, tanto al fine di conseguire la condanna ad un facere, quanto con lo scopo di richiedere il risarcimento del danno, la pertinente domanda non investendo scelte ed atti autoritativi del’Amministrazione, ma piuttosto attività pubblica soggetta al rispetto del principio del generale canone del neminem leadere.
Per il Collegio, nello specifico caso scandagliato, va assunta appartenere alla giurisdizione del G.O. l’azione di risarcimento spiccata da un privato nei confronti di un Comune per i danni a quest’ultimo arrecati a seguito di opere di manutenzione della pavimentazione di una pubblica strada che abbiano innalzato il livello della strada ridetta oltre il piano di calpestio dell’abitazione, con conseguente deflusso delle acque piovane.
Per le SSUU, la discrezionalità della P.A. circa i criteri e le modalità di esecuzione di un’opera pubblica in relazione all’apprezzamento ad essa demandato degli interessi e delle esigenze della collettività dei cittadini e degli strumenti atti a soddisfarli non esime la P.A. medesima dall’osservare le specifiche disposizioni di legge e di regolamento e le norme di prudenza e diligenza imposte dal generale precetto del neminem laedere a tutela dell’incolumità dei cittadini e dell’integrità del loro patrimonio, con la conseguenza onde, se dall’inosservanza di tali norme derivi un danno al terzo, deve a questi riconoscersi azione risarcitoria, anche in forma specifica, davanti al GO, vertendosi in tema di fatto illecito lesivo di posizioni di diritto soggettivo.
* * *
Sempre il 18 ottobre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.20123 onde sussiste la giurisdizione del GO in relazione alla domanda di risarcimento del danno proposta da alcuni esercenti di un’attività commerciale a causa dell’abnorme dilatazione – ascrivibile alla P.A. – dei tempi di costruzione di un parcheggio pubblico nella zona in cui essi svolgono la ridetta loro attività.
2006
Il 20 febbraio esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.3651 che – andando ancor più convintamente contro il tradizionale orientamento pregresso – sostiene doversi affermare in via generalizzata l’applicabilità alla P.A. dell’art. 2051 c.c. in caso di danni riconducibili causalmente a beni pubblici.
Per il Collegio la P.A., quale proprietaria dei beni pubblici, riveste rispetto ad essi un generale obbligo di custodia e vigilanza, tale da far scattare nei relativi confronti la disciplina di cui all’art. 2051 c.c., pena un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina “parallela” applicabile ai proprietari di beni “privati”.
Né potrebbe per il Collegio a ragione invocarsi l’argomento fondato sull’estensione dei beni demaniali e sulla connessa difficoltà di renderli destinatari di una incisiva vigilanza, l’art. 2051 c.c. non ponendo in realtà veruna limitazione quantitativa inerente alle dimensioni delle cose di volta in volta da custodirsi (che possono dunque essere anche molto estese).
* * *
*Il 14 marzo esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.5445 che ribadisce doversi affermare in via generalizzata l’applicabilità alla P.A. dell’art. 2051 c.c. in caso di danni riconducibili causalmente a beni pubblici.
Per il Collegio la P.A., quale proprietaria dei beni pubblici, riveste rispetto ad essi un generale obbligo di custodia e vigilanza, tale da far scattare nei relativi confronti la disciplina di cui all’art. 2051 c.c., pena un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina “parallela” applicabile ai proprietari di beni “privati”.
Né potrebbe per il Collegio a ragione invocarsi l’argomento fondato sull’estensione dei beni demaniali e sulla connessa difficoltà di renderli destinatari di una incisiva vigilanza, l’art. 2051 c.c. non ponendo in realtà veruna limitazione quantitativa inerente alle dimensioni delle cose di volta in volta da custodirsi (che possono dunque essere anche molto estese).
* * *
Il 13 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.13659 onde l’ordinamento dei criteri di riparto della giurisdizione non permette, fin dalla su matrice costituzionale di cui all’art.103 Cost., di ritenere che il GA possa conoscere di controversie di cui non sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati, sicchè “la pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario in proprio, cui si imputi l’adozione del provvedimento illegittimo (…), va proposta dinanzi al giudice ordinario”; nè la giurisdizione ordinaria viene meno per il fatto che la domanda sia in ipotesi stata proposta “anche nei confronti dell’ente pubblico (…) sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso, stante l’inderogabilità per ragioni di connessione della giurisdizione” (con richiamo di Cass. S.U. nn.22494/2004, 2560/2005, 7800/2005, 4591/06).
Le SSUU chiariscono in proposito che – qualora la domanda sia proposta nei confronti del funzionario – non rileva stabilire se questi abbia agito quale organo dell’ente pubblico di appartenenza ovvero, a causa del perseguimento di finalità private, si sia verificata la cd. ‘frattura’ del rapporto organico con quest’ultimo, posto che, nell’uno come nell’altro caso, l’azione risarcitoria è proposta nei confronti del funzionario in proprio e, quindi, nei confronti di un soggetto privato, distinto dall’amministrazione, con la quale, al più, può risultare solidalmente obbligato ex art. 28 Cost.; la stessa conclusione (giurisdizione ordinaria) si impone anche quando la pretesa risarcitoria scaturisca dall’adozione da parte del funzionario, convenuto in proprio, di un provvedimento illegittimo, assumendo questa circostanza la valenza di fatto illecito extracontrattuale intercorrente tra privati, e non ostando a ciò la eventuale proposizione della domanda anche nei confronti dell’ente pubblico sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso, posto che l’effettiva riferibilità all’ente dei comportamenti dei funzionari attiene al merito e non alla giurisdizione. Si tratta di indirizzo più volte successivamente riaffermato.
* * *
Il 20 ottobre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.22521 alla cui stregua, nell’attuale assetto costituzionale, successivamente alla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale, la giurisdizione esclusiva del GA non è estensibile alle controversie nelle quali la P.A. non esercita alcun potere pubblico, va riconosciuta per le SSUU la giurisdizione del GO in tutte le controversie in cui si denunzino comportamenti configurati come illeciti ex art. 2043 cod. civ., e a fronte dei quali, per non avere la P.A. osservato condotte doverose, la posizione soggettiva del privato non può che definirsi di diritto soggettivo, restando escluso il riferimento ad atti e provvedimenti, di cui la condotta dell’Amministrazione sia esecuzione, quando essi non costituiscano oggetto del giudizio, per essersi fatta valere in causa unicamente l’illiceità della condotta dell’ente pubblico, suscettibile di incidere sulla incolumità e i diritti patrimoniali del terzo.
* * *
Il 30 novembre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.25479 alla cui stregua va escluso che la presunzione di colpa ex art. 2050 c.c. si applichi alla Pubblica Amministrazione per attività, quali quelle di polizia, svolte per soddisfare imprescindibili esigenze della collettività, nelle quali si identificano le stesse finalità istituzionali della PA medesima.
Per la Corte, che si rifà sul punto all’orientamento più tradizionale, il giudice non può sindacare l’idoneità e la sufficienza dei mezzi e delle misure poste in essere dall’Amministrazione (nel caso di specie, dell’Interno) nell’organizzare i propri servizi senza violare la sfera di discrezionalità che la legge alla medesima garantisce.
* * *
Il 20 dicembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.27192 che afferma – nel contesto ermeneutico delle sentenze della Corte costituzionale (n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006), dichiarative dell’illegittimità costituzionale di nuove ipotesi legislative di giurisdizione esclusiva del GA in materia urbanistico-edilizia ed espropriativa, se estese a comportamenti non riconducibili nemmeno “mediatamente” all’esercizio di un pubblico potere – doversi ascriversi alla giurisdizione del GO le controversie in tema di riduzione in pristino e risarcimento del danno da comportamenti, causativi di danno ingiusto, perpetrati in carenza assoluta di potere.
Il che si verifica – precisa la Corte – anche nella specifica ipotesi dell’occupazione di mero fatto del suolo privato e conseguente irreversibile trasformazione, in assenza di dichiarazione di pubblica utilità (c.d. occupazione usurpativa), che, pur emessa, sia riferibile ad aree diverse da quelle di fatto trasformate (c.d. sconfinamento), configurandosi in tale ipotesi un illecito a carattere permanente, lesivo di diritto soggettivo.
2007
Il 7 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.10300 alla cui stregua va assunta la responsabilità della P.A. per i danni cagionati in occasione di scavi effettuati su un tratto di costa per la realizzazione di un porto.
Per il Collegio, più in specie, si deve considerare attività pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c., anche l’attività edilizia, e ciò massimamente quando essa comporti rilevanti opere di trasformazione o di rivolgimento o di spostamento di masse terrose e scavi profondi ed interessanti vaste aree.
2008
L’11 gennaio escono le sentenze delle SSUU della Cassazione n. da 576 a 585 alla cui stregua – fissando un principio dipoi consolidato – la responsabilità del Ministero della salute per i danni causati da infezioni contratte in seguito ad emotrasfusioni o somministrazione di farmaci emoderivati non si fonda
-
né sull’art. 2049 c.c., perché il Ministero non risponde dell’operato delle Asl e delle strutture ospedaliere, pienamente autonome rispetto a quello;
-
né sull’art. 2050 c.c., perché pericolosa è la produzione e distribuzione di sangue, ma non il controllo e la vigilanza su tali attività;
-
né, infine, sull’art. 1218 c.c., perché tra paziente e Ministero non sussiste alcun vincolo contrattuale.
Ne consegue per il Collegio che la suddetta responsabilità del Ministero per deficit di vigilanza può trovare fondamento solo nella clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., con conseguente onere della vittima di provare la colpa dell’amministrazione e il nesso causale tra questa e il danno.
2009
*Il 25 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.4480, alla cui stregua la responsabilità per i danni derivanti dalla mancata manutenzione di strade vicinali private non può gravare sull’Amministrazione comunale territorialmente competente, atteso come i compiti di vigilanza e polizia, quale ad esempio il potere di disporre l’esecuzione di opere di ripristino a spese degli interessati, che ad essa competono su dette strade, non possono recare seco anche l’obbligo di provvedere “direttamente” a quella manutenzione, a carico piuttosto esclusivamente dei proprietari (privati) interessati.
2010
Il 2 luglio viene varato il decreto legislativo n.104, codice del processo amministrativo, secondo il cui art.7, comma 1, sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili “anche mediatamente” all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni; non sono tuttavia impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico.
Si tratta di una norma che sembra dunque affidare al GO soltanto contegni dell’Amministrazione di mero fatto e, come tali, totalmente sganciati dall’esercizio di un potere pubblico, quand’anche mediato e indiretto.
Tale circostanza viene confermata, sul crinale processuale, dal successivo art.133, comma 1, lettera g), alla cui stregua sono devolute alla giurisdizione esclusiva del GA, salvo ulteriori disposizioni di legge, tra le altre, le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti riconducibili – anche mediatamente – all’esercizio di un pubblico potere, delle Pubbliche Amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, ferma restando la giurisdizione del GO per quelle riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa.
Del pari, ai sensi della successiva lettera p) del comma 1 del medesimo art.133 c.p.a., sono appannaggio della giurisdizione esclusiva del GA le ordinanze e i provvedimenti commissariali adottati in tutte le situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell’art.5, comma 1, della legge 225.92 in tema di protezione civile, nonché gli atti, i provvedimenti e le ordinanze emanati ai sensi dell’art.5, comma 2 e 4 della legge ridetta e le controversie comunque attinenti alla complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti, seppure posta in essere con comportamenti della PA riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere, quand’anche relative a diritti costituzionalmente tutelati.
* * *
*Il 15 ottobre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.21329 che ribadisce doversi affermare in via generalizzata l’applicabilità alla P.A. dell’art. 2051 c.c. in caso di danni riconducibili causalmente a beni pubblici.
Per il Collegio la P.A. quale proprietaria dei beni pubblici riveste, rispetto ad essi, un generale obbligo di custodia e vigilanza, tale da far scattare nei relativi confronti la disciplina di cui all’art. 2051 c.c., pena un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina “parallela” applicabile ai proprietari di beni “privati”.
Né potrebbe per il Collegio a ragione invocarsi l’argomento fondato sull’estensione dei beni demaniali e sulla connessa difficoltà di renderli destinatari di una incisiva vigilanza, l’art. 2051 c.c. non ponendo in realtà veruna limitazione quantitativa inerente alle dimensioni delle cose di volta in volta da custodirsi (che possono dunque essere anche molto estese).
2011
Il 23 marzo escono le ordinanze delle SSUU della Cassazione n.6594, 6595 e 6596 che affermano rientrare nella giurisdizione del GO
– la controversia avente ad oggetto il risarcimento dei danni lamentati per la lesione dell’affidamento ingenerato dal provvedimento favorevole (nella specie, una concessione edilizia) poi legittimamente annullato in via di autotutela;
– la controversia avente ad oggetto il risarcimento dei danni lamentati per la lesione dell’affidamento riposto nell’attendibilità della attestazione rilasciata dalla PA (rivelatasi erronea) circa la edificabilità di un’area (chiesta da un privato per valutare la convenienza di acquistare un terreno) e nella legittimità della conseguente concessione edilizia, successivamente annullata;
– la controversia avente ad oggetto la domanda autonoma di risarcimento danni proposta da colui che, avendo ottenuto l’aggiudicazione in una gara per l’appalto di un pubblico servizio successivamente annullata dal GA, deduca la lesione dell’affidamento ingenerato dal provvedimento di aggiudicazione apparentemente legittimo.
Si tratta in tutti e 3 i casi di fattispecie – che potenzialmente coinvolgono anche la revoca di un provvedimento amministrativo e la connessa responsabilità “precontrattuale a valle” della PA, siccome via via affermata dalla giurisprudenza – in cui il fondamento della giurisdizione viene ravvisato nella circostanza onde i privati non contestano la legittimità degli atti amministrativi ampliativi della loro sfera giuridica, annullati in via di autotutela o ope judicis, ma lamentano piuttosto un vulnus al loro affidamento siccome da essi riposto sulla legittimità degli atti caducati, invocando il risarcimento dei danni subiti per aver orientato le proprie scelte negoziali o imprenditoriali confidando, fino alla rimozione di tali atti, nella relativa legittimità (o, nel caso della revoca, opportunità dal punto di vista dell’interesse pubblico).
* * *
Il 22 luglio esce la sentenza del Tar Lazio, Latina, n.623 alla cui stregua va proposta dinanzi al GO la domanda di risarcimento dei danni subiti per effetto dell’esecuzione di lavori inerenti ad un’opera pubblica.
Per il Collegio, più in specie, mentre la localizzazione dell’opera pubblica è attività di natura provvedimentale, non lo sono né la relativa, concreta realizzazione né la pertinente manutenzione; attività queste di natura, piuttosto, “materiale”, nello svolgere le quali i soggetti privati cui sia affidata l’esecuzione dell’opera e la stessa PA che se ne faccia esecutrice debbono osservare le regole tecniche ed i canoni di diligenza e prudenza.
* * *
*Il 20 settembre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.19129 che ribadisce doversi affermare in via generalizzata l’applicabilità alla P.A. dell’art. 2051 c.c. in caso di danni riconducibili causalmente a beni pubblici.
Per il Collegio la P.A., quale proprietaria dei beni pubblici riveste, rispetto ad essi, un generale obbligo di custodia e vigilanza, tale da far scattare nei relativi confronti la disciplina di cui all’art. 2051 c.c., pena un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina “parallela” applicabile ai proprietari di beni “privati”.
Né potrebbe per il Collegio a ragione invocarsi l’argomento fondato sull’estensione dei beni demaniali e sulla connessa difficoltà di renderli destinatari di una incisiva vigilanza, l’art. 2051 c.c. non ponendo in realtà veruna limitazione quantitativa inerente alle dimensioni delle cose di volta in volta da custodirsi (che possono dunque essere anche molto estese).
* * *
*Il 18 ottobre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.21508 che ribadisce doversi affermare in via generalizzata l’applicabilità alla P.A. dell’art. 2051 c.c. in caso di danni riconducibili causalmente a beni pubblici.
Per il Collegio la P.A., quale proprietaria dei beni pubblici riveste, rispetto ad essi, un generale obbligo di custodia e vigilanza, tale da far scattare nei relativi confronti la disciplina di cui all’art. 2051 c.c., pena un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina “parallela” applicabile ai proprietari di beni “privati”.
Né potrebbe per il Collegio a ragione invocarsi l’argomento fondato sull’estensione dei beni demaniali e sulla connessa difficoltà di renderli destinatari di una incisiva vigilanza, l’art. 2051 c.c. non ponendo in realtà veruna limitazione quantitativa inerente alle dimensioni delle cose di volta in volta da custodirsi (che possono dunque essere anche molto estese).
* * *
Il 19 dicembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.27285 alla cui stregua il provvedimento amministrativo che contenga la dichiarazione di pubblica utilità va assunto radicalmente nullo ed inefficace laddove privo dell’indicazione dei termini per il compimento delle espropriazioni e dell’opera divisata.
Ne consegue per il Collegio che in tal caso si verifica una situazione di carenza di potere espropriativo, onde residua un mero comportamento materiale imputabile alla PA ed in alcun modo ricollegabile ad un esercizio abusivo dei poteri della pubblica amministrazione medesima, sicché spetta al GO la giurisdizione sulla pertinente domanda, restitutoria ovvero risarcitoria, siccome eventualmente proposta dal soggetto privato.
2012
*Il 28 febbraio esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.1133 alla cui stregua il provvedimento amministrativo che contenga la dichiarazione di pubblica utilità va assunto radicalmente nullo ed inefficace laddove privo dell’indicazione dei termini per il compimento delle espropriazioni e dell’opera divisata.
Ne consegue per il Collegio che in tal caso si verifica una situazione di carenza di potere espropriativo, onde residua un mero comportamento materiale imputabile alla PA ed in alcun modo ricollegabile ad un esercizio abusivo dei poteri della pubblica amministrazione medesima, sicché spetta al GO la giurisdizione sulla pertinente domanda, restitutoria ovvero risarcitoria, siccome eventualmente proposta dal soggetto privato.
2013
Il 28 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.16304 alla cui stregua va riconosciuta la giurisdizione del GA sulla domanda di risarcimento dei danni derivanti dalla assunta compromissione dell’ambiente, reso insalubre a causa del mancato esercizio del potere dell’amministrazione comunale di organizzazione del servizio pubblico di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani.
2014
Il 23 luglio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.16753 alla cui stregua rientra nella giurisdizione del GO l’azione di risarcimento dei danni da responsabilità extracontrattuale spiccata nei confronti di un Comune per il danno subito in relazione a strade che ricadono sotto la relativa vigilanza e custodia, dovuto nel caso di specie alla carenza della segnaletica.
Per il Collegio, più un specie, tale carenza di segnaletica attiene alle modalità di custodia della strada e non investe alcun potere discrezionale della Pubblica amministrazione.
2015
Il 19 gennaio esce la sentenza delle SSUU n.735, che si occupa dell’illecito spossessamento del privato da parte della p.a. e dell’irreversibile trasformazione del relativo terreno per la costruzione di un’opera pubblica, sconfessando definitivamente – in sede di risoluzione del relativo contrasto di giurisprudenza dopo le note prese di posizione della CEDU – la legittimità dell’occupazione appropriativa.
Secondo la Corte, nel caso classico finora additato quale occupazione acquisitiva – e dunque anche quando vi sia stata ab origine valida dichiarazione di pubblica utilità – non si configura un acquisto dell’area occupata da parte dell’Amministrazione, con la conseguenza onde il privato ha diritto di chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al relativo diritto e chiedere il risarcimento del danno.
Sempre il privato, soggiunge la Corte, ha poi diritto al risarcimento dei danni per il periodo (non coperto dall’eventuale occupazione legittima) nel corso del quale abbia subito la perdita delle utilità ricavabili dal proprio terreno e ciò sino al momento della restituzione, laddove abbia chiesto detta restituzione, ovvero sino al momento in cui ha chiesto il risarcimento del danno per equivalente, abdicando alla proprietà del terreno, laddove abbia optato per questa secondo esito.
La Corte precisa, con riguardo alla prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni, che essa decorre dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del godimento, e dalla data della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente. Le Sezioni unite, sotto altro profilo, escludono che la sopravvivenza o meno dell’istituto dell’occupazione appropriativa, per le vicende espropriative antecedenti l’entrata in vigore del Testo Unico, possa argomentarsi in ragione della retroattività dell’art. 42- bis (che ha sostituito l’art. 43 dichiarato costituzionalmente illegittimo), il definitivo declino dell’istituto dell’espropriazione indiretta dovendosi unicamente ricondurre al relativo, inequivocabile contrasto con le norme CEDU, come già affermato dalle ordinanze delle sezioni unite 441 e 442 del 13 gennaio 2014, che hanno sollevato questione di legittimità costituzionale proprio dell’art. 42-bis del d.p.r. 327.01.
In sostanza, per le SSUU il contrasto dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con l’art. 1 del I Protocollo addizionale alla Convenzione EDU è sufficiente per escluderne la sopravvivenza nel nostro ordinamento.
L’importanza di questa pronuncia risiede nel fatto che ormai sia l’occupazione acquisitiva (fondata su una qualche dichiarazione di pubblica utilità che abbia dipoi perso effetti) sia – a fortiori – quella usurpativa (totalmente sine tutulo) sono da considerarsi come un illecito comune capace solo di rendere la PA responsabile di tale illecito, senza alcuna possibilità che ne discenda un acquisto della proprietà del bene privato: in sostanza, la distinzione tra occupazione acquisitiva ed usurpativa è ormai sostanzialmente irrilevante.
Per la Corte, in entrambi i casi non si tratta di illecito istantaneo ad effetti permanenti, ma di illecito permanente (come fino ad ora affermato per la c.d. occupazione usurpativa), che cessa in via alternativa o con la restituzione del bene abusivamente occupato al privato proprietario, o con la compiuta usucapione da parte della PA occupante (in difetto di opposizione da parte del privato che la subisce), ovvero con la rinuncia abdicativa del privato medesimo al diritto di proprietà sul bene, che è da assumersi implicita nella relativa richiesta di risarcimento del danno per equivalente.
Solo per le occupazioni avvenute dopo il 30 giugno 2003, data di entrata in vigore del D.p.R. n.327 del 2001, esiste anche l’alternativa dell’acquisizione sanante ex art.42.bis del D.p.R. medesimo.
* * *
L’8 maggio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.10095 onde va affermata la giurisdizione del GA nel caso in cui gli investitori chiedano di ordinare alla CONSOB di porre termine al proprio comportamento omissivo adottando le misure idonee a ripristinare la corretta informazione circa la reale situazione patrimoniale.
La Corte premette che la questione di giurisdizione siccome nel caso concreto proposta non attiene alla domanda risarcitoria dei privati, ma piuttosto unicamente a quella «cd. inibitoria», che lambisce l’esercizio di poteri pubblici.
* * *
Il 27 maggio esce l’importante ordinanza delle SSUU della Cassazione n.10879, che si occupa di una peculiare ipotesi di occupazione usurpativa, quella nel cui contesto la dichiarazione di pubblica utilità esiste, ma ha ormai perso efficacia.
Si tratta di una fattispecie un tempo appannaggio del GO, che tuttavia le SSUU riconducono ormai alla giurisdizione esclusiva del GA, trattandosi di controversia comunque riconducibile – in parte direttamente, in parte “mediatamente” – ad un provvedimento amministrativo.
Dopo la dichiarazione di pubblica utilità, un decreto di occupazione d’urgenza ha autorizzato l’occupazione del fondo privato, ma tale occupazione è divenuta abusiva per la sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità medesima: si è allora svolto un procedimento ablatorio, conforme con le norme che lo disciplinano (almeno fino ad un certo punto), ed è stato esercitato dalla PA il pertinente potere, anche se ex post l’ingerenza sulla proprietà privata ha perso il titolo di appoggio.
Questo è il motivo per il quale, secondo la Corte, anche il successivo comportamento della PA che non restituisca il bene va comunque avvinto, seppure in modo “mediato”, all’esercizio di un potere pubblico che si è concretato proprio nell’adozione, a suo tempo, della dichiarazione di pubblica utilità della quale è poi sopravvenuta l’inefficacia, con conseguente giurisdizione del GA.
In sostanza, per questa didascalica pronuncia delle SSUU, rientra nella giurisdizione esclusiva del GA – in quanto afferente ad una controversia riconducibile in parte direttamente ed in parte mediatamente ad un provvedimento amministrativo – la domanda di risarcimento per i danni che si pretendono conseguiti ad una occupazione iniziata, dopo la dichiarazione di pubblica utilità, in virtù di un decreto di occupazione d’urgenza e proseguita anche dopo la sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
Ciò in quanto la riconducibilità dell’occupazione del suolo privato all’esercizio di un pubblico potere sussiste anche quando l’occupazione inizia, dopo la dichiarazione di pubblica utilità, in virtù di un decreto di occupazione d’urgenza, e prosegue dopo (e nonostante) la sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, anche in questo caso configurandosi concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile come tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in conformità alle norme che lo regolano, ancorché successivamente l’ingerenza nella proprietà privata e la relativa utilizzazione siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva.
Per le SSUU, poi, anche il successivo comportamento della PA che ometta di restituire al privato il bene, pur dopo l’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, si deve connettere, ancorché mediatamente, a quel provvedimento, senza il quale non vi sarebbe stata apprensione e, per conseguenza, neppure la mancata restituzione; né potrebbe per la Corte immaginarsi – in considerazione della necessità di privilegiare soluzioni interpretative che, in aderenza ai principi del giusto processo realizzino economie processuali – una giurisdizione differenziata quanto al danno da apprensione e quanto al danno da mancata restituzione.
* * *
Il 01 giugno esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.11292 alla cui stregua va predicata la giurisdizione del GO con riguardo alla controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento dei danni subiti da stranieri in conseguenza dell’illecito respingimento “materiale” alla frontiera.
Per il Collegio l’Amministrazione, ove operi site titulo, non esercita alcun potere, ma pone in essere appunto una mera attività materiale non espressiva di quei poteri autoritativi propri dell’agire in attuazione di compiti istituzionali.
Atteso che il risarcimento del danno ingiusto costituisce materia di competenza giurisdizionale del GA non già in via di elezione, ma solo quale strumento di tutela ulteriore e complementare rispetto a quello demolitorio, il canone ridetto – coniugato con il criterio, secondo cui, ai fini del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, appare dirimente la prospettazione della domanda con specifico riferimento al relativo petitum sostanziale — comporta che l’azione risarcitoria, non postulando una controversia sulla legittimità o meno dell’agire autoritativo della competente PA, resta estranea all’ambito della giurisdizione amministrativa per essere, per l’appunto, devoluta al GO.
* * *
Il 2 luglio esce la sentenza della SSUU della Cassazione n.13568 onde – diversamente da quanto ci sarebbe potuto aspettare sulla scorta della costante giurisprudenza sul punto – va riconosciuta la giurisdizione del GA nella controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento dei danni spiccata nei confronti di un Comune, nella relativa veste di Ente proprietario della strada, patiti da un “cittadino automobilista circolante e fruitore delle strade pubbliche” per il disagio e l’ansia che gli sono derivati dalla pratica di pedoni “ben vestiti e ben pasciuti, anche deambulanti con stampella/e, muniti di cartello, marsupio e berretto” che, all’altezza dei semafori, chiedono denaro agli automobilisti.
Per la Corte di cassazione va predicata la natura di interesse legittimo della posizione soggettiva attivata – in simili casi – dal ridetto cittadino automobilista, con conseguente giurisdizione del GA ex art. 7, comma 4, c.p.a., stante l’inerzia, giuridicamente rilevante, perpetrata dall’Amministrazione comunale nel caso di specie.
Per il Collegio infatti, anche a voler configurare la posizione soggettiva dell’attore in termini di diritto soggettivo, dovrebbe in ogni caso affermarsi la giurisdizione esclusiva del GA ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a., trattandosi di questione relativa alla mancata adozione di provvedimenti contingibili ed urgenti in materia di sicurezza urbana.
Viene peraltro in rilievo nella fattispecie un’attività umana espressione di una forma di mendicità e di “semplice richiesta di aiuto” (Corte cost. n. 512 del 1995) proveniente da chi si trova in condizioni di povertà, onde per le SSUU non è pertinente il richiamo ad un presunto dovere dell’ente proprietario della strada di porre in essere una attività materiale, un mero comportamento di “pulizia delle strade“, alla stregua dell’art. 14 del codice della strada.
È infatti in gioco un ambito in cui l’azione amministrativa, pur indirizzata alla tutela di beni pubblici importanti (l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana), deve per il Collegio muoversi nel necessario rispetto della dignità della persona umana e dei diritti degli “ultimi“, essendo destinata a risolversi in prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che impongono comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni a coloro che ne sono destinatari (e che dunque non possono che rivestire forma attizia o comunque provvedimentale).
2016
Il 3 febbraio esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.2050 in tema di danni prodotti da emotrasfusione, resa in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, la quale finisce con l’affermare – a valle di un lungo ed articolato iter argomentativo – la giurisdizione del GA in una fattispecie nella quale il comportamento materiale della PA in termini di trasfusioni di sangue pregiudizievoli si interseca con la disciplina delle possibili transazioni stipulabili nell’ambito di giudizi risarcitori già intentati dalle vittime innanzi al competente GO, e disciplinate da atti regolamentari dell’Amministrazione sulla base di previsioni di fonte primaria.
Il Pubblico Ministero – rammenta la Corte in proposito – ha concluso chiedendo la declaratoria della giurisdizione del GO sulla base dell’orientamento più recente in materia della giurisprudenza amministrativa. Le Sezioni Unite ritengono, viceversa, che debba dichiararsi la giurisdizione amministrativa.
L’enunciazione delle pertinenti ragioni presuppone, per il Collegio, una ricognizione del significato degli interventi legislativi che hanno occasionato vicende come quella che concerne la ricorrente nel caso di specie; ricognizione necessaria per individuare l’atteggiarsi della natura della situazione giuridica dei privati interessati dalla disciplina pertinente, atteso che essa risulta decisiva per la determinazione della giurisdizione sul contenzioso che ne è scaturito in un sistema che ancora in linea generale – salve le ipotesi di giurisdizione cd. esclusiva del giudice amministrativo – vede il riparto di giurisdizione fra a.g.o. e a.g.a. imperniato sulla distinzione fra le situazioni giuridiche di diritto soggettivo e quelle di interesse legittimo.
D’altro canto, la prospettata ricognizione si palesa necessaria perché gli interventi legislativi che si debbono considerare si sono sempre caratterizzati per la ripetizione da parte del legislatore di disposti sostanzialmente di tenore analogo al primo, mentre la normazione secondaria da ciascuno degli interventi legittimata, sebbene si sia articolata, come si vedrà, via via in termini più specifici, non ha assunto per tale ragione un significato diverso ai fini dell’individuazione della giurisdizione sul relativo possibile contenzioso.
Mette conto dunque per la Corte iniziare l’analisi partendo dal D.L. n. 89 del 2003, art. 3, convertito, con modificazioni, nella L. n. 141 del 2003.
Questa norma stabilì, infatti, che:
‘1. Per le transazioni da stipulare con soggetti emotrasfusi danneggiati da sangue o emoderivati infetti, che hanno instaurato azioni di risarcimento danni tuttora pendenti, è autorizzata la spesa di novantotto milioni e cinquecentomila Euro per l’anno 2003 e di centonovantotto milioni e cinquecentomila Euro, per ciascuno degli anni 2004 e 2005. Al relativo onere si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2003-2005, nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente ‘Fondo speciale’ dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2003, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al Ministero della salute; il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.
2. Con decreto del Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono fissati i criteri in base ai quali sono definite le transazioni di cui al comma 1 e, comunque, nell’ambito delle predette autorizzazioni, anche sulla base delle conclusioni cui è pervenuto il gruppo tecnico istituito con decreto del Ministro della salute 13 marzo 2002‘.
Il disposto normativo appena ricordato – prosegue la Corte – assumeva come ambito di riferimento della relativa disciplina le situazioni giuridiche soggettive dei ‘soggetti emotrasfusi danneggiati da sangue o emoderivati infetti, che hanno instaurato azioni di risarcimento danni tuttora pendenti’ e in relazione ad esse prevedeva un agire della Pubblica Amministrazione, nel comma 1 in termini di possibile risultato da raggiungere, nel comma 2 in ordine al modo in cui perseguirlo.
Il tenore del disposto normativo poneva all’interprete certamente il problema di individuare – in relazione ad una ipotetica esigenza di tutela giurisdizionale riguardo all’applicazione della normativa così introdotta – quale fosse la natura della posizione che, rispetto a quanto si prevedeva circa quell’agire, si configurava in capo ai soggetti che avevano i giudizi pendenti.
L’individuazione della suddetta natura peraltro, prosegue il Collegio, non poteva certo risolversi nella mera constatazione che i soggetti contemplati dalla norma, in quanto esercenti in giudizi civili dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria una pretesa di risarcimento danni per un comportamento imputato all’Amministrazione secondo le norme privatistiche, certamente risultavano in relazione ad essi titolari, secondo il petitum sostanziale fatto valere (e. quindi, al livello della posizione giuridica effettivamente affermata con l’esercizio dell’azione in giudizio e la richiesta di tutela), di un diritto soggettivo, quello alla salute, di cui lamentavano la lesione e postulavano una consequenziale tutela risarcitoria (certamente collocantesi, del resto, al di fuori di un ambito riconducibile ad una qualsiasi ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo).
Una simile semplicistica constatazione sarebbe stata, invero, giustificata soltanto ove l’analisi del testo normativo avesse legittimato una delle seguenti conclusioni.
La prima avrebbe dovuto essere nel senso che la normativa in questione, per il relativo oggettivo contenuto e, quindi, per la relativa diretta efficacia, avesse avuto contenuti tali:
a) da dispiegare una qualche diretta incidenza su quei giudizi e, quindi, sui diritti soggettivi in essi azionati, in quanto evocati come ambito interessato dal relativo disposto in punto di disciplina dell’agire dell’amministrazione;
b) e da dispiegarla lasciandone intatta la consistenza di diritti soggettivi.
La seconda – in ragione del fatto che il disposto normativo prevedeva un agire dell’amministrazione, che, come si vedrà, sarebbe dovuto avvenire anche attraverso una normazione secondaria – avrebbe dovuto essere che a dispiegare una diretta incidenza sui giudizi e, quindi, sulle situazioni giuridiche di diritto soggettivo in essi azionate fosse proprio quell’agire, sebbene legittimatovi dalla previsione normativa della legge: anche in tal caso, naturalmente, sarebbe stato necessario che l’incidenza lasciasse intatta la consistenza del diritto soggettivo del privato.
In entrambe le ipotesi appena indicate la constatazione di una incidenza diretta della normativa legislativa o di quella secondaria da essa legittimata sul diritto soggettivo del privato in modo da provocare rispetto ad essa un atteggiarsi della situazione di interesse sottesa secondo una diversa natura, avrebbe, naturalmente, supposto la relativa individuazione, cioè avrebbe fatto emergere una situazione giuridica diversa.
Qualora, proseguono le SSUU, fossero state escluse le ipotesi appena indicate e si fosse invece concluso che, sia la normativa introdotta considerata nella relativa efficacia regolatrice, sia l’agire dell’amministrazione previsto dalla normativa, non evidenziavano alcuna diretta incidenza sulla posizione dei soggetti privati de quibus oggetto dei giudizi pendenti davanti al giudice ordinario, allora sarebbe stato giustificato il rilievo che il diritto soggettivo dei privati esercitato nei giudizi pendenti, in base alla previsione normativa, risultava ‘interessato e coinvolto’ dall’agire dell’amministrazione soltanto in senso lato e, dunque, da essa interessato in via del tutto indiretta.
Sarebbe stato allora necessario domandarsi se tale rilevanza indiretta della disciplina introdotta da detta normativa oppure quella dell’agire dell’amministrazione anche a livello di normazione secondaria da essa previsto (anche a livello di normazione secondaria), assegnasse alla situazione di diritto soggettivo, o meglio all’interesse ad esso sotteso, in quanto appunto indirettamente coinvolto, una rilevanza che – rispetto all’una e all’altro – ne manteneva intatta la stessa natura di diritto soggettivo oppure desse rilievo ad una situazione, sempre ricollegata al detto interesse, ma di diversa natura.
Ai fini dello scioglimento di tale alternativa non poteva che assumere valore decisivo il contenuto dell’agire dell’Amministrazione descritto direttamente dalla norma in esame, perché – chiosa il Collegio – quando una disposizione normativa prevede un agire della p.a. che si presenta per i relativi caratteri lato sensu interferente con una situazione di diritto soggettivo del privato, è il modo in cui l’interferenza dell’agire della p.a. è regolato dalla norma ad assumere valore decisivo per comprendere se rispetto ad esso la posizione di diritto soggettivo del privato si conservi tale oppure, in ragione dell’interferenza indiretta, si atteggi in modo diverso, il che diventa di norma decisivo per comprendere quale giurisdizione attragga una possibile controversia sulle vicende del concreto verificarsi dell’interferenza astratta prevista dalla norma.
Le Sezioni Unite ritengono a questo punto che le operazioni esegetiche sull’art. 3 sopra riprodotto, gradatamente indicate come necessarie, una volta che le si fosse eseguite, avrebbero fornito i seguenti risultati.
La lettura del comma 1 della norma in esame evidenziava un disposto normativo che certamente non presentava alcun contenuto di diretta incidenza sulla situazione giuridica di diritto soggettivo del privato, siccome dedotta e pendente in giudizio dinanzi al giudice ordinario contro l’Amministrazione.
Nell’evocare ‘transazioni da stipulare’ il comma 1, non solo si rivolgeva esclusivamente alla pubblica amministrazione, ma, inoltre lo faceva:
a) non contemplando in alcun modo un qualsivoglia comportamento da tenersi dal privato nel processo pendente e, quindi, non regolando il diritto esercitato da lui fatto valere in giudizio dal versante delle facoltà attribuite al privato stesso;
b) non attribuendo all’Amministrazione convenuta – in quanto parte del giudizio – alcun potere o alcuna facoltà direttamente incidente rispetto all’oggetto del processo, dunque, non regolando direttamente la posizione dell’Amministrazione medesima in relazione al diritto siccome oggetto di giudizio;
c) non prevedendo, in fine, neppure alcuna conseguenza oggettiva circa la sorte del giudizio, eventualmente affidandone il rilievo ex officio al giudice del processo pendente (particolarmente un’ipotesi di sospensione in attesa dell’esperimento del procedimento finalizzato all’eventuale raggiungimento della transazione).
La previsione del comma 1, suonava esclusivamente come implicitamente impositiva di un generico comportamento extraprocessuale all’Amministrazione, costituito, come suggeriva l’incipit ‘per le transazioni da stipulare’ (dove il ‘da stipulare’ suonava come niente più che un’imposizione ad essa della ricerca di tale stipulazione), dal dovere di ricercare e coltivare la possibilità di pervenire ad una transazione riguardo ai giudizi pendenti.
La previsione normativa, poi, si preoccupava solo di individuare le risorse necessaire per far fronte alle transazioni.
La situazione del privato che aveva il giudizio pendente risultava, dunque, assunta nel comma 1 esclusivamente come punto di riferimento di un agire imposto all’Amministrazione e senza che riguardo ad essa ed al suo contenuto il legislatore avesse dettato una qualche disciplina direttamente giustificativa di conseguenze a carico del privato. Analoga considerazione era possibile per la correlata posizione dell’Amministrazione con riguardo ai giudizi.
Non risultavano dunque previste conseguenze dirette sul processo pendente e, dunque, sull’azione esercitata in esso dal privato a tutela del proprio diritto soggettivo risarcitorio.
Non risultando tale diritto inciso in alcun modo in via diretta dal comma 1 nemmeno ci si poteva interrogare sulle conseguenze di una incidenza che non vi era.
D’altro canto, prosegue il Collegio, nel comma 1 non era previsto neppure come l’attivarsi dell’Amministrazione per la stipula di transazioni dovesse aver luogo.
A ciò provvedeva invece il comma 2 della norma, imponendo all’Amministrazione, con una previsione peraltro di relativo contenuto specificativo, di emanare una disciplina regolamentare diretta a fissare – anche sulla base dei risultati di un accertamento già effettuato da una commissione tecnica – i criteri con cui dovevano essere definite le ipotetiche transazioni, id est si doveva tentare da parte dell’Amministrazione di transigere le liti pendenti.
In pratica il legislatore demandava all’autorità amministrativa, ancorché a un livello ministeriale e per il tramite di una disciplina regolamentare, dunque di normazione secondaria, il compito di individuare in che termini la ricerca da parte sua di una possibile definizione transattiva delle controversie pendenti dovesse essere perseguita, di modo che all’Amministrazione era imposto sostanzialmente di ‘darsi le regole’ per perseguire il compito affidatole.
In punto di contenuto del potere regolamentare così conferito, l’allusione alla fissazione di ‘criteri‘ sulla base delle valutazioni del ‘gruppo tecnico’ nominato nella norma, implicava – secondo un’esegesi finalistica – che il decreto dovesse, sulla base dei risultati del pertinente lavoro, stabilire le modalità ed i contenuti della individuazione non già di una proposta di definizione transattiva in relazione a ciascuna delle controversie pendenti, bensì, con un grado di astrazione coessenziale alla fonte regolamentare, delle caratteristiche soggettive ed oggettive che le controversie pendenti dovevano presentare perché l’amministrazione dovesse in relazione ad esse poi attivarsi nella ricerca della loro possibile definizione transattiva e delle modalità concrete di tale attivazione.
La normazione regolamentare prevista dal comma 2 evocava allora in modo manifesto un potere regolamentare di carattere certamente formalmente esecutivo della volontà legislativa di doversi ricercare transazioni, ma sostanzialmente imponendo all’Amministrazione di procedere a tale esecuzione anzitutto con un contenuto auto-organizzatorio, cioè diretto a fissare le regole cui l’Amministrazione si sarebbe dovuta ispirare in concreto nella ricerca della definizione transattiva delle controversie.
Poiché sarebbe stata contraddetta la vocazione regolamentare, dunque normativa, del potere conferito, è palese che l’esercizio del potere regolamentare mediante il decreto non doveva portare neppure alla formulazione, sebbene in senso collettivo, di proposte di definizione transattiva adeguate ad una serie di controversie fra quelle evocate dal comma 1 della norma, cioè alla adozione di un atto amministrativo cd. collettivo con simile contenuto.
Il regolamento doveva soltanto individuare innanzitutto i requisiti che le controversie dovevano presentare per dar corso al tentativo di transazione e cui l’Amministrazione in concreto si sarebbe dovuta attenere nel praticare poi la possibilità di transazione; in secondo luogo, procedere alla determinazione delle modalità con le quali l’Amministrazione avrebbe dovuto agire nell’attivarsi in concreto in funzione della conclusione delle transazioni.
E’ palese, invece, che, dovendosi, per il procedimento di formazione del consenso sulla transazione, ricorrere – nell’assoluto silenzio della legge circa modalità diverse da quelle di diritto privato – ai meccanismi propri del diritto privato, la concreta formulazione di una proposta di stipulazione di un negozio transattivo da parte della p.a. e la relativa disciplina, nonché la conclusione del relativo negozio, restavano del tutto escluse dal potere regolamentare dell’Amministrazione, nel senso che la autoregolamentazione da parte dell’Amministrazione del proprio operato al riguardo non avrebbe potuto certo svolgere alcuno degli effetti propri degli istituti del diritto privato relativi alla conclusione del contratto, sebbene con una PA, oppure sostituirsi ad essi.
Nulla in proposito era previsto nella normativa in esame e nessuna legittimazione del conferito potere regolamentare ad occuparsi di questo si poteva cogliere, come s’è già detto, nell’affidamento della fissazione dei ‘criteri’ oggetto del detto potere.
D’altro canto, prosegue la Corte, nella norma in esame non era nemmeno previsto – neppure in via implicita – che, una volta manifestatasi da parte dell’Amministrazione la proposta di transazione, naturalmente secondo gli schemi di diritto privato, ancorché in conformità ai criteri auto-organizzatori fissati nel regolamento, alla relativa formulazione fossero ricollegati effetti a carico del privato, distinti da quelli previsti dalla normale disciplina di diritto privato. La stessa cosa dicasi per l’incidenza sul giudizio pendente.
Si deve, dunque, concludere per il Collegio che una interferenza diretta sul diritto soggettivo oggetto dei giudizi pendenti della disciplina legislativa e della fonte regolamentare da essa prevista e, dunque, dell’agire dell’Amministrazione in base all’una ed altra esercitabile, era, pertanto, esclusa anche nella previsione del comma 2.
Esclusa tale interferenza diretta, l’insorgenza di una possibile contesa fra il privato e l’Amministrazione circa il modo in cui la seconda avesse esercitato il potere regolamentare non poteva riguardare in alcun modo il diritto soggettivo oggetto del giudizio pendente e, dunque, l’eventuale controversia introdotta non poteva dirsi concernere in via diretta tale diritto e restare attratta alla giurisdizione del g.o. sotto tale profilo.
Come s’è già detto, chiosa ancora la Corte, per il fatto stesso che la disciplina dell’agire dell’Amministrazione siccome introdotta dalla normativa in esame assumeva come presupposto la pendenza del giudizio sul diritto soggettivo risarcitorio in esso azionato, era, tuttavia, innegabile che essa e le relative conseguenze normative regolamentari, oltre a quelle ulteriormente consequenziali dell’agire della p.a. da esse legittimate, in quanto destinate a sfociare nella prospettazione della possibilità di una transazione, se apprezzate dal punto di vista del privato sulla base del criterio dell’interesse, si presentavano comunque idonee a dar luogo ad una interferenza – sebbene del tutto eventuale ed indiretta – sulla situazione del medesimo.
Si palesava, cioè, in relazione al diritto soggettivo dedotto in giudizio certamente e, quindi, all’interesse ad esso sotteso, una situazione per cui l’esercizio del potere regolamentare in modo da comprendere, secondo i criteri fissati, anche il giudizio oppure no, e, nel primo caso, il successivo agire dell’Amministrazione, in quanto diretti a consentire una definizione transattiva della vicenda giudiziale, avevano rilievo sebbene indiretto e, dunque, ‘interessavano’ il privato nella prospettiva della ‘convenienza’ di una qualche soddisfazione del diritto soggettivo risarcitorio in una certa misura e in via più breve rispetto alla durata del processo, senza di esso correrne l’alea.
Come tale, detta interferenza e, dunque, il correlato interesse certamente ponevano i soggetti che avevano pendenti i giudizi indicati nel comma 1, in relazione sia con il potere normativo regolamentare previsto dal comma 2 sia con il successivo agire dell’Amministrazione in base alla normazione.
Tale relazione si profilava come interesse a che innanzitutto l’Amministrazione esercitasse il potere regolamentare e lo facesse con criteri atti a comprendere anche la vicenda relativa al privato e, poi, si attivasse nel perseguire la transazione osservando le previsioni del regolamento, cioè rispettando le regole date al relativo agire dalla fonte regolamentare.
A questo punto si poneva l’ulteriore problema della qualificazione di tale duplice e gradato interesse dal punto di vista della natura della situazione giuridica riferibile al privato.
Essa sarebbe potuta alternativamente avvenire:
1a) in termini di qualificazione come un mero interesse semplice, cioè evidenziantesi oggettivamente per il sol fatto che l’adozione della normativa regolamentare e la fissazione dei criteri e la riconducibilità della controversia da esso introdotta nel loro ambito fosse un agire dell’Amministrazione che poteva portare al soddisfacimento della situazione di diritto soggettivo mediante un regolamento transattivo, ma senza che si potesse ritenerlo deducibile come oggetto di una qualche tutela giurisdizionale in relazione a tale agire, come appunto accade per gli interessi cd. semplici, che non danno luogo a tutela giurisdizionale;
1b) in termini di vero e proprio interesse legittimo, cioè sempre evidenziantesi allo stesso modo indicato sub 1a), ma con una connotazione ulteriore, tale da rivelare la possibilità di ritenerlo eventualmente direttamente meritevole di tutela giurisdizionale proprio sub specie di pretesa a che l’amministrazione agisse effettivamente a livello normativo secondario esercitando il relativo potere regolamentare in modo da comprendere nella tipologia di situazioni regolate la controversia introdotta dal privato e poi rispettasse i criteri in esso espressi.
La seconda ipotesi di qualificazione si sarebbe dovuta evidenziare:
1b1) o in forza di indici desunti direttamente della previsione legislativa; 1b2) o per concreta emersione affidata dalla previsione legislativa al tramite dell’esercizio del potere regolamentare da parte dell’Amministrazione.
Ai fini di questo regolamento di giurisdizione interessa per la Corte rilevare che, poiché lo stabilire se l’art. 3 in esame (o con la propria diretta disciplina o assegnando al potere regolamentare previsto un corrispondente significato) avesse individuato in capo ai soggetti dei giudizi pendenti un interesse semplice oppure un interesse legittimo, postulava lo scioglimento di un’alternativa che – una volta ravvisata l’interferenza dell’agire dell’Amministrazione con una situazione giuridica del privato, come s’è detto senza ch’essa riguardasse direttamente il contenuto di un diritto soggettivo – supponeva l’affermazione o la negazione, alla situazione determinata da detta interferenza, della dignità dell’interesse legittimo, si doveva concludere che la relativa questione appartenesse, in caso di contrasto fra il privato e l’Amministrazione, e, quindi, di manifestarsi di un bisogno di tutela giurisdizionale, al ‘merito’ dell’esercizio della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo sugli interessi legittimi.
Compete, infatti, al GA nell’esercizio della relativa giurisdizione di legittimità accertare se la situazione giuridica del privato coinvolta dall’agire dell’Amministrazione (e che non si atteggi come diritto soggettivo) rivesta la natura di interesse legittimo oppure di interesse di fatto, come tale non giustiziabile secondo la tecnica di tutela propria della giurisdizione amministrativa di legittimità.
Ne segue che una controversia introdotta dal privato contemplato dal D.L. n. 89 del 2003, art. 3 in relazione all’agire dell’Amministrazione concretatosi nell’emanazione del previsto regolamento e nelle determinazioni dell’amministrazione in base ad esso, supponendo la previa individuazione della natura della situazione del privato in termini di interesse legittimo e non di interesse semplice, era riconducibile alla giurisdizione amministrativa di legittimità.
Le considerazioni e le conclusioni che si sono esposte – prosegue il Collegio – risultavano adeguate anche in relazione al tenore assunto dall’esercizio del potere regolamentare previsto dal comma 2 della norma sopra considerata, cioè al D.M. 3 novembre 2003 del Ministro della salute, il quale:
aa) all’art. 1, comma 1, previde che ‘Al risarcimento dei danni subiti dai soggetti emofiliaci a seguito di assunzione di emoderivati infetti si provvede in base ai seguenti criteri: a) stipula di atto formale di transazione con gli aventi causa da danneggiati deceduti; b) stipula di atto formale di transazione con i soggetti danneggiati viventi che abbiano ottenuto almeno una sentenza favorevole; c) stipula di atto formale di transazione con i soggetti danneggiati viventi che hanno azionato la loro pretesa in giudizio senza avere ancora ottenuto alcuna sentenza favorevole’;
bb) al comma 2 affidò alla Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi di sistema del Ministero della salute l’incarico ‘di predisporre tre moduli transattivi distinti, rispettivamente, per le posizioni indicate alle lett. a), b) e c), comma 1’;
cc) all’art. 3, comma 1, stabilì che ‘I pagamenti delle somme da erogare in sede transattiva ai soggetti di cui all’art. 1, saranno effettuati non appena prodotta dagli interessati la certificazione necessaria: a) alla esatta identificazione del soggetto stesso; b) alla verifica della patologia contratta; c) all’accertamento della posizione di erede (legittimo o testamentario), in caso di sopravvenuto decesso del danneggiato’, e, di seguito, che ‘La documentazione di cui sopra dovrà pervenire entro il termine di trenta giorni decorrenti dalla pubblicazione del presente decreto’, mentre al comma 2 che ‘La documentazione di cui al comma 1, sarà acquisita dall’Amministrazione per il tramite dei legali difensori in giudizio dei soggetti danneggiati’;
dd) all’art. 4 che ‘La definizione delle procedure per la stipula degli atti di transazione di cui al presente decreto è affidata alla Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema del Dipartimento della qualità presso il Ministero della salute’.
In questa sede – chiosa a questo punto la Corte – non interessa approfondire le problematiche connesse ai punti della normazione secondaria, là dove nell’art. 3 evocava direttamente la documentazione per il pagamento, assoggettando ad un termine dalla pubblicazione del decreto ed a carico degli interessati la relativa produzione e però poi con apparente contraddittorietà parlava di acquisizione da parte dell’Amministrazione tramite i difensori nei giudizi, ed ancora nell’art. 4 evocava la definizione delle procedure transattive, concetto difficilmente compatibile con il pagamento apparentemente condizionato alla sola produzione della documentazione.
Può notarsi semmai, prosegue la Corte, che la previsione del pervenimento della documentazione entro il detto termine – sempre che non si dovesse intendere condizionata alla richiesta dell’Amministrazione come diceva il comma 2, art. 3 – stabiliva un onere a carico degli interessati, ma esso era funzionale all’agire dell’Amministrazione per le relative determinazioni circa la possibile definizione transattiva della vicenda e in relazione ad esso non era dubbio che l’interesse del privato si configurasse per espressa individuazione appunto come interesse a che l’Amministrazione esercitasse tali determinazioni.
Senonché, l’emersione di tale onere e l’espressa individuazione del detto interesse non sottraevano la situazione, in punto di giustiziabilità, sempre all’alternativa della qualificazione dell’onere come espressione di un interesse semplice o di un interesse legittimo.
Con la conseguenza che spettava al g.a. risolvere il problema di siffatta qualificazione, chiarendo se detta emersione e individuazione giustificassero il ravvisare oppure no un situazione di interesse legittimo. E l’eventuale controversia non cessava di restare attribuita a quel giudice, come ogni altra che fosse stata immaginabile sull’esercizio del potere di normazione secondaria e sull’osservanza da parte della p.a. di quanto in esso previsto.
Nemmeno in relazione al contenuto assunto dalla fonte regolamentare eventuali controversie avrebbero potuto coinvolgere il GO.
Il successivo intervento legislativo, quello di cui al D.L. n. 250 del 2005, art. 4, convertito con modificazioni, nella L. n. 27 del 2006, sostanzialmente non merita per la Corte considerazioni differenti da quelle svolte per la normativa precedente, cui si richiamava. Esso si segnala solo per la previsione, nel secondo inciso del comma 1, in relazione alla prospettiva del riconoscimento di un maggiore indennizzo in sede transattiva, che ‘La corresponsione di tale ulteriore indennizzo è subordinata alla formale rinuncia, da parte degli interessati, ad ogni ulteriore pretesa, anche di natura risarcitoria, nei confronti dello Stato e degli enti del Servizio sanitario nazionale, nonchè alla estinzione, a spese compensate, dei giudizi in atto’.
In tal modo, il legislatore si preoccupava di stabilire una regola concernente il concreto contenuto dell’eventuale negozio transattivo che l’Amministrazione avesse stipulato. Tale disposto non afferiva in alcun modo all’atteggiarsi dell’interesse del privato rispetto all’agire della p.a., che non sfuggiva sempre alla descritta alternativa qualificatoria o di interesse semplice o di interesse legittimo e, quindi, alle già descritte conseguenze in punto di giurisdizione.
Com’è noto, prosegue il Collegio, l’intervento legislativo successivo si ebbe con il D.L. n. 159 del 2007, art. 33, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 222 del 2007: quella norma, sotto la rubrica ‘Disposizioni a favore di soggetti danneggiati da trasfusioni infette’, dopo avere, nel comma 1, specificato la platea dei soggetti e dei giudizi interessati, disponendo che ‘Per le transazioni da stipulare con soggetti talassemici, affetti da altre emoglobinopatie o affetti da anemie ereditarie, emofilici ed emotrasfusi occasionali danneggiati da trasfusione con sangue infetto o da somministrazione di emoderivati infetti e con soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, che hanno instaurato azioni di risarcimento danni tuttora pendenti, è autorizzata la spesa di 150 milioni di Euro per il 2007′.
Nel comma 2 stabilì che: ‘Con decreto del Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono fissati i criteri in base ai quali sono definite, nell’ambito di un piano pluriennale, le transazioni di cui al comma 1 e, comunque, nell’ambito della predetta autorizzazione, in analogia e coerenza con i criteri transattivi già fissati per i soggetti emofilici dal decreto del Ministro della salute 3 novembre 2003, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 280 del 2 dicembre 2003, sulla base delle conclusioni rassegnate dal gruppo tecnico istituito con decreto del Ministro della salute in data 13 marzo 2002, con priorità, a parità di gravità dell’infermità, per i soggetti in condizioni di disagio economico accertate mediante l’utilizzo dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, e successive modificazioni’.
Quasi coevamente intervenne, poi, la L. n. 244 del 2007, art. 2, commi 362 e 363, con contenuti identici rispetto al citato art. 33 e riferiti ad un’autorizzazione di spesa ‘a decorrere dall’anno 2008‘.
Il giudizio riguardo al quale è stato richiesto il regolamento di giurisdizione – rammenta a questo punto la Corte – si iscrive in quelli soggetti alle disposizioni legislative del 2007 ora richiamate.
Il tenore delle due disposizioni, essendo sostanzialmente identico, sia con riferimento alla loro disciplina diretta sia con riferimento al significato del conferimento del potere regolamentare, a quello della disposizione del 2003, giustifica evidentemente le stesse considerazioni che si sono svolte a proposito di essa.
Com’è noto, chiosa ancora il Collegio, il potere regolamentare previsto nuovamente dalle due disposizioni del 2007 venne esercitato dal Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali con il D.M. 28 aprile 2009, n. 132, che si autodefinì come regolamento di esecuzione delle due norme e venne emesso ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, commi 3 e 4 nella dichiarata intenzione (come dalla premessa) di regolamentare ‘tutta la procedura attuativa per la stipula delle transazioni in applicazione delle disposizioni citate’ e nella considerazione ‘che, con D.M. Salute 4 marzo 2008 e successive modificazioni, è stata istituita una Commissione con il compito di provvedere alla propedeutica attività istruttoria per la determinazione dei criteri in base ai quali definire le transazioni da stipulare’.
Il D.M. in questione – rammenta la Corte – ebbe i seguenti contenuti:
1) nell’art. 2, comma 1, stabilì che ‘Costituiscono presupposti per la stipula delle transazioni con i soggetti di cui all’art. 1: a) l’esistenza di un danno ascrivibile alle categorie di cui alla Tabella A annessa al D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834, accertato dalla competente Commissione Medico Ospedaliera di cui al D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, art. 165 di seguito denominata ‘Commissione’, o dall’Ufficio medico legale della Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli essenziali di assistenza e dei principi etici di sistema del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, di seguito denominato ‘Ufficio medico legale’, o da una sentenza; b) l’esistenza del nesso causale tra il danno di cui alla precedente lettera a) e la trasfusione con sangue infetto o la somministrazione di emoderivati infetti o la vaccinazione obbligatoria, accertata ad opera della competente Commissione o dall’Ufficio Medico Legale o da una sentenza; limitatamente alle transazioni da stipulare con gli aventi causa di danneggiati deceduti, si prescinde dalla presenza del nesso di causalità tra il danno di cui alla lettera a) ed il decesso, accertato dalla competente Commissione o dall’Ufficio Medico Legale o da una sentenza’;
2) nell’art. 2, comma 2, dispose che ‘Per la stipula delle transazioni si tiene conto dei principi generali in materia di decorrenza dei termini di prescrizione del diritto.’;
3) nell’art. 3, comma 1, dispose che: ‘Per la stipula delle transazioni con i soggetti di cui all’art. 1, in coerenza con il prevalente orientamento delle giurisdizioni superiori in materia, si applicano i seguenti criteri specifici, fermi restando i presupposti di cui all’art. 2:
a) per i soggetti talassemici, i soggetti affetti da drepanocitosi o anemia falciforme ed i soggetti emofilici si adottano i medesimi criteri e corrispondenti moduli transattivi già fissati per i soggetti emofilici dal D.M. salute 3 novembre 2003, art. 1, comma 1, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 280 del 2 dicembre 2003. sulla base delle conclusioni rassegnate dal gruppo tecnico istituito con D.M. salute in data 13 marzo 2002, ivi compresi gli importi fissati dallo stesso documento conclusivo e riportati nella tabella allegata al presente decreto, da considerarsi limiti massimi inderogabili entro cui determinare i singoli importi transattivi in base all’età del soggetto al momento della manifestazione del danno;
b) per i soggetti emotrasfusi occasionali, i soggetti affetti da altre emoglobinopatie o da anemie ereditarie, considerando come limiti massimi inderogabili, entro cui determinare i singoli importi transattivi, gli importi riportati nella tabella allegata, si adottano i seguenti criteri per le diverse tipologie di transazioni: 1) transazioni da stipulare con gli aventi causa di danneggiati deceduti: si tiene conto della entità del danno subito, dell’età del soggetto al momento della manifestazione del danno e dell’eventuale nesso tra il danno subito ed il decesso, accertato dalla competente Commissione o dall’Ufficio Medico Legale o da una sentenza; 2) transazioni da stipulare con i soggetti danneggiati viventi che abbiano ottenuto almeno una sentenza favorevole: si tiene conto della entità del danno subito, dell’età del soggetto al momento della manifestazione del danno e del grado del giudizio in cui è stata pronunciata la sentenza favorevole; 3) transazioni da stipulare con i soggetti danneggiati viventi che hanno azionato la loro pretesa in giudizio senza avere ancora ottenuto alcuna sentenza favorevole: si tiene conto della entità del danno subito, dell’età del soggetto al momento della manifestazione del danno;
c) per i soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, considerando come limiti massimi inderogabili, entro cui determinare i singoli importi transattivi, gli importi riportati nella tabella allegata, si adottano i seguenti criteri per le diverse tipologie di transazioni: 1) transazioni da stipulare con gli aventi causa di danneggiati deceduti: si tiene conto del tipo di vaccinazione, della entità del danno subito, dell’età del soggetto al momento della manifestazione del danno e dell’eventuale nesso tra il danno subito ed il decesso, accertato dalla competente Commissione o dall’Ufficio Medico Legale o da una sentenza; 2) transazioni da stipulare con i soggetti danneggiati viventi che abbiano ottenuto almeno una sentenza favorevole: si tiene conto del tipo di vaccinazione, della entità del danno subito, dell’età del soggetto al momento della manifestazione del danno e del grado del giudizio in cui è stata pronunciata la sentenza favorevole; 3) transazioni da stipulare con i soggetti danneggiati viventi che hanno azionato la loro pretesa in giudizio senza avere ancora ottenuto alcuna sentenza favorevole: si tiene conto del tipo di vaccinazione, della entità del danno subito e dell’età del soggetto al momento della manifestazione del danno;
d) nei casi in cui l’amministrazione sia stata condannata al risarcimento per un importo complessivo, al lordo di interessi, rivalutazione e spese legali, superiore agli importi riportati nella tabella allegata, il limite massimo inderogabile per la transazione sarà pari all’80% dell’importo stabilito in sentenza nei casi di sentenza non definitiva di primo grado e al 90% nei casi di sentenza non definitiva d’appello’;
4) nell’art. 4, comma 1, si dispose che ‘L’acquisizione delle domande di adesione alla procedura transattiva, è effettuata secondo le seguenti modalità: a) i soggetti di cui all’art. 1, comma 1 che sono interessati alla stipula di una transazione, rivolgono la domanda di adesione al Ministero; la domanda di adesione costituisce manifestazione di interesse ed ha valore di istanza per l’accesso alla successiva fase di stipula delle singole transazioni; b) la presentazione delle domande avviene, di regola, con modalità di inoltro per via telematica al Ministero, secondo modalità tecniche fissate con apposita circolare del Direttore della Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli essenziali di assistenza e dei principi etici di sistema del Ministero da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e nel sito internet del Ministero; ove il legale non possa motivatamente avvalersi della modalità di inoltro telematico, la domanda potrà essere inoltrata al Ministero secondo modalità fissate dalla medesima circolare; c) la domanda è presentata dal legale che assiste l’interessato nel giudizio pendente di risarcimento del danno entro 90 giorni a decorrere dalla data di pubblicazione, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, della circolare di cui alla lettera e); alla stessa domanda è allegata la documentazione di seguito elencata: 1.copia del verbale della competente Commissione o parere dell’Ufficio medico legale o copia di sentenza con cui è stato riconosciuto il danno ascrivibile alle categorie di cui alla Tabella A annessa al D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834, e nesso causale tra il danno e la trasfusione con sangue infetto o la somministrazione di emoderivati infetti o la vaccinazione obbligatoria’;
5) nell’art. 4, comma 2, si dispose circa l’allegazione di ulteriore documentazione e si previde la facoltà del Ministero di richiedere, in qualsiasi fase della procedura di richiedere ulteriore eventuale documentazione necessaria per la definizione della procedura transattiva;
6) nell’art. 5, comma 1, si previde che ‘Per la definizione dei moduli transattivi derivanti dall’applicazione dei criteri di cui all’art. 3 … si provvede con decreto di natura non regolamentare del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, adottato sulla scorta di lavoro istruttorio della Commissione tecnica istituita con decreto del Ministro della salute 4 marzo 2008 e sentita l’Avvocatura generale dello Stato’;
7) nell’art. 6, comma 1, si stabilì che ‘Alla definizione degli schemi dei singoli atti transattivi, da sottoporre al parere dell’Avvocatura generale dello Stato, provvede la Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli essenziali di assistenza e dei principi etici di sistema del Ministero, entro sessanta giorni dalla data della pubblicazione del decreto interministeriale di cui all’art. 5’; e nel comma 2 si stabilì che ‘Qualora l’interessato non presenti l’ISEE di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109 , non potrà avvalersi della priorità a parità di gravità dell’infermità di cui alla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 2, comma 362 e di cui al D.L. 1 ottobre 2007, n. 159, art. 33, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 novembre 2007, n. 222′;
8) nell’art. 7, comma 1, si dispose che ‘Alla stipula delle transazioni provvede la Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli essenziali di assistenza e dei principi etici di sistema del Ministero’ e nel comma 2 che ‘All’atto della stipula della transazione, i soggetti di cui all’art. 1 rinunciano espressamente alle domande e agli atti dei giudizi pendenti, nonché a qualsiasi ulteriore pretesa nei confronti dell’Amministrazione pubblica, comunque derivante dai fatti di cui ai giudizi pendenti’;
9) in fine, nell’art. 8, comma 1, si dispose che ‘All’esame di richieste di transazione pervenute dopo la data di cui all’art. 4, comma 1, lett. c) si procede successivamente alla stipula dei singoli atti transattivi e nei limiti delle residue disponibilità di bilancio’.
Successivamente al D.M. n. 132 del 2009, proseguono le SSUU, il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali emise la Circolare del 20 ottobre 2009, n. 28, recante ‘Modalità di presentazione delle domande di adesione alle transazioni ai sensi del decreto 28 aprile 2009, n. 132′.
Tale circolare determinò minuziosamente le modalità di presentazione delle cd. domande di adesione.
E’ noto, precisa a questo punto la Corte, che all’adempimento indicato sopra, cioè l’emanazione del decreto di natura non regolamentare previsto dal D.M. n. 132 del 2009, art. 6, comma 1, si provvide invece con il D.M. salute 4 maggio 2012, rubricato ‘Definizione dei moduli transattivi in applicazione dell’art. 5 del decreto del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze 28 aprile 2009, n. 132′.
Nel detto decreto, all’art. 1 si è data in generale la ‘Definizione di modulo transattivo’ e negli artt. 2 e 3 e 4 la si è specificata in relazione alle varie tipologie di soggetti, mentre nell’art. 5 – sotto la rubrica ‘Attuazione dell’art. 2, comma 2 e dell’art. 3, Attuazione dell’art. 2, comma 2 e dell’art. 3, 1′, del regolamento del 2009, si è così disposto:
‘1. In attuazione di quanto disposto dall’art. 2, comma 2, del regolamento i moduli transattivi si applicano ai soggetti che abbiano presentato istanze, entro il 19 gennaio 2010, per le quali: a) non siano decorsi più di cinque anni tra la data di presentazione della domanda per l’indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, ovvero tra la eventuale data antecedente rispetto alla quale risulti in base ai criteri di cui all’allegato 6 al presente decreto già documentata la piena conoscenza della patologia da parte del danneggiato e la data di notifica dell’atto di citazione, da parte dei danneggiati viventi; b) non siano decorsi più di dieci anni tra la data del decesso e la data di notifica dell’atto di citazione da parte degli eredi dei danneggiati deceduti;c) non sia già intervenuta una sentenza dichiarativa della prescrizione.
2. In attuazione di quanto disposto dall’art. 3, comma 1, del regolamento, i moduli transattivi si applicano ai soggetti che abbiano presentato istanze per le quali risulti un evento trasfusionale accertato da una sentenza o, in mancanza, nell’ordine, dal parere dell’ufficio medico legale, dal verbale della Commissione medica ospedaliere, dal parere emesso dall’ufficio medico legale ai soli fini transattivi non anteriore al 24 luglio 1978, data di emanazione della circolare ministeriale n. 68 che rende obbligatoria la ricerca dell’antigene dell’epatite B nel sangue e negli emoderivati’.
Nell’art. 6, sotto la rubrica ‘Programmazione finanziaria’, si sono disciplinati i contenuti delle transazioni con riferimento alle modalità di pagamento rateale degli importi concordati.
Nell’art. 7 si sono dettate disposizioni sul regolamento delle spese legali nella transazione e nell’art. 8, a proposito del ‘Contenzioso dei congiunti’, si è previsto che ‘1. Nei casi in cui il giudizio sia stato introdotto anche dai congiunti del soggetto danneggiato, l’atto transattivo dovrà essere sottoscritto anche da tali soggetti con espressa rinuncia ad ogni ulteriore ragione di credito iure proprio’.
Ora, prosegue la Corte, sia il D.M. n. 132 del 2009, sia la successiva circolare dello stesso anno, sia, quindi, il decreto di regolamentazione dei moduli transattivi, si connotano come atti – il primo di normazione secondaria, gli altri due non rivestenti tale natura – certamente interferenti in via indiretta rispetto all’interesse dei soggetti privati aventi giudizi pendenti contemplati dalle fonti legislative del 2007 rispetto all’agire dell’amministrazione con tali atti manifestatosi.
Il primo, il D.M. n. 132, fu espressione dell’obbligo dell’Amministrazione di adottare il regolamento previsto dalle due disposizioni legislative del 2007. La circolare del 2009 fu espressione – in mancanza di adozione dell’atto regolatore dei moduli – del potere dell’Amministrazione di disciplinare il proprio agire in relazione alla ricerca della definizione transattiva e. quanto alla definizione dello stesso potere, esercitato però con l’atto non regolamentare previsto dalla normativa legislativa. Il D.M. del 2012 si connotò per la relativa qualificazione come atto non regolamentare, come un atto collettivo, cioè disciplinante l’agire dell’Amministrazione in relazione alle situazioni concrete rientranti nelle tipologie previste dal regolamento.
L’analiticità delle previsioni e segnatamente quella di cui al decreto del 2012 e la espressa direzione talvolta ai soggetti interessati, ai quali vengono prescritti modalità per rivolgersi all’Amministrazione, sono elementi che debbono valutarsi ai fini della qualificazione della natura della loro interferenza con l’interesse di essi riguardo ai loro contenuti sul piano dell’agire dell’Amministrazione: ciò, sia quanto ai contenuti che essi hanno assunto e, dunque, alla loro stessa adozione in un certo modo piuttosto che in un altro, sia quanto alla loro osservanza.
Si tratta, però, di elementi di analiticità e specificità che, in quanto, in ipotesi, giustificati anche implicitamente dalla previsione legislativa del potere regolamentare, possono ancora una volta rilevare esclusivamente ai fini dell’operazione di qualificazione dell’atteggiarsi dell’interesse dei privati nuovamente sub specie di interesse semplice oppure di interesse legittimo.
Ma resta chiaro che l’interesse del privato che è coinvolto dall’agire dell’Amministrazione siccome concretatosi negli atti in questione e siccome articolatosi eventualmente con atti e comportamenti tenuti sulla base di essi, non diversamente da quel che si è osservato per la disciplina anteriore, si pone – in quanto viene in giuoco sempre un agire dell’Amministrazione che non è in alcun modo direttamente incidente sulla situazione giuridica di diritto soggettivo dedotta nel giudizio risarcitorio – esclusivamente come un interesse che non è in alcun modo quello che direttamente è tutelato e resta tutelabile davanti al giudice ordinario come diritto soggettivo.
Si tratta, riguardo all’adozione della normativa regolamentare prevista dalla legge (cioè il D.M. n. 132), ancora una volta, come già accadeva per la fonte regolamentare legittimata dalla norma del 2003, di un interesse a che appunto essa fosse adottata e, in ipotesi, a che fosse adottata con un certo contenuto piuttosto che con un altro.
La stessa cosa dicasi per gli interessi relativi al contenuto del decreto del 2012 sui cd. moduli e della circolare che lo precedette e per gli atti e i comportamenti tenuti dall’amministrazione sulla base di essi.
Si tratta – prosegue la Corte -di interessi tutti ricollegati ad un agire dell’amministrazione certamente interferente in via indiretta con il diritto soggettivo azionato in giudizio.
Ma tali interessi, in quanto posti in relazione con tale agire, non appaiono assolutamente espressione del contenuto di quel diritto, su cui, lo si ricorda e lo si ribadisce anche a proposito degli atti in questione, l’agire dell’Amministrazione non ha inciso e non ha interferito in alcun modo direttamente. Sono invece interessi a che quell’agire, rilevante solo per le determinazioni dell’Amministrazione riguardo al relativo atteggiamento circa la situazione oggetto dei giudizi, si indirizzi in un certo modo piuttosto che in un altro in quanto dal privato si sostiene che tale modo corrisponda alla legittimità dell’azione dell’Amministrazione medesima.
Stabilire se gli interessi in questione erano e sono azionabili in giudizio, in quanto qualificabili non come interessi semplici ma come interessi legittimi è questione che, come s’è già detto a proposito della disciplina anteriore, concerne l’atteggiarsi degli stessi in modo giustiziabile oppure no ed è, dunque, questione che è rimessa al giudice dinanzi al quale la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi è possibile.
Il fatto, poi – come si legge nelle sentenze del GA di vertice che hanno invece ritenuto la giurisdizione del GO, capovolgendo l’orientamento precedente – che l’agire dell’amministrazione espressosi nell’atto regolamentare del 2009 e, quindi, in quello relativo ai moduli abbia stabilito delle regole cui l’Amministrazione si doveva attenere nel perseguire il dovere di ricercare un accordo transattivo, facendo riferimento, fra le situazioni oggetto dei giudizi pendenti, a quelle che presentano determinate caratteristiche sulla base di categorie civilistiche, come quella della prescrizione, non si comprende come, il fatto che l’Amministrazione abbia fatto riferimento a dette categorie, possa di per sé assumere rilievo per giustificare che la controversia sulle regole che l’Amministrazione ha adottato e sulle relative applicazioni sia una controversia soggetta alla giurisdizione ordinaria.
S’è già detto che in alcun modo la situazione giuridica soggettiva del privato siccome dedotta in giudizio e meno che mai il diritto di azione con cui è stata fatta valere in giudizio sono state direttamente interferite dall’agire dell’Amministrazione siccome espresso dai detti atti.
E anche la stessa determinazione dell’Amministrazione, sulla base delle regole che si è data, di ammettere o meno un soggetto privato al procedimento civilistico di conclusione di una transazione riveste una qualche idoneità a spiegare effetti sulla situazione giuridica del privato, posto che non è per lui vincolante e non determina effetti sul giudizio in cui è stata azionata.
Con riferimento al caso di specie, in cui l’Amministrazione è addivenuta ad una determinazione negativa in ordine alla possibilità di transigere con la ricorrente e tale determinazione è l’atto da costei impugnato dinanzi al GA, a maggior ragione deve escludersi che l’eventuale illegittimità di tale determinazione rispetto alle regole che si è data l’Amministrazione e l’eventuale illegittimità derivata dalla ipotetica illegittimità di queste stesse regole (in quanto deducibile nel relativo giudizio, perché, a quel che sembra, già fatta valere con impugnative dinanzi al giudice amministrativo antecedenti) integri una lite sul diritto soggettivo al risarcimento che è già oggetto del giudizio pendente davanti all’a.g.o..
Si tratta di una lite che concerne una situazione giuridica soggettiva che la ricorrente assume essere di interesse legittimo, asserendola lesa dalla decisione di non ammetterla al modulo transattivo ricorrente e ciò sulla base delle regole che la stessa amministrazione si è data a livello prima di regolamento nel 2009 e, quindi, con il decreto del 2012.
Lo stabilire se l’interesse legittimo così azionato sussiste in primo luogo in astratto, cioè in quanto emergente direttamente dalla normativa primaria del 2007 o da quella secondaria sulla base di essa emessa con il D.M. del 2009 e dell’atto non normativo di cui al D.M. del 2012, e si configuri poi in concreto come leso, è una questione inerente la fondatezza dell’azione esercitata e che deve essere risolta dal giudice amministrativo.
La sicura circostanza – condivisa dal GA nelle sentenze che hanno affermato il nuovo orientamento – che l’agire dell’Amministrazione concretatosi nei detti atti non abbia spiegato alcuna efficacia sulla posizione di diritto soggettivo della ricorrente nel giudizio risarcitorio davanti al g.o. non può giustificare, come invece quel giudice ha ritenuto, che quella questione, proprio in quanto tale efficacia è inesistente, debba essere attratta dinanzi al GO.
Stabilire se l’agire dell’Amministrazione nell’adozione del regolamento e poi del D.M. del 2012 con un certo contenuto sia stato legittimo, d’altro canto, integra un petitum sostanziale che, concretandosi nel sostenere che l’Amministrazione avrebbe dovuto, per esercitare legittimamente il potere di darsi le regole per coltivare la possibilità di transazione, agire in un certo modo invece che in quello in cui ha agito e, dunque, adottare atti di diverso contenuto, appare come il tipico petitum demolitorio di atti amministrativi (sebbene il primo normativo) che si fa valere davanti al GA per ottenere che l’Amministrazione si ridetermini ed esorbita del tutto dall’ambito del giudizio risarcitorio, che deve accertare se la situazione di diritto soggettivo della ricorrente esista e, in caso positivo, darle la tutela risarcitoria giustificata dalla regole civilistiche.
La stessa considerazione – prosegue la Corte – merita l’impugnazione dell’atto di rifiuto dell’ammissione alla procedura finalizzata alla stipulazione dell’eventuale transazione, che ha avuto luogo nel giudizio regolando.
Se simili petita non sono giustificati dall’emersione dalla normativa del 2007 e da quella regolamentare che vi ha dato esecuzione di una posizione di interesse legittimo e tale posizione si palesa solo come interesse semplice si tratterà di petita che il giudice amministrativo dovrà rigettare perché la chiesta tutela giurisdizionale diretta a rivendicare che l’Amministrazione si determini in modo diverso e legittimo non esiste, in quanto la previsione di legge che ha legittimato il regolamento del 2009 e, quindi, la previsione di esso che ha determinato l’adozione del decreto non regolamentare del 2012 ed ancora quest’ultimo non assegnano all’interesse del privato che indirettamente vi è coinvolto la dignità di interesse legittimo e, dunque, di situazione giustiziabile davanti al GA.
La negazione di tale dignità sarà ragione – per le SSUU – di rigetto della domanda demolitoria nel merito da parte di quel giudice e non può invece giustificare non solo la negazione della sua giurisdizione, ma, a maggior ragione, nemmeno l’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario in ragione di una pretesa riconducibilità dell’interesse della ricorrente, una volta riconosciuto come soltanto semplice, alla situazione giuridica di diritto soggettivo oggetto del giudizio davanti all’a.g.o..
Se invece l’interesse come quello fatto valere dalla ricorrente ha natura di interesse legittimo, come aveva opinato il precedente orientamento, se cioè la previsione delle leggi del 2007 e della normazione secondaria da esse legittimata hanno fatto emergere l’interesse del privato all’adozione di tale normazione con un certo contenuto, piuttosto che con un altro, come un interesse legittimo, allora il giudice amministrativo dovrà dare la chiesta tutela.
La prospettazione della giurisdizione ordinaria affermatasi nella più recente giurisprudenza del GA è quindi per il Collegio priva di fondamento.
Va considerato, per completezza, che nella materia di cui è regolamento è sopravvenuto un ulteriore disposto normativo, quello del D.L. n. 90 del 2014, art. 21-bis, convertito con modificazioni, dalla L. n. 114 del 2014, ma esso non ha contenuti che incidano sull’indicata soluzione del problema della giurisdizione.
Il comma 1 della norma ha così disposto: ‘Ai soggetti di cui alla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 2, comma 361, che hanno presentato entro la data del 19 gennaio 2010 domanda di adesione alla procedura transattiva, nonchè ai loro aventi causa nel caso in cui nelle more sia intervenuto il decesso, è riconosciuta, a titolo di equa riparazione, una somma di denaro, in un’unica soluzione, determinata nella misura di Euro 100.000 per i danneggiati da trasfusione con sangue infetto e da somministrazione di emoderivati infetti e nella misura di Euro 20.000 per i danneggiati da vaccinazione obbligatoria.
Il riconoscimento è subordinato alla verifica del possesso dei requisiti di cui al regolamento di cui al D.M. lavoro, salute e politiche sociali 28 aprile 2009, n. 132, art. 2, comma 1, lett. a) e b), e alla verifica della ricevibilità dell’istanza. La liquidazione degli importi è effettuata entro il 31 dicembre 2017, in base al criterio della gravità dell’infermità derivatane agli aventi diritto e, in caso di pari entità, secondo l’ordine del disagio economico, accertato con le modalità previste dal regolamento di cui al D.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159, nei limiti della disponibilità annuale di bilancio’.
Nel comma 2 la norma ha, poi, disposto che: ‘Fatto salvo quanto previsto al comma 3, la corresponsione delle somme di cui al comma 1 è subordinata alla formale rinuncia all’azione risarcitoria intrapresa, ivi comprese le procedure transattive, e a ogni ulteriore pretesa di carattere risarcitorio nei confronti dello Stato anche in sede sovranazionale. La corresponsione è effettuata al netto di quanto già percepito a titolo di risarcimento del danno a seguito di sentenza esecutiva’.
Ora, il disposto del comma 1 riguarda anche la posizione della ricorrente, che ha presentato la domanda di cd. adesione alla procedura transattiva il 14 gennaio 2010 e si segnala per l’attribuzione di una provvidenza, che il comma 2 subordina, però, alla verifica dei requisiti del D.M. n. 132 del 2009 e la cui corresponsione è subordinata ad una rinuncia all’azione ed alla stessa procedura transattiva.
Allo stato la ricorrente non è stata ammessa alla procedura transattiva e potrà valersi del disposto normativo eventualmente se vi sarà ammessa, il che potrà avvenire solo all’esito del giudizio del giudice amministrativo, cui spetta la giurisdizione.
Nel comma 3 della ricordata norma si è poi, stabilito che: ‘La procedura transattiva di cui alla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 2, comma 361, prosegue per i soggetti che non intendano avvalersi della somma di denaro, a titolo di equa riparazione, di cui al comma 1 del presente art.. Per i medesimi soggetti si applicano, in un’unica soluzione, nei tempi e secondo i criteri di cui al medesimo comma 1, i moduli transattivi allegati al D.M. salute 4 maggio 2012, pubblicato nella Gazzetta Ufficiate n. 162 del 13 luglio 2012′.
Il secondo inciso si segnala per avere il legislatore conferito rilievo alle disposizioni del decreto del 4 maggio 2012, che cosi risultano sostanzialmente condivise per previsione legislativa: anche l’impatto di tale previsione sul giudizio sull’impugnativa dell’atto di denegazione dell’ammissione alla procedura transattiva sarà valutato dal giudice di cui si dichiara la giurisdizione, ma non spiega alcun effetto ai fini della sua individuazione. Il giudice amministrativo valuterà se la nuova norma ha un qualche effetto sulla individuazione della posizione della ricorrente come interesse legittimo o come interesse semplice.
Deve, conclusivamente, dichiararsi per le SSUU la giurisdizione del giudice amministrativo.
* * *
Quello stesso 3 febbraio esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.2052 onde, in materia urbanistica ed edilizia, la domanda di risarcimento del danno del proprietario di area contigua a quella in cui è realizzata l’opera pubblica (nella specie, la linea ferroviaria dell’alta velocità) appartiene alla giurisdizione ordinaria ove, nella prospettazione dell’attore, fonte del danno non siano né il “se” né il “come” dell’opera progettata, ma le relative concrete modalità esecutive, atteso che la giurisdizione esclusiva amministrativa si fonda su un comportamento della P.A. (o del relativo concessionario) che non sia semplicemente occasionato dall’esercizio del potere, ma si traduca, in base alla norma attributiva, in una sua manifestazione.
* * *
Il 7 dicembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.25052 che ribadisce – nel solco di un consolidato filone giurisprudenziale – la potestas iudicandi del GO con riguardo a tutte le controversie in cui si denunzino comportamenti configurati come illeciti ex att. 2043 c.c., e a fronte dei quali, per non avere la P.A, osservato condotte doverose (si tratta dunque, ancora una volta, di omissioni), la posizione soggettiva del privato non può che definirsi di diritto soggettivo.
Sono vertenze nelle quali, per il Collegio, resta escluso il riferimento ad atti e provvedimenti di cui la condotta dell’Amministrazione sia esecuzione, non costituendo l’oggetto del pertinente giudizio per esser fatta valere in causa dal privato attore unicamente l’illiceità della condotta dell’Ente pubblico, siccome suscettibile di incidere sulla relativa incolumità ovvero sui propri diritti patrimoniali (in veste di terzo), potendo in tali casi il giudice ordinario non solo condannare la PA al risarcimento del danno, ma anche ad un facere specifico senza violazione del limite interno delle relative attribuzioni.
* * *
Il 16 dicembre esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.25978 onde va riconosciuta la giurisdizione del GO nella controversia avente ad oggetto l’azione di risarcimento proposta dal proprietario nei confronti di un Comune per danni da lui asseritamente patiti a causa della omessa demolizione di un manufatto abusivo.
2017
Il 18 gennaio esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.1092 alla cui stregua rientra nella giurisdizione del GA la controversia afferente al comportamento della P.A. che ometta di restituire un terreno occupato in virtù di decreto di occupazione, nonostante quest’ultimo sia stato travolto dalla sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
Per il Collegio tale comportamento — ai sensi dell’art. 133, co. 1, lett. g), c.p.a. — deve assumrsi connesso, ancorché in via “mediata”, al ridetto provvedimento di occupazione, senza il quale non vi sarebbe stata apprensione e, quindi, neppure mancata restituzione del fondo in parola.
* * *
L’8 maggio esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n. 11142 onde, in materia di raccolta e smaltimento dei rifiuti, nonostante sussista la giurisdizione esclusiva amministrativa, già in virtù dell’art. 33, comma 2, lettera e), del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come modificato dalla legge 7 luglio 2000, n. 205, ed oggi dell’art. 133, comma 1, lettera p), cod. proc. amm., appartiene nondimeno alla giurisdizione ordinaria la domanda del privato che si dolga delle concrete modalità di esercizio del relativo ciclo produttivo, assumendone la pericolosità per la salute o altri diritti fondamentali della persona e chiedendo l’adozione delle misure necessarie per eliminare i danni attuali e potenziali e le immissioni intollerabili.
Ciò per il Collegio atteso come la condotta contestata alla PA integri la materiale estrinsecazione di un’ordinaria attività di impresa che – allorquando non siano dettate particolari regole esecutive o applicative tecniche direttamente nei provvedimenti amministrativi – non vede in alcun modo coinvolto il pubblico potere.
* * *
Il 24 luglio escono le ordinanze delle SSUU della Cassazione n. 18165 e 18166, con la prima delle quali si afferma che la realizzazione di un parco eolico, che attiene alla produzione di energia elettrica ed al relativo trasporto nella rete nazionale, costituisce un intervento di interesse pubblico, sicché ricadono nella giurisdizione esclusiva amministrativa gli atti del gestore di tale servizio funzionali alla pertinente costituzione ed alla determinazione delle relative modalità di esercizio e, conseguentemente, le domande del proprietario confinante, aventi ad oggetto la collocazione delle pale eoliche e le immissioni da esse provocate, laddove si traducano nella contestazione non di un’attività materiale posta in essere al di fuori di quella autoritativa, bensì di quella esecutiva dei provvedimenti amministrativi e delle relative scelte discrezionali riguardanti l’individuazione e la determinazione dell’opera pubblica sul territorio.
Più nello specifico, l’altra ordinanza n. 18166 del 2017, nel dichiarare la giurisdizione del giudice amministrativo, ha rilevato che la domanda proposta prospetta “conseguenze non già di meri comportamenti materiali concernenti le modalità di esecuzione dei lavori di realizzazione e messa in esercizio delle pale eoliche, ma … di contestazione delle scelte discrezionali della P.A. nell’individuazione e determinazione dell’opera pubblica sul territorio, e delle relative valutazioni circa l’interesse pubblico perseguito mediante l’autorizzazione unica rilasciata dalla Regione Puglia ex art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003. Autorizzazione, emessa all’esito di una conferenza dei servizi, concernente la costruzione e l’esercizio degli aerogeneratori de quibus … giusta l’ubicazione dell’installazione degli aerogeneratori e le modalità di esercizio indicate in fase di progettazione ed approvate dalla Regione”.
Su questa base, per le Sezioni Unite “la formulata denunzia di violazione delle distanze si appalesa … come strumentalmente volta a sostanzialmente contestare in realtà la legittimità del suindicato provvedimento amministrativo, presupponendo essa il necessario controllo in ordine (anche) all’apprezzamento delle distanze di sicurezza delle pale eoliche (in particolare dal fondo della ricorrente), nonché del corretto relativo inserimento nel paesaggio e nel territorio, e pertanto delle scelte al riguardo operate dalla Regione ai fini della relativa adozione”.
Se deve trarre la conclusione onde “i lamentati danni derivano non già da meri comportamenti materiali posti in essere … al di fuori dell’esercizio di un’attività autoritativa, bensì dall’attività … posta in essere in esecuzione di provvedimento dalla Regione Puglia adottato nell’esercizio della propria discrezionalità amministrativa e funzionalmente volto alla realizzazione degli interessi pubblici la cui cura è alla medesima attribuita”.
* * *
Il 26 settembre esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.22419 onde, con riguardo all’art.2051 c.c., quanto più l’evento pericoloso (astrattamente attribuibile ad una PA, in ragione della custodia spiegata sulla res) è suscettibile di essere previsto e superato attraverso l’adozione di normali cautele da parte del danneggiato, tanto più il comportamento di quest’ultimo in veste di vittima è capace di incidere nel dinamismo causale del subito danno, sino (financo) ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta attribuibile all’Ente pubblico e l’evento dannoso.
Si tratta invero – per il Collegio – di circostanze che, presentando un autonomo impulso causale, possono assumersi capaci di elidere il nesso eziologico sussistente tra la cosa custodita (dall’Ente pubblico) e l’evento lesivo cagionato all’utente della strada.
* * *
Il 28 luglio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.18856 alla cui stregua, in tema di responsabilità da cose in custodia ex art.2051 c.c., la prova del fortuito prescinde dalla valutazione del comportamento del custode, incentrandosi esclusivamente sui caratteri della imprevedibilità ed inevitabilità.
A tal fine va precisato che la condotta del danneggiato può assumersi imprevedibile ed inevitabile, integrando così una causa sopravvenuta autonomamente sufficiente a determinare il pregiudizio, solo quando abbia natura eccezionale, anomala e tale da non potersi attendere da parte di una persona sensata.
* * *
Il 21 settembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.21975 onde, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo sulla domanda risarcitoria proposta in materia urbanistica ed edilizia, occorre distinguere il caso nel quale il privato pretenda il risarcimento del danno derivante dalla illegittima progettazione e deliberazione dell’opera pubblica, nel quale, ponendosi in discussione la legittimità dell’esercizio del potere pubblico, la giurisdizione spetta al GA, da quello in cui lo stesso lamenti la cattiva esecuzione dell’opera pubblica, contestando le modalità esecutive dei lavori, nel quale la giurisdizione spetta al giudice ordinario, venendo in rilievo la violazione del generale dovere di neminem laedere.
2018
Il 19 gennaio esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n.1257 alla cui stregua – in tema di responsabilità della P.A. per danni subiti da utenti di beni demaniali – la presunzione sancita dall’art 2051 c.c. non si applica in via automatica, venendo meno in particolare allorquando non sussista la possibilità di esercitare il potere di fatto sulla pertinente res.
Per la Corte, si tratta di una possibilità da valutare non solo in base all’estensione dell’intero bene, ma anche alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, assumendo al riguardo determinante rilievo la natura, la posizione e l’estensione della specifica area in cui si è verificato l’evento dannoso, le dotazioni e i sistemi di sicurezza e di segnalazione di pericoli disponibili
Quando la possibilità di esercitare (concretamente) un potere di fatto sulla res affiori come da assumersi in concreto negabile, la responsabilità della PA deve essere per il Collegio più correttamente inquadrata nell’alveo, eventuale, dell’art. 2043 c.c., con tutte le relative implicazioni pratiche che ne scaturiscono, massime in termini di (maggiormente gravoso) onere della prova a carico del danneggiato.
* * *
Il 01 febbraio esce l’importante sentenza della III sezione della Cassazione civile n.2482, che si impegna in un completo excursus sulla responsabilità per i danni da cose in custodia, ex art. 2051 c.c., affrontando tutte le problematiche ad esso connesse, nonché le differenze ontologiche tra tale azione di responsabilità e quella da fatto illecito, ex art. 2043 c.c., affrontando in specie la questione del caso fortuito e della relativa significatività in ambito civilistico, con particolare riguardo all’illecito aquiliano perpetrato dalla PA nella relativa qualità di custode di una strada.
Le conclusioni cui giunge la Corte sono interessanti in specie laddove – pur ribadendo il “caso fortuito civile” recidere oggettivamente il nesso eziologico che avvince la condotta del danneggiante (custode della res) al danno inferto al danneggiato – assegnano alla stessa soggettiva “colpa” del danneggiato un ruolo significativo in termini di interruzione del ridetto nesso causale e, assieme, di configurabilità del fortuito medesimo a beneficio del danneggiante.
Ritiene infatti il Collegio nel relativo incipit motivazionale come la fattispecie sottopostale offra l’occasione per una puntualizzazione dei principi in materia di responsabilità per danni da cose in custodia, come via via espressi dalla giurisprudenza della Corte, con attenzione specifica – poi – alla custodia dei beni demaniali e, tra questi, di quelli di grande estensione, come strade e loro accessori e pertinenze: all’intera riflessione premettendosi che incombe al danneggiato l’onere di un’opzione chiara – benché anche solo di alternatività o reciproca subordinazione, ma espressa in tal senso – tra l’azione generale di responsabilità extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., e quella della responsabilità – oggettiva – per fatto della cosa (custodita), ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., atteso come le due domande presentino tratti caratteristici, presupposti, funzioni ed oneri processuali assai diversificati (tra molte: Cass. 05/08/2013, n. 18609; Cass. 21/09/2015 n. 18463).
Occorre prendere le mosse – chiosa il Collegio – dalla conclusione, definita come tradizionale, della giurisprudenza di legittimità nel senso che «la responsabilità ex art. 2051 cod. civ. postula la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa ed una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa; detta norma non dispensa il danneggiato dall’onere di provare il nesso causale tra cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa, mentre resta a carico del custode, offrire la prova contraria alla presunzione iuris tantum della sua responsabilità, mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità» (tra molte: Cass. 29/07/2016, n. 15761).
Si tratta di una conclusione che risale almeno a Cass.20/05/1998, n. 5031, in base alla quale:
– quanto al fondamento della responsabilità, l’art. 2051 cod. civ. prevede un’ipotesi di responsabilità oggettiva, il cui unico presupposto è l’esistenza di un rapporto di custodia; del tutto irrilevante, per contro, è accertare se il custode sia stato o meno diligente nell’esercizio della vigilanza sulla cosa;
– quanto all’onere della prova, ove sia applicabile l’art. 2051 cod. civ., il danneggiato ha il solo onere di provare l’esistenza di un valido nesso causale tra la cosa ed il danno, mentre il custode ha l’onere di provare che il danno non è stato causato dalla cosa, ma dal caso fortuito, ivi compreso il fatto dello stesso danneggiato o del terzo;
– quanto all’ambito di applicazione, la norma in esame trova applicazione in tutti i casi in cui il danno è stato arrecato dalla cosa, direttamente o indirettamente; non è applicabile solamente quando la cosa ha avuto un ruolo meramente passivo nella produzione del danno.
In primo luogo, prosegue ormai la Corte, è prevalente in dottrina e dominante nella giurisprudenza di legittimità la tesi della qualificazione della responsabilità in esame come responsabilità oggettiva, nella quale non gioca alcun ruolo la negligenza o, in generale, la colpa del custode: e tanto in consapevole meditata accettazione delle teoriche sulla configurabilità di una responsabilità senza colpa, se non altro in casi particolari e non in linea di principio.
In sostanza, per alcune fattispecie particolari, a partire dall’elaborazione dogmatica del sistema francese – soprattutto con riguardo al relativo art. 1384 dell’originario code civil, oggi corrispondente all’art. 1242 dopo l’ordonnance 2016-131 del 10/02/2016, in vigore dal 1° ottobre 2016, sulla reforme du droit des contrats – cui il sistema codicistico nazionale si è in origine ispirato, è apportata deroga al principio, imperniantesi sulla “colpa”, noto come ohne Schuld keine Haftung, che permea:
-
sia l’altro ordinamento cardine dei sistemi romanisti (come quello tedesco relativamente al Deliktsrecht, ma nel quale si assiste ad un superamento graduale, benché solo in determinati settori, in forza di obblighi derivanti direttamente, prima della riforma del 2002, dalla norma sulla buona fede e, poi, dalla previsione della novellata previsione del BGB sulla sussistenza di obblighi di protezione più generali ed ampi rispetto a quelli di prestazione, idonei a riverberare i loro effetti anche a favore di chi non è parte del contratto);
-
sia il sistema originario di common law (in cui la Tort Law presuppone appunto la colpa, quanto meno sotto il profilo della Due Diligence).
Il tenore testuale dell’art. 2051 cod. civ., analogo al vecchio testo dell’art. 1384, co. 1, code civil (ora art. 1242, secondo il cui primo comma “on est responsable non seulement du dommage que l’on cause par son propre fait, mais encore de celui qui est causé par le fait des personnes dont on doit répondre, ou des choses que l’on a sous sa garde”), prevede invero che «ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito».
Va così osservato – prosegue il Collegio – che, purché si tratti di un danno «cagionato» da una cosa e che questa sia una cosa che si «ha in custodia», null’altro è richiesto: basti allora in questa sede, per l’impossibilità di altri approfondimenti dogmatici, da un lato accettare quale ragione giustificatrice di tale peculiare responsabilità la relativa natura e funzione di contrappeso al riconoscimento di una signoria, quale la «custodia», sulla cosa che entra o può entrare a contatto con la generalità dei consociati, signoria che l’ordinamento riconosce ad un soggetto evidentemente affinché egli ne tragga o possa trarre beneficio o in dipendenza di peculiari situazioni doverose; e, dall’altro lato, rilevare come il danno, di cui si è chiamati a rispondere, deve essere causato dalla cosa (per il code civil, ancora più icasticamente e stando alla lettera della disposizione, dal «fatto della cosa»: dommage … qui est causé par le fait des choses que l’on a sous sa garde).
Sotto il primo profilo il potere sulla cosa, per assurgere ad idoneo fondamento di responsabilità, deve manifestarsi come effetto di una situazione giuridicamente rilevante rispetto alla res, tale da rendere attuale e diretto l’anzidetto potere attraverso una signoria di fatto sulla cosa stessa, di cui se ne abbia la disponibilità materiale (Cass. 29/09/2017, n. 22839): verosimilmente in considerazione del fatto che solo questa può attivare, ovvero rendere materialmente estrinsecabile, il dovere di precauzione normalmente connesso alla disponibilità di una cosa che entra in contatto con altri consociati; ovvero, che può consentire l’adozione di condotte specifiche per impedire, per quanto possibile, che le cause ragionevolmente prevedibili dei danni derivabili dalla cosa custodita siano poi in grado di estrinsecare la loro potenzialità efficiente.
Sotto il secondo profilo, quello della eziogenesi del danno da parte della cosa, non ci si può esimere per la Corte da una sommaria premessa alla problematica della causalità in diritto civile.
A questo riguardo, è noto che, con la fondamentale elaborazione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenze del dì 11/01/2008, nn. 576 ss., alla cui amplissima ed esauriente elaborazione deve qui bastare un richiamo), ai fini della causalità materiale nell’ambito della responsabilità extracontrattuale va fatta applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., sicché un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).
Tuttavia, il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 cod. pen., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il proprio temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal capoverso della medesima disposizione, in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto.
Al contempo, neppure è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che appaiano ex ante idonee a determinare l’evento secondo il principio della c.d. causalità adeguata, o quello similare della c.d. regolarità causale.
Quest’ultima a propria volta, prosegue la Corte, individua come conseguenza normale imputabile quella che – secondo l’id quod plerumque accidit e quindi in base alla regolarità statistica o ad una probabilità apprezzabile ex ante (se non di vera e propria prognosi postuma) – integra gli estremi di una sequenza costante dello stato di cose originatosi da un evento (sia esso una condotta umana oppure no) originario, che ne costituisce l’antecedente necessario.
E, sempre secondo i citati precedenti delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, la sequenza costante deve essere prevedibile non da un punto di vista soggettivo, cioè da quello dell’agente, ma in base alle regole statistiche o scientifiche e quindi per così dire oggettivizzate in base alla loro preponderanza o comune accettazione, da cui inferire un giudizio di non improbabilità dell’evento in base a criteri di ragionevolezza: il principio della regolarità causale, rapportato ad una valutazione ex ante, diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra evento generatore del danno ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l’elemento soggettivo (la colpevolezza) dell’illecito, ove questi (doveri di avvedutezza comportamentale) dall’ordinamento – benché tanto avvenga di norma – siano in concreto richiesti.
Tali principi – chiosa ancora il Collegio – portano a concludere che tutto ciò che non è prevedibile oggettivamente ovvero tutto ciò che rappresenta un’eccezione alla normale sequenza causale, ma appunto e per quanto detto rapportato ad una valutazione ex ante o in astratto, integra il caso fortuito, quale causa non prevedibile: da tanto derivando che l’imprevedibilità, da un punto di vista oggettivizzato, comporta pure la non evitabilità dell’evento.
Queste conclusioni vanno poi applicate alla peculiare fattispecie del «danno cagionato dalle cose in custodia»; e l’assenza di specificazioni di sorta comporta che il danno rilevante – di cui cioè il custode è responsabile – prescinde dalle caratteristiche della cosa custodita, sia quindi essa o meno pericolosa, c.d. “seagente” (ovvero dotata di intrinseco dinamismo) oppure no; e la fattispecie può allora comprendere, sempre dando luogo alla responsabilità ai sensi dell’art.2051 cod. civ., una gamma potenzialmente indefinita di situazioni sotto i relativi profili:
– quanto al ruolo nella sequenza causale, cioè alla partecipazione della cosa custodita alla produzione materiale dell’evento dannoso: a partire dai casi in cui la cosa è del tutto inerte ed in cui l’interazione del danneggiato è indispensabile per la produzione dell’evento, via via fino a quelle in cui essa, per il relativo intrinseco dinamismo, viene a svolgere un ruolo sempre maggiore di attiva interazione con la condotta umana, fino a diventare preponderante od esclusiva, in cui cioè l’apporto concausale della condotta dell’uomo è persino assente;
– quanto alle caratteristiche intrinseche della cosa custodita, cioè alla relativa idoneità a cagionare situazioni di probabile danno (pericolosità): a partire dalle fattispecie in cui essa non presenta rischi derivanti dall’interazione con l’uomo, via via fino a quelle in cui il funzionamento o il relativo modo stesso di essere comporti per sé solo, per le modalità ad esso normali, il rischio (cioè, la probabilità ragionevole) di una conseguenza dannosa con chi viene in contatto con la cosa custodita.
In questo complessivo contesto – prosegue la Corte – va calata la conclusione, tradizionale nella giurisprudenza di legittimità, dell’accollo al danneggiato della sola prova del nesso causale tra la cosa e il danno: ove la cosa oggetto di custodia abbia avuto un ruolo nella produzione, a tanto deve limitarsi l’allegazione e la prova da parte del danneggiato; incombe poi al custode o negare la riferibilità causale dell’evento dannoso alla cosa, ciò che esclude in radice l’operatività della norma, cioè dare la prova dell’inesistenza del nesso causale, oppure dare la prova della circostanza, che solo a prima vista potrebbe coincidere con la prima, che il nesso causale sussiste tra l’evento ed un fatto che non era né prevedibile, né evitabile.
Su quest’ultimo punto, precisa il Collegio, la recente Cass. ord. 31/10/2017, n. 25837, ha puntualizzato che il caso fortuito è ciò che non può prevedersi (mentre la forza maggiore è ciò che non può evitarsi), per poi giungere, dopo un’accurata disamina del ruolo della condotta del danneggiato, alla conclusione che anche questa può integrare il caso fortuito ed escludere integralmente la responsabilità del custode ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., ma solo purché abbia due caratteristiche: sia stata colposa, e non fosse prevedibile da parte del custode.
Tale conclusione richiede tuttavia per la Corte talune puntualizzazioni.
In effetti, può senz’altro convenirsi che, per «caso fortuito» idoneo a recidere il nesso causale tra la cosa e il danno, ai fini della peculiare responsabilità disegnata dall’art. 2051 cod. civ., vada generalmente inteso quel fattore causale, estraneo alla sfera soggettiva, che presenta i caratteri dell’imprevedibilità e dell’eccezionalità (fattore causale comprensivo anche del fatto del terzo o, in via descrittiva ed a seconda dei casi, della colpa del danneggiato): purché esso abbia, in applicazione dei principi generali in tema di causalità nel diritto civile, efficacia determinante dell’evento dannoso.
Pertanto, anche il caso fortuito (oggettivo e valutato ex ante) va allora inquadrato in questo contesto: e l’imprevedibilità va intesa come obiettiva inverosimiglianza dell’evento, benché non anche come relativa impossibilità, mentre l’eccezionalità è qualcosa di più pregnante dell’improbabilità (quest’ultima in genere intesa come probabilità inferiore alle 50 probabilità su 100), dovendo identificarsi come una sensibile deviazione (ed appunto eccezione) rispetto alla frequenza statistica accettata come «normale», vale a dire entro margini di oscillazione – anche ampi – intorno alla media statistica, che escludano i picchi estremi, se isolati, per identificare valori comunemente accettati come di ricorrenza ordinaria o tollerabile e, in quanto tali, definibili come ragionevoli.
Su queste premesse, prospettato e provato dal danneggiato il nesso causale tra cosa custodita ed evento dannoso, la colpa o l’assenza di colpa del custode resta del tutto irrilevante ai fini della pertinente responsabilità ai sensi dell’art. 2051 cod. civ.
È chiaro che non si esclude certo che un’eventuale colpa sia fatta specificamente valere dal danneggiato, ma tanto deve aver luogo allora ai fini – ed accollandosi quegli i ben più gravosi oneri assertivi e probatori – della generale fattispecie dell’art. 2043 cod. civ., in cui egli deve dare la prova, prima di ogni altra cosa, di una colpa del danneggiante e non solamente del nesso causale tra presupposto della responsabilità ed evento dannoso; quando, però, l’azione è proposta ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., la deduzione di omissioni, violazione di obblighi di legge, di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode (anche quando si tratti di una PA) può essere diretta soltanto a rafforzare la prova dello stato della cosa e della relativa attitudine a recare danno, sempre ai fini dell’allegazione e della prova del rapporto causale tra l’una e l’altro.
Può concludersi quindi per il Collegio che l’imprevedibilità – idonea ad esonerare il custode dalla responsabilità – deve essere oggettiva, dal punto di vista probabilistico o della causalità adeguata, senza alcun rilievo dell’assenza o meno di colpa del custode medesimo; tuttavia, l’imprevedibilità è comunque di per sé un concetto relativo, necessariamente influenzato dalle condizioni della cosa, di più o meno intrinseca pericolosità in rapporto alle caratteristiche degli eventi in grado di modificare tali condizioni ed alla stessa interazione coi potenziali danneggiati.
Sotto il primo profilo, chiosa ancora il Collegio, può rilevarsi come l’oggettiva imprevedibilità si esaurisca nel tempo: una modifica improvvisa delle condizioni della cosa, a mano a mano che il tempo trascorre dal relativo accadimento in rapporto alle concrete possibilità di estrinsecazione della signoria di fatto su quella, comporta che la modifica finisca con il fare corpo con la cosa stessa, sicché è a questa, come in effetti modificata anche dall’evento originariamente improvviso, che correttamente si ascrive il fatto dannoso che ne deriva.
Sotto il secondo profilo, può rilevarsi come la prevedibilità deve riferirsi alla normalità – ovvero alla non radicale eccezionalità, per estraneità al novero delle possibilità ragionevoli secondo quel criterio di ordinaria rapportabilità causale da valutarsi ex ante ed idoneo ad oggettivizzarsi – del fattore causale.
L’operazione logica da compiersi è allora quella di identificazione del nesso causale, sulla base dei fatti prospettati dalle parti ed acquisiti in causa: ma occorre distinguere a seconda che con la relazione causale tra cosa e danno interferisca una diversa relazione causale tra la condotta umana del danneggiato ed il danno stesso, oppur no.
Nella seconda ipotesi, effettivamente deve trattarsi di un evento obiettivamente imprevedibile (ovvero, a seconda dell’elaborazione di volta in volta accettata, che talvolta comprende nella nozione di caso fortuito anche la causa di forza maggiore, inevitabile), secondo la rigorosa ricostruzione di cui alla già richiamata Cass. ord. 25837/17.
Nel primo caso, cioè di compresenza di una condotta del danneggiato, occorre osservare che, una volta delibato come sussistente il nesso causale tra cosa e danno, subentra, siccome applicabile anche alla responsabilità extracontrattuale in virtù del richiamo di cui all’art. 2056 cod. civ., la regola generale del primo comma dell’art. 1227 cod. civ., in ordine al concorso del fatto colposo del danneggiato.
Va sottolineato al riguardo, chiosa ancora la Corte, che la ricostruzione del nesso causale tra il criterio di imputazione della responsabilità e l’evento dannoso va operata dal giudice anche di ufficio (Cass.22/03/2011, n. 6529: anche quando il danneggiante o il responsabile si limiti a contestare in toto la propria responsabilità): pertanto, in tema di responsabilità per i danni cagionati da una cosa in custodia ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., l’allegazione del fatto del terzo o dello stesso danneggiato, idonea ad integrare l’esimente del caso fortuito, deve essere esaminata e verificata anche d’ufficio dal giudice, attraverso le opportune indagini sull’eventuale incidenza causale del fatto del terzo o del comportamento colposo del danneggiato nella produzione dell’evento dannoso, indipendentemente dalle argomentazioni e richieste formulate dalla parte, purché risultino prospettati gli elementi di fatto sui quali si fonda l’allegazione del fortuito (integrando così una mera difesa la fattispecie di cui al primo comma dell’art. 1227 cod. civ.: per tutte, Cass. 30/09/2014, n. 20619; Cass. Sez. U. 03/06/2013, n. 13902).
A queste condizioni può allora rilevare il fatto del danneggiato, oggetto anche di una mera allegazione – e, in caso di contestazione, di prova – da parte del danneggiante, perfino implicita nel relativo impianto difensivo.
Tanto in ipotesi di responsabilità per cose in custodia ex art. 2051 cod. civ., quanto in ipotesi di responsabilità ex art. 2043 cod. civ., il comportamento colposo del danneggiato (che sussiste quando egli abbia usato un bene senza la normale diligenza o con affidamento soggettivo anomalo) può – in base ad un ordine crescente di gravità – o atteggiarsi a concorso causale colposo (valutabile ai sensi dell’art. 1227 cod. civ., comma 1), ovvero escludere il nesso causale tra cosa e danno e, con esso, la responsabilità del custode (integrando gli estremi del caso fortuito rilevante a norma dell’art. 2051 cod. civ.).
In particolare, per il Collegio quanto più la situazione di possibile pericolo è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione delle normali cautele da parte dello stesso danneggiato, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso (espressamente in tali termini: Cass. 06/05/2015, n. 9009; in precedenza, peraltro, già Cass. 10300/07).
In altri termini, se è vero che il riconoscimento della natura oggettiva del criterio di imputazione della responsabilità si fonda sul dovere di precauzione imposto al titolare della signoria sulla cosa custodita in funzione di prevenzione dei danni prevedibili a chi con quella entri in contatto (Cass. 17/10/2013, n. 23584), è altrettanto vero che l’imposizione di un dovere di cautela in capo a chi entri in contatto con la cosa risponde anch’essa a criteri di ragionevole probabilità e quindi di causalità adeguata.
Tale dovere di cautela corrisponde già alla previsione codicistica della limitazione del risarcimento in ragione di un concorso del proprio fatto colposo e può ricondursi – se non all’ormai non più in auge principio di autoresponsabilità – almeno ad un dovere di solidarietà, imposto dall’art. 2 Cost., di adozione di condotte idonee a limitare entro limiti di ragionevolezza gli aggravi per gli altri in nome della reciprocità degli obblighi derivanti dalla convivenza civile, in adeguata regolazione della propria condotta in rapporto alle diverse contingenze nelle quali si venga a contatto con la cosa.
In tal senso, del resto, già si è statuito che la responsabilità civile per omissione può scaturire non solo dalla violazione di un preciso obbligo giuridico di impedire l’evento dannoso, ma anche dalla violazione di regole di comune prudenza, le quali impongano il compimento di una determinata attività a tutela di un diritto altrui: principio affermato sia quando si tratti di valutare se sussista la colpa dell’autore dell’illecito, sia quando si tratti di stabilire se sussista un concorso di colpa della vittima nella produzione del danno, ex art. 1227, comma primo, cod. civ. (Cass. Sez. U.21/11/2011, n. 24406).
Un tale contemperamento risponde anche al canone di proporzionalità imposto dalla CEDU (firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata – in uno al protocollo aggiuntivo firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – con legge 4 agosto 1955, n. 848, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 221 del 24 settembre 1955 ed entrata in vigore il 10 ottobre 1955) allorquando si coinvolga uno di tali diritti, quale quello alla vita (di cui all’art. 2) o alla salute (di cui, sia pure in maniera indiretta, all’art. 8, co. 1 e 2,): come già affermato dal Collegio in tema di tutela del diritto alla vita (Cass. ord. 22/09/2016, n. 18619), supera il controllo di conformità alla detta Convenzione il principio di diritto (affermato da Cass. 23/05/2014, n. 11532) secondo cui «la persona che, pur capace di intendere e di volere, si esponga volontariamente ad un rischio grave e percepibile con l’uso dell’ordinaria diligenza, tiene una condotta che costituisce causa esclusiva dei danni eventualmente derivati, e rende irrilevante la condotta di chi, essendo obbligato a segnalare il pericolo, non vi abbia provveduto».
In particolare, un detto principio, nella relativa astrattezza, deve dirsi contemperare adeguatamente l’esigenza di tutela del diritto alla vita da parte dello Stato e dei pubblici poteri (con conclusione che si estende agevolmente alla tutela del diritto alla salute od all’incolumità in genere e, per di più, ai rapporti tra privati, anche a questi applicandosi la Convenzione: da ultimo, Corte EDU 20/12/2016, Ljaskaj c/ Croazia), con quella – altrettanto imperiosa e dettata da elementari esigenze di ragionevolezza – di non accollare alla collettività – o comunque immotivatamente al prossimo – le conseguenze dannose, soprattutto di natura economica (e quindi tutelate dall’art. 1 del primo protocollo aggiunto alla richiamata Convenzione europea), che derivino da condotte che siano qualificate come assurte in via esclusiva a volontaria e consapevole esposizione al rischio serio o grave per la vita da parte della potenziale vittima e quindi unica causa del danno da questa patito, quand’anche al bene primario della vita stessa.
E – chiosa ancora il Collegio – si è concluso che, per il margine di apprezzamento normalmente riconosciuto al singolo Stato nell’assicurare la salvaguardia dei diritti fondamentali, la tutela del diritto alla vita – e quindi anche di quello all’incolumità e alla salute – da parte dei pubblici poteri – e nei rapporti ìnterprivati – non può spingersi al risarcimento dei danni derivanti dalla condotta volontaria, qualificata unica causa della lesione a quel diritto, del titolare di quel diritto.
Ne consegue per il Collegio che, quando il comportamento del danneggiato sia apprezzabile come ragionevolmente incauto, lo stabilire se il danno sia stato cagionato dalla cosa o dal comportamento della stessa vittima o se vi sia concorso causale tra i due fattori costituisce valutazione (squisitamente di merito), che va compiuta sul piano del nesso eziologico ma che comunque sottende sempre un bilanciamento fra i detti doveri di precauzione e cautela: e quando manchi l’intrinseca pericolosità della cosa e le esatte condizioni di queste siano percepibili in quanto tale, ove la situazione comunque ingeneratasi sia superabile mediante l’adozione di un comportamento ordinariamente cauto da parte dello stesso danneggiato, va allora escluso che il danno sia stato cagionato dalla cosa, ridotta al rango di mera occasione dell’evento, e ritenuto integrato il caso fortuito (in termini sostanzialmente analoghi: Cass.05/12/2013, n. 28616).
Pertanto, ove la condotta del danneggiato assurga, per l’intensità del rapporto con la produzione dell’evento, al rango di causa esclusiva dell’evento medesimo e del quale la cosa abbia costituito la mera occasione, viene meno appunto il nesso causale tra la cosa custodita e quest’ultimo e la fattispecie non può più essere sussunta entro il paradigma dell’art. 2051 cod. civ., anche quando la condotta possa essere stata prevista o sia stata comunque prevedibile, ma esclusa come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale.
In caso di rapporto via via meno intenso, ferma allora la responsabilità del custode in ragione della sussistenza (nel senso di non riuscita elisione) del nesso causale tra cosa custodita ed evento dannoso, la colpa del danneggiato rileverà ai fini del primo comma dell’art. 1227 cod. civ., sulla base di una valutazione anche ufficiosa.
Già in tale senso del resto, prosegue la Corte, la richiamata Cass.29/07/2016, n. 15761, ha ribadito il principio (di cui a Cass.22/03/2011, n. 6550) che il custode si presume responsabile, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., dei danni riconducibili alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura ed alla conformazione stessa della cosa custodita e delle relative pertinenze, potendo su tale responsabilità influire la condotta della vittima, la quale, però, assume efficacia causale esclusiva soltanto ove possa qualificarsi come estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto, salvo in caso contrario rilevare ai fini del concorso nella causazione dell’evento, ai sensi dell’art. 1227, primo comma, cod. civ.; e, se la disattenzione è sempre prevedibile come evenienza, la stessa cessa di esserlo – ed elide il nesso causale con la cosa custodita – quando risponde alla inottemperanza ad un invece prevedibile dovere di cautela da parte del danneggiato in rapporto alle circostanze del caso concreto.
In definitiva, per la Corte i principi di diritto da applicare alla fattispecie possono così ricostruirsi:
a) l’art. 2051 cod. civ., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa (quand’anche si tratti di una PA) per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima;
b) la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispecie dell’art. 2043 cod. civ., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la relativa capacità di recare danno, a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l’evento dannoso;
c) il caso fortuito, rappresentato da fatto naturale o del terzo, è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; peraltro le modifiche improvvise della struttura della cosa incidono in rapporto alle condizioni di tempo e divengono, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere;
d) il caso fortuito, rappresentato dalla condotta del danneggiato, è connotato dall’esclusiva efficienza causale nella produzione dell’evento; a tal fine, la condotta del danneggiato che entri in interazione con la cosa si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione – anche ufficiosa – dell’art. 1227 cod. civ., primo comma; e deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost.
Pertanto, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte dello stesso danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando lo stesso comportamento, benché astrattamente prevedibile, sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale.
Il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto – chiosa a questo punto la Corte venendo alla vertenza ad essa in concreto sottoposta – nella sentenza impugnata non ha fatto buon governo dei principi di diritto testé esplicitati.
La giurisprudenza della Corte, in relazione agli eventi naturali – e, segnatamente, alle precipitazioni atmosferiche – dotati di un’efficacia di tale intensità da costituire la causa da sola sufficiente a determinare l’evento dannoso, ha affermato, già in epoca ormai risalente e con orientamento stabile, che la loro riconducibilità all’ipotesi di “caso fortuito“, di cui (anche, ma non solo) alla fattispecie legale disciplinata dall’art. 2051 cod. civ., è condizionata dal possesso dei caratteri dell’eccezionalità e della imprevedibilità (tra le altre, Cass. 21/01/1987, n. 522; Cass. 11/05/1991, n. 5267; Cass.22/05/1998, n. 5133; Cass. 26/01/1999, n. 674; Cass. 09/03/2010, n. 5658; Cass. 17/12/2014, n. 26545; Cass. 24/09/2015, n. 18877; Cass. 24/03/2016, n. 5877; Cass. 28/07/2017, n. 18856), mentre quello della “inevitabilità” rimane intrinseco al fatto di essere evento atmosferico (cfr. Cass. n. 25837 del 2017, cit.: in sostanza, un evento atmosferico è per definizione inevitabile).
La necessaria compresenza degli anzidetti caratteri del “fortuito“, siccome costituito anche dalle precipitazioni atmosferiche, è ben scolpita dalla citata Cass. n. 5267 del 1991 (richiamata anche da Cass. n. 26545 del 2014, cit.), secondo cui “per caso fortuito deve intendersi un avvenimento imprevedibile, un quid di imponderabile che si inserisce improvvisamente nella serie causale come fattore determinante in modo autonomo dell’evento. Il carattere eccezionale di un fenomeno naturale, nel senso di una sua ricorrenza saltuaria anche se non frequente, non è, quindi sufficiente, di per sé solo, a configurare tale esimente, in quanto non ne esclude la prevedibilità in base alla comune esperienza“.
Il senso delle affermazioni appena rammentate, dunque, si colloca pianamente nel solco tracciato in precedenza, là dove l’imprevedibilità, alla stregua di un’indagine ex ante e di stampo oggettivo in base al principio di regolarità causale, “va intesa come obiettiva inverosimiglianza dell’evento“, mentre l’eccezionalità è da «identificarsi come una sensibile deviazione (ed appunto eccezione) dalla frequenza statistica accettata come “normale”».
Nell’ambito di tale contesto d’indagine e di valutazione circa la ricorrenza del “caso fortuito“, risulta per la Corte del pari armonico il principio per cui, al fine di poter ascrivere le precipitazioni atmosferiche nell’anzidetta ipotesi di esclusione della responsabilità ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., «la distinzione tra “forte temporale“, “nubifragio” o “calamità naturale” non rientra nel novero delle nozioni di comune esperienza ma – in relazione alla intensità ed eccezionalità (in senso statistico) del fenomeno – presuppone un giudizio da formulare soltanto sulla base di elementi di prova concreti e specifici e con riguardo al luogo ove da tali eventi sia derivato un evento dannoso» (Cass. n. 522 del 1987, cit.).
In tale ottica, dunque, l’accertamento del “fortuito” rappresentato dall’evento naturale delle precipitazioni atmosferiche deve essere essenzialmente orientato da dati scientifici di stampo statistico (in particolare, i dati c.d. pluviometrici) riferiti al contesto specifico di localizzazione della res oggetto di custodia.
Giova poi – prosegue la Corte – ribadire, nel quadro della fattispecie legale di cui all’art. 2051 cod. civ., l’estraneità all’ambito della predetta indagine, e, quindi, degli accertamenti e valutazioni successivi (riservati tutti al giudice del merito), dei profili inerenti alla colpa del custode nella predisposizione di cautele (specifiche e/o generiche) atte a rendere la res idonea a non arrecare pregiudizio allo scopo. Nella specie, il riferimento è, quindi, al (buon) funzionamento del sistema di smaltimento delle acque meteoriche predisposto dai convenuti, anche attraverso la pulizia e adeguata manutenzione dello stesso.
Sicché, l’allegazione dello “stato” del sistema di smaltimento di dette acque, nella relativa effettiva consistenza attualizzata al momento del sinistro, viene ad assumere rilievo unicamente ai fini della dimostrazione del nesso causale tra la “cosa” medesima e l’evento lesivo.
Ciò precisato, il Tribunale ha fondato il giudizio di eccezionalità ed imprevedibilità delle precipitazioni atmosferiche causative del danno lamentato nel caso di specie dall’attrice – e quindi la riconduzione di esse nel “caso fortuito” ex art. 2051 cod. civ. – sulla scorta delle delibere della Giunta regionale siciliana del 15 febbraio 2010 e del 28 ottobre 2010, che avevano dichiarato lo stato di calamità naturale a seguito, rispettivamente, degli eventi meteorici verificatesi nei territori delle province di Messina e di Palermo nel settembre 2009- febbraio 2010 e, poi, nei giorni 18, 19 e 20 ottobre 2010.
Tuttavia, proprio la portata delle predette delibere (il cui contenuto è precisato in ricorso ed esìbito dalla stessa sentenza impugnata) – nelle quali si fa riferimento a “piogge, talora intense, altre volte con elevati valori cumulati su lunghi periodi” o anche a “piogge prolungate“, in un territorio non certo circoscritto e delimitato puntualmente, quello delle province di Palermo e Messina – dà ragione dell’errore di sussunzione commesso dal giudice del merito (con la riconduzione nell’ambito della fattispecie legale di un fatto ad essa estraneo), non potendosi ravvisare nelle precipitazioni appena descritte i caratteri, innanzi rammentati, della eccezionalità e, tantomeno, della imprevedibilità, connotanti il “caso fortuito” di cui all’art. 2051 cod. civ., da accertarsi, come detto, in base ad elementi concreti e specifici, tenuto conto (anzitutto) dei dati statistici- pluviometrici della zona interessata.
Del resto, concorre a corroborare siffatta conclusione anche la circostanza che, secondo quanto declinato dalle predette delibere giuntali, gli “eventi calamitosi” (fondanti le declaratorie dello stato di “calamità naturale“) non trovano la propria eziologia nel solo fattore atmosferico (le precipitazioni), ma anche nella combinata incidenza del “fragile tessuto geomorfologico, litologico e geostrutturale del territorio della Regione“.
E ciò consente al Collegio di rimarcare, alla stregua di un orientamento ormai consolidato della Corte (Cass. n. 26545 del 2014, Cass. n. 5877 del 2016 e Cass. n. 18856 del 29017, citate), che «il discorso sulla prevedibilità maggiore o minore di una pioggia a carattere alluvionale certamente impone oggi, in considerazione dei noti dissesti idrogeologici che caratterizzano il nostro Paese, criteri di accertamento improntati ad un maggior rigore, poiché è chiaro che non si possono più considerare come eventi imprevedibili alcuni fenomeni atmosferici che stanno diventando sempre più frequenti e, purtroppo, drammaticamente prevedibili».
Nondimeno, occorre per la Corte evidenziare, in una prospettiva collimante con i rilievi che precedono e, segnatamente, con il principio enunciato dalla citata Cass. n. 522 del 1987, che neppure a livello legislativo si rinvengono qualificazioni tali da far coincidere, di per sé, gli eventi naturali pregiudizievoli o le stesse calamità naturali con il “fortuito“, come in precedenza definito secondo i caratteri dell’eccezionalità e imprevedibilità.
In tal senso, già la risalente legge 8 dicembre 1970, n. 996 (Norme sul soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità – Protezione civile) identificava, all’art. 1, la “calamità naturale” (o “catastrofe“) in quella situazione determinativa di “grave danno o pericolo di grave danno alla incolumità delle persone e ai beni e che per la loro natura o estensione debbano essere fronteggiate con interventi tecnici straordinari“; senza, dunque, interferire sul piano della connotazione dell’evento ivi riconducibile siccome eccezionale e, al tempo stesso, imprevedibile.
Del pari, la attuale disciplina in tema di protezione civile, ossia la legge 24 febbraio 1992, n. 225 e successive modificazioni, istitutiva del “Servizio nazionale della protezione civile“, nel definire la tipologia degli eventi suscettibili di intervento e i relativi ambiti di competenze (con suddivisione dei vari livelli ispirata al principio di sussidiarietà, riservando allo Stato le situazioni emergenziali da fronteggiare con mezzi e poteri straordinari), fa riferimento ad “eventi naturali o connessi con l’attività dell’uomo” [art. 2, lett. a) e b)] o (in ragione della loro maggiore intensità ed estensione) a “calamità naturali o connesse con l’attività dell’uomo” [art. 2, lett. c), per le quali è prevista, per l’appunto, la competenza statale, seppur temporanea: Corte cost., sent. n. 8 del 2016], che non trovano ulteriore specificazione in termini di caratteristiche intrinseche agli stessi, ma sono declinati in funzione, eminentemente, delle conseguenze dannose provocate o determinabili (cfr. art. 3 della stessa legge n. 225 del 1992, sui connotati dell’attività di previsione, prevenzione e soccorso).
Del resto, e in modo assai significativo, l’art. 5 della medesima legge n. 225 del 1992 (che regola lo stato di emergenza e il potere di ordinanza, anche in deroga alle leggi vigenti, al verificarsi degli eventi di cui al citato art. 2, comma 1, lettera c), al relativo comma 5-ter (introdotto dal comma 2-quater dell’art. 17 d.l. n. 195 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 26 del 2010), “in relazione ad una dichiarazione dello stato di emergenza“, intesta il diritto alla sospensione o al differimento temporaneo dei termini per gli adempimenti fiscali e previdenziali “esclusivamente” in capo “ai soggetti interessati da eventi eccezionali e imprevedibili che subiscono danni riconducibili all’evento“.
Ciò rende ancora una volta evidente come la “calamità naturale“, in forza della quale è dichiarato lo stato di emergenza, non costituisce di per sé evento eccezionale e imprevedibile, ma può, semmai, essere determinata anche da eventi, specifici, di tale natura.
Né è dato diversamente opinare in ragione delle specifiche attribuzioni (legislative e amministrative) della Regione siciliana, posto che la “dichiarazione dello stato di calamità“, riservato (come già visto) alla competenza della Giunta regionale, è consentita (art. 3 della legge della Regione siciliana 18 maggio 1995, n. 42) proprio “in relazione al verificarsi degli eventi di cui alle lettere a) e b) dell’articolo 2 della legge 24 febbraio 1992, n. 225“, innanzi richiamati.
Può dunque per il Collegio enunciarsi, nel solco di quelli innanzi affermati e con specifico riguardo alla fattispecie in esame, il principio di diritto onde le precipitazioni atmosferiche integrano l’ipotesi di caso fortuito, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., allorquando assumano i caratteri dell’imprevedibilità oggettiva e dell’eccezionalità, da accertarsi con indagine orientata essenzialmente da dati scientifici di tipo statistico (i c.d. dati pluviometrici) riferiti al contesto specifico di localizzazione della res oggetto di custodia, la quale va considerata nello stato in cui si presenta al momento dell’evento atmosferico.
* * *
Il 19 marzo esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.6703 che ribadisce come la responsabilità ex art.2051 c.c. vada assunta di natura oggettiva, potendo la Pubblica amministrazione andame esente solo laddove dimostri la sussistenza del caso fortuito.
Il riferimento per il Collegio è, in particolare, ad elementi esterni imprevedibili ed inevitabili, i quali possono essere rappresentati sia da un’alterazione improvvisa dello stato dei luoghi, non tempestivamente eliminabile o segnalabile, sia dalla stessa condotta colposa del danneggiato, che – pur potendo prevedere la situazione di pericolo pertinente – abbia tuttavia omesso le opportune cautele.
* * *
Il 10 agosto viene varato il decreto legislativo n.101, recante disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonche’ alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati).
Viene abrogato, tra gli altri, l’art.15 del decreto legislativo 196.03 in materia di trattamento dei dati personali e responsabilità ex art.2050 c.c.
2019
Il 21 febbraio esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n.4995 che rammenta come nella giurisprudenza di legittimità si sia consolidato l’orientamento – da cui si è discostata nel caso di specie la Corte territoriale con argomentazioni non condivisibili e già oggetto di confutazione in sede di legittimità – secondo cui il Ministero della Salute è tenuto ad esercitare un’attività di controllo e di vigilanza in ordine alla pratica terapeutica di trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati e risponde ex art. 2043 c.c. (non già, dunque, ex art.2050 c.c.), per omessa vigilanza, dei danni conseguenti ad epatite e ad infezione da HIV contratte da soggetti emotrasfusi (Cass., 23/1/2014, n. 1355; Cass., n. 26152 del 2014; Cass., Sez. Un., 11/1/2008 n. 576; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 584; Cass., 29/8/2011, n. 17685).
Sotto il profilo della responsabilità del Ministero della Salute per omessa vigilanza, chiosa ancora il Collegio, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: “premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinché fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standards di esclusione di rischi, il giudice, accertata l’omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all’epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata, infine, l’esistenza di una patologia da virus HIV, HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la verificazione dell’evento”.
Inoltre, nello specificare il criterio per la delimitazione temporale della responsabilità dell’Amministrazione, le Sezioni Unite hanno puntualizzato che già a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B sussiste la responsabilità della stessa anche per il contagio degli altri due virus, i quali non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell’integrità fisica da virus veicolati da sangue infetto.
Pertanto non sussistono tre eventi lesivi, autonomi e indipendenti, ma un unico evento lesivo, vale a dire la lesione dell’integrità fisica, per cui unico è anche il nesso causale: sangue infetto – contagio infettivo – lesione dell’integrità (in riforma del precedente orientamento espresso da Cass., 31/5/2005, n. 11609, secondo cui fino a quando non fossero stati conosciuti dalla scienza medica i virus dell’HBV, HIV E HCV, cioè, rispettivamente, fino al 1978, 1985 e 1988, doveva essere esclusa la responsabilità del Ministero, non potendo lo stesso conoscere la capacità infettiva di detti virus prima ancora della comunità scientifica).
Il Ministero della Salute è, dunque, tenuto – prosegue la Sezione – anche anteriormente alle date sopra riportate, a controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni o per gli emoderivati sia esente da virus e che i donatori non presentino alterazioni delle transaminasi, in adempimento di obblighi specifici posti dalle fonti normative speciali (Cass., 29/8/2011, n. 17685; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 581).
2020
Il 5 marzo esce la sentenza delle SSUU n.6324 alla cui stregua – sulla scorta peraltro di un consolidato orientamento in proposito – la ragione della devoluzione alla giurisdizione del Go delle controversie relative alle domande proposte da investitori e azionisti nei confronti delle autorità di vigilanza (Banca d’Italia e Consob) per i danni conseguenti alla mancata, inadeguata o ritardata vigilanza su banche e intermediari va individuata nel fatto che, in esse, non viene in rilievo la contestazione di poteri amministrativi, quanto piuttosto l’omissione di comportamenti doverosi posti a tutela del risparmio che non investono scelte e atti autoritativi.
Tali autorità sono infatti tenute per la Corte a rispondere delle conseguenze della violazione dei canoni comportamentali della diligenza, prudenza e perizia, nonché delle norme di legge e regolamentari relative al corretto svolgimento dell’attività di vigilanza, quali espressione del principio generale del neminem laedere.
Per la Corte la domanda proposta dagli attori nel giudizio di merito è, in sintesi, di accertare la responsabilità delle autorità amministrative convenute per non avere o per avere posto in essere tardivamente e in modo inadeguato le condotte, delineate dalle legge secondo tipologie coerenti con le rispettive attribuzioni, che avrebbero consentito di garantire la correttezza e trasparenza dei rapporti contrattuali intrattenuti dall’intermediario con gli investitori, a tutela dei loro crediti, al fine di evitare il deprezzamento e poi l’azzeramento del valore delle loro azioni.
Per stabilire quale sia la giurisdizione competente a pronunciarsi sul merito di una siffatta domanda, si deve rispondere per la Corte ai seguenti quesiti:
a) Le condotte, omesse o inadeguate, imputate alla Banca d’Italia e alla CONSOB, indicate come causa dei danni lamentati, costituiscono oggetto di «poteri amministrativi» in senso proprio nei confronti degli investitori e azionisti?
b) Costoro agiscono per la tutela di diritti soggettivi o di interessi legittimi?
c) E’ configurabile una ipotesi di giurisdizione esclusiva che abiliti il giudice amministrativo a conoscere di diritti soggettivi nella controversia in esame, a norma del codice del processo amministrativo?
Al primo quesito (sub 2, lett. a) si deve dare per la Corte risposta negativa.
In causa analoga a quella in esame, le Sezioni Unite rammentano di avere assunto esistente la giurisdizione del giudice ordinario sin dal 2003 (SU 2 maggio 2003, n. 6719), quando vigeva il criterio di riparto della giurisdizione (delineato dagli artt. 33 e 34 del d. Igs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituiti dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000 n. 205) che devolveva al giudice amministrativi interi «blocchi di materie», criterio successivamente inciso in senso riduttivo dall’intervento correttivo della Corte costituzionale (sentenza n. 204 del 2004) che ha affermato il principio secondo cui la giurisdizione esclusiva presuppone che la P.A. agisca esercitando il suo potere autoritativo, ovvero avvalendosi della facoltà di adottare strumenti negoziali in sostituzione del predetto potere.
Il suddetto principio è parametro di valutazione della costituzionalità delle norme creative di nuove ipotesi di giurisdizione esclusive, ma evidentemente anche di interpretazione delle norme vigenti da parte dei giudici comuni.
La citata ordinanza delle SU stabilì l’estraneità al «blocco» della giurisdizione esclusiva – riguardante allora «tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare» (art. 7, comma 1, lett. a), della legge n. 205 del 2000) – delle controversie in tema di risarcimento dei danni vantati dai risparmiatori, i quali «rispetto all’esercizio dei poteri di vigilanza verso gli operatori del settore, non versano in situazione di interesse legittimo, con conseguente insussistenza della giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo».
Il suddetto orientamento – che risulta rafforzato dalla sentenza n. 204 del 2004 – è stato poi confermato nella giurisprudenza successiva, secondo la quale «a differenza, infatti, di quanto avviene rispetto ai “soggetti abilitati” – nei cui confronti l’Autorità di vigilanza esercita una serie di “poteri” diretti ad assicurare che i loro comportamenti siano “trasparenti e corretti” e la loro gestione sia “sana e prudente” (artt. 5 e 91 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), onde le posizioni di tali soggetti nei confronti dell’Autorità si configurano, in linea di massima, come interessi legittimi – la CONSOB non esercita alcun “potere” sui risparmiatori, trattandosi dei soggetti che essa è tenuta a tutelare, con la conseguenza che la posizione di questi ultimi nei confronti dell’Autorità di vigilanza assume la consistenza del diritto soggettivo: diritto che – proprio perché non collegato ad alcuna relazione di potere con la P.A. – deve essere tutelato, in caso di violazione, innanzi al giudice ordinario, e ciò tanto più quando (come nel caso di specie) l’azione proposta trovi il suo fondamento in un preteso “comportamento” illecito della P.A. e sia diretta a conseguire il risarcimento dei danni subiti» (SU 29 luglio 2005, n. 15916; cfr. SU 11 luglio 2006, n. 15667).
Inerente al «potere amministrativo» è la scelta discrezionale, che compete all’Amministrazione che ne è titolare, di esercitarlo o no, in una direzione o in un’altra, sulla base di contingenti valutazioni di interesse pubblico. Alla Banca d’Italia e alla Consob sono invece attribuiti, chiosa ancora la Corte, secondo le rispettive competenze (a garanzia della stabilità patrimoniale e della trasparenza e correttezza dei comportamenti degli intermediari), poteri-doveri di azione a tutela del risparmio (art. 47 Cost.) e, dunque, a favore degli investitori, che non investono scelte ed atti autoritativi, ma comportamenti «doverosi» che sono soggetti al rispetto del principio generale del «neminem laedere», da adempiere mediante l’osservanza di regole tecniche, ovvero di comuni canoni di diligenza e prudenza, la cui violazione può essere denunciata davanti al giudice ordinario.
Il fatto che detti comportamenti siano disciplinati dalla legge (t.u.f. approvato con d. Igs. 24 febbraio 1998, n. 58 e t.u.b. approvato con d. Igs. 1 settembre 1993, n. 385) non li fa diventare atti autoritativi sindacabili (necessariamente o esclusivamente) in sede di giurisdizione amministrativa, posto che la nozione di colpa (e responsabilità) extracontrattuale per i danni cagionati a terzi dalla pubblica amministrazione si riferisce, a norma dell’art. 43 c.p., non solo alle situazioni in cui questa abbia agito senza rispettare i canoni della diligenza, prudenza e perizia propri di chiunque operi nel mondo esterno, ma anche quando abbia violato norme di leggi o regolamenti relative all’organizzazione o allo svolgimento di un pubblico servizio (una delle prime decisioni in tal senso è Cass. SU 19 giugno 1936, n. 2143).
Non si tratta di sindacare la legittimità formale di atti amministrativi adottati o non adottati dall’amministrazione, prosegue la Corte, ma di valutare se questa abbia agito male in relazione ai sopra ricordati parametri e, quindi, debordato dai limiti esterni della discrezionalità tecnica, nel qual caso ad essere violato è il principio del «neminem laedere» che non esprime una norma di azione amministrativa, ma un precetto generale (Cass. 12 aprile 2018, n. 9067; 3 marzo 2001, n. 3132) applicabile a tutti i soggetti, privati e pubblici, per la cui violazione l’amministrazione è tenuta a rispondere dinanzi al giudice ordinario (Cass. SU 20 ottobre 2006, n. 22521).
Neppure rileva che si tratti di azionisti, secondo una tesi che li ritiene, diversamente dai risparmiatori, direttamente sottoposti al potere di vigilanza della Banca d’Italia. Ed infatti, i destinatari diretti delle misure (inibitorie, interdittive e di altro genere) adottate dalle autorità di vigilanza non sono gli azionisti, i quali ne sono in realtà i beneficiari, ma le banche e gli intermediari che agiscono tramite i loro organi amministrativi e di controllo (cfr. artt. 53 bis, 67 ter, 108, comma 3, 114 quinquies, comma 3, t.u.b.).
E’ decisivo comunque il rilievo che ad essere contestata è anche l’indebita e strumentale sollecitazione ad acquisire la partecipazione sociale, che si pone come fattore causale concorrente nell’illecito imputato agli organi di vigilanza ex art. 2043 c.c., per violazione del «neminem laedere», secondo l’oggetto della domanda (art. 386 c.p.c.).
Se dunque i comportamenti che si assume male esercitati dalle autorità di vigilanza non sono «poteri amministrativi» (o, quanto meno, non sono in tale veste censurati), non v’è spazio nella fattispecie per configurare la giurisdizione generale di legittimità e, di conseguenza, neppure quella esclusiva.
E’ necessario poi per la Corte rispondere agli altri quesiti (svolti sub 2), al fine di replicare alle affermazioni della Banca d’Italia che invoca la giurisdizione del giudice amministrativo. In particolare, al secondo (sub 2, lett. b) si deve rispondere per le SSUU nel senso che, nella controversia in esame, l’oggetto della domanda è la tutela di diritti soggettivi, coerentemente con la doglianza rivolta alle autorità di vigilanza di avere agito in modo inadeguato e scorretto, causando danni ingiusti, in violazione del «neminem laedere».
Si potrebbe obiettare che per escludere la giurisdizione amministrativa non sarebbe sufficiente predicare la configurabilità di diritti soggettivi, ma è agevole replicare che perché il giudice amministrativo possa conoscere di diritti soggettivi è necessario che la controversia rientri in concreto nella giurisdizione esclusiva, la quale, tuttavia, non è configurabile quando, come nella specie, non siano implicati «poteri amministrativi», in mancanza dei quali non sono predicabili neppure interessi legittimi.
Ed infatti, il «necessario collegamento delle “materie” assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive – e cioè con il parametro adottato dal Costituente come ordinario discrimine tra le giurisdizioni ordinaria ed amministrativa – è espresso dall’art. 103 laddove statuisce che quelle materie devono essere “particolari” rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità e cioè devono partecipare della loro medesima natura, che è contrassegnata della circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo. Il legislatore ordinario ben può ampliare l’area della giurisdizione esclusiva purché lo faccia con riguardo a materie (in tal senso, particolari) che, in assenza di tale previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità» (Corte cost. n. 204 del 2004, p. 3.2).
L’interpretazione sistematica depone dunque, prosegue il Collegio, per la giurisdizione ordinaria e trova conferma nell’assenza di disposizioni univoche idonee ad avvalorare la diversa soluzione sostenuta dalla Banca d’Italia.
Non lo è l’art. 133, comma 1, lett. c), c.p.a. che devolve alla giurisdizione esclusiva le controversie «afferenti alla vigilanza sul credito», peraltro nell’ambito di una norma riguardante controversie di diversa tipologia, quali sono quelle «in materia di pubblici esercizi relative a concessioni di pubblici esercizi», né l’art. 95 del d. Igs. 16 novembre 2015, n. 180, che si limita a richiamare le norme del codice del processo amministrativo quando il giudice amministrativo sia fornito di giurisdizione.
E’ certo comunque che, all’epoca dell’entrata in vigore del d. Igs. 2 luglio 2010, n. 104 (c.p.a.), l’interpretazione delle Sezioni Unite (formatasi sul testo, analogo all’attuale art. 133, lett. c), c.p.a., del dispositivo della sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004: v. SU n. 15916 del 2005) era nel senso della giurisdizione ordinaria in controversie come quella in esame ed è noto che, alla luce della delega (legge n. 69 del 2009, art. 44, comma 1), il codice non avrebbe potuto contenere disposizioni innovative in tema di riparto della giurisdizione (cfr. Corte cost. n. 162 del 2012 e n. 94 del 2014).
Premesso che il radicamento della giurisdizione amministrativa postula, in ogni caso, l’inerenza della controversia – che non ricorre nella specie – all’esercizio di poteri amministrativi, lo sforzo ermeneutico profuso dalla Banca d’Italia non è produttivo laddove trae argomenti direttamente dall’art. 7, comma 1, c.p.a.
Ed infatti, prosegue la Corte, con la suddetta disposizione – rispondendo al terzo quesito (sub 2, lett. c) – il legislatore non ha inteso estendere la giurisdizione amministrativa (esclusiva e di legittimità) a tutte le controversie o materie in cui sia ravvisabile «mediatamente» l’esercizio di un potere pubblico, non trattandosi infatti di una norma attributiva della giurisdizione, né modificativa degli ordinari criteri di riparto della stessa, ma di una disposizione meramente ricognitiva dei poteri del giudice amministrativo nell’ambito della propria giurisdizione, come definita dalle norme costituzionali e dalle leggi ordinarie (SU 18 dicembre 2018, n. 32728).
L’affermazione della giurisdizione ordinaria nella controversia in esame non è, infine, contraddetta da un precedente nel quale le Sezioni Unite hanno affermato la giurisdizione amministrativa in un caso in cui gli investitori chiedevano di ordinare alla CONSOB di porre termine al proprio comportamento omissivo adottando le misure idonee a ripristinare la corretta informazione circa la reale situazione patrimoniale (Cass. SU 8 maggio 2015, n. 10095).
Ed infatti, in primo luogo, la citata decisione ha premesso che la questione di giurisdizione non atteneva alla domanda risarcitoria ma unicamente a quella «cd. inibitoria» contestualmente proposta. In secondo luogo, non si potrebbe interpretare il suddetto precedente come se fosse ricognitivo della regola della duplicità delle giurisdizioni, a seconda del modo di declinare la domanda risarcitoria (da devolvere al giudice ordinario se proposta per equivalente e al giudice amministrativo se proposta in forma specifica), in considerazione della natura rimediale della tutela risarcitoria in entrambi i casi (cfr. art. 30, comma 2, c.p.a.) che impone di individuare il giudice competente in relazione alla natura dell’interesse sostanziale leso che, nel caso in esame, è il giudice ordinario.
In conclusione, va enunciato per le SSUU il principio onde sulle domande proposte dagli investitori ed azionisti nei confronti delle autorità di vigilanza (Banca d’Italia e CONSOB) per i danni conseguenti alla mancata, inadeguata o ritardata vigilanza nei confronti delle banche ed intermediari, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, non venendo in rilievo la contestazione di poteri amministrativi, ma di comportamenti «doverosi» a loro favore che non investono scelte ed atti autoritativi, essendo dette autorità tenute a rispondere delle conseguenze della violazione dei canoni comportamentali della diligenza, prudenza e perizia, nonché delle norme di legge e regolamentari relativi al corretto svolgimento dell’attività di vigilanza, quali espressione del principio generale del «neminem laedere»
* * *
*Il 25 marzo esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.7529 onde, ai fini del riparto di giurisdizione tra GO e GA sulla domanda risarcitoria proposta in materia urbanistica ed edilizia, occorre distinguere il caso nel quale il privato pretenda il risarcimento del danno derivante dalla illegittima progettazione e deliberazione dell’opera pubblica, nel quale, ponendosi in discussione la legittimità dell’esercizio del potere pubblico, la giurisdizione spetta al GA, da quello in cui lo stesso lamenti la cattiva esecuzione dell’opera pubblica, contestando le modalità esecutive dei lavori, nel quale la giurisdizione spetta al giudice ordinario, venendo in rilievo la violazione del generale dovere di neminem laedere.
* * *
Il 01 aprile esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.7636 alla cui stregua spetta alla giurisdizione del GO (e non del GA) la controversia nella quale il privato chieda di accertare che gli aerogeneratori di un vicino parco eolico generano immissioni rumorose, moleste e intollerabili, con effetti pregiudizievoli sia al bene primario della salute dell’attore e dei suoi familiari sia al valore economico della sua proprietà, e domandi l’emissione delle conseguenti pronunce inibitorie e risarcitone.
* * *
Il 23 aprile esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.8092 alla cui stregua – premesso che, in materia di danno ambientale, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del GA, ai sensi dell’art. 310 del d.lgs. n. 152 del 2006, le controversie derivanti dall’impugnazione, da parte dei soggetti titolari di un interesse alla tutela ambientale di cui al precedente art. 309, dei provvedimenti amministrativi adottati dal Ministero dell’ambiente per la precauzione, la prevenzione e il ripristino ambientale – va tuttavia precisato che resta ferma la giurisdizione del GO in ordine alle cause risarcitorie o inibitorie promosse da soggetti ai quali il fatto produttivo di danno ambientale abbia cagionato un pregiudizio alla salute o alla proprietà, secondo quanto previsto dall’art. 313, comma 7, dello stesso decreto legislativo.
Infatti, l’eventualità che l’attività nociva sia svolta in conformità a provvedimenti autorizzativi della P.A. incide, non sul riparto di giurisdizione (atteso che ai predetti provvedimenti non può riconoscersi l’effetto di affievolire diritti fondamentali dei terzi), ma esclusivamente sui poteri del GO, il quale, nell’ipotesi in cui l’attività lesiva derivi da un comportamento materiale non conforme ai provvedimenti amministrativi che ne rendono possibile l’esercizio, provvederà a sanzionare, inibendola o riportandola a conformità, l’attività rivelatasi nociva perché non conforme alla regolazione amministrativa, mentre, nell’ipotesi in cui risulti tale conformità, dovrà disapplicare la predetta regolazione ed imporre la cessazione o l’adeguamento dell’attività in modo da eliminarne le conseguenze dannose.
* * *
Il 28 aprile esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.8236 alla cui stregua spetta alla potestas iudicandi del GO la giurisdizione sulle controversie relative a una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento incolpevole del privato nell’adozione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione difforme dai canoni civilistici di correttezza e buona fede.
Ciò per il Collegio, tanto nel caso in cui il danno derivi dalla adozione e dal successivo annullamento di un provvedimento amministrativo favorevole, quando nel caso in cui nessun provvedimento sia stato adottato e il privato abbia riposto senza colpa il proprio affidamento in un mero comportamento.
In entrambi i casi, per il Collegio la responsabilità della PA è catalogabile come di tipo contrattuale secondo lo schema della responsabilità da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c.
* * *
Il 14 ottobre esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.22993 che osserva in primo luogo, ed in via pregiudiziale, come il conflitto reale negativo di giurisdizione – la cui risoluzione è demandata alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 362, secondo comma, n. 1 cod. proc. civ. – sia da ritenersi ammissibile nel caso di specie, avendo il Tribunale di Napoli declinato la propria giurisdizione con sentenza definitiva n. 2577/2015, ed avendo il TAR Campania sollevato d’ufficio con ordinanza, come espressamente prevede l’art. 59, terzo comma, della legge n. 69 del 2009, il conflitto negativo di giurisdizione ridetto essendosi ritenuto, a propria volta, sfornito di giurisdizione in materia.
Nel merito, va poi rilevato per la Corte che – come dichiarato dagli stessi attori – la doglianza proposta dei medesimi in giudizio si era incentrata sulla considerazione che «anche la residua porzione del fondo di mq. 21974 (non oggetto dell’espropriazione) è stata di fatto occupata (rectius, sottratta alla disponibilità dei proprietari) a seguito dell’apposizione di un cancello di ingresso a valle del fondo, che ha impedito l’accesso alla proprietà, e non ha consentito l’uso ed il godimento della detta maggiore superficie» (comparsa di costituzione, pp. 1 e s.).
Nello stesso senso si è espressa l’ordinanza del TAR Campania, laddove ha affermato che ci si troverebbe in presenza di un comportamento materiale, che ha impedito – in via di fatto – l’accesso alla restante proprietà non oggetto di ablazione, «in particolare attraverso l’apposizione, in occasione della realizzazione della vasca di sedimentazione, di un cancello metallico all’ingresso di tutta la proprietà attorea, per di più, ad iniziativa dell’impresa esecutrice dei lavori e non dell’autorità espropriante».
Del resto, a parere del Collegio è certamente significativo – per la determinazione della materia del contendere ai fini dell’accertamento della giurisdizione – il fatto che alla decisione negativa del TAR, in punto giurisdizione, abbiano aderito anche gli stessi attori, sul presupposto condiviso che l’illecita occupazione, mediante apposizione di un cancello, di una parte del fondo di loro proprietà non interessato dalla procedura espropriativa, configuri l’ipotesi di un comportamento materiale posto in essere in carenza di potere, con conseguente giurisdizione in materia del giudice ordinario.
Tanto premesso, va osservato per la Corte che, secondo il costante insegnamento, ai fini del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo rileva non tanto la prospettazione compiuta dalle parti, quanto il «petitum sostanziale», che va identificato soprattutto in funzione della «causa petendi», ossia dell’intrinseca natura giuridica della posizione dedotta in giudizio (cfr., ex plurimis, Cass. Sez. U., 25/06/2010, n. 15323; Cass. Sez. U., 11/10/2011 , n. 20902; Cass. Sez. U., 15/09/2017, n. 21522; Cass. Sez. U., 26/10/2017 , n. 25456; Cass. Sez. U., 31/07/2018 , n. 20350; Cass. Sez. U. 19/11/2019, n. 30009).
Nel caso concreto, la causa petendi si incentra sul cd. «sconfinamento», ossia sull’occupazione, in via di mero fatto, mediante apposizione di un cancello, di un’area non ricompresa in quella interessata dall’occupazione temporanea di urgenza preordinata all’espropriazione.
Orbene, secondo l’indirizzo consolidato della Corte, nel contesto ermeneutico delle sentenze della Corte costituzionale (n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006), dichiarative dell’illegittimità costituzionale di nuove ipotesi legislative di giurisdizione esclusiva del GA in materia urbanistico-edilizia ed espropriativa, se estese a comportamenti non riconducibili nemmeno “mediatamente” all’esercizio di un pubblico potere, devono ascriversi alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie in tema di riduzione in pristino e risarcimento del danno da comportamenti, causativi di danno ingiusto, perpetrati in carenza assoluta di potere.
Il che si verifica anche nella specifica ipotesi dell’occupazione di mero fatto del suolo privato e conseguente irreversibile trasformazione, in assenza di dichiarazione di pubblica utilità (c.d. occupazione usurpativa), che, pur emessa, sia riferibile ad aree diverse da quelle di fatto trasformate, configurandosi in tale ipotesi un illecito a carattere permanente, lesivo di diritto soggettivo (Cass. Sez. U., 20/12/2006, n. 27192).
La fattispecie, qualificabile come «occupazione usurpativa», ovvero come manipolazione del fondo di proprietà privata in assenza di dichiarazione di pubblica utilità, è costituita, invero, da un comportamento di fatto dell’amministrazione, in assenza di dichiarazione di pubblica utilità, che è ravvisabile anche per i terreni nei quali si sia verificato uno «sconfinamento», nel corso dell’esecuzione dell’opera pubblica, da aree legittimamente occupate.
Tale forma di occupazione costituisce un illecito permanente in alcun modo ricollegabile all’esercizio di poteri amministrativi, onde l’azione risarcitoria del danno che ne è conseguito rientra nella giurisdizione del giudice ordinario (Cass. Sez. U., 19/02/2007, n. 3723; Cass. Sez. U., 07/12/2016, n. 25044).
Da quanto suesposto deriva, pertanto, che, in tema di conflitto di giurisdizione avente ad oggetto – come nel caso di specie – una controversia relativa ad un’ipotesi di cd. «sconfinamento», ossia del caso in cui la realizzazione dell’opera pubblica abbia interessato un terreno diverso o più esteso rispetto a quello considerato dai provvedimenti amministrativi di occupazione e di espropriazione, oltre che dalla dichiarazione di pubblica utilità, l’occupazione e la trasformazione del terreno da parte della P.A. costituisce un comportamento di mero fatto, perpetrato in carenza assoluta di potere, che integra un illecito a carattere permanente, lesivo del diritto soggettivo (cd. occupazione usurpativa).
Ne consegue che l’azione di risarcimento del danno che ne è derivato rientra nella giurisdizione del giudice ordinario (Cass. Sez. U., 08/07/2019, n. 18272).
Per tutte le ragioni esposte, pertanto, deve affermarsi, in ordine alla pretesa risarcitoria proposta in giudizio dagli attori, la giurisdizione del giudice ordinario, dovendo per conseguenza la causa essere rinviata al Tribunale di Napoli, in diversa composizione.
* * *
Il 27 ottobre esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.23600 che rappresenta in incipit come venga chiesto al Collegio di stabilire a chi spetti la giurisdizione nel caso di domanda di risarcimento del danno per l’occupazione senza titolo di area di proprietà privata.
Secondo la propria giurisprudenza, dalla quale per il Collegio non v’è ragione di discostarsi, la giurisdizione deve essere determinata sulla base della domanda, dovendosi guardare, ai fini del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, non già alla prospettazione compiuta dalle parti, bensì al “petitum sostanziale“.
Quest’ultimo deve essere identificato, non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, quanto, soprattutto, in funzione della “causa petendi“, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio, da individuarsi con riguardo ai fatti allegati (Cass., Sez. Un., n. 15323 del 25/06/2010; Sez. Un., n. 20902 del 11/10/2011; Sez. Un., n. 2360 del 09/02/2015; Sez. Un., n. 11229 del 21/05/2014).
Sulla base di tale principio, il Collegio rammenta di avere già affermato che, in tema di conflitto di giurisdizione avente ad oggetto una controversia relativa ad un’ipotesi di c.d. sconfinamento, ossia del caso in cui la realizzazione dell’opera pubblica abbia interessato un terreno diverso o più esteso rispetto a quello considerato dai provvedimenti amministrativi di occupazione e di espropriazione, oltre che dalla dichiarazione di pubblica utilità, l’occupazione e la trasformazione del terreno da parte della P.A. costituisce un comportamento di mero fatto, perpetrato in carenza assoluta di potere, che integra un illecito a carattere permanente, lesivo del diritto soggettivo (c.d. occupazione usurpativa), onde l’azione di risarcimento del danno che ne è conseguito rientra nella giurisdizione del giudice ordinario (Cass., Sez. Un., n. 18272 del 08/07/2019; analogamente, Cass., Sez. Un., n. 25044 del 07/12/2016).
Nella specie, parte attrice non ha chiesto in giudizio, nei confronti dell’Amministrazione comunale di Civitella di Val di Chiana, l’accertamento della illegittimità del provvedimento amministrativo che ha autorizzato l’installazione dei ripetitori di telefonia, né ha rimproverato alla P.A. l’esercizio illegittimo del pubblico potere nei relativi confronti.
Al contrario, ha lamentato una lesione della propria integrità patrimoniale, asseritamente derivata dalla mancata osservanza dei confini della relativa proprietà in occasione della installazione dei ripetitori di telefonia mobile, ossia un comportamento di mero fatto perpetrato in carenza di potere. Pertanto, il “petitum sostanziale“, quale emerge dalla dedotta “causa petendi“, depone chiaramente per la giurisdizione del GO.
Va pertanto dichiarata per la Corte la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla controversia per cui è causa, dovendo conseguentemente essere cassata la sentenza della Corte di Appello di Firenze che ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, con rimessione delle parti dinanzi alla medesima.
* * *
Il 29 ottobre esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.23908 alla cui stregua rientra nella giurisdizione del GO – non ricadendo nell’ipotesi di giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi configurata dall’art. 133, comma 1, lettera c), cod. proc. civ. – la domanda, inibitoria e risarcitoria da illecito scarico a mare di un rivo adibito a pubblica fognatura, promossa, nei confronti della P.A. e del relativo concessionario, gestore del servizio idrico integrato, dal concessionario di un compendio demaniale destinato a porto turistico, allorché, a fondamento della proposta azione, siano denunciate una mera attività materiale e l’omissione di condotte doverose in violazione del generale principio del neminem laedere, e senza che vengano in rilievo atti e provvedimenti amministrativi di cui la condotta dell’amministrazione sia esecuzione.
Per la Corte il sollevato conflitto negativo di giurisdizione investe le Sezioni Unite del compito di stabilire se spetti al giudice ordinario o al giudice amministrativo la controversia – promossa da Marina Porto Antico s.p.a., concessionaria di un compendio demaniale ubicato nel Porto Antico di Genova, nel quale ha realizzato e gestisce un porto turistico – avente ad oggetto l’accertamento dell’illiceità della gestione dello scarico a mare del rio Carbonara, adibito a pubblica fognatura, e delle relative immissioni, e la condanna dei convenuti – Mediterranea delle Acque s.p.a., gestore del servizio idrico integrato, il Comune e la Provincia di Genova (ora Città Metropolitana di Genova) – alla chiusura di tale scarico, fino alla riconduzione a legalità, al ripristino dello stato dei luoghi e al risarcimento dei danni.
Occorre premettere perla Corte che la giurisdizione va determinata sulla base della domanda e che, ai fini del relativo riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione compiuta dalla parte bensì il petitum sostanziale, il quale deve essere identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, quanto in funzione della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati (Cass., Sez. Un., 14 gennaio 2020, n. 416).
Orbene nel caso di specie, chiosano le SSUU, con la domanda introduttiva l’attrice – nel lamentare che lo scarico in mare del rio Carbonara “sversa dello specchio acqueo compreso all’intemo del compendio demaniale in concessione a Marina Porto Antico s.p.a. … rifiuti e liquami fognari di ogni genere, i quali determinano, oltre che un grave danno ambientale, l’assoluta invivibilità di una parte dell’area in concessione per i miasmi da essa esalati e per l’indecoroso spettacolo di galleggiamento sulla superficie marina”; e nell’agire, in via inibitoria e risarcitoria, al fine di ottenere: (a) “la chiusura di siffatto scarico diretto, fino alla sua riconduzione a legalità (b) “l’eliminazione delle emissioni odorose derivanti da ristagni di acque e materiali (c) “l’eliminazione dei sedimenti che lo scarico ha fatto affondare sul fondale dello specchio acqueo concesso a Marina Porto Antico”; (d) “il risarcimento dei danni conseguenti” – ha chiesto la tutela della propria situazione di diritto soggettivo, lesa dalla condotta non iure e contra ius dei convenuti.
Nel dedurre la sussistenza degli elementi di un “illecito civile” e la configurabilità di una “fattispecie di immissioni illecite”, Marina Porto Antico s.p.a. ha addebitato ai convenuti – a Mediterranea delle Acque, in quanto gestore del servizio idrico; al Comune, proprietario degli impianti e committente del servizio svolto da Mediterranea delle Acque; alla Provincia (poi Città Metropolitana), nella qualità di autorità d’ambito per la gestione del servizio idrico integrato – la violazione della normativa in materia di tutela dell’ambiente, oltre che la colpa consistente “nell’omessa attività di manutenzione del tratto terminale del rio Carbonara”, “nell’omessa corretta gestione degli impianti di sollevamento” e “nella carenza di controlli sul funzionamento delle acque e degli impianti”.
L’atto di citazione di Marina Porto Antico s.p.a. non contiene alcuna censura né relativamente al programma comunale di attuazione delle reti fognarie (PARF), di pianificazione degli interventi di completamento delle reti fognarie e degli impianti di depurazione, né relativamente agli atti di approvazione della progettazione dell’opera di presa sul rio Carbonara.
Non essendo dedotta alcuna doglianza nei confronti degli atti amministrativi di progettazione del servizio di fognatura, nella controversia vengono in questione, non valutazioni discrezionali connesse all’esercizio di un potere amministrativo di organizzazione del servizio pubblico, quanto piuttosto apprezzamenti tecnici circa la diligenza adottata dal gestore del servizio idrico integrato e dagli enti locali (il Comune e la Città Metropolitana) nella gestione del servizio e nella manutenzione della pubblica fognatura e del relativo depuratore.
In altri termini, per il Collegio la tutela è domandata per la lesione derivante da un comportamento della P.A. privo di qualsiasi interferenza con un atto autoritativo, facendosi valere l’illiceità della condotta del soggetto pubblico – del gestore del servizio idrico integrato, del Comune e della Città Metropolitana -, suscettibile di incidere su posizioni di diritto soggettivo del terzo concessionario del compendio demaniale danneggiato dallo scarico della pubblica fognatura.
La controversia non ricade per le SSUU in nessuna ipotesi di giurisdizione esclusiva che abiliti il giudice amministrativo a conoscere di diritti soggettivi: in particolare, non rientra nella fattispecie delineata dall’art. 133, comma 1, lettera c), cod. proc. amm., che riguarda «le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità».
Nel ricostruire la portata di tale disposizione, occorre infatti muovere della premessa che il codice del processo amministrativo ha inteso circoscrivere la giurisdizione esclusiva del GA in materia di pubblici servizi alle sole ipotesi in cui l’Amministrazione agisca attraverso la spendita di potere autoritativo, così recependo il dictum della Corte costituzionale espresso dalla sentenza n. 204 del 2004.
Con tale pronuncia, la Corte costituzionale – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 1, del d.lgs. n. 80 del 1998, nella parte in cui prevedeva che fossero devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «tutte le controversie in materia di pubblici servizi» anziché le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo disciplinato dalla legge n. 241 del 7 agosto 1990, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore – ha affermato che “la materia dei pubblici servizi può essere oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se in essa la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo ovvero, attesa la facoltà, riconosciutale dalla legge, di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo, se si vale di tale facoltà (la quale, tuttavia, presuppone l’esistenza del potere autoritativo: art. 11 della legge n. 241 del 1990)”.
Nella specie – prosegue il Collegio – si è al di fuori del raggio di applicazione di questa ipotesi di giurisdizione esclusiva perché il danno lamentato dall’attrice non si riconnette all’esercizio di un potere pubblico da parte dell’Amministrazione o del concessionario, ma si ricollega a comportamenti materiali configurati come illeciti civili o illecite immissioni, anche per non avere i soggetti pubblici coinvolti osservato condotte doverose.
E – come insegna la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 204 del 2004, cit.) – la giurisdizione esclusiva non può radicarsi sul dato, puramente oggettivo, del normale coinvolgimento nella controversia di quel generico pubblico interesse che è naturaliter presente nel settore dei pubblici servizi: se così fosse, verrebbe a mancare il necessario rapporto di species a genus che l’art. 103 Cost. esige allorché contempla, come “particolari”, rispetto a quelle nelle quali la pubblica amministrazione agisce quale autorità, le materie devolvibili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Tale conclusione è in linea con gli approdi della medesima Corte regolatrice, essendosi affermato che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del GA non “tutte” le controversie relative a concessioni di pubblici servizi, ma solo quelle attinenti a materie in cui la P.A. agisce come autorità (Cass., Sez. Un. 7 gennaio 2014, n. 67); ciò sul rilievo che, anche nelle ipotesi in cui risulta, in particolari materie, normativamente attribuita ridetto al giudice amministrativo, la giurisdizione deve ritenersi non estesa ad ogni controversia in qualche modo concernente la materia devoluta alla relativa giurisdizione esclusiva, ma soltanto alle controversie che abbiano in concreto ad oggetto la valutazione di legittimità di provvedimenti amministrativi, espressione di pubblici poteri (Cass., Sez. Un., 25 febbraio 2011, n. 4614).
In altri termini, affinché il giudice amministrativo possa conoscere di diritti soggettivi è necessario che la controversia rientri in concreto nella pertinente giurisdizione esclusiva, la quale, tuttavia, non è configurabile quando non siano implicati poteri amministrativi, in mancanza dei quali non sono predicabili neppure interessi legittimi (Cass., Sez. Un., 5 marzo 2020, n. 6324).
Si è così statuito che, poiché nell’attuale assetto costituzionale, successivamente alla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale, la giurisdizione esclusiva non è estensibile alle controversie nelle quali la P.A. non esercita alcun potere pubblico, va riconosciuta per le SSUU la giurisdizione del GO in tutte le controversie in cui si denunzino comportamenti configurati come illeciti ex art. 2043 cod. civ., e a fronte dei quali, per non avere la P.A. osservato condotte doverose, la posizione soggettiva del privato non può che definirsi di diritto soggettivo, restando escluso il riferimento ad atti e provvedimenti, di cui la condotta dell’Amministrazione sia esecuzione, quando essi non costituiscano oggetto del giudizio, per essersi fatta valere in causa unicamente l’illiceità della condotta dell’ente pubblico, suscettibile di incidere sulla incolumità e i diritti patrimoniali del terzo (Cass., Sez. Un., 18 ottobre 2005, n. 20117; Cass., Sez, Un., 20 ottobre 2006, n. 22521).
Muovendo in questa prospettiva, si è affermato (Cass., Sez. Un., 8 maggio 2017, n. 11142) che, in materia di raccolta e smaltimento dei rifiuti, nonostante sussista la giurisdizione esclusiva amministrativa, già in virtù dell’art. 33, comma 2, lettera e), del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come modificato dalla legge 7 luglio 2000, n. 205, ed oggi dell’art. 133, comma 1, lettera p), cod. proc. amm., appartiene alla giurisdizione ordinaria la domanda del privato che si dolga delle concrete modalità di esercizio del relativo ciclo produttivo, assumendone la pericolosità per la salute o altri diritti fondamentali della persona e chiedendo l’adozione delle misure necessarie per eliminare i danni attuali e potenziali e le immissioni intollerabili, atteso che la condotta contestata integra la materiale estrinsecazione di un’ordinaria attività di impresa, allorquando non siano dettate particolari regole esecutive o applicative tecniche direttamente nei provvedimenti amministrativi, sicché non risulta in alcun modo coinvolto il pubblico potere.
Parimenti, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo sulla domanda risarcitoria proposta in materia urbanistica ed edilizia, si è riconosciuto che occorre distinguere il caso nel quale il privato pretenda il risarcimento del danno derivante dalla illegittima progettazione e deliberazione dell’opera pubblica, nel quale, ponendosi in discussione la legittimità dell’esercizio del potere pubblico, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo, da quello in cui lo stesso lamenti la cattiva esecuzione dell’opera pubblica, contestando le modalità esecutive dei lavori, nel quale la giurisdizione spetta al giudice ordinario, venendo in rilievo la violazione del generale dovere di neminem laedere (Cass., Sez. Un., 21 settembre 2017, n. 21975; e cfr., da ultimo, Cass., Sez. Un., 25 marzo 2020, n. 7529).
Espressione del medesimo orientamento è Cass., Sez. Un., 5 marzo 2020, n. 6324, cit., con cui la Corte regolatrice rammenta di avere individuato la ragione della devoluzione alla giurisdizione del giudice ordinario delle controversie relative alle domande proposte da investitori e azionisti nei confronti delle autorità di vigilanza (Banca d’Italia e Consob) per i danni conseguenti alla mancata, inadeguata o ritardata vigilanza su banche e intermediari nel fatto che, in esse, non veniva in rilievo la contestazione di poteri amministrativi, ma l’omissione di comportamenti doverosi posti a tutela del risparmio che non investono scelte e atti autoritativi, essendo tali autorità tenute a rispondere delle conseguenze della violazione dei canoni comportamentali della diligenza, prudenza e perizia, nonché delle norme di legge e regolamentari relative al corretto svolgimento dell’attività di vigilanza, quali espressione del principio generale del neminem laedere.
Va pertanto dichiarata per la Corte la giurisdizione del GO, e ciò sulla base del principio di diritto onde rientra appunto nella giurisdizione del giudice ordinario – non ricadendo nell’ipotesi di giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi configurata dall’art. 133, comma 1, lettera c), cod. proc. civ. – la domanda, inibitoria e risarcitoria da illecito scarico a mare di un rivo adibito a pubblica fognatura, promossa, nei confronti della P.A. e del suo concessionario, gestore del servizio idrico integrato, dal concessionario di un compendio demaniale destinato a porto turistico, allorché, a fondamento della proposta azione, siano denunciate una mera attività materiale e l’omissione di condotte doverose in violazione del generale principio del neminem laedere, e senza che vengano in rilievo atti e provvedimenti amministrativi di cui la condotta dell’amministrazione sia esecuzione.
Così individuato il giudice munito di giurisdizione, deve escludersi per la Corte che la controversia – nel caso di specie – ricada nella competenza del Tribunale regionale delle acque pubbliche, ai sensi dell’art. 140, lettera e), del testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici, approvato con il regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775.
Secondo tale disposizione, appartengono in primo grado alla cognizione del TRAP «le controversie per risarcimenti di danni dipendenti da qualunque opera eseguita dalla pubblica amministrazione e da qualunque provvedimento emesso dall’autorità amministrativa a termini dell’art. 2 del testo unico 25 luglio 1904, n. 523, modificato con l’art. 22 della legge 13 luglio 1911, n. 774».
La Corte rammenta di aver precisato (Cass., Sez. I, 14 febbraio 2004, n. 2899) che, in tema di acque pubbliche, la nozione di “opere idrauliche”, prevista, in particolare, dal citato art. 140, lettera e), del testo unico, non comprende tutti gli impianti che abbiano una qualsiasi attinenza con le acque pubbliche, ma è riferibile solo a quelli che rivelino una diretta influenza sul decorso, la disciplina o l’utilizzazione delle stesse, sì da incidere su interessi pubblici connessi al loro regime, traendone la conseguenza che non è qualificabile come opera idraulica un depuratore di acque luride, il quale, in quanto destinato a ricevere i liquami trasportati dalle fogne ed a consentire un migliore e meno nocivo smaltimento dei medesimi, costituisce parte integrante del sistema fognario, ancorché per effetto dell’immissione delle acque depurate in un corso fluviale, possa indirettamente implicare una eliminazione o riduzione dell’inquinamento di quest’ultimo.
Da tanto consegue per la Corte che la presente controversia, la quale attiene al cattivo funzionamento del servizio di sversamento e depurazione destinato a ricevere i liquami trasportati dalle fogne, risulta estraneo all’ambito per il quale è delineata la competenza del Tribunale regionale delle acque pubbliche.
* * *
Il 12 novembre esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.25578 che si occupa – in sede di regolamento preventivo di giurisdizione – di un interessante caso in tema di rumori molesti prodotti da parchi eolici.
Per la Corte, in primo luogo, l’istanza di regolamento preventivo spiccata innanzi ad essa va assunta ammissibile.
Essa, innanzitutto, non è preclusa dalla circostanza che il ricorso sia stato proposto dopo che la causa, discussa oralmente ai sensi dell’art. 281-sexies cod. proc. civ., sia stata rimessa sul ruolo istruttorio per ulteriori adempimenti, e che il giudice, nella relativa ordinanza, abbia rilevato, con ciò riconoscendo la sussistenza della propria giurisdizione, che le contestate immissioni consistono in una attività materiale che prescinde dalla esistente attività autorizzatoria.
In generale, è esatto che il regolamento preventivo di giurisdizione non può più proporsi dal momento in cui la causa sia stata trattenuta per la decisione di merito, giacché tale momento segna l’inizio dei poteri decisori del giudice, con apertura di una fase, inibita all’attività delle parti, che si conclude con la pubblicazione della sentenza: di qui l’impossibilità che, dopo quel momento, il regolamento suddetto possa assolvere alla relativa funzione di favorire una sollecita definizione del processo (Cass., Sez. Un., 1° dicembre 2009, n. 25256; Cass., Sez. Un., 20 novembre 2017, n. 27741; Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2018, n. 2144).
Tuttavia, precisa la Corte, l’esperibilità del regolamento non è impedita dalla rimessione sul ruolo istruttorio, per ulteriori adempimenti, della causa, venendo meno, in siffatta ipotesi, la stretta correlazione tra il trattenimento in decisione e la decisione stessa; né è di ostacolo alla ammissibilità del regolamento il fatto che la questione di giurisdizione sia stata delibata dal giudice del merito, in via incidentale, in un provvedimento privo di natura decisoria ed avente carattere meramente istruttorio (Cass., Sez. Un., 11 aprile 2017, n. 9283), come avvenuto nel caso di specie.
A seguito della discussione orale ai sensi dell’art. 281-sex/es cod. proc. civ., infatti, il Tribunale di Foggia, con ordinanza dell’11 dicembre 2019, ha rimesso la causa sul ruolo istruttorio, fissando l’udienza per la comparizione personale delle parti e del c.t.u., ed ha incidentalmente ritenuto la controversia ritualmente incardinata dinanzi al giudice ordinario, anche a seguito della rinuncia al capo di cui al punto 3) delle conclusioni dell’atto introduttivo del giudizio, sul rilievo che le lamentate immissioni consistono in un’attività materiale che prescinde dall’attività autorizzatoria.
Inoltre, prosegue il Collegio, risulta osservato il requisito della esposizione sommaria dei fatti di causa, prescritto, a pena di inammissibilità, per il ricorso per cassazione dall’art. 366, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., e richiesto anche con riguardo al regolamento preventivo di giurisdizione, pur se in funzione della sola questione della giurisdizione (cfr. Cass., Sez. Un., 18 maggio 2015, n. 10092; Cass., Sez. Un., 26 giugno 2020, n. 12865). Infatti, il ricorso per regolamento preventivo promosso dalla società M. reca gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo (dando conto anche, a pag. 5, dell’ordinanza di rimessione in istruttoria da parte del Tribunale in esito alla discussione orale della causa ai sensi dell’art. 281-sex/es cod. proc. civ.) e delle posizioni in esso assunte dalle parti.
Passando ormai al fondo dell’istanza di regolamento, va premesso ancora una volta per le SSUU che la giurisdizione si determina sulla base della domanda e, ai fini del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva, non già la prospettazione compiuta dalle parti, bensì il petitum sostanziale, il quale deve essere identificato, non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, quanto, soprattutto, in funzione della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati (tra le molte, Cass., Sez. Un., 26 maggio 2020, n. 9771; Cass., Sez. Un., 27 ottobre 2020, n. 23600).
Proprio alla luce del criterio del petitum sostanziale, non v’è dubbio che gli attori abbiano agito per la tutela del loro diritto alla salute e di proprietà, chiedendo la riconduzione delle denunciate immissioni provenienti dai due aerogeneratori installati per produrre energia elettrica da fonte eolica entro limiti di tollerabilità e il risarcimento del danno, e non per l’annullamento del provvedimento di autorizzazione unica rilasciato dalla Regione Puglia in favore della società convenuta.
Invero, chiosa ancora la Corte, risulta per tabulas dalla lettura dell’atto di citazione – come emendato in corso di causa con la rinuncia al punto 3) delle relative conclusioni – che il S. e la C. hanno chiesto in via principale di accertare che l’entrata in funzione degli aerogeneratori del parco eolico “ha esposto ed espone gli attori a subire immissioni acustiche, elettromagnetiche e visive non tollerabili”, con effetti pregiudizievoli sia al bene primario della salute anche dei loro familiari, sia al valore economico della loro proprietà, e, come conseguenza del predetto accertamento, hanno domandato la “riduzione delle denunziate immissioni entro i parametri della tollerabilità con il … risarcimento dei danni e/o dell’indennizzo”, anche “per la svalutazione e/o deprezzamento del fondo e del fabbricato di proprietà attorea”.
L’azione proposta non è diretta dunque, proseguono le SSUU, all’annullamento del provvedimento autorizzativo dell’impianto e specificamente della installazione degli aerogeneratori limitrofi alla proprietà degli attori né presuppone l’accertamento della illegittimità dell’autorizzazione, bensì si fonda sul rispetto dei limiti di tollerabilità previsti dall’art. 844 cod. civ.
Come risulta dalla pagina 5 dell’atto di citazione, parte attrice ha agito “per far accertare e dichiarare che l’entrata in funzione, all’inizio dell’anno 2013, degli aerogeneratori denunziati ha esposto ed espone a pericolo, danneggiandolo, lo stato di salute di tutti i membri della famiglia …”, trattandosi di immissioni “che, al di là del loro carattere lecito o illecito, sono, comunque, intollerabili e non giustificate in alcun modo dalle esigenze della produzione”. Per cui ha chiesto “l’inibitoria e, quindi, la cessazione delle immissioni lesive o quanto meno la riduzione della misura dell’attività produttiva entro i parametri della tollerabilità” e, “unitamente all’azione di cui all’art. 844 cod. civ.”, ha domandato “il risarcimento dei danni ex art. 2043 cod. civ. in conseguenza delle immissioni”.
Va pertanto per la Corte fatta applicazione del principio – già enunciato dalle Sezioni Unite in fattispecie analoga (Cass., Sez. Un., 1° aprile 2020, n. 7636) – secondo cui spetta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia nella quale il privato chieda di accertare che gli aerogeneratori di un vicino parco eolico generano immissioni rumorose, moleste e intollerabili, con effetti pregiudizievoli sia al bene primario della salute dell’attore e dei suoi familiari sia al valore economico della sua proprietà, e domandi l’emissione delle conseguenti pronunce inibitorie e risarcitone.
Si tratta – prosegue la Corte – di una regola di riparto che si inscrive nell’orientamento, altre volte espresso dalla Corte regolatrice, che riconosce la giurisdizione del GO nelle controversie aventi ad oggetto il risarcimento del danno correlato alla concreta realizzazione di un’opera pubblica e, dunque, ad un’attività di natura materiale e non provvedimentale, nello svolgimento della quale, non solo i soggetti privati, ma anche la pubblica amministrazione che vi concorra, hanno l’obbligo di osservare le regole tecniche ed i canoni di diligenza e prudenza, imposte dal precetto del neminem laedere a tutela dell’incolumità dei consociati e dell’integrità del loro patrimonio.
Si è così statuito che in materia urbanistica ed edilizia, la domanda di risarcimento del danno del proprietario di area contigua a quella in cui è realizzata l’opera pubblica (nella specie, la linea ferroviaria dell’alta velocità) appartiene alla giurisdizione ordinaria ove, nella prospettazione dell’attore, fonte del danno non siano né il “se” né il “come” dell’opera progettata, ma le relative concrete modalità esecutive, atteso che la giurisdizione esclusiva amministrativa si fonda su un comportamento della P.A. (o del relativo concessionario) che non sia semplicemente occasionato dall’esercizio del potere, ma si traduca, in base alla norma attributiva, in una sua manifestazione (Cass., Sez. Un., 3 febbraio 2016, n. 2052).
Nella medesima prospettiva, si è affermato che in materia di raccolta e smaltimento dei rifiuti, nonostante sussista la giurisdizione esclusiva amministrativa, già in virtù dell’art, 33, comma 2, lettera e), del d.lgs. n. 80 del 1998, come modificato dalla legge n. 205 del 2000, ed oggi dell’art. 133, comma 1, lett. p), cod. proc. amm., appartiene alla giurisdizione ordinaria la domanda del privato che si dolga delle concrete modalità di esercizio del relativo ciclo produttivo, assumendone la pericolosità per la salute o altri diritti fondamentali della persona e chiedendo l’adozione delle misure necessarie per eliminare i danni attuali e potenziali e le immissioni intollerabili, atteso che la condotta contestata integra la materiale estrinsecazione di un’ordinaria attività di impresa, allorquando non siano dettate particolari regole esecutive o applicative tecniche direttamente nei provvedimenti amministrativi, sicché non risulta in alcun modo coinvolto il pubblico potere (Cass., Sez. Un. 8 maggio 2017, n. 11142).
Significativa del medesimo indirizzo è Cass., Sez. Un., 23 aprile 2020, n. 8092. Tale pronuncia, rammenta la Corte – nell’affermare che, in materia di danno ambientale, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 310 del d.lgs. n. 152 del 2006, le controversie derivanti dall’impugnazione, da parte dei soggetti titolari di un interesse alla tutela ambientale di cui al precedente art. 309, dei provvedimenti amministrativi adottati dal Ministero dell’ambiente per la precauzione, la prevenzione e il ripristino ambientale – ha tuttavia precisato che resta ferma la giurisdizione del GO in ordine alle cause risarcitorie o inibitorie promosse da soggetti ai quali il fatto produttivo di danno ambientale abbia cagionato un pregiudizio alla salute o alla proprietà, secondo quanto previsto dall’art. 313, comma 7, dello stesso decreto legislativo.
Infatti, l’eventualità che l’attività nociva sia svolta in conformità a provvedimenti autorizzativi della P.A. incide, non sul riparto di giurisdizione (atteso che ai predetti provvedimenti non può riconoscersi l’effetto di affievolire diritti fondamentali dei terzi), ma esclusivamente sui poteri del GO, il quale, nell’ipotesi in cui l’attività lesiva derivi da un comportamento materiale non conforme ai provvedimenti amministrativi che ne rendono possibile l’esercizio, provvederà a sanzionare, inibendola o riportandola a conformità, l’attività rivelatasi nociva perché non conforme alla regolazione amministrativa, mentre, nell’ipotesi in cui risulti tale conformità, dovrà disapplicare la predetta regolazione ed imporre la cessazione o l’adeguamento dell’attività in modo da eliminarne le conseguenze dannose.
La difesa della società ricorrente, chiosa a questo punto la Corte, per sostenere l’attribuzione della giurisdizione sulla domanda principale al giudice amministrativo, invoca, in particolare, anche in memoria, le ordinanze delle Sezioni Unite 24 luglio 2017, n. 18165 e n. 18166.
Con il primo di tali arresti si è affermato che la realizzazione di un parco eolico, che attiene alla produzione di energia elettrica ed al relativo trasporto nella rete nazionale, costituisce un intervento di interesse pubblico, sicché ricadono nella giurisdizione esclusiva amministrativa gli atti del gestore di tale servizio funzionali alla pertinente costituzione ed alla determinazione delle relative modalità di esercizio e, conseguentemente, le domande del proprietario confinante, aventi ad oggetto la collocazione delle pale eoliche e le immissioni da esse provocate, laddove si traducano nella contestazione non di un’attività materiale posta in essere al di fuori di quella autoritativa, bensì di quella esecutiva dei provvedimenti amministrativi e delle relative scelte discrezionali riguardanti l’individuazione e la determinazione dell’opera pubblica sul territorio.
Più nello specifico, la citata ordinanza n. 18166 del 2017 delle Sezioni Unite, nel dichiarare la giurisdizione del giudice amministrativo, ha rilevato che la domanda proposta prospetta “conseguenze non già di meri comportamenti materiali concernenti le modalità di esecuzione dei lavori di realizzazione e messa in esercizio delle pale eoliche, ma … di contestazione delle scelte discrezionali della P.A. nell’individuazione e determinazione dell’opera pubblica sul territorio, e delle relative valutazioni circa l’interesse pubblico perseguito mediante l’autorizzazione unica rilasciata dalla Regione Puglia ex art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003. Autorizzazione, emessa all’esito di una conferenza dei servizi, concernente la costruzione e l’esercizio degli aerogeneratori de quibus … giusta l’ubicazione dell’installazione degli aerogeneratori e le modalità di esercizio indicate in fase di progettazione ed approvate dalla Regione”.
Su questa base, le Sezioni Unite rammentano di avere sottolineato, nella citata ordinanza, che “la formulata denunzia di violazione delle distanze si appalesa … come strumentalmente volta a sostanzialmente contestare in realtà la legittimità del suindicato provvedimento amministrativo, presupponendo essa il necessario controllo in ordine (anche) all’apprezzamento delle distanze di sicurezza delle pale eoliche (in particolare dal fondo della ricorrente), nonché del corretto relativo inserimento nel paesaggio e nel territorio, e pertanto delle scelte al riguardo operate dalla Regione ai fini della relativa adozione”.
Le Sezioni Unite ne hanno tratto la conclusione che “i lamentati danni derivano non già da meri comportamenti materiali posti in essere … al di fuori dell’esercizio di un’attività autoritativa, bensì dall’attività … posta in essere in esecuzione di provvedimento dalla Regione Puglia adottato nell’esercizio della propria discrezionalità amministrativa e funzionalmente volto alla realizzazione degli interessi pubblici la cui cura è alla medesima attribuita”.
Il Collegio ritiene nondimeno che tali precedenti – il primo dei quali è richiamato, in motivazione, anche da Cass., Sez. V, 7 luglio 2020, n. 14042, e da Cass., Sez. V, 16 luglio 2020, n. 15172 – non siano utilizzabili per giustificare la devoluzione della controversia al giudice amministrativo anche nel caso oggetto della presente istanza di regolamento preventivo.
Infatti, alla base di quelle pronunce vi è la constatazione, da parte della Corte regolatrice, che le domande degli attori si risolvevano nella sostanziale contestazione delle scelte discrezionali della P.A. nell’individuazione e determinazione dell’opera pubblica sul territorio, e cioè delle valutazioni operate per la tutela dell’interesse pubblico perseguito mediante l’adozione dei provvedimenti che avevano autorizzato la costruzione e l’esercizio degli aerogeneratori, secondo l’ubicazione individuata in fase di progettazione ed approvata dalla Regione.
Ben diverso è il petitum sostanziale che caratterizza l’attuale giudizio nel corso del quale è stata proposta l’istanza di regolamento preventivo: in esso – come esattamente ricostruito dal pubblico ministero nelle relative conclusioni scritte – gli attori hanno posto a base delle loro domande azionate in via principale un comportamento materiale della società convenuta e la lesività delle immissioni che ne sono derivate, e non l’illegittimità dell’autorizzazione unica rilasciata dalla Regione.
Del resto, che nel procedimento cui si riferisce l’istanza non venga in considerazione una sostanziale contestazione, ad opera degli attori, del potere esercitato dalla P.A., è confermato dalla circostanza che il S. e la C., nel loro atto introduttivo del giudizio promosso dinanzi al Tribunale ordinario, hanno premesso che è piuttosto l’insediamento dell’impianto eolico “per come realizzato” a porsi “in netto contrasto con la stessa autorizzazione unica”.
La giurisdizione del giudice ordinario sussiste anche – per le SSUU- in relazione alla domanda subordinata (punto 4 delle conclusioni di cui all’atto di citazione), con la quale gli attori hanno chiesto la condanna della società M. “al pagamento dell’indennità dovuta ex art. 46 della legge n. 2359 del 1865 e, quindi, ex art. 44 del d.P.R. n. 327 del 2001″.
Infatti, conclude la Corte, le controversie aventi ad oggetto le indennità dovute dall’amministrazione ex artt. 46 della legge n. 2359 del 1865 o 44 del d.P.R. n. 327 del 2001 non rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo: atteso, per un verso, che nei confronti del terzo proprietario, confinante con il fondo dove sono state collocate le pale eoliche, non è configurabile un rapporto diretto con l’Amministrazione-autorità, nel cui ambito possa individuarsi una posizione d’interesse legittimo, soggetta alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo; e considerato, per altro verso, che l’art. 133, comma 1, lettera g), cod. proc. amm. prevede una riserva di giurisdizione ordinaria per la determinazione delle indennità conseguenti all’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa (cfr. Cass., Sez. Un., 3 febbraio 2016, n. 2052, cit.).
* * *
Il 16 novembre esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.25953 in tema di giurisdizione del GO sulle controversie in materia di azioni risarcitorie nei confronti degli organi di vigilanza su banche e intermediari
Il regolamento di giurisdizione, nel caso di specie, deve per la Corte essere deciso dando continuità ai recenti e condivisibili precedenti delle Sezioni Unite in fattispecie analoghe, alle cui argomentazioni non resta che fare riferimento, non avendo il ricorrente addotto, nemmeno nella memoria, argomenti per mutare orientamento.
Secondo le Sezioni Unite, «le controversie relative alle domande proposte da investitori e azionisti nei confronti delle autorità di vigilanza (Banca d’Italia e CONSOB) per i danni conseguenti alla mancata, inadeguata o ritardata vigilanza su banche e intermediari sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, non venendo in rilievo la contestazione di poteri amministrativi, ma di comportamenti “doverosi” posti a tutela del risparmio, che non investono scelte ed atti autoritativi, essendo tali autorità tenute a rispondere delle conseguenze della violazione dei canoni comportamentali della diligenza, prudenza e perizia, nonché delle norme di legge e regolamentari relative al corretto svolgimento dell’attività di vigilanza, quali espressione del principio generale del neminem laedere» (vd. Cass., sez. un., n. 6324, 6325, 6451, 6452, 6453 e 6454 del 2020).
Come osservato anche nella requisitoria del Procuratore Generale, prosegue il Collegio, non è risolutiva l’obiezione della Banca d’Italia secondo cui l’attività di vigilanza sarebbe connotata da discrezionalità tecnica, che non consentirebbe di classificare la condotta delle Autorità di vigilanza in termini di inadempimento di obblighi. La domanda giudiziale dell’attore, infatti, non predica l’esistenza di obbligazioni contrattuali dell’Autorità ma, come si è detto, la violazione del generale principio del neminem laedere, nell’ambito di un rapporto i cui termini di confronto sono l’omissione di vigilanza e il pregiudizio patrimoniale, al di fuori di una relazione di tipo negoziale.
Per altro verso, è ben noto che anche nel campo della discrezionalità tecnica, qual è quella esercitata dalle Autorità di vigilanza, l’attività della PA deve svolgersi nei limiti posti non soltanto dalla legge ma anche dall’art. 2043 c.c. e dal divieto del “neminem laedere”, «sicché detta discrezionalità non può mai estendersi alla scelta radicale tra l’attivarsi o meno, specie qualora siano emersi gravi indizi di irregolarità», altrimenti ipotizzandosi una sorta di inammissibile immunità dalla responsabilità aquiliana in capo agli organismi di vigilanza (vd., da ultimo, Cass. n. 9067 del 2018).
Una diversa conclusione – prosegue il Collegio – non potrebbe essere sostenuta valorizzando la veste di azionista dell’attore. Secondo la lettura proposta dalla Banca d’Italia, il distinguo tra il «risparmiatore-investitore» e il «socio azionista» della banca, della cui omessa vigilanza si tratta, giustificherebbe l’attribuzione della giurisdizione al giudice amministrativo. E ciò in quanto, diversamente dal primo (che le Autorità di vigilanza sarebbero tenute a «tutelare»), il secondo sarebbe soggetto ai poteri pubblicistici e alla potestà delle suddette Autorità, che hanno la facoltà di disporre la sospensione del diritto di voto (t.u.b. n. 385 del 1993, art. 24), la convocazione dei soci e il divieto di distribuzione degli utili (art. 53), la sospensione delle funzioni dell’assemblea dei soci a seguito dell’amministrazione straordinaria (art. 70).
Tale profilo tuttavia, chiosa il Collegio, non è idoneo a collocare la controversia nel quadro della giurisdizione amministrativa, per la semplice ragione onde nella vicenda in esame quella relazione potestà-soggezione non viene in alcun modo in rilievo, non essendo a tal fine sufficiente l’enunciazione generale secondo cui gli azionisti non sarebbero meri beneficiari della tutela del risparmio ma risulterebbero «coinvolti» negli interventi delle Autorità di vigilanza.
Premesso che, come già rilevato nei precedenti sopra richiamati, i destinatari diretti delle misure (inibitorie, interdittive e di altro genere) adottate dalle autorità di vigilanza non sono gli azionisti, i quali ne sono in realtà i beneficiari, ma le banche e gli intermediari che agiscono tramite i loro organi amministrativi e di controllo (cfr. artt. 53 bis, 67 ter, 108, comma 3, 114 quinquies, comma 3, t.u.b.), non è dato cogliere, nella normativa del Testo unico in materia bancaria né in generale sul piano dei principi, una ragione giuridica per cui la veste di azionista di una società esercente il credito dovrebbe prevalere, sempre e comunque, sulla effettività delle operazioni di investimento e intermediazione finanziaria, nonché in generale sull’aspetto inerente la (deficitaria o inadeguata) gestione della banca, la cui correttezza è appunto affidata al controllo e agli interventi – di segnalazione, ispezione, controllo, fino all’adozione di provvedimenti specifici sugli organi sociali ovvero di misure di carattere prescrittivo o interdittivo – dell’organismo pubblico di vigilanza.
E ciò sorvolando sul fatto che, nel caso specifico, il signor M. ha effettuato anche acquisti di obbligazioni e non solo di titoli azionari.
Come puntualmente rilevato dal Procuratore Generale, là dove il pregiudizio lamentato sia rapportato a irregolarità dell’intermediario, suscettibili di controllo da parte delle Autorità di vigilanza, le quali hanno alterato il quadro dell’operazione negoziale conclusa dal soggetto, le cui conseguenze ricadono nel patrimonio del singolo investitore, la doglianza e la pretesa risarcitoria di quest’ultimo verso le Autorità non mettono in gioco l’esercizio degli specifici poteri autoritativi che le medesime Autorità possono svolgere verso i soci.
Il distinguo tra investitori, a seconda che essi siano «risparmiatori» per così dire esterni ovvero soci-azionisti, non ha dunque incidenza ai fini della classificazione della pretesa e della qualificazione delle rispettive posizioni delle parti in causa, valendo per entrambe tali situazioni – secondo il giudizio della Corte – la stessa caratterizzazione della censura in termini di omissione di attività causalmente predicata come elemento produttivo di danno.
Nel giudizio principale, la doglianza si riferisce alla violazione, da parte della Banca, di doveri di chiarezza ed esattezza informativa, nel proporre al pubblico degli acquirenti delle azioni, tra cui l’attore, un prospetto informativo alterato perché basato su dati inveritieri, senza che sia possibile né conforme a diritto operare sub-distinzioni all’interno della platea degli acquirenti, tutti essendo qualificabili come investitori-risparmiatori nel quadro della disciplina di regolazione dell’intermediazione finanziaria, e senza che sia possibile ravvisare, nella mancata attivazione della vigilanza, una qualsiasi correlazione con il profilo del potere esercitabile nei casi, ben determinati, indicati dal Testo unico in materia bancaria.
In conclusione, va dunque dichiarata per la Corte la giurisdizione del GO.
* * *
Il 17 dicembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.28980 che rammenta in primis come – in materia urbanistica ed edilizia – la domanda del proprietario di area contigua a quella in cui è realizzata l’opera pubblica appartiene alla giurisdizione ordinaria ove, nella prospettazione dell’attore, non vengano in questione né il «se» né il «come» dell’opera progettata, ma esclusivamente le relative concrete modalità esecutive, atteso che la giurisdizione esclusiva amministrativa si fonda su un comportamento della PA che non sia semplicemente occasionato dall’esercizio del potere, ma si traduca, in base alla norma attributiva, in una pertinente manifestazione e, cioè, risulti necessario, considerate le relative caratteristiche con riguardo all’oggetto del potere, al raggiungimento del risultato da perseguire.
In definitiva, sussiste per la Corte la giurisdizione del GA allorquando il comportamento della P.A., cui si ascrive la lesione, sia la conseguenza di un assetto di interessi conformato da un originario provvedimento, legittimo o illegittimo, ma comunque espressione di un potere amministrativo (in concreto) esistente, cui la condotta successiva si ricollega in senso causale; mentre la giurisdizione del GO sussiste per quelle domande che trovino causa in condotte connesse per mera occasionalità a quelle indispensabili per la realizzazione dell’opera pubblica, compiute su immobili fin dall’origine esclusi dall’oggetto di questa (di recente Cass., Sez. Un., 19 novembre 2019, n. 30009, sulla linea di Cass., Sez. Un., 3 febbraio 2016, n. 2052, ed altre conformi).
L’elemento differenziante, per i fini del riparto di giurisdizione, risiede in definitiva per le SSUU in ciò, che, nell’ipotesi ivi considerata, e cioè in caso di danni prodottisi in area contigua a quella in cui è realizzata l’opera pubblica, la giurisdizione appartiene al GA se, stando alla prospettazione dell’attore, il danno lamentato discende dall’esecuzione dell’opera così come progettata; se, invece, il danno è prodotto non dall’esecuzione dell’opera in conformità al progetto, ma da comportamenti che l’esecuzione del progetto non rende necessarie, ma semplicemente occasiona, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario.
Nel caso in esame, chiosa a questo punto il Collegio, l’atto di citazione introduttivo del giudizio risarcitorio riferisce tra l’altro quanto segue:
-) la domanda di risarcimento danni era stata proposta per il fatto che, a seguito dello sbancamento realizzato per costruire la strada, si era resa necessaria l’edificazione di un muro di contenimento del soprastante terreno scosceso, muro che doveva essere realizzato in calcestruzzo armato, per una lunghezza di 82 metri, ed un’altezza di 3 metri, ed inoltre essere completato con una rete metallica;
-) il lotto residuo dell’attrice era stato danneggiato dallo scavo di sbancamento, a seguito del quale era stata realizzata una scarpata scoscesa che aveva creato una situazione di pericolo per smottamenti, e che aveva determinato la necessità di realizzare opere ulteriori e costose di consolidamento, argine e riempimento al momento dell’utilizzazione del terreno a fini edificatori, con ulteriore deprezzamento per la diminuzione dell’indice utilizzabile, della possibilità di ubicazione di un fabbricato e della generale utilizzabilità dell’area.
È dunque di tutta evidenza per la Corte, come osservato dal Procuratore Generale in sede di discussione orale, che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, la domanda, alla stregua della relativa prospettazione, non mette in alcun modo in discussione il «se» e il «come» dell’opera progettata, ed anzi non contiene alcun riferimento al progetto di costruzione della strada che aveva interessato il fondo dell’originaria attrice, ma si appunta sulla denuncia di un mero comportamento materiale, costituito dall’esecuzione dello sbancamento, occasionato dalla realizzazione dell’opera, effettuato in modo tale da provocare il formarsi di una scoscesa scarpata e da rendere necessaria l’edificazione di un muro di contenimento di cospicue proporzioni, il tutto altresì con pregiudizievoli ricadute sul valore residuo dell’area.
* * *
Il 21 dicembre esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.29174 che, sul crinale processuale, premette come la rinuncia al ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, laddove – come nel caso di specie – non sia stata accettata dalla controparte, la quale abbia fatto propria l’istanza di regolamento, resti priva di effetti, imponendo alla Corte di cassazione di pronunciare sulla giurisdizione, giacché rimane efficace l’atto di impulso processuale contenuto nel controricorso (Cass. Sez. U., 25/03/2013, n. 7389; Cass. Sez. U., 02/12/2010, n. 24417).
Nel merito, ritiene la Corte che sussista, nel caso di specie, la giurisdizione del GA a pronunciarsi sulla vicenda oggetto del giudizio incardinato dall’Abbazia di Novacella dinanzi a TAR di Bolzano.
Va osservato infatti per il Collegio che, ai sensi dell’art. 133, lett. g) del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (codice del processo amministrativo), sono devolute alla giurisdizione esclusiva del GA «le controversie aventi ad oggetto gli atti, i provvedimenti gli accordi e i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario per quelle riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa».
Tanto premesso, va osservato per le SSUU che, secondo l’insegnamento della Corte medesima, in tema di espropriazione per pubblica utilità e di pretese restitutorie, risarcitorie o ripristinatorie del privato coinvolto dalla relativa attività della PA o della relativa concessionaria, sussiste la giurisdizione del GA , ex art. 133, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 104 del 2010,esclusivamente quando il comportamento dell’Amministrazione, cui si ascrive la lesione, sia la conseguenza diretta di un assetto di interessi determinato da atti costituenti espressione di un potere amministrativo in concreto esistente, mentre sussiste la giurisdizione del GO per quelle condotte connesse per mera occasionalità a quelle indispensabili per la realizzazione dell’opera pubblica, compiute su immobili, fin dall’origine esclusi dall’oggetto di questa, ovvero per comportamenti materiali in alcun modo riconducibili, neppure mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere (Cass., 05/06/2018, n. 14434).
Di conseguenza, solo laddove nella prospettazione attorea, fonte del danno non siano ricompresi né il «se» nè il «come» dell’opera urbanistica progettata o del servizio pubblico da preservare, ma esclusivamente le loro concrete modalità esecutive, la giurisdizione appartiene al GO, trattandosi, in tal caso, di mere attività materiali lesive di una posizione di diritto soggettivo (Cass., 12/12/2018, n. 32180).
Nel caso concreto è, per converso, evidente al Collegio che il petitum della pretesa avanzata in giudizio dall’Abbazia di Novacella, non si incentra sulla domanda di risarcimento dei danni da comportamento materiale, ovvero da occupazione usurpativa da parte del Comune di Bolzano, bensì sui rimedi (occupazione sanante e correlato risarcimento del danno) conseguenti all’accertamento di illegittimità ed al conseguente annullamento di atti amministrativi, la delibera e la nota succitate, ovvero – in subordine – all’accertamento dell’illegittimità del silenzio inadempimento, che si assumono produttivi di danni nei confronti dell’Abbazia.
Ne discende che, nella fattispecie concreta, l’azione proposta in giudizio si ricollega ad atti amministrativi dei quali è dedotta in giudizio l’illegittimità, e comunque a comportamenti (silenzio inadempimento) certamente riconducibili all’esercizio del potere ablatorio.
Per tutte le ragioni esposte, pertanto, deve affermarsi a giudizio delle SSUU – in ordine alla pretesa risarcitoria proposta in giudizio dall’Abbazia di Novacella – la giurisdizione del GA, la pertinente causa dovendo essere, di conseguenza rinviata al TAR del Trentino Alto Adige, sezione distaccata di Bolzano, anche per le spese del giudizio.
* * *
Quel medesimo 21 dicembre esce la sentenza della III sezione del Tar Veneto n.1287 in tema di danno da ritardo, comportamenti inadempienti della PA e giurisdizione del GO.
Il Collegio rammenta come parte ricorrente abbia agito in giudizio – nel caso di specie – specificamente invocando l’applicazione della fattispecie di cui all’art. 2 bis, comma 1, l. n. 241 del 1990, ai sensi del quale <<le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento>>.
In relazione alla domanda risarcitoria da ritardo, il codice del processo amministrativo prevede, all’art. 30, comma 4, che <<per il risarcimento dell’eventuale danno che il ricorrenti comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, il termine di cui al comma 3>> (120 giorni) <<non decorre fintanto che perdura l’inadempimento. Il termine di cui al comma 3 inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere>>; mentre, l’art. 133, comma 1, lett. a), n. 1, stabilisce che la giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo sussiste in caso di <<controversia in materia di risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento amministrativo>>.
Tutte e tre le norme che precedono – chiosa il Tar – fanno espressamente riferimento alla c.d. responsabilità da ritardo, espressione per mezzo della quale si intende identificare il pregiudizio arrecato dalla P.A. in conseguenza del mancato o tardivo esercizio di una potestà amministrativa, nel senso di un potere che essa abbia anche il dovere di esercitare nel perseguimento di un pubblico interesse.
Esula dalla predetta fattispecie, invece, il danno derivante dall’inadempimento di obblighi di natura diversa, che l’Amministrazione sia tenuta ad assolvere per legge o per contratto, indipendentemente dalla necessità di concludere un procedimento amministrativo, da essa stessa o da altri avviato.
In questo senso, le predette norme, prendendo in considerazione il danno cagionato dall’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione di un procedimento amministrativo, fanno riferimento ad un’attività caratterizzata dalla presenza di un potere amministrativo autoritativo da esercitare e destinata a concludersi con l’emanazione di un provvedimento espresso.
Come è stato efficacemente sottolineato, infatti, l’azione per il risarcimento del danno ex art. 30 c.p.a. e 2 bis, l. n. 241 del 1990, postula che il danno sia generato da un’amministrazione pubblica nell’esercizio del potere pubblico (C. Stato sez. IV, 12/07/2019, n.4894; nel medesimo senso, C. Stato, sez. IV, 07/01/2020, n.119).
Occorre ricordare, prosegue il Tar, che ai fini del riparto di giurisdizione, che, seppure l’art. 133, comma 1, lett. a), n. 1, c.p.a. sopra riportato, individua una specifica ipotesi di giurisdizione esclusiva, ai sensi dell’art. 7 c.p.a., la devoluzione delle controversie alla giurisdizione amministrativa esclusiva è esclusa in relazione ad atti o comportamenti che non siano, anche solo in via mediata, riconducibili all’esercizio di un potere.
Esaminando la fattispecie che occupa da questo specifico punto di osservazione, va rammentato per il Collegio che nell’analizzare le situazioni giuridiche che involgono e coinvolgono tanto i detentori dei capi bovini, quanto i c.d. delegati e i Servizi veterinari, si è addivenuti a qualificare il rapporto che lega i secondi e questi ultimi ai primi in termini di debito-credito, con conseguente responsabilità di natura sostanzialmente contrattuale ai sensi dell’art. 1218 c.c. (con le dovute precisazioni in relazione al diverso titolo dell’obbligazione posta a carico delle due “categorie” di ausiliari).
Tale ricostruzione in termini strettamente paritetici del rapporto che lega anche i Servizi veterinari ai detentori dei capi bovini che decidono di avvalersi dei primi per procedere alla registrazione, è fondata su un argomento ermeneutico di natura logica e uno di natura sistematica.
Sotto il primo profilo, la possibilità che i Servizi veterinari, quando procedono alla registrazione per conto e su richiesta dei detentori dei capi bovini, agiscano in veste di autorità o, comunque, tengano un comportamento, anche solo mediatamente, connesso ad un potere pubblico, deve essere esclusa in quanto occorre rammentare come ciò che i Servizi veterinari medesimi sono obbligati ex lege a compiere è la medesima prestazione richiesta al privato detentore dei capi bovini (ovvero al delegato, anch’esso potenzialmente soggetto privato), il quale non è titolare di un “potere amministrativo” (ovvero di una situazione giuridica attiva di natura pubblicistica), ma di un obbligo, (ovvero di una situazione passiva) il cui oggetto, pur avendo una finalità di tutela di interessi pubblici, si traduce nell’adempimento di una prestazione meramente materiale quale la registrazione nella banca dati.
In altre parole, i Sevizi veterinari, con riferimento alla specifica fattispecie in oggetto, svolgono per il Tar un’attività meramente ausiliaria, quale “longa manus” del privato detentore dei bovini.
Inoltre, prosegue il Tar, nella controversia che occupa viene specificamente in esame il rapporto “interno” tra i Servizi veterinari e il privato detentore dei bovini, nell’ambito del quale non viene in gioco, nemmeno in via mediata, alcun potere pubblico, similmente a quanto accade nell’ambito del rapporto tra detentore dei capi e “delegati”.
La conferma del suesposto ragionamento è possibile trovarla utilizzando un criterio ermeneutico di natura testuale-sistematica. Anche i Servizi veterinari, infatti, sono individuati dalla normativa pertinente come soggetti “responsabili” della funzionalità del sistema di identificazione e registrazione degli animali della specie bovina. I compiti che il legislatore assegna ai Servizi veterinari, d’altronde, non sono tutti caratterizzati dall’esercizio di potere pubblico, né sono necessariamente ad esso connessi anche solo in via mediata.
In forza dell’art. 10, d.m. n. 31 gennaio 2002, infatti, da un lato, il Servizio veterinario rilascia e vidima il passaporto di cui all’art. 4; vigila sulla corretta applicazione delle disposizioni previste per l’identificazione e registrazione degli animali ed in particolare effettua i controlli previsti dal regolamento (CE) 2630/1997 e successive modifiche presso le aziende zootecniche e ne registra l’esito nella BDN secondo le modalità riportate nel manuale operativo di cui all’art. 6, comma 2; registra ed aggiorna nella banca dati nazionale le informazioni relative alle aziende zootecniche e agli allevamenti; effettua l’ispezione e la vigilanza negli stabilimenti di macellazione, controllano l’avvenuta distruzione dei marchi auricolari, preventivamente tagliati a cura del responsabile dello stabilimento e custodiscono per tre anni ai sensi del regolamento (CE) 1760/2000 i passaporti degli animali debitamente annullati.
Si tratta per il Collegio, come si può notare, di ipotesi che, in via diretta o mediata sono ricollegabili all’esercizio di pubblici poteri.
Diversamente è a dirsi con riguardo all’ipotesi in forza della quale i Servizi veterinari registrano <<nella BDN le informazioni relative alle nascite, alle movimentazioni, alle macellazioni, alle introduzioni da Paesi membri e alle importazioni da Paesi terzi per quei detentori che non intendono avvalersi della facoltà di registrare direttamente i dati o di avvalersi di convenzioni con altri organismi>>.
La citata previsione, che solo mette in risalto la natura obbligatoria della situazione giuridica posta a carico dei Servizi veterinari (così da escluderne il rifiuto di adempiere), deve essere interpretata in uno con la previsione dell’art. 7 che consente al detentore di “scegliere” se registrare da sé ovvero semplicemente farsi sostituire da soggetti terzi, equiparando la posizione dei “delegati” a quella dei Servizi veterinari e di entrambi questi ultimi al primo, nonché con la disposizione di cui all’art. 14 che inserisce l’operato dei Servizi veterinari nell’ambito degli strumenti di “assistenza” dei quali il privato detentore dei bovini può usufruire per la registrazione dei dati.
In questo senso quindi, conclude il Tar, il carattere meramente alternativo e assistenziale dell’attività dei Servizi veterinari in caso di registrazione delegata ex lege, operando essi come “longa manus” del detentore dei capi, esclude la configurabilità dell’esercizio di una potestà amministrativa e, quindi, di un procedimento amministrativo ai sensi della l. n. 241 del 1990.
Pertanto, deve ritenersi che la situazione soggettiva vantata da parte ricorrente nei confronti dei Servizi Veterinari sia qualificabile in termini di diritto soggettivo in relazione al quale sussiste la giurisdizione del GO.
* * *
Ancora, il 21 dicembre esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.29178 che assume non appartenere alla giurisdizione del GA la potestas iudicandi sull’azione, proposta ai sensi degli artt. 31 e 117 cod. proc. amm., per ottenere l’accertamento dell’obbligo dell’Amministrazione di provvedere in ordine al riconoscimento del debito fuori bilancio, ex art. 191, comma 1, lett. e) d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, trattandosi di domanda comunque correlata ad una pretesa di adempimento contrattuale, rispetto al quale la posizione del privato si configura, perciò, come diritto soggettivo.
Con la domanda proposta al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio la C. s.r.l. impugnò ex art. 117 c.p.a. il silenzio-inadempimento serbato da Roma Capitale sulla propria richiesta di pagamento del corrispettivo di ulteriori lavori di messa in sicurezza e consolidamento di immobili siti in Roma, rispetto a quelli già affidati all’appaltatrice ai sensi dell’art. 176 d.P.R. 5 ottobre 2010 n. 207.
Per tali lavori urgenti di completamento, l’amministrazione comunale aveva avviato il procedimento di riconoscimento dei debiti fuori bilancio di cui all’art. 194, comma 1, lett. e) d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, predisponendo due schemi di deliberazione n procedimento non era tuttavia pervenuto a definizione mediante approvazione delle due delibere.
Nel costituirsi dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio – prosegue il Collegio – Roma Capitale aveva evidenziato come il Dipartimento sviluppo infrastrutture e manutenzione urbana avesse inoltrato con nota del 4 ottobre 2017 la proposta di riconoscimento del debito fuori bilancio all’Organismo di revisione economico finanziaria, il quale aveva però richiesto al medesimo Dipartimento un nuovo parere contabile per l’esercizio 2017, con conseguente inoltro alla Ragioneria generale e successiva restituzione all’Organismo di revisione.
L’azione avverso il silenzio volta a chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere, ai sensi dell’art. 31, d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (cod. proc. amm.), da proporre nelle forme di cui all’art. 117 cod. proc. amm., presuppone – rammenta a questo punto il Collegio – (oltre che la sussistenza dell’obbligo di provvedere in capo all’amministrazione ed il decorso dei termini di conclusione del procedimento) comunque la configurabilità della giurisdizione del giudice amministrativo con riferimento alla pretesa sottostante.
Come già affermato a proposito dell’art. 21-bis della legge n. 1034 del 1971 (Cass. Sez. U, 23/12/2008, n. 30059; Cass. Sez. U, 28/11/2008, n. 28346), l’azione avverso il silenzio serbato dall’Amministrazione, ora disciplinata dagli artt. 31 e 117 cod. proc. amm., ha, dunque, natura meramente processuale, ed è perciò ammissibile solo in presenza di una posizione di interesse legittimo connessa all’esercizio in via autoritativa di un potere pubblico discrezionale, essendo volta ad accertare la violazione dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere su un’istanza del privato.
Tale strumento non è invece compatibile con pretese che, pur ricollegandosi apparentemente ad una situazione di inerzia provvedimentale (cui si correla una posizione di interesse legittimo), concernono piuttosto diritti soggettivi, la cui eventuale lesione è direttamente accertabile dall’autorità giurisdizionale (si vedano anche, tra le più recenti, Cons. Stato sez. III, 25/06/2020, n. 4089; Cons. Stato sez. V, 06/02/2017 n. 513; Cons. Stato sez. IV, 14/03/2016, n. 987; Cons. Stato sez. IV, 29/02/ 2016, n. 860; Cons. Stato sez. IV, 18/02/2016, n. 653).
Deve considerarsi come l’art. 194 (Riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio) del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali – TUEL) prevede che con la deliberazione consiliare di cui all’art. 193, comma 2, o con diversa periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità, gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti, fra l’altro, da: “e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza”.
Tale disposizione, la quale riproduce l’art. 5, del d.lgs. 15 settembre 1997, n. 342, ammette, pertanto, la possibilità di un riconoscimento a posteriori della legittimità dei debiti fuori bilancio, subordinandolo ad una formale deliberazione di riconoscimento del debito da parte dell’ente nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente stesso, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza, fermo restando che, a norma dell’art. 191, comma 4, del medesimo d.lgs. n. 267/2000, in difetto di riconoscimento, il rapporto obbligatorio intercorre altrimenti tra il privato fornitore e l’amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura.
Per la costante elaborazione della propria giurisprudenza, rammentano a questo punto le SSUU, il riconoscimento di un debito fuori bilancio, ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e), del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, costituisce un procedimento discrezionale che consente all’ente locale di far salvi nel proprio interesse – accertati e dimostrati l’utilità e l’arricchimento che ne derivano, per l’ente stesso, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza – gli impegni di spesa per l’acquisizione di beni e servizi in precedenza assunti tramite specifica obbligazione, ancorché sprovvista di copertura contabile.
Si afferma, dunque, che nei casi di richiesta di prestazioni o servizi non rientranti nello schema procedimentale di spesa tipizzato dalla stessa normativa, sia rimessa all’ente pubblico la valutazione esclusiva circa l’opportunità o meno di attivare il procedimento del riconoscimento del debito fuori bilancio nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente stesso.
Ciò ha indotto a negare altresì che il giudice possa sostituirsi all’Amministrazione affermando l’esistenza di un diritto ex se del privato al riconoscimento del debito assunto fuori bilancio, pur nella ricorrenza delle condizioni indicate dal legislatore, perché l’ente possa procedere al riconoscimento.
Ove la richiamata disciplina legislativa configurasse un diritto soggettivo al riconoscimento giustiziabile dinanzi al giudice, in presenza e nei limiti “degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente”, non si spiegherebbe sistematicamente la previsione dell’art. 191, comma 4, d.lgs. n. 267/2000, che delinea la sussistenza del rapporto obbligatorio intercorrente altrimenti tra il privato fornitore e l’amministratore, funzionario o dipendente che abbiano disposto i lavori o i servizi (si vedano Cass. Sez. U, 26/05/2015, n. 10798; Cass. Sez. 1, 21/11/2018, n. 30109; Cass. Sez. 1, 09/12/2015, n. 24860; Cass. Sez. 1, 27/01/2015, n. 1510; Cass. Sez. 1, 12/11/2013, n. 25373; Cass. Sez. 3, 31/05/2005, n. 11597; Cass. Sez. 3, 19/12/2003, n. 19562; Cass. Sez. 3, 29/01/2003, n. 1265; Cass. Sez. 3, 14/01/2002, n. 355; già, peraltro, Cass. Sez. U, 27/04/1993, n. 4912).
Non rileva al riguardo il principio altrimenti enunciato ai fini dell’esperibilità dell’azione di arricchimento senza causa nei confronti della P.A., con riguardo alla quale si nega la necessità del riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito, bastando il fatto oggettivo dell’arricchimento non “imposto” (Cass. Sez. U, 26/05/2015, n. 10798), atteso che, nell’ambito di operatività del descritto regime del d. Igs. n. 267 del 2000, l’azione generale di arricchimento verso l’ente locale rimane preclusa dalla mancanza del presupposto della sussidiarietà (tra le più recenti, Cass. Sez. 1, 26/02/2020, n. 5130; Cass. Sez. 1, 21/11/2018, n. 30109)
Il Consiglio di Stato nell’impugnata sentenza – proseguono le SSUU – ha sostenuto che la pretesa azionata dalla C. s.r.I., diretta ad ottenere dall’amministrazione comunale di Roma il riconoscimento del debito fuori bilancio, ex art. 191, comma 1, lett. e) d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, per il corrispettivo dei lavori aggiuntivi eseguiti, rientrasse nell’ambito del diritto soggettivo, in quanto avente ad oggetto una semplice modalità procedurale di adempimento dell’obbligazione pubblica comunque già esistente.
In tal senso, il ricorso allo speciale rimedio giurisdizionale di cui all’art. 117 cod. proc. amm., per sopperire al prospettato inadempimento dell’amministrazione riguardo alla conclusione del procedimento di riconoscimento del debito fuori bilancio, mediante approvazione della necessaria deliberazione consiliare, sarebbe inammissibile, vertendosi, appunto, in tema di diritti soggettivi e non di omesso esercizio di poteri autoritativi.
Nel ragionamento seguito dal Consiglio di Stato, traspare, in sostanza, l’adesione all’interpretazione secondo cui, in caso di mancato riconoscimento di un debito fuori bilancio, la lesione subita dal creditore è correlata non alla mancata adozione della deliberazione consiliare, quanto all’inadempimento del rapporto obbligatorio sottostante e, dunque, al mancato pagamento del corrispettivo (già) dovuto dall’Amministrazione, fattispecie di tipo paritario attinente all’esecuzione contrattuale e perciò appartenente alla giurisdizione del giudice ordinario.
Tale interpretazione trova conferma in una recente sentenza di queste Sezioni Unite, secondo la quale “il fondamento del debito fuori bilancio è quindi pur sempre il rapporto negoziale tra l’amministratore o il funzionario e i privati contraenti, ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge (…). Il petitum sostanziale risponde quindi allo schema obbligo-pretesa, poiché non rileva alcun potere d’intervento riservato alla pubblica amministrazione per la tutela d’interessi generali (…). Il che radica la giurisdizione ordinaria” (così Cass. Sez. U, 26/11/2020, n. 26985).
In precedenza la Corte ha rammentato il proprio orientamento secondo cui la deliberazione di riconoscimento dei debiti fuori bilancio derivanti dall’acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 191 TUEL, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, supposta dall’art. 194, comma 1, lett. e) TUEL, non si connota come atto vincolato, né suppone una mera procedura di regolarizzazione contabile di un preesistente rapporto di debito/credito intercorrente tra l’ente locale e la parte privata, tant’è che l’art. 191, comma 4, TUEL, ove manchino, appunto, il preventivo impegno di spesa ed il successivo riconoscimento, delinea l’obbligazione come intercorrente tra il fornitore e l’amministratore, il funzionario o il dipendente che hanno consentito la fornitura.
Il riconoscimento del debito fuori bilancio, ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e), TUEL, consegue, effettivamente, all’attivazione di un procedimento discrezionale, riservando all’ente locale la valutazione dell’utilità e dell’arricchimento conseguiti con l’acquisizione, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza. E’ per questo vietato al giudice di sostituirsi all’amministrazione, in maniera da accertare immediatamente la lesione del diritto del privato ad ottenere il riconoscimento del debito assunto fuori bilancio.
Se, tuttavia, non esiste un diritto soggettivo del privato al riconoscimento ad opera dell’ente locale del debito assunto fuori bilancio, non di meno la pretesa che il privato fornitore rivolge verso l’amministrazione è fondata sul rapporto contrattuale avente ad oggetto la prestazione di beni e servizi, perciò rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario.
La mancanza della deliberazione consiliare di riconoscimento costituisce un limite interno che preclude nel merito la proponibilità della domanda di pagamento portata dal fornitore verso l’ente, senza tuttavia incidere sui fatti costitutivi della pretesa e perciò senza coinvolgere la giurisdizione.
Occorre quindi considerare che la C. s.r.l. ha sperimentato il rimedio di cui agli artt. 31 e 117 cod. proc. amm. per ottenere la declaratoria di illegittimità del silenzio dell’amministrazione comunale e l’ordine di provvedere esplicitamente in ordine al riconoscimento del debito fuori bilancio, ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e) TUEL.
Gli effetti del mancato riconoscimento consiliare incidono per le SSUU sulla fondatezza del credito della società per il prezzo delle opere eseguite, ovvero sull’adempimento di obblighi contrattuali esulanti, in quanto tali, dall’attività provvedimentale della P.A. A fronte dell’inerzia dell’amministrazione rispetto all’emanazione vincolata (seppure discrezionale nei contenuti) del provvedimento di riconoscimento dei debiti fuori bilancio, nell’ipotesi contemplata dall’art. 194, comma 1, lett. e) TUEL, la posizione del privato si configura comunque di diritto soggettivo, giacché correlata ad una pretesa di adempimento contrattuale.
La deliberazione di cui all’art. 193, comma 2, TUEL, con cui l’ente locale riconosce la legittimità del debito fuori bilancio, pur postulando la competenza dell’organo consiliare riguardo alla valutazione ed all’apprezzamento dell’opportunità di iscrivere la relativa posta, alla luce dell’utilità e dell’arricchimento per l’ente dell’avvenuta acquisizione di beni o servizi in violazione delle norme di contabilità, è pur sempre volta alla costituzione diretta del rapporto obbligatorio con l’amministrazione.
In definitiva, deve ritenersi insussistente la giurisdizione del GA a conoscere dell’azione, proposta ai sensi degli artt. 31 e 117 cod. proc. amm., per ottenere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere in ordine al riconoscimento del debito fuori bilancio, ex art. 191, comma 1, lett. e) d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, trattandosi di domanda comunque correlata ad una pretesa di adempimento contrattuale, rispetto al quale la posizione del privato si configura, perciò, come diritto soggettivo.
* * *
Sempre il 21 dicembre esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.29175 che rammenta in primis come l’art.103 Cost. attribuisca al GA la giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione in materia di interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche di diritti soggettivi. In entrambi i casi (interessi legittimi o diritti soggettivi nelle materie previste) la tutela avanti al giudice amministrativo concerne dunque unicamente i giudizi proposti nei confronti della pubblica amministrazione, non anche quelli rivolti a soggetti non appartenenti a quest’ultima.
Le Sezioni Unite rammentano di ribadire da tempo come l’ordinamento dei criteri di riparto della giurisdizione non permetta, fin dalla su citata matrice costituzionale, di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati, sicchè “la pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario in proprio, cui si imputi l’adozione del provvedimento illegittimo (…), va proposta dinanzi al giudice ordinario”; nè la giurisdizione ordinaria viene meno per il fatto che la domanda sia in ipotesi stata proposta “anche nei confronti dell’ente pubblico (…) sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso, stante l’inderogabilità per ragioni di connessione della giurisdizione” (Cass.SSUU ord.n.13659/06, con richiamo di Cass. S.U. nn.22494/2004, 2560/2005, 7800/2005, 4591/06).
In questa pronuncia (13659/06 cit.) si è pertanto chiarito che: qualora la domanda sia proposta nei confronti del funzionario, non rileva stabilire se questi abbia agito quale organo dell’ente pubblico di appartenenza ovvero, a causa del perseguimento di finalità private, si sia verificata la cd. ‘frattura’ del rapporto organico con quest’ultimo, posto che, nell’uno come nell’altro caso, l’azione risarcitoria è proposta nei confronti del funzionario in proprio e, quindi, nei confronti di un soggetto privato, distinto dall’amministrazione, con la quale, al più, può risultare solidalmente obbligato ex art. 28 Cost.; la stessa conclusione (giurisdizione ordinaria) si impone anche quando la pretesa risarcitoria scaturisca dall’adozione da parte del funzionario, convenuto in proprio, di un provvedimento illegittimo, assumendo questa circostanza la valenza di fatto illecito extracontrattuale intercorrente tra privati, e non ostando a ciò la eventuale proposizione della domanda anche nei confronti dell’ente pubblico sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso, posto che l’effettiva riferibilità all’ente dei comportamenti dei funzionari attiene al merito e non alla giurisdizione. Si tratta di indirizzo più volte successivamente riaffermato.
Così, tra le altre, da Cass.SSUU ord.n.11932/10 in fattispecie di domanda di risarcimento avanzata nei confronti del funzionario di un Comune quale responsabile del procedimento urbanistico di approvazione di una convenzione di lottizzazione, poi dichiarata illegittima; e da Cass.SSUU ord.n.5408/11, la quale ha altresì precisato che la giurisdizione del giudice ordinario non trova ostacolo nel fatto che il provvedimento dalla cui esecuzione siano derivati i danni richiesti dinnanzi a quest’ultimo (per effetto della condotta dolosa o gravemente colposa del funzionario convenuto in proprio) sia stato impugnato nei confronti dell’ente pubblico dinanzi al giudice amministrativo.
Più recentemente, prosegue il Collegio, gli stessi principi sono stati confermati da Cass.SSUU ord.n.6690/20, in fattispecie di domanda risarcitoria avanzata, per abuso dei poteri loro conferiti, direttamente nei confronti di singole persone fisiche in qualità di componenti di un organo collegiale pubblico.
Orbene, nel caso di specie il petitum sostanziale – assunto a criterio basilare del riparto di giurisdizione – va individuato nella responsabilità diretta e personale, ex art.28 Cost., dei funzionari della Regione Abruzzo i quali, nell’ambito del procedimento amministrativo di rinnovazione o riattivazione della concessione pubblica di sfruttamento di una fonte di acque minerali, avrebbero dato corso a comportamenti lesivi del privato (di natura sostanzialmente dolosa e penalmente rilevante) con abuso delle potestà pubbliche loro conferite.
Indipendentemente dal fatto che tale comportamento abbia determinato la scissione del nesso organico con la pubblica amministrazione di appartenenza, resta che la domanda di risarcimento è stata indirizzata nei confronti dei funzionari in proprio e non dell’ente pubblico (difatti intervenuto volontariamente nel giudizio).
In base ai principi su richiamati per le SSUU non rileva, al fine di sostenere la giurisdizione amministrativa, né che gli asseriti comportamenti lesivi siano stati veicolati nella forma di provvedimenti impugnabili, né che questi ultimi possano essere stati in effetti impugnati avanti al giudice amministrativo per la rimozione, con l’annullamento giurisdizionale, dei loro effetti pregiudizievoli.
E neppure conta che il giudice amministrativo, in materia di concessioni pubbliche, eserciti giurisdizione esclusiva sui diritti soggettivi ex art. 133 cod.proc.amm., essendo qui discriminante non la natura della posizione giuridica soggettiva dedotta in giudizio dal privato (pacificamente di diritto soggettivo), ma la natura – diretta e personale – della responsabilità risarcitoria ascritta ai funzionari, a tale titolo convenuti in proprio.
2021
Il 15 gennaio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.615 che si occupa, significativamente, di cassa integrazione guadagni, lesione dell’affidamento dell’imprenditore da parte dell’Amministrazione, “comportamento”, “rapporto relazionale” e risarcibilità del danno innanzi al giudice ordinario ex art.1173 c.c.
Per il Collegio, più in specie, spetta alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, atteso che la responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa sorge da un rapporto tra soggetti (la pubblica amministrazione ed il privato che con questa sia entrato in relazione) inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da “contatto sociale qualificato“, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. e ciò non solo nel caso in cui tale danno derivi dalla adozione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato adotatto, cosicché il privato abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione.
Più in specie, per la Corte in materia di cassa integrazione, ordinaria e straordinaria, spetta alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria la controversia relativa alla pretesa risarcitoria dell’imprenditore, fondata sulla lesione dell’affidamento riposto nella condotta della pubblica amministrazione, assunta come difforme dai canoni di correttezza e buona fede.
La responsabilità della P.A. per il danno prodotto all’imprenditore quale conseguenza della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa sorge infatti da un rapporto tra soggetti (la pubblica amministrazione ed il privato che con questa sia entrato in relazione), inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da “contatto sociale qualificato“, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. e ciò non solo nel caso in cui tale danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il datore di lavoro abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione.
Deve essere osservato in incipit per il Collegio come le medesime Sezioni Unite abbiano più volte affermato che la giurisdizione va determinata sulla base della domanda e che, ai fini del relativo riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo rileva non già la prospettazione compiuta dalle parti, bensì il petitum sostanziale, il quale deve essere identificato non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice quanto, piuttosto, della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati (tra le molte, Cass. Sez. Un. 20 novembre 2020 n. 26500, Cass. Sez. Un. 28 febbraio 2019 n. 6040, Cass. Sez. Un. 21 dicembre 2018 n. 33212, Cass. Sez. Un. 13 novembre 2018 n. 29081, Cass. Sez. Un. 8 giugno 2016 n. 11711, Cass. Sez. Un. 23 settembre 2013 n. 21677, Cass. Sez. Un. 25 giugno 2010 n. 15323).
Con specifico riguardo al riparto della giurisdizione nella materia della Cassa integrazione guadagni, ordinaria e straordinaria, è altrettanto consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio per il quale, in linea generale, in materia di integrazione salariale, la posizione soggettiva del datore di lavoro di ammissione alla cassa integrazione ordinaria o straordinaria, diviene di diritto soggettivo dopo l’adozione del provvedimento di concessione (o autorizzazione) del trattamento, mentre, quando non sia stato ancora adottato alcun provvedimento, la posizione medesima è di interesse legittimo ed è tutelabile soltanto davanti al giudice amministrativo (Cass. Sez. Un. 20 giugno 1987 n. 5454 Cass. Sez. Un. 28 aprile 1989 n. 2034, Cass. Sez. Un. 10 agosto 1989 n. 3679, Cass. Sez. Un. 12 ottobre 1990 n. 10016, Cass. Sez. Un. 5 febbraio 1999 n. 30, Cass. Sez. Un. 10 agosto 2005 n. 16780, Cass. Sez. Un. 27 gennaio 2006 n. 1732, Cass. Sez. Un. 11 aprile 2006 n. 8376, Cass. Sez. Un. 11 gennaio 2007 n. 310, Cass. Sez. Un. 30 agosto 2018 n. 21435, Cass. Sez. Un. 25 febbraio 2019 n. 5455, le ultime due in materia di mobilità in deroga).
Con riferimento a specifiche vicende fattuali, le Sezioni Unite rammentano poi i precedenti e qunto in essi precisato:
Cass. Sez. Un. 15 luglio 1991 n. 7837: nei riguardi della pubblica amministrazione competente ad autorizzare l’integrazione salariale (INPS quanto all’integrazione ordinaria e Ministero del lavoro quanto alla straordinaria), i lavoratori e il datore di lavoro, prima o in mancanza dell’emanazione dell’atto autorizzativo (caratterizzato da discrezionalità amministrativa anche nel caso d’integrazione ordinaria), hanno una posizione solo indirettamente tutelata e perciò d’interesse legittimo, sorgendo il diritto soggettivo del lavoratore (all’integrazione salariale) e del datore di lavoro (al rimborso delle somme a tal titolo anticipate ai dipendenti) solo dal provvedimento autorizzativo dell’intervento della C.I.G.; pertanto, mentre appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie relative ai rapporti che traggono origine dal suddetto provvedimento, spettano invece alla cognizione del giudice amministrativo le controversie volte all’impugnazione del provvedimento amministrativo di diniego dell’autorizzazione, ancorché la contestazione di tale atto sia finalizzata alla realizzazione del diritto del datore di lavoro al rimborso delle integrazioni anticipate.
Cass. Sez. Un. 11 gennaio 2007 n. 310: in materia di integrazione salariale, le posizioni di diritto soggettivo nascenti, a favore dei privati, dal provvedimento di ammissione dell’impresa alla cassa integrazione guadagni degradano, di nuovo, a posizioni di interesse legittimo – con conseguente devoluzione delle relative controversie al giudice amministrativo – qualora intervengano atti amministrativi di annullamento o di revoca di tale provvedimento, trattandosi di atti che sono espressione del potere discrezionale esercitato dall’Amministrazione nell’ambito della tutela dell’interesse pubblico ad essa affidato.
Cass. Sez. lav. 27 gennaio 2006 n. 1732 e Cass. sez. lav. 11 dicembre 2009 n. 26047: in materia di integrazione salariale, le posizioni di diritto soggettivo nascenti, a favore dei privati, dal provvedimento di ammissione dell’impresa alla cassa integrazione guadagni degradano, di nuovo, a posizioni di interesse legittimo – con conseguente devoluzione delle relative controversie al giudice amministrativo – qualora intervengano atti amministrativi di annullamento o di revoca di tale provvedimento, trattandosi di atti che sono espressione del potere discrezionale esercitato dall’Amministrazione nell’ambito della tutela dell’interesse pubblico ad essa affidato.
Qualora il provvedimento di ritiro intervenga nel corso di un giudizio che la parte privata abbia instaurato correttamente – in quanto titolare di un pregresso diritto soggettivo – dinanzi al giudice ordinario, viene a radicarsi la giurisdizione e la competenza a decidere la controversia da parte dello stesso giudice, ai sensi dell’art. 5 c.p.c.. Ove venga denunciata davanti al medesimo giudice l’illegittimità del provvedimento sopravvenuto, non può venire in questione l’istituto della disapplicazione, poiché ciò che, sostanzialmente, diviene oggetto di discussione è l’esercizio del potere di autotutela e oggetto dell’azione del privato è non già la tutela di una sua posizione di diritto soggettivo tuttora perdurante ma la rimozione dell’atto amministrativo (di annullamento o di revoca), di modo che sia reintegrata, a tutti gli effetti, la posizione di diritto soggettivo (venuta meno) della quale era precedentemente titolare.
In tale contesto, pertanto, il giudice ordinario non può dichiarare il proprio difetto di giurisdizione, ma solo decidere sulla base della situazione attuale di fatto e di diritto (sopravvenuto annullamento o revoca del decreto di concessione della C.I.G. e, dunque, insussistenza in capo al privato delle posizioni di diritto soggettivo delle quali chiede la tutela sulla base del provvedimento autorizzativo), salva l’eventuale sospensione del processo, ex art. 295 c.p.c., in caso di avvenuta impugnazione dell’atto di annullamento (o di revoca) dinanzi al giudice amministrativo;
Cass. Sez. Un. 11 aprile 2006 n. 8376: la posizione soggettiva del datore di lavoro di interesse legittimo non può ritenersi modificata in ragione dell’asserita “sicura adozione” del provvedimento ammissivo, per effetto del disposto inquadramento della società istante nel settore “industria – ramo edilizia”, in quanto il solo inquadramento nel settore industria non fa discendere automaticamente il diritto alla integrazione salariale dovendo questo diritto essere deliberato dal competente organo amministrativo mediante, appunto, il provvedimento autorizzativo.
Ebbene, riprende a questo punto la Corte, pur non potendo prescindersi dai principi affermati nelle decisioni innanzi richiamate, perché essi ricostruiscono in modo chiaro e condivisibile la posizione delle parti private nella materia della cassa integrazione guadagni, ordinaria e straordinaria, nondimeno, la peculiarità della controversia postula, ai fini della soluzione di giurisdizione, la necessità di svolgere considerazioni ulteriori rispetto a quelle sviluppate nei richiamati precedenti giurisprudenziali.
Ciò che è stato denunciato dalla società ricorrente nel caso di specie, precisa la Corte, è, infatti, il comportamento complessivo tenuto dal Ministero nella fase propedeutica alla richiesta di ammissione alla CIGS e alla valutazione della richiesta stessa, comportamento che è privo di collegamento, anche solo mediato, con l’esercizio di un potere amministrativo in ordine alla concessione della CIGS, potere mai esercitato, come è indiscusso tra le parti.
E ciò che è stato domandato è il risarcimento di un danno da comportamento e non da provvedimento.
Tanto precisato, prosegue il Collegio, la soluzione della questione di giurisdizione nel caso in esame trova valido ausilio nella recente ordinanza 28 aprile 2020 n. 8236 pronunciata dalle Sezioni Unite in una fattispecie nella quale veniva in rilievo, come nel caso in esame, la questione di riparto della giurisdizione in ordine alla domanda risarcitoria del danno dedotto come cagionato non da un “provvedimento” ma dal “comportamento” della P.A..
Nella predetta ordinanza è stato affermato il principio secondo cui “Spetta alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, atteso che la responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa sorge da un rapporto tra soggetti (la pubblica amministrazione ed il privato che con questa sia entrato in relazione) inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. e ciò non solo nel caso in cui tale danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione“.
All’affermazione del principio innanzi richiamato, le Sezioni Unite rammentano di essere pervenute muovendo dalle coeve ordinanze del 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595, 6596 nelle quali è stato ritenuto che la controversia relativa ai danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su di un provvedimento amministrativo ampliativo della propria sfera giuridica, poi legittimamente annullato (ordinanza n. 6594 del 2011), ovvero sulla attendibilità della attestazione rilasciata dalla P.A., poi rivelatasi erronea (ordinanza n. 6595 del 2011), ovvero in un provvedimento di aggiudicazione, poi rivelatosi illegittimo (ordinanza n. 6596 del 2011), rientra nella giurisdizione del GO.
Nella ordinanza n. 8236 del 2020 è stato osservato che nelle predette ordinanze del 2011 (i cui principi erano stati ribaditi nelle decisioni delle Sezioni Unite nn. 16586/2015, 12799/2017, 15640/2017, 1654/2018, 4996/2018, 22435/2018, 32365/2018, 4889/2019 e 12635/2019) l’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario sulle domande risarcitorie poggiava sul rilievo che esse avevano ad oggetto la lesione non già di un interesse legittimo pretensivo, bensì di un diritto soggettivo, generalmente qualificato come “diritto alla conservazione dell’integrità del patrimonio” leso dalle scelte compiute confidando nella legittimità del provvedimento amministrativo poi caducato.
Principi che, pur con alcune puntualizzazioni, sono stati ribaditi in confronto attento e puntuale con le pronunce di segno opposto delle Sezioni Unite nn. 8057/2016, 13454/2017, 13194/2018, in cui risulta, invece, affermata la giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda risarcitoria per lesione dell’affidamento riposto nella legittimità dell’atto amministrativo poi annullato.
Affermazione questa che muove dal duplice rilievo che ciò che veniva in discussione era l’agire provvedimentale nel relativo complesso e che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo si giustifica in ragione del contesto, o dell’ambiente, di stampo pubblicistico, nel quale la complessiva condotta dell’amministrazione si colloca e che connette tale condotta con l’esercizio del potere.
L’adesione all’orientamento espresso nelle sopra richiamate ordinanze del 2011 e nelle successive decisioni conformi – prosegue il Collegio – è stata spiegata, tra l’altro, rilevando che nel caso in cui, secondo la domanda dell’attore, il comportamento della pubblica amministrazione abbia leso l’affidamento del privato, perché non conforme ai canoni di correttezza e buona fede, non sussiste alcun collegamento nemmeno mediato tra il comportamento dell’amministrazione e l’esercizio del potere.
Ed è stato osservato che il comportamento dell’amministrazione rilevante ai fini dell’affidamento del privato “si pone – e va valutato – su un piano diverso rispetto a quello della scansione degli atti procedimentali che conducono al provvedimento con cui viene esercitato il potere. Detto comportamento si colloca in una dimensione relazionale complessiva tra l’amministrazione e il privato, nel cui ambito un atto provvedimentale di esercizio del potere amministrativo potrebbe mancare del tutto (come nel caso oggetto del presente giudizio) o, addirittura essere legittimo, così da risultare “un frammento legittimo di un mosaico connotato da una condotta complessivamente superficiale, violativi dei più elementari obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto dei quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di stampo privatistico (così Cons. Stato n. 5/2018, già citata §33)””.
È stato anche precisato – chiosa ancora il Collegio – che i principi enunciati dalle ordinanze nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011 valgono non soltanto nel caso di domande di risarcimento del danno da lesione dell’affidamento derivante dalla adozione e dal successivo annullamento di un atto amministrativo, ma anche, e a maggior ragione, nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato adottato, cosicché, in definitiva, il privato abbia riposto il proprio affidamento in un comportamento mero dell’amministrazione.
Tanto sulla scorta della considerazione onde, in questo caso, l’amministrazione non ha realizzato alcun atto di esercizio del potere amministrativo e il rapporto tra la stessa ed il privato si gioca interamente sul piano del comportamento (“dimensione relazionale complessiva tra l’amministrazione ed il privato“), non esistendo, appunto, alcun provvedimento amministrativo a cui astrattamente imputare la lesione di un interesse legittimo.
L’ordinanza n. 8236 del 2020 ha, infine affermato, con attenta analisi delle disposizioni contenute nell’art. 7 e art. 30, comma c.p.a. di cui al D.Lgs. n. 104 del 2010, che i principi affermati nelle ordinanze nn. 6594, 6595, e 6596 del 2011, rese con riferimento alla disciplina dettata dal D.Lgs. n. 80 del 1998 (che regola “ratione temporis” anche la vicenda oggi sottoposta all’attenzione di questo Collegio, che si colloca in epoca antecedente alla entrata in vigore del c.p.a. di cui al D.Lgs. n. 104 del 2010) non hanno perso di attualità a causa dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 104 del 2010.
Il Collegio ritiene a questo punto di dare continuità ai principi affermati nella ordinanza n. 8236 del 2020 sopra richiamata, perché condivide tutte le ragioni esposte, da intendersi all’uopo richiamate ex art. 118 disp. att. c.p.c..
Tutte le argomentazioni motivazionali costituiscono, infatti, lo sviluppo di principi della giurisprudenza della medesima Corte e di quella amministrativa (Cons. Stato Adunanza Plenaria n. 5 del 2018) in materia di riparto della giurisdizione e sono saldamente ancorate all’art. 103 Cost., comma 1 e ai principi affermati dalla Corte Costituzionale, la quale ha radicato la giurisdizione anche esclusiva del giudice amministrativo nell’avvenuto esercizio da parte della pubblica amministrazione di poteri amministrativi che si siano estrinsecati in atti unilaterali autoritativi, o in atti consensuali sostitutivi o integrativi del potere autoritativo (C. Cost. n. 204 del 2004), ovvero nei comportamenti collegati all’esercizio, pur se illegittimo, di poteri pubblici che costituiscono esecuzione di atti provvedimenti amministrativi e sono riconducibili all’esercizio del potere dell’Amministrazione (C. Cost. n. 191/2006) e non consistano, invece, in meri comportamenti materiali avulsi da tale esercizio (C. Cost. n. 35 del 2010).
La ricostruzione contenuta nella ordinanza n. 8236 del 2020 – prosegue il Collegio – poggia sul rilievo che la causa petendi della domanda non era costituita dal ritardo della P.A. nel provvedere (negativamente o positivamente), ma era piuttosto fondata sulla violazione dell’affidamento ingenerato dalla amministrazione in un determinato esito, favorevole alla attrice, del procedimento e rileva che la pretesa aveva ad oggetto un danno causato non da atti o provvedimenti ma dal comportamento tenuto dalla P.A. tale da ingenerare un incolpevole affidamento nel rilascio del permesso, poi deluso, dal diniego finale.
Essa, quindi, lungi dal costituire, come, invece, annotato da attenta dottrina, la riedizione della teoria della prospettazione, dà applicazione al principio più volte affermato dalle Sezioni unite onde la giurisdizione va determinata sulla base della domanda e che, ai fini del relativo riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo rileva non già la prospettazione compiuta dalle parti, bensì il petitum sostanziale, il quale deve essere identificato non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice quanto, piuttosto, della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati.
L’ordinanza, inoltre, tiene ben ferma la differenza tra le regole pubblicistiche e quelle privatistiche, in conformità all’orientamento giurisprudenziale espresso dal Cons. Stato nella sentenza n. 5 del 2018 (si legga anche la più recente nella sentenza n. 7237 del 2020), secondo cui “nell’ambito del procedimento amministrativo (e del procedimento di evidenza pubblica in particolare) regole pubblicistiche e regole privatistiche non operano, dunque, in sequenza temporale (prime le une e poi le altre o anche le altre). Operano, al contrario, in maniera contemporanea e sinergica, sia pure con diverso oggetto e con diverse conseguenze in caso di rispettiva violazione. Le regole di diritto pubblico hanno ad oggetto il provvedimento (l’esercizio diretto ed immediato del potere) e la loro violazione determina, di regola, l’invalidità del provvedimento adottato. Al contrario, le regole di diritto privato hanno ad oggetto il comportamento (collegato in via indiretta e mediata all’esercizio del potere) complessivamente tenuto dalla stazione appaltante nel corso della gara. La loro violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità. Non diversamente da quanto accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di correttezza e buona fede non sono regole di validità (del provvedimento), ma regole di responsabilità (per il comportamento complessivamente tenuto)”.
Chiarisce, infatti, che la lesione discende non dalla violazione delle regole di diritto pubblico che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo che si estrinseca nel provvedimento, bensì dalla violazione delle regole di correttezza e buona fede, di diritto privato, cui si deve uniformare il comportamento dell’amministrazione; regole la cui violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità.
L’ordinanza Cass. Sez. Un. 8236 del 2020 – chiosa ancora il Collegio – ha anche affermato, come già evidenziato, che la situazione soggettiva del privato lesa dalla delusione delle aspettative generate dal comportamento della pubblica amministrazione non si identifica “nel diritto soggettivo alla conservazione dell’integrità del patrimonio“, priva in sé di autonoma consistenza perché il patrimonio di un soggetto è l’insieme di tutte le situazioni soggettive, aventi valore economico, che al medesimo fanno capo, sicché la conservazione dell’integrità del patrimonio altro non è che la conservazione di ciascuno dei diritti e delle altre situazioni soggettive che lo compongono e si risolve in una formula descrittiva che unifica in una sintesi verbale la pluralità delle situazioni soggettive che fanno capo ad un soggetto.
Manifestando, in modo esplicito, di volere dare continuità ai principi affermati nelle ordinanze nn. 6594, 6595, e 6596 del 2011 e in quelle successive conformi, ha precisato che la responsabilità da lesione dell’affidamento del privato entrato in relazione con la pubblica amministrazione deve essere qualificata come responsabilità da contatto sociale, qualificato dallo status della pubblica amministrazione, soggetto tenuto all’osservanza della legge come fonte di legittimità dei propri atti.
Ed ha spiegato che il rapporto tra il privato e la pubblica amministrazione deve essere inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni “in conformità dell’ordinamento giuridico” (art. 1173 c.c.), dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazioni, ma reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, in virtù degli artt. 1175 c.c. (correttezza), art. 1176 c.c. (diligenza) e art. 1337 c.c. (buona fede).
Essa, inoltre, ha ricondotto la responsabilità relazionale o da contatto sociale qualificato allo schema della responsabilità contrattuale, precisando che tale inquadramento non si riferisce al contratto come atto ma al rapporto obbligatorio, pur quando esso non abbia fonte in un contratto.
Il Collegio ritiene allora di condividere anche siffatta ricostruzione e fa proprie, condividendole, tutte le argomentazioni motivazionali che la sorreggono, da intendersi qui richiamate ex art. 118 disp. att. c.p.c.
Va osservato, in primo luogo, che la ricostruzione della responsabilità da lesione dell’affidamento del privato entrato in relazione con la pubblica amministrazione in termini di responsabilità da contatto sociale trova forte radicamento nell’art. 1173 c.c., che prevede che “le obbligazioni derivano da contratto o da fatto illecito o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico“.
Il Collegio osserva al riguardo che gli obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, imposti dall’art. 1175 c.c. (correttezza), art. 1176 c.c. (diligenza) e art. 1337 c.c. (buona fede) hanno ormai assunto una funzione ed un ambito applicativo più ampi rispetto a quella concepiti dal codice civile del 1942, e non possono essere più considerati strumentali solo alla conclusione di un contratto valido e socialmente utile, ma anche alla tutela del diritto, di derivazione costituzionale (art. 41 Cost., comma 1), di autodeterminarsi liberamente nelle proprie scelte negoziali, senza subire interferenza illecite derivante da condotte di terzi connotate da slealtà e scorrettezza.
L’ordinanza n. 8236 del 2020, inoltre, fa leva sulla considerazione che le disposizioni contenute nella L. n. 241 del 1990 (artt. 21 quinquies, 21 nonies, art. 2 bis, comma 1), pur disciplinando direttamente l’azione amministrativa, la cui violazione inficia la stessa legittimità dell’atto amministrativo, nondimeno vengono in rilievo per il loro carattere sistematico, che orienta progressivamente il nostro ordinamento verso un’idea di “diritto amministrativo paritario” nei casi in cui il danno derivi non dalla violazione delle regole di diritto pubblico che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo, ma dalla violazione delle regole di correttezza e buona fede, di diritto privato, cui la pubblica amministrazione è tenuta a conformarsi al pari di qualunque altro soggetto.
E la nozione di diritto amministrativo paritario – riprende il Collegio – risulta ancorata all’art. 97 Cost., che postula un modello di pubblica amministrazione permeato dai principi di correttezza e di buona amministrazione e un comportamento dei pubblici poteri consapevole dell’impatto che l’azione amministrativa produce sempre sulla sfera dei cittadini e delle imprese e che per questo deve essere orientato al confronto leale e rispettoso della libertà di determinazione negoziale dei privati.
Infine, il riferimento operato ai principi di diritto comunitario (sono state richiamate richiamate CGUE 3 maggio 1978 C12/77 Topfer, CGUE 14.3.2013 C545/2011 Agrargenossenschaft Neuzelle, CGUE 23 gennaio 2019 C-419/17, Deza a.s.) è apprezzabile perché attribuisce alla Pubblica Amministrazione una dimensione Europea, evocata in modo espresso dal legislatore interno anche nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 1, che finalizza l’azione amministrativa alla efficienza, ponendola in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dell’Unione Europea (così Cass. sez. lav. 20 giugno 2016 n. 12678).
In conclusione, in continuità con il principio affermato dalla ordinanza n. 8236 del 2020, deve per le SSUU ribadirsi che:
“Spetta alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, atteso che la responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa sorge da un rapporto tra soggetti (la pubblica amministrazione ed il privato che con questa sia entrato in relazione) inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. e ciò non solo nel caso in cui tale danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione“.
Questi principi – precisa a questo punto il Collegio – trovano applicazione alla fattispecie in esame perché, come già rilevato, la controversia ha ad oggetto la pretesa risarcitoria del danno che la società ricorrente ha fondato sulla avvenuta lesione dell’affidamento riposto dalla società ricorrente nel comportamento tenuto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nella conduzione e nella gestione della procedura di mobilità, che precedette la richiesta di ammissione alla CIGS, che la ricorrente assume essersi compendiato in comportamenti difformi dai canoni di correttezza e buona fede, comportamenti questi privi di collegamento, anche solo mediato, con l’esercizio, mai attuato, del potere amministrativo correlato alla ammissione al trattamento di CIGS.
Pertanto, va per la Corte dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario e, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va cassata e le parti vanno rimesse innanzi alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione che farà applicazione del principio di diritto che segue, e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità:
“In materia di cassa integrazione, ordinaria e straordinaria, spetta alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria la controversia relativa alla pretesa risarcitoria dell’imprenditore, fondata sulla lesione dell’affidamento riposto nella condotta della pubblica amministrazione, assunta come difforme dai canoni di correttezza e buona fede. La responsabilità della P.A. per il danno prodotto all’imprenditore quale conseguenza della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa sorge da un rapporto tra soggetti (la pubblica amministrazione ed il privato che con questa sia entrato in relazione), inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. e ciò non solo nel caso in cui tale danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il datore di lavoro abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione“.
Questioni intriganti
Cosa occorre rammentare in generale della responsabilità della PA da attività “non provvedimentale” o, detto altrimenti, “comportamentale pura”?
-
va in primo luogo declinata l’azione dell’Amministrazione pubblica secondo un triplice schema: a.1) azione “attizia” o provvedimentale “pura”; qui la responsabilità della PA è immediatamente da riconnettersi ad una illegittimità del provvedimento (o accordo) amministrativo; a.2) azione “attizia-comportamentale”: qui la responsabilità della PA è solo mediatamente da riconnettersi ad un provvedimento (o accordo) amministrativo, che esiste, ma non rileva per la pertinente legittimità, illegittimità o financo nullità, quanto piuttosto per il relativo inserirsi in un comportamento complessivo dell’Amministrazione alfine assunto illecito; a.3) azione “comportamentale pura”: qui la responsabilità della PA non può riconnettersi in alcun modo ad alcun provvedimento amministrativo (che non c’è e non c’è mai stato) quanto piuttosto a “vie di fatto” o “comportamenti” di soggetti formalmente pubblici che tuttavia non sono (né sono mai stati) sorretti da alcun “titolo” pubblico;
-
l’attività provvedimentale della PA vede ad essa giustapposti, in funzione del potere esercitato ex parte publica, i c.d. interessi legittimi o, rectius, diritti “condizionati” alla compatibilità con l’interesse pubblico;
-
tale evento condizionante viene accertato dalla stessa Amministrazione giusta esercizio del ridetto potere;
-
se nel contesto di tale attività di natura (anche indirettamente) procedimentale/provvedimentale la PA commette degli illeciti, gli stessi vengono affidati – sul crinale della potestas iudicandi – ormai da lustri alla giurisdizione del GA (di legittimità o, a fortiori, esclusiva), tanto nell’ipotesi in cui intervenga la previa caducazione del provvedimento, quanto nella diversa fattispecie in cui si invochi un “autonomo” risarcimento del danno, che risulta comunque avvinto alla ridetta azione “pubblicistica” della PA, siccome assunta illegittima dal soggetto danneggiato;
-
può tuttavia accadere che attraverso dei “comportamenti” pubblici siano lesi – lasciando in disparte o comunque molto sullo sfondo l’esercizio del potere pubblico – anche diritti soggettivi (tendenzialmente) “incondizionati” e, come tali, “non calibrabili” sull’interesse pubblico;
-
in simili casi, la giurisprudenza tradizionalmente riconosce la responsabilità dell’Amministrazione, nelle 3 distinte forme: f.1) della responsabilità c.d. aquiliana ex art.2043 e seguenti c.c.; f.2) della responsabilità c.d. “contrattuale” o da inadempimento ex art.1218 e seguenti c.c.; f.3) della responsabilità c.d. “precontrattuale” ex art.1337 e 1338 c.c. (per chi la assume quale forma autonoma di responsabilità rispetto alle prime due);
-
segnatamente, in tema di responsabilità c.d. aquiliana – laddove venga violato, giusta condotta illecita ex parte publica, il canone del neminem laedere – scatta per l’appunto pacificamente la responsabilità extracontrattuale della PA per lesione di diritti soggettivi del soggetto privato (o, all’occorrenza, anche pubblico); si applica infatti la disciplina generale prevista dall’art.2043 c.c.;
-
in tema poi di responsabilità da inadempimento di obbligo precostituito ex art.1218 – oltre alle ovvie fattispecie inadempimento ad obbligazioni di fonte contrattuale (non difettando la PA di autonomia privata, quand’anche esercitata in una fase successiva alla c.d. “evidenza pubblica”) – non mancano recenti prese di posizione delle SSUU della Cassazione del 2020 intese a riconoscere significatività al rapporto “relazionale” tra PA e privato allorquando quest’ultimo, reso destinatario ab origine di un provvedimento favorevole, se lo sia visto caducare su istanza di un terzo che lo abbia impugnato in sede giurisdizionale (innanzi al GA), ovvero su iniziativa della stessa PA in sede di autotutela, come nel classico caso della gara dapprima bandita e dipoi revocata, con vulnus inferto all’interesse dell’aggiudicatario in ottica di pertinente affidamento;
-
in simili casi, al contegno attizio illegittimo si affianca, senza sovrapporvisi, una condotta illecita “fattuale” globalmente considerata, affidata alla potestas iudicandi del giudice ordinario proprio sulla scorta del “contatto” significativamente insorto tra privato e PA, idoneo a fungere da fonte “atipica” di obbligazione ex art.1173 c.c., con conseguente operatività proprio dell’art.1218 c.c. sull’inadempimento di obbligo precostituito (si rinvia sul punto agli appositi CRONO-PERCORSI dedicati, come nel caso della REVOCA DELL’ATTO AMMINISTRATIVO);
-
simile condotta pubblica globalmente assunta come “fatto illecito” non manca talvolta di essere declinata – massime in tema di gare e concorsi – nel prisma c.d. “precontrattuale”, per chi ammette quest’ultimo modello di responsabilità come tertium genus rispetto alla forbice “1218-2043 c.c.” (si rinvia in proposito ancora una volta agli appositi CRONO-PERCORSI dedicati, con particolare riferimento a quello appunto sulla RESPONSABILITA’ PRECONTRATTUALE).
Cosa occorre rammentare della responsabilità della PA con riguardo all’art.2050 c.c.?
-
per quanto concerne la responsabilità da esercizio di attività pericolose ai sensi dell’art.2050 c.c., dottrina e giurisprudenza tradizionali hanno a lungo escluso la pertinente applicabilità alla Pubblica Amministrazione, stante la patente frizione tra due presunzioni del pari tradizionali: a1) la presunzione di legittimità degli atti amministrativi (anche impliciti), da un lato; a.2) la presunzione di colpa dell’esercente attività pericolosa, dall’altro; si è ribattuto tuttavia come solo in via mediata ed indiretta, se non addirittura del tutto inconferente, possa parlarsi di presunzione di legittimità degli “atti amministrativi” rispetto a quella che in realtà si traduce in una condotta pubblica materiale rischiosa, senza coinvolgere per l’appunto fattispecie attizie;
-
sempre sul crinale sostanziale, non è mancato chi ha fatto rilevare come la PA non persegua finalità lucrative, essendo piuttosto deputata istituzionalmente al soddisfacimento del pubblico interesse, ciò entrando in contraddizione con la più autentica ratio che sarebbe sottesa all’art.2050 c.c., da ravvisarsi nella finalità di far sopportare il rischio del pregiudizio al soggetto che, per l’appunto con finalità lucrative, da tale attività pericolosa ritragga profitto, potendo dunque meglio sopportare tale rischio; risulta tuttavia sostanzialmente indimostrata l’applicabilità dell’art.2050 c.c. alle sole attività imprenditoriali orientate al profitto, non facendo ad esse la norma alcun esplicito (né, tampoco, esclusivo) riferimento;
-
sul crinale processuale, si è invece partiti dalla naturale non sindacabilità del c.d. merito amministrativo da parte di alcun giudice – e men che meno da parte del GO – per giungere a riconoscere che, ammettendo l’applicabilità dell’art.2050 c.c. anche alla PA e costringendola a provare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, sarebbe proprio il merito delle “scelte” amministrative (rischiose) a finire inammissibilmente sotto la lente dell’autorità giurisdizionale, così violando il principio della divisione dei poteri; con tono critico si è tuttavia fatto rilevare come la prova contraria rimessa all’Amministrazione danneggiante si risolva in realtà non già nel dimostrare di avere operato la “scelta migliore”, quanto piuttosto nell’aver seguito pedissequamente le regole tecniche di settore (da intendesi appunto come “misure idonee” all’uopo), senza tuttavia riuscire a scongiurare il danno; in sostanza, non è la discrezionalità pura a rivelarsi pregiudizievole per il privato ma, semmai, la c.d. “discrezionalità tecnica”, come tale avvinta a regole tecniche verificabili in modo oggettivo e capaci, laddove ne sia provata l’osservanza ex parte publica, di scongiurare la responsabilità della PA agente;
-
la progressiva confutazione delle tesi contrarie ha dunque alfine sospinto dottrina e giurisprudenza ad assumere applicabile l’art.2050 c.c. anche all’Amministrazione, salvo poi dover individuare in quali specifiche fattispecie ciò sia concretamente predicabile;
-
in tema di illecito trattamento di dati personali, si afferma ormai in modo uniforme la responsabilità della PA ai sensi dell’art.2050 c.c. e, dunque, per l’esercizio di “attività pericolosa”, facendo perno sul pertinente ed espresso richiamo contenuto nell’art.15 del decreto legislativo 196.03; la dottrina è tuttavia divisa tra: e.1) chi assume la responsabilità in parola quale forma di responsabilità oggettiva, il richiamo all’art.15 ridetto valendo proprio all’uopo; e.2) chi assume la responsabilità in parola quale forma di responsabilità per colpa presunta, valendo il richiamo di cui al ridetto art.15 solo ad identificare la disciplina applicabile, non anche la natura della pertinente responsabilità pubblica;
-
in tema di c.d. emotrasfusioni ad esempio, si fronteggiano due tesi: f.1) tesi maggioritaria e più remota: non è applicabile al Ministero della Salute l’art.2050 c.c., non trattandosi di “attività pericolosa”; ne consegue la possibile attivazione dell’art.2043 c.c., tra le altre cose, con onere della prova tanto del nesso di causalità quanto della colpevolezza a carico del paziente danneggiato; f.2) tesi minoritaria e più recente: è applicabile al Ministero della Salute l’art.2050 c.c., trattandosi di autentica “attività pericolosa”, potendo scaturire da una pratica emotrasfusionale un’infezione contratta dal paziente che vi sia stato sottoposto; su questo crinale, va imputata al soggetto pubblico l’omessa informazione al paziente sui rischi che derivino dalla trasfusione di sangue, l’omessa indagine anamnestica sui donatori, l’omessa adozione di metodi di controllo dell’uso, della produzione e della commercializzazione degli emoderivati, ovvero ancora l’omessa vigilanza sull’attuazione dei metodi di inattivazioni virali; ne consegue la possibilità per il paziente di avvalersi del più favorevole regime probatorio (di tipo presunzionale) di cui appunto all’art.2050 c.c..
Cosa occorre rammentare della responsabilità della PA con riguardo all’art.2051 c.c.?
-
per quanto concerne la responsabilità da custodia di cose ai sensi dell’art.2051 c.c., la giurisprudenza si è concentrata massime sui danni scaturiti da c.d. insidie stradali;
-
anche in questo caso, si è a lungo sostenuta in giurisprudenza la incompatibilità tra la presunzione di legittimità degli atti amministrativi e la presunzione di colpa della PA iscritta nel ridetto art.2051 (per chi non vi vede una ipotesi di responsabilità oggettiva), così sovrapponendosi artificiosamente i profili di (presunta) “legittimità attizia” a quelli di “illiceità comportamentale”;
-
si è del pari a lungo sostenuto come una strada compendi un bene pubblico di tale estensione da impedire all’Amministrazione un controllo sì diuturno, costante ed incisi viso da impedire in modo assoluto l’insorgere di situazioni di rischio per gli utenti della strada medesima; ciò farebbe scattare non già l’art.2051 c.c. (e responsabilità presunta od oggettiva che la dottrina civilistica, a seconda delle tesi, vi riconnette) quanto piuttosto – ed ancora una volta – la disciplina generale di cui all’art.2043 c.c., con gravoso onere probatorio a carico dell’utente della strada pubblica, chiamato a provare tanto il nesso di causalità quanto il dolo o la colpa della PA alla quale la strada “appartiene”, dimostrando che il danno subito sarebbe da ricollegarsi ad una situazione di pericolo non oggettivamente visibile né soggettivamente prevedibile, secondo i classici connotati della c.d. “insidia o trabocchetto”;
-
più di recente – a partire dalla prima metà degli anni 2000 – la giurisprudenza si è invece attestata nel senso di non poter escludere in via automatica ed assoluta l’applicazione dell’art.2051 c.c. all’Amministrazione custode di strade, ed anzi di doverla in taluni casi ammettere;
-
una volta assunto applicabile l’art.2051 c.c., il soggetto (normalmente privato) danneggiato beneficia di un regime probatorio tutt’affatto favorevole, dovendo solo dimostrare di aver sofferto un pregiudizio riconducibile alla pericolosità intrinseca del bene pubblico di volta in volta considerato (ad esempio, una strada pubblica), essendo all’opposto la PA cui il bene “appartiene” a dover provare, in veste di convenuta, di avere adottato tutte le cautele indispensabili a scongiurare il danno, compendiando il danno subito dall’attore il precipitato di un caso fortuito;
-
l’insidia e il trabocchetto finiscono allora con il presentare una diversa foggia a seconda che: f.1) si applichi l’art.2043 c.c.: si tratta – in “positivo” – di elementi costitutivi della colpa della PA che è tenuto a provare il privato danneggiato attore; f.2) si applichi l’art.2051 c.c.: si tratta – in “negativo” – di elementi che la PA può provare non sussistenti, così dimostrando come il fatto dannoso sia scaturito da un caso fortuito ad essa non imputabile (che, tuttavia, sembra richiamare nel diritto civile assai più l’”oggettivo” nesso di causalità che la “soggettiva” colpa, a differenza di quanto accade invece in ambito penalistico; e che di recente appare potenzialmente riconducibile anche alla stessa colpa del danneggiato);
-
non manca in dottrina chi parla di “caso fortuito incidente”, capace di escludere in modo reciso la responsabilità della PA, laddove la cosa custodita, tutt’altro che costituire la causa del danno subito dall’utente (per lo più privato), rappresenta piuttosto la semplice occasione dell’evento lesivo pertinente (come può accadere anche, mette conto ripeterlo, al cospetto di una condotta dello stesso danneggiato imprevedibile ed inevitabile, tale dunque da integrare una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare il subito pregiudizio).
Cosa si intende per attività materiale dannosa della PA?
-
si tratta di un’attività che è sottratta al sindacato del GA (tanto in sede di giurisdizione di legittimità che esclusiva) perché compendiante un contegno meramente materiale, tutt’affatto svincolato da profili “attizi”, che produce danno e che dà l’abbrivio ad una richiesta risarcitoria del privato da spiccarsi di regola innanzi al GO (anche se non difettano sparute eccezioni nella giurisprudenza delle SSUU in cui è invece affermata la giurisdizione del GA);
-
sono le fattispecie pretorie, esemplificativamente ed a titolo non esaustivo: b.1) della PA che opera in ambito scolastico e che omette il controllo sugli alunni, così non impedendo una condotta dannosa; b.2) della PA responsabile di cattiva manutenzione di strade che ad essa appartengono, con connesse insidie dannose per i relativi utenti privati; b.3) della PA responsabile dei danni prodotti dalla fauna selvatica che ad essa appartiene a titolo di patrimonio indisponibile; b.4) della PA che omette sorveglianze e controlli in modo tale da implicare pregiudizi per i risparmiatori;
-
in tutti simili casi, se tradizionalmente si fa riferimento, con riguardo alla natura giuridica, all’art.2043 c.c. e dunque all’illecito aquiliano, qualche dubbio in ordine all’invocabilità, piuttosto, dell’art.1218 c.c. può sorgere sol che si ponga mente: c.1) da un lato alla “relazione costante” che si instaura tra ciascun consociato e la Pubblica Amministrazione durante tutto l’arco di ogni singola esistenza; c.2) dall’altro, a tutta la tematica dei c.d. obblighi di protezione, strettamente avvinta alla c.d. buona fede del debitore e, secondo la pertinente declinazione pubblicistica, al buon andamento dell’azione amministrativa spiegata dallo Stato Apparato “debitore” nell’interesse (pubblico) dello Stato Comunità “creditore”.
Cosa occorre rammentare delle occupazioni illegittime e/o illecite di fondi privati?
-
si tratta di tutte le fattispecie nelle quali la PA occupa un terreno privato senza alcun titolo o, in alternativa, con un titolo nullo ovvero comunque ex post annullato;
-
si tratta dell’ampia tematica delle c.d. occupazioni appropriative o usurpative, alle quali è dedicato un apposito CRONO-PERCORSO cui si rinvia;
-
dal punto di vista processuale: c.1) rientrano nella giurisdizione del GO le fattispecie di provvedimenti della PA posti a fondamento dell’occupazione di terreni privati che siano totalmente nulli o inesistenti (anche se non mancano voci minoritarie in senso opposto); a fortiori, sono appannaggio del GO (stavolta, senza distonie) le vertenze che si incentrino su meri “comportamenti” della PA o “vie di fatto”, in difetto del supporto di alcun titolo attizio, neppure nullo o inesistente; affiora qui una carenza di potere “in astratto”, sicché nessun potere è configurabile neppure, per l’appunto, in astratto; c.2) rientrano invece nella giurisdizione esclusiva del GA le controversie che abbiano ad oggetto occupazioni preordinate all’espropriazione ma illegittime (in termini di “annullabilità”), laddove affiori una carenza di potere c.d. “in concreto”: il potere pubblico è configurabile e si è palesato giusta dichiarazione di pubblica utilità dell’opera (che verrà costruita sul fondo oggetto di ablazione), e tuttavia tale dichiarazione di pubblica utilità è stata in seguito annullata dalla PA in via di autotutela o dal GA medesimo in sede giurisdizionale, lasciando “intatta” l’occupazione (permanente) del bene privato siccome medio tempore posta in essere dall’Amministrazione; la giurisdizione appartiene al GA – in forza appunto dell’esercizio di un potere pubblico – anche (ed a fortiori) quando alla dichiarazione di pubblica utilità non abbia fatto tempestivo seguito il decreto di esproprio (essendone dunque spirata l’efficacia), ovvero esso vi abbia fatto seguito e sia stato dipoi annullato dal GA, pur al cospetto di una irreversibile trasformazione, medio tempore perpetrata, del bene privato oggetto di ablazione in forza di una c.d. occupazione d’urgenza;
-
un discorso a parte meritano i c.d. “sconfinamenti”, senz’altro appannaggio del GO, riconoscibili allorché l’opera divisata in sede di ablazione del terreno privato venga realizzata su un fondo diverso rispetto a quello ab origine destinato alla pertinente realizzazione, ovvero su un terreno più esteso rispetto a quello preventivato in sede di progettazione pubblica; in simili ipotesi, il terreno diverso o più ampio viene occupato dall’Amministrazione sulla scorta di un contegno “usurpativo” di mero fatto, non sorretto da provvedimenti e piuttosto in carenza assoluta di potere pubblico, dando la stura ad un illecito di tipo permanente analogo a quello che si verifica nel caso in cui sia un altro privato (piuttosto che una PA) ad occupare in fondo di che trattasi; il proprietario di tale fondo può dunque adire il GO al fine di ottenere la restituzione di quanto illecitamente occupato ex parte publica ovvero, in alternativa, il risarcimento del danno per equivalente ex art.2043 c.c. (laddove la tutela in forma specifica non possa trovare spazio: art.2058 c.c.), facendo luogo in tale secondo caso – secondo accreditata opzione ermeneutica – ad una rinuncia implicita alla proprietà della porzione di fondo illecitamente occupata dalla PA.;
-
altri settori nei quali viene invocata dalla giurisprudenza la giurisdizione del GO sulla scorta di una affermata responsabilità della PA ai sensi dell’art.2043 (e seguenti c.c.) sono: e.1) le c.d. “emotrasfusioni”, laddove producano danno ai privati che vi siano coinvolti; e.2) la realizzazione di opere pubbliche, ed in particolare di parchi eolici, allorché non si contestino i provvedimenti che fondano tale realizzazione quanto, piuttosto, le concrete modalità in cui vengono realizzate e gli effetti pregiudizievoli che esse producono sulla salute dei privati, nonché sull’ambiente e sul territorio.