Massima
Ciascun inadempimento reato, ivi compresa la costituzione operativa ed il mantenimento in vita di una associazione criminale, può essere integrato tanto da contegni tipici – siccome descritti dalla singola norma incriminatrice di parte speciale – quanto da comportamenti apparentemente “atipici”, ma in realtà tipizzati in forza dell’operatività “per estensione” dell’art.110 c.p. in tema di concorso di persone nel reato; ciò implica che si può essere soci mafiosi ab interno, con riguardo al clan di riferimento, facendone pienamente parte, ovvero ab externo, contribuendo consapevolmente e volontariamente all’”esserci” associativo pur senza farne parte in modo strutturato, con necessità di definire quando la mera connivenza penalmente irrilevante diviene contiguità mafiosa punibile, massime allorché l’associazione mafiosa si ponga quale ineludibile supporto per il raggiungimento elettivo di cariche pubbliche.
Crono-articolo
Nel diritto romano è già presente la figura dell’associazione per delinquere, o societas sceleris, dal punto di vista delle fonti riscontrandosi in primo luogo tre passi che utilizzano espressioni assimilabili a quella di cui sopra, ovvero: si tratta di 2 passi di Ulpiano in D. 27.3.1.14 (Ulp. 36 ad ed.) e di D. 17.2.57 (Ulp. 30 ad Sab.) in termini, rispettivamente, di societas maleficiorum e di maleficii societas ; e di un passo di Papiniano, in D. 48.5.40.4 (Papin. 15 resp.) in cui si rinviene l’espressione latronum societas. La dottrina fa notare peraltro come l’espressione societas criminis sia presente in un solo caso, ovvero nella costituzione di Costantino (CT. 9.24.1.pr.) del 320 d.C. che innova in tema di ratto delle fanciulle, altrettanto infrequente palesandosi la variante societas sceleris che ricorre in un rescritto di Caracalla, (C. 9.41.4) , forse del 216 d.C.. Sono del pari rare espressioni simili, come societas latronum – riscontrabile in CT. 9.31.1, costituzione occidentale del 409 d.C. – o delicti socius – rintracciabile in un rescritto di Diocleziano (C. 9.20.10) del 293 d.C.. Non può sottacersi poi una famosa fonte, la c.d. Lex quisquis (CT. 9.14.3), una costituzione orientale del 397 d.C. ricondotta ad Arcadio ed Onorio che al par. 4 impiega societas (senza peraltro ulteriori qualificazioni), insieme a factiones, per indicare accordi (o meglio cogitationes) volti a commettere reati (come ad esempio l’uccisione di viri illustres o di senatores per ragioni politiche). Importante altresì la successiva costituzione CT. 9.40.18, del 399 d.C., che con ogni probabilità abroga, almeno in parte, la Lex quisquis affermando in modo emblematico che la societas intesa come comunanza di vita o vicinanza di rapporti personali – di per sé sola – non costituisce elemento per assumere complice di un crimine un parente o un amico del reo o in genere le persone che siano a lui vicine.
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, che prevede all’art.63 il concorso di persone nella esecuzione di un reato, distinguendo gli esecutori, i cooperatori immediati ed i determinatori, con sanzioni penali tarate in modo differenziato per ciascuna categoria, anche in relazione alla offensività della condotta. La figura del cooperatore “immediato” parrebbe escludere dall’area di operatività del precetto penale tutti coloro che forniscono un contributo, per l’appunto, solo “mediato” alla vita e all’operatività di una compagine associativa illecita; e tuttavia il successivo art.64, sempre nell’ambito della parte generale del codice (Titolo VI dedicato appunto al concorso di più persone in uno stesso reato), punisce anche i compartecipi “diversi” dalle categorie precedenti con contributo causale decisamente più “mediato”, ed in specie coloro che ex ante eccitano o rafforzano la risoluzione di commettere il reato, o promettono aiuto o assistenza da prestarsi dopo il reato stesso; coloro che danno istruzioni o somministrano mezzi per eseguirlo; coloro che ne facilitano l’esecuzione prestando assistenza o aiuto prima o durante il fatto. Tali condotte vanno combinate con il delitto di associazione per delinquere che il codice prevede agli articoli 248-251, laddove vengono puniti (art.248) per il solo fatto dell’associazione, ove orientata a commettere determinati delitti, 5 o più soggetti che si associno appunto a tal fine, con una particolare punizione prevista per i promotori e i capi. Importante l’art.249 del codice onde, chiunque – al di fuori dei casi di cui all’art.64, e dunque del c.d. cooperatore mediato, in tal modo ammesso emblematicamente configurabile anche nelle ipotesi di associazione per delinquere – dà rifugio o assistenza, o somministra vettovaglie agli associati, o ad alcuno tra essi, viene punito con la reclusione fino ad un anno (eccettuato il caso in cui l’assistenza abbia a destinatario un prossimo congiunto). Significativo in qualche modo anche l’art.250 onde, per i delitti commessi dagli associati o da alcuno di essi “nel tempo o per occasione dell’associazione” (delitti-fine), viene applicato un aumento di pena: la norma sottende la possibilità che gli associati commettano reati sganciati dalla durata e dalla operatività dell’associazione (e che dunque non ne costituiscono delitti-fine), ma potrebbe anche leggersi nell’ottica di ventilare – a contrario – figure solo “mediatamente” associative, che dunque sono “non associati” ma che commettono delitti che in qualche modo lambiscono l’associazione medesima rafforzandone o comunque preservandone la compagine giusta commissione, ab externo, di delitti “nel tempo o per occasione” di essa, ed ai quali, proprio perché non associati, non si applica il trattamento sanzionatorio aggravato ivi previsto per gli analoghi delitti commessi dagli associati tout court.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale che, all’art.416, prevede tra i delitti contro l’ordine pubblico l’associazione per delinquere, quale reato a partecipazione concorsuale necessaria. Il successivo art.418, rubricato “assistenza agli associati”, punisce poi chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento , dà rifugio o fornisce vitto a taluna delle persone che partecipano all’associazione, con pena aumentata se l’assistenza è prestata continuativamente, e con esclusione della punibilità se il fatto di assistenza è commesso in favore di un prossimo congiunto. Dall’impianto codicistico, e con riguardo all’associazione per delinquere, sembra affiorare una triplice possibilità configurativa “discendente”, onde si è associati (concorrenti necessari), ovvero favoreggiatori, ovvero ancora fornitori di assistenza agli associati.
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza che potrebbe essere messa in dubbio laddove il soggetto attivo, pur formalmente non associato, venga punito per associazione mafiosa a cagione di una partecipazione che non sia appunto “strutturata”. Importante anche l’art.18 alla cui stregua in primo luogo (comma 1) viene riconosciuto ai cittadini il diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che tuttavia non siano vietati ai singoli dalla legge penale, con ciò implicando che la violazione dei precetti penali, e dunque il compimento di fatti inadempimento reato, è da ritenersi incostituzionale anche laddove il fine di violare appunto la legge penale venga più o meno direttamente perseguito attraverso una compagine associativa (piuttosto che individualmente). Sotto altro ma connesso profilo, sono assunte (comma 2) proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare, con disposizione capace in qualche modo di essere riferita anche alle compagini mafiose, stante la relativa foggia organizzativa militarista e gli scopi politico-economici sovente – almeno indirettamente – perseguiti, con conseguente collocazione fuori asse costituzionale di chi vi “partecipi”, quand’anche non con foggia pienamente strutturata e integrata.
1980
Il 6 febbraio viene varata la legge n.15 che introduce nel codice penale, all’art.3, il nuovo art.270.bis in tema di associazioni con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico.
1982
Il 13 settembre viene varata la legge n.646 c.d. Rognoni-La Torre, il cui art.1 introduce nel codice penale l’articolo 416.bis, dal quale affiora la nuova figura criminosa dell’associazione per delinquere di stampo mafioso. Secondo tale disposizione chiunque “fa parte” di un’associazione di tipo mafioso formata da 3 o più persone, e’ punito con la reclusione da tre a sei anni, mentre coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da quattro a nove anni. L’associazione – chiarisce il comma 3 – e’ di tipo mafioso quando coloro che “ne fanno parte” si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attivita’ economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Se l’associazione e’ armata sono previsti aggravamenti di pena, e l’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito. Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene-base sono aumentate da un terzo alla metà. Infine, nei confronti del condannato e’ sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego. Viene novellato anche l’art.378 c.p. in tema di favoreggiamento personale, forgiandosi (al comma 2) una circostanza aggravante per chi abbia inteso agevolare l’elusione delle indagini o la sottrazione alle medesime da parte di un soggetto responsabile ai sensi dell’art.416.bis c.p. e dunque di un facente parte dell’associazione mafiosa.
1987
Il 19 gennaio viene deliberata dalla I sezione della Cassazione la sentenza sul caso Cillari, laddove per la prima volta si parla di c.d. concorso esterno in associazione mafiosa.
Il 13 giugno esce la sentenza della I Sezione della Cassazione n.3492, Altivalle, che – in tema di c.d. concorso esterno in associazione mafiosa – ne ammette la configurabilità, potendosi dunque non solo “far parte” della compagine criminale con condotta atipica ex art.416.bis c.p., ma essendo ad un tempo anche invocabili condotte atipiche rilevanti ex art.110 c.p.
Il 14 luglio vengono depositate le motivazioni della sentenza della I Sezione della Cassazione sul caso Cillari, che prende il n.8092, onde – in tema di c.d. concorso esterno in associazione mafiosa – ne va negata la configurabilità, potendosi solo “far parte” della compagine criminale con condotta tipica ex art.416.bis c.p., senza che siano invocabili condotte atipiche rilevanti ex art.110 c.p.
1989
Il 27 giugno esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.8864, Agostani, che menziona il c.d. concorso esterno in associazione mafiosa per negarne ancora la configurabilità, potendosi solo “far parte” della compagine criminale con condotta tipica ex art.416.bis c.p., senza che siano invocabili condotte atipiche rilevanti ex art.110 c.p.
1991
Il 13 maggio viene varato il decreto legge n.152, il cui art.7 prevede una circostanza aggravante per chi commetta delitti, punibili con pena diversa dall’ergastolo, al fine di agevolare le attività delle associazioni di stampo mafioso e di quelle ad esse equiparate di cui all’art.416.bis c.p., ultimo comma: si tratta della c.d. aggravante di mafia per i reati “satellite” rispetto alla operatività della compagine mafiosa.
Il 12 luglio viene varata la legge n. 203, che converte in legge con modificazioni il decreto legge n.152.
1992
L’8 giugno viene varato il decreto legge n.306, recante modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalita’ mafiosa.
Il 7 agosto viene varata la legge n.356, che converte in legge il decreto legge n.306 con rilevanti modificazioni, introducendovi l’art.11.ter e, con esso, la nuova figura del c.d. “patto elettorale politico-mafioso” di cui all’art. 416.ter c.p., onde la pena stabilita dal primo comma dell’articolo 416-bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416-bis in cambio della erogazione di denaro. In sostanza, chi paga la mafia per essere eletto subisce la medesima pena di chi partecipa ad una associazione mafiosa: allorché si verifichi un accordo sulla cui scorta all’impegno elettorale del clan mafioso fanno da contraltare i denari del candidato che cerca di essere eletto, si configura la fattispecie tipica di cui al nuovo art.416.ter c.p. e ciò esclude di per sé la possibilità di configurare un concorso esterno ed “atipico” del candidato in “mafia” ai sensi degli articoli 416.bis e 110 c.p. La nuova fattispecie appare tutt’affatto peculiare, qualificandosi come plurisoggettiva impropria, giacché naturalisticamente plurisoggettiva (per configurarla occorre sempre un candidato ed un esponente di clan) e normativamente monosoggettiva (dal momento che non viene punito anche l’appartenente al clan che garantisce i voti, ma solo il candidato che li chiede in cambio dell’erogazione da parte sua di denaro). E’ inoltre, nella interpretazione che ne fornirà la giurisprudenza, un reato di mera condotta e di pericolo astratto, dacché è il solo fatto della stipulazione del patto (reato-contratto) a consumare il reato, senza che possa assumersi rilevante quanto – solo eventualmente – ne costituisca scaturigine in termini di consolidamento o rafforzamento della compagine mafiosa; l’oggetto è poi limitato, dacché l’unica contropartita per la mobilitazione elettorale garantita dal clan è l’erogazione di una somma di denaro.
Il 23 novembre esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.4805, Altomonte, che ribadisce la configurabilità del c.d. concorso esterno in associazione mafiosa, potendosi dunque non solo “far parte” della compagine criminale con condotta tipica ex art.416.bis c.p., ma essendo ad un tempo anche invocabili condotte atipiche rilevanti ex art.110 c.p.
1993
*Il 18 giugno esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.2902, Turiano, che ribadisce la configurabilità del c.d. concorso esterno in associazione mafiosa, potendosi dunque non solo “far parte” della compagine criminale con condotta tipica ex art.416.bis c.p., ma essendo ad un tempo anche invocabili condotte atipiche rilevanti ex art.110 c.p.
*Il 31 agosto esce la sentenza della Sezione feriale della Cassazione, Di Corrado, che ribadisce la configurabilità del c.d. concorso esterno in associazione mafiosa, potendosi dunque non solo “far parte” della compagine criminale con condotta tipica ex art.416.bis c.p., ma essendo ad un tempo anche invocabili condotte atipiche rilevanti ex art.110 c.p.
1994
Il 27 giugno escono le sentenze della Sezione I della Cassazione n.2342 e 2348, Abbate e Clementi, che menzionano il c.d. concorso esterno in associazione mafiosa per negarne stavolta la configurabilità, potendosi solo “far parte” della compagine criminale con condotta tipica ex art.416.bis c.p., senza che siano invocabili condotte atipiche rilevanti ex art.110 c.p.
Il 5 ottobre esce la nota sentenza delle SSUU della Cassazione Demitry che – andando in contrario avviso rispetto alla posizione della dottrina e risolvendo il pertinente contrasto di giurisprudenza – ammette la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa. Non possono essere richiamate per la Corte, al fine di escludere tale configurabilità, le circostanze aggravanti previste, rispettivamente, dall’art.378, comma 2, c.c. (in tema di favoreggiamento personale), e dall’art.7 del decreto legge n.152.91, configurando in particolare quest’ultima una aggravante di tipo soggettivo che si configura per il solo fatto che il delitto base sia stato commesso al fine di agevolare l’attività del sodalizio mafioso, senza che si configuri ad un tempo un contributo causale di tipo materiale che, ove presente, consapevole e volontario, connota invece (ed appunto) il concorso esterno in associazione mafiosa. Sul crinale soggettivo, la Corte precisa poi come sia registrabile una diversità di tipo ontologico tra l’atteggiamento psicologico di chi “fa parte” dell’associazione mafiosa (concorrente necessario) rispetto a chi è concorrente esterno o eventuale, quest’ultimo contribuendo consapevolmente e volontariamente, ab externo, al mantenimento e/o al rafforzamento della compagine criminale senza tuttavia percepire di farne parte integrante, laddove il concorrente necessario “fa parte”, appunto, dell’associazione mafiosa ed è intensamente e strutturalmente compenetrato nella medesima. Mentre dunque la condotta del concorrente necessario o interno è tipica ex art.416 bis c.p., quella del concorrente eventuale o esterno è atipica ex art.110 c.p., ed è tale condotta atipica che viene investita dal pertinente atteggiamento psicologico del soggetto agente. Anche il dolo del concorrente esterno si atteggia in modo tutt’affatto peculiare, non traducendosi nella consapevolezza e volontà di far parte dell’associazione – dolo, questo, tipico del concorrente interno o necessario – quanto piuttosto nella consapevole volontà di apportare alla compagine criminosa un contributo ab externo, staccato dunque, strutturalmente, da quella stabile organizzazione dalla compagine medesima compendiata; con riguardo al programma delinquenziale fatto proprio dall’associazione mafiosa, il dolo del concorrente esterno si atteggia del pari in modo del tutto particolare, dacché quest’ultimo non deve giocoforza voler consapevolmente realizzare i fini propri del sodalizio, palesandosi piuttosto sufficiente che egli sappia che altri “interni” vi “fanno parte” e si propongono quell’intento specifico; in sostanza, mentre chi “fa parte” dell’associazione si interessa della strategia complessiva dell’associazione e degli scopi che essa persegue, chi concorre ab externo è sufficiente che si rappresenti che altri è in questa condizione “integrata” e strutturale, e che sia, ad un tempo, consapevole di apportare comunque un contributo causale al mantenimento o al rafforzamento dell’associazione.
2001
Il 23 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.3299, Villecco, che sconfessa il pronunciamento delle SSUU del 1994 sul caso Demitry. Per la Corte la condotta idonea ad integrare il concorso esterno in associazione mafiosa non è distinguibile da quella che caratterizza il concorso tipico o interno di chi ne fa parte, dacché in entrambi i casi occorre efficienza causale rispetto al rafforzamento ed al funzionamento della compagine criminale, secondo quello che viene definito l’elemento funzionale dell’associazione mafiosa. Né può assumersi sufficiente a differenziare la posizione del partecipe interno rispetto a quella dell’associato esterno la presenza solo con riferimento al primo, e non anche al secondo, dell’accordo iniziale quale elemento strutturale attraverso il quale il partecipe è entrato appunto a “far parte” dell’associazione mafiosa, dacché anche ex art.110 c.p. si partecipa al “medesimo reato”, onde qualunque apporto materiale o morale alla vita dell’associazione non può che essere adesivo al sodalizio medesimo, sicché o si è nell’associazione o se ne è estranei. In sostanza, secondo questa prospettiva quando il reato è a concorso necessario, l’operatività dell’art.110 c.p. rimane assorbita nella struttura tipica necessariamente plurisoggettiva del reato stesso, senza possibilità di configurare “per estensione” figure compartecipative atipiche.
Il 18 ottobre viene varato il decreto legge n. 374, recante disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale, all’indomani dei fatti dell’11 settembre. Si incide in particolare sull’art.270.bis c.p. caratterizzando la fattispecie di terrorismo con finalità di eversione dell’ordine democratico anche in ottica internazionale, con esplicito riferimento ai potenziali finanziatori.
Il 15 dicembre viene varata la legge n.438, che converte con modificazioni il decreto legge n.374: in particolare, con l’introduzione (art.1) dei comma 5.bis e 5.ter, si annovera tra le condotte incriminatrici tipiche del delitto di assistenza agli associati di cui all’art.418 c.p. anche quella consistente nel fornire loro ospitalità, mezzi di trasporto e strumenti di comunicazione. Altrettanto accade con riguardo ai partecipi delle associazioni terroristiche eversive di cui all’art.270 bis c.p.
2003
Il 21 maggio esce la nota sentenza delle SSUU della Cassazione n. 22327, Carnevale che – andando in contrario avviso rispetto alla posizione della dottrina – ribadisce ancora una volta la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa, già autorevolmente affermata dalla sentenza Demitry del 1994. Non possono essere richiamate per la Corte, al fine di escludere tale configurabilità, le circostanze aggravanti previste, rispettivamente, dall’art.378, comma 2, c.p. (in tema di favoreggiamento personale), e dall’art.7 del decreto legge n.152.91, configurando in particolare quest’ultima una aggravante di tipo soggettivo che si configura per il solo fatto che il delitto base sia stato commesso al fine di agevolare l’attività del sodalizio mafioso, senza che si configuri ad un tempo un contributo causale di tipo materiale che, ove presente, consapevole e volontario, connota invece (ed appunto) il concorso esterno in associazione mafiosa. Sul crinale soggettivo, la Corte precisa poi come sia registrabile una diversità di tipo ontologico tra l’atteggiamento psicologico di chi “fa parte” dell’associazione mafiosa (concorrente necessario) e quello di chi è (solo) concorrente esterno o eventuale, quest’ultimo contribuendo consapevolmente e volontariamente, ab externo, al mantenimento e/o al rafforzamento della compagine criminale senza tuttavia percepire di farne parte integrante, laddove il concorrente necessario “fa parte”, appunto, dell’associazione mafiosa ed è intensamente e strutturalmente compenetrato nella medesima. Mentre dunque la condotta del concorrente necessario o interno è tipica ex art.416 bis c.p., quella del concorrente eventuale o esterno è atipica ex art.110 c.p., ed è tale condotta atipica che viene investita dal pertinente atteggiamento psicologico del soggetto agente. La Corte cambia tuttavia la propria posizione con riguardo al dolo del concorrente esterno, ed in specie al relativo atteggiarsi rispetto al programma criminoso dell’associazione mafiosa: tale concorrente esterno è estraneo alla compagine e non ne vuole “far parte”, e tuttavia vuole consapevolmente che il proprio contributo sia diretto a realizzare – quand’anche in misura solo parziale – il programma criminoso della compagine.
Il 3 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione, Saracino, alla cui stregua – stante come nella norma di cui all’art.416.ter non si faccia alcun esplicito riferimento al metodo mafioso – lo scambio politico-mafioso si atteggia a reato di pericolo che deve assumersi integrato sulla scorta del mero accordo tra le parti, dovendosi escludere che faccia parte della struttura oggettiva della fattispecie ex art.416.ter c.p. l’effettivo condizionamento degli elettori nell’esercizio del diritto di voto; in sostanza, è sufficiente che nell’accordo tra il politico eligendo ed il clan mafioso vi sia un riferimento espresso all’uso del metodo mafioso al fine di condizionare il libero e corretto esercizio della consultazione elettorale di riferimento, con indicazione espressa nel patto di che trattasi, senza che possa dunque assumersi sufficiente la mera esistenza e notorietà del clan coinvolto nel patto medesimo in termini di relativa “mafiosità” ma, allo stesso tempo, senza dover accertare che atti intimidatori e di prevaricazione abbiano concretamente avuto luogo.
2005
Il 20 settembre esce la nota sentenza delle SSUU della Cassazione n.33748, Mannino che – ribadendo il contrario avviso rispetto alla posizione della dottrina – riafferma la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa. Non possono essere richiamate per la Corte, al fine di escludere tale configurabilità, le circostanze aggravanti previste, rispettivamente, dall’art.378, comma 2, c.c. (in tema di favoreggiamento personale), e dall’art.7 del decreto legge n.152.91, configurando in particolare quest’ultima una aggravante di tipo soggettivo che si configura per il solo fatto che il delitto base sia stato commesso al fine di agevolare l’attività del sodalizio mafioso, senza che si configuri ad un tempo un contributo causale di tipo materiale che, ove presente, consapevole e volontario, connota invece (ed appunto) il concorso esterno in associazione mafiosa. Sul crinale soggettivo, la Corte precisa poi come sia registrabile una diversità di tipo ontologico tra l’atteggiamento psicologico di chi “fa parte” dell’associazione mafiosa (concorrente necessario) rispetto a chi è concorrente esterno o eventuale, quest’ultimo contribuendo consapevolmente e volontariamente, ab externo, al mantenimento e/o al rafforzamento della compagine criminale senza tuttavia percepire di farne parte integrante, laddove il concorrente necessario “fa parte”, appunto, dell’associazione mafiosa ed è intensamente e strutturalmente compenetrato nella medesima. Mentre dunque la condotta del concorrente necessario o interno è tipica ex art.416 bis c.p., quella del concorrente eventuale o esterno è atipica ex art.110 c.p., ed è tale condotta atipica che viene investita dal pertinente atteggiamento psicologico del soggetto agente. Anche nella sentenza Mannino intervengono delle precisazioni ulteriori in tema di dolo del concorrente esterno; l’atteggiamento psicologico deve infatti investire, tanto in termini di rappresentazione che di volontà, da un lato tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica; dall’altro il contributo causale avvinto al proprio comportamento con riguardo alla realizzazione del concreto fatto associativo criminoso; in sostanza deve riconoscersi in capo al concorrente esterno la consapevolezza e la volontà di interagire in modo sinergico con le condotte altrui (segnatamente, di chi “fa parte” dell’associazione) nell’ottica produttiva dell’evento lesivo di cui al “medesimo reato” ex art.110 c.p., onde il concorrente esterno – pur all’evidenza non provvisto di c.d. affectio societatis e dunque pur non accompagnato dalla consapevole volontà di far parte dell’associazione – è tuttavia consapevole dei metodi e dei fini della stessa, in disparte il proprio foro interno e dunque, a seconda dei casi, il disinteresse, l’indifferenza, l’avversione o la condivisione di tali metodi e fini; rendendosi conto ad un tempo, in modo compiuto, dell’efficacia causale della propria attività di sostegno che si traduce nella conservazione o nel rafforzamento del sodalizio criminoso (al quale resta tuttavia strutturalmente estraneo); ciò, dal punto di vista del programma criminoso dell’associazione, si traduce nella consapevolezza e volontà di un contributo diretto alla realizzazione, quand’anche solo parziale, del medesimo. Sul crinale (oggettivo) del ridetto contributo causale, quest’ultimo, con riguardo al concorrente esterno, si atteggia ad atipico, sia esso di natura materiale ovvero morale, operando quegli nondimeno in piena sinergia con chi fa parte ab interno dell’associazione mafiosa; muovendo allora dal consueto schema della c.d. condicio sine qua non, quale modello unitario ed indifferenziato che è tipico delle fattispecie “causalmente orientate a forma libera”, solo se si accerta un nesso eziologico di tal fatta, e dunque una efficienza causale del comportamento dell’extraneus, si realizza quella condizione necessaria per la concreta realizzazione dell’associazione mafiosa quale fatto criminoso collettivo, con conseguente produzione dell’evento lesivo del bene giuridico protetto, identificabile in quella integrità dell’ordine pubblico che finisce con l’essere violata proprio a cagione della esistenza e della operatività della compagine criminosa e del diffuso pericolo di attuazione di quei delitti che compendiano lo scopo del programma criminoso dei sodali. Il riscontro in ordine alla sussistenza dell’apporto causale nei termini anzidetti da parte del concorrente esterno va operato per la Corte ex post ed in concreto, seguendo gli insegnamenti della sentenza delle SSUU Franzese del 2002 sul nesso di causalità; onde, anche laddove ex ante ed in astratto il contributo atipico compendiantesi nella condotta ausiliatrice appaia idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio di realizzazione (anche in termini di fortificazione) del fatto tipico associativo, occorre sempre la verifica ex post ed in concreto al fine di acclarare se il ridetto contributo non sia stato piuttosto, ed in concreto appunto, del tutto irrilevante per il mantenimento in vita o per il potenziamento dell’associazione mafiosa. Secondo la Corte peraltro una tesi che pretenda di individuare il concorrente esterno in associazione mafiosa prescindendo dal fondamentale elemento dell’apporto causale fornito alla compagine finirebbe con l’arbitrariamente anticipare la soglia di punibilità, così entrando in rotta di collisione sia con il principio di tipicità, sia con la inammissibilità del mero tentativo di concorso in associazione mafiosa. Non può, sotto altro (diacronico) profilo, assumersi penalmente rilevante il solo apporto orientato alla “preservazione” dell’associazione mafiosa, nei momenti di patologica esistenza e di connessa fibrillazione del clan di volta in volta considerato, potendo essere punibile anche l’apporto dell’estraneo in una fase di tipo “espansivo”, di crescita e di piena operatività e “salute” della compagine criminosa. Per la Corte, da un lato non appare affatto necessario che l’eventuale stato di difficoltà (o comunque di fibrillazione) sia tale che – senza il soccorso esterno – il sodalizio finirebbe inevitabilmente con l’estinguersi; dall’altro il contributo non deve giocoforza provenire da soggetti specifici, con foggia di “medici curanti”; in sostanza dunque, il concorso esterno in associazione mafiosa è configurabile anche a prescindere da una situazione di anormalità e di crisi nella vita della compagine associativa mafiosa. La importante pronuncia si occupa anche della fattispecie di cui all’art.416.ter c.p., ovvero dello scambio elettorale politico mafioso; non è mancata infatti di affacciarsi soprattutto in dottrina la considerazione onde tale nuova fattispecie di reato ridimensionerebbe l’operatività del combinato disposto degli articoli 110 e 416.bis c.p., dacché il patto politico mafioso sarebbe ormai da assumersi rilevante nel solo caso in cui, ex art.416.ter appunto, alla promessa di voti fa da contraltare la dazione di denaro: applicare all’ipotesi in cui alla promessa elettorale si giustappongano più generici “favori” il c.d. concorso esterno in associazione mafiosa finirebbe con il violare – secondo questa tesi – lo stesso principio di legalità, almeno se ci si limita al nudo patto tra politico e mafia, laddove appunto esso preveda “favori” (non direttamente pecuniari) del primo in cambio di voti garantiti dalla seconda; stando a questa impostazione dunque, solo in presenza di una quantomeno parziale esecuzione del ridetto patto illecito, compendiantesi in un effettivo contributo agevolativo o rafforzativo da parte del politico eletto alla compagine criminosa, potrebbe ravvisarsi l’operatività del concorso esterno in associazione mafiosa. Per la Corte, in primo luogo la ragione dell’introduzione nel sistema dell’art.416.ter c.p. va rinvenuta nell’intenzione del legislatore di punire sempre e comunque, per motivi comprensibili di politica criminale, lo scambio tra denaro erogato dal politico e voti garantiti dalle cosche, che – in difetto della ridetta innovazione codicistica – assai raramente avrebbe potuto essere sanzionato dal punto di vista penale quale concorso esterno in associazione mafiosa, sol che si consideri come – a fronte della grande disponibilità di denaro nelle mani della mafia – sarebbe in realtà ben difficile provare un mantenimento o un rafforzamento della compagine criminale basato sulla erogazione di denaro del singolo politico “contiguo”. Le SSUU ribadiscono dunque come la scelta legislativa di incriminare ex art.416.ter, ex professo, l’accordo elettorale politico mafioso in termini di scambio tra denaro e voti non può essere intesa come espressiva dell’intento di limitare solo a questa fattispecie l’ambito di operatività dei variegati patti collusivi in materia elettorale con una associazione mafiosa, così negandosi tout court rilievo penale ad ogni accordo che si configuri diverso dal quel precipuo tipo di scambio (denaro/voti). Anche la stessa interpretazione storico-sistematica dell’art.416.ter lascia intravedere per la Corte una soluzione legislativa orientata dalla volontà di costruire una specifica e tipica figura alternativa al modello concorsuale (art.110 e 416.bis c.p.) siccome interpretato dalla giurisprudenza, onde la relativa introduzione va letta come strumento di estensione della punibilità oltre il concorso esterno, anche ai casi in cui il patto preso in considerazione, non risolvendosi in contributo al mantenimento o rafforzamento dell’organizzazione, resterebbe irrilevante per inapplicabilità degli articoli 110 e 416.bis c.p.. In sostanza dunque, per la Corte, mentre nel caso dell’art.416.ter – che è reato di mera condotta – la controprestazione del politico è solo quella pecuniaria, laddove il politico offra un più ampio e diversificato raggio di prestazioni a favore dell’associazione mafiosa (una volta eletto), può scattare il concorso esterno in associazione mafiosa, che è invece per la Corte reato di evento, ma a fini di punibilità il giudice penale non può accontentarsi dell’accertata mera stipulazione del patto essendo piuttosto tenuto di volta in volta ad acclarare, applicando i collaudati criteri di accertamento causale pertinenti ratione materiae, se la controprestazione (“favori”) alla promessa di voti abbia determinato quel rafforzamento dell’associazione mafiosa che compendia appunto l’evento (e, con esso, la consumazione) della fattispecie di concorso esterno. Proprio da quest’ultimo punto di vista le SSUU operano importanti precisazioni, muovendo dal fatto che il reato compendiato nello scambio tra “favori” e voti si consuma – ex art.110 e 416.bis c.p. – nel momento in cui si perfeziona l’accordo, e rappresentando come non occorra appunto per il perfezionamento del reato la concreta esecuzione ex post delle prestazioni promesse ex ante all’atto della stipula del pactum sceleris da parte del candidato eletto; ciò non toglie nondimeno che, trattandosi di reato di evento, è comunque indispensabile la verifica della concreta efficacia causale del patto in ottica, a valle, di intervenuto consolidamento o rafforzamento della compagine associativa, secondo un modulo per cui si assiste ad un patto di scambio favori/voti che, nel momento in cui interviene, produce causalmente il ridetto consolidamento o rafforzamento del sodalizio mafioso. Si tratta per la Corte di un accertamento che tiene conto di diversi elementi fattuali, quali la situazione peculiare in cui versa l’associazione mafiosa nel momento in cui interviene il patto con il candidato alle elezioni, l’affidabilità di quest’ultimo, il tenore della relativa promessa e così via; per la Corte occorre allora in primo luogo che l’impegno preso dal politico candidato sia serio e concreto, tenuto conto dell’affidabilità e della caratura di quest’ultimo e di chi interviene all’accordo da parte dei clan, della specificità dei contenuti del patto e del contesto storico nel quale esso si inserisce, in rapporto ai connotati di struttura dell’associazione mafiosa considerata; in secondo luogo, sulla scorta di una verifica ex post ed in concreto, deve affiorare (prescindendo, si ripete, dal fatto che il politico abbia poi mantenuto effettivamente le promesse fatte) l’efficacia causale della promessa operata dal candidato a caccia di voti, occorrendo che il patto – nel momento in cui è intervenuto – abbia inciso in modo effettivo e consistente sulla conservazione o sul rafforzamento della compagine associativa, in termini di capacità e di articolazioni operative. Ciò, chiosa la Corte, muovendo dal presupposto che tanto la conservazione quanto il consolidamento o il rafforzamento della compagine, che sono l’evento del reato di cui agli articoli 110 e 416.bis c.p., non vanno intesi in senso meramente soggettivo psicologico, onde il promesso appoggio politico si limiti ad aumentare la sensazione di prestigio e di senso di impunità avvertita dai sodali mafiosi, quanto piuttosto in termini di tipo oggettivo-organizzativo, onde la sola promessa di un appoggio da parte del credibile politico eligendo ha operato ex se in termini di potenziamento dell’efficienza operativa dell’associazione mafiosa, con annessa riorganizzazione delle risorse umane, finanziarie e materiali della medesima.
2007
Il 17 febbraio esce la sentenza della Sezione I della Cassazione n.1072, che assume compatibile la fattispecie di cui all’art.270 bis c.p. con l’applicazione dei principi che la giurisprudenza ha via via elaborato in tema di concorso esterno nel reato associativo. Si configura dunque per la Corte, anche con riguardo alle associazioni con finalità di terrorismo (anche internazionale) e di eversione dell’ordine democratico la fattispecie del concorso esterno, giusta combinato disposto con l’art.110 c.p. Per la Cassazione neppure una ampia e diffusa frammentazione legislativa in autonome e tipiche fattispecie criminose dei vari casi di contiguità – come è avvenuto, sul terreno del distinto fenomeno terroristico, mediante l’introduzione delle nuove figure di “finanziamento” di associazioni con finalità di terrorismo, ovvero dell’”arruolamento” e dell’”addestramento” di persone per il compimento di attività con finalità di terrorismo anche internazionale – sarebbe comunque in grado di paralizzare l’espansione operativa della clausola generale di estensione della responsabilità per i contributi atipici ed esterni diversi da quelli analiticamente elencati, secondo il modello dettato dall’art.110 c.p. sul concorso di persone nel reato, se non introducendosi una apposita disposizione derogatoria che escluda appunto l’applicabilità della suddetta clausola per i reati associativi. Per la Corte dunque è ammissibile il concorso esterno in associazione con finalità di terrorismo (anche internazionale) ai sensi del combinato disposto degli articoli 110 e 270 bis c.p. nei confronti di chi – pur restando estraneo alla struttura organizzativa della compagine – apporti un concreto e consapevole contributo causalmente rilevante in termini di conservazione, rafforzamento e conseguimento degli scopi tanto dell’organizzazione criminale nel suo complesso quanto delle relative articolazioni territoriali, purché si ravvisi esistente anche l’elemento soggettivo in termini di volontaria consapevolezza della consistenza e degli scopi dell’associazione destinataria dell’apporto in parola.
2008
Il 6 maggio esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.34597, che – in un caso di “trasferimento in sicurezza” del latitante da un rifugio all’altro, con successiva cattura del medesimo – si occupa della distinzione tra concorso esterno in associazione mafiosa e favoreggiamento personale aggravato ai sensi dell’art.378, comma 2, c.p., che scatta laddove il reato presupposto abbia connotati di mafiosità. Per la Corte, il concorso esterno in associazione mafiosa si distingue dal reato di favoreggiamento personale aggravato giacché nel caso del concorso esterno nel reato associativo mafioso l’aiuto da un lato è prestato (ad uno o più degli associati) mentre l’associazione è ancora operativa (mentre per il favoreggiamento personale aggravato occorre che l’associazione sia un reato presupposto, ormai esaurito nei relativi effetti penalmente rilevanti), e dall’altro tale aiuto è rivolto al singolo non in quanto tale, ma appunto in quanto componente del gruppo criminale. Per la Corte occorre poi chiarire che talune condotte in apparenza sembrano utili solo ad un socio, ma si rivelano invece tali per l’intera associazione: perché possa parlarsi di concorso esterno in associazione mafiosa, la condotta agevolatrice può dunque anche coinvolgere un solo componente della compagine criminale, purché tuttavia dal contesto concreto in cui tale condotta è stata posta in essere si evinca che in realtà essa ha inteso fornire un contributo all’intera compagine mafiosa; in queste ipotesi il dato sostanziale della effettiva finalizzazione dell’aiuto o dell’utilità all’intera associazione supera quello formale della solo apparente utilità avente a destinatario il singolo associato.
2011
Il 30 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.46922 onde, nel solco di una giurisprudenza minoritaria di tipo “estensivo”, ai fini della configurabilità del c.d. scambio elettorale politico mafioso ex art.416.ter c.p., l’oggetto materiale dell’erogazione offerta in cambio della promessa di voti può essere rappresentato non solo dal denaro, ma anche da qualsiasi bene traducibile in un valore di scambio immediatamente quantificabile in termini economici, come nel caso di mezzi di pagamento diversi dalla moneta quali valori mobiliari, titoli, preziosi, restando invece escluse dal contenuto precettivo della norma incriminatrice altre “utilità” che solo in via mediata possono essere oggetto di monetizzazione. Nel caso di specie, il Sindaco di un paese della Campania evita indebitamente al capo cosca di pagare i canoni altrimenti dovuti a titolo di occupazione di un immobile municipale.
2012
Il 24 aprile esce la nota sentenza della V sezione della Cassazione n.15727, Dell’Utri che – andando ancora una volta in contrario avviso rispetto alla posizione della dottrina – ribadisce la configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa. Non possono essere richiamate per la Corte, al fine di escludere tale configurabilità, le circostanze aggravanti previste, rispettivamente, dall’art.378, comma 2, c.p. (in tema di favoreggiamento personale), e dall’art.7 del decreto legge n.152.91, configurando in particolare quest’ultima una aggravante di tipo soggettivo che si configura per il solo fatto che il delitto base sia stato commesso al fine di agevolare l’attività del sodalizio mafioso, senza che si configuri ad un tempo un contributo causale di tipo materiale che, ove presente, consapevole e volontario, connota invece (ed appunto) il concorso esterno in associazione mafiosa. Sul crinale soggettivo, la Corte precisa poi come sia registrabile una diversità di tipo ontologico tra l’atteggiamento psicologico di chi “fa parte” dell’associazione mafiosa (concorrente necessario) rispetto a chi è concorrente esterno o eventuale, quest’ultimo contribuendo consapevolmente e volontariamente, ab externo, al mantenimento e/o al rafforzamento della compagine criminale senza tuttavia percepire di farne parte integrante, laddove il concorrente necessario “fa parte”, appunto, dell’associazione mafiosa ed è intensamente e strutturalmente compenetrato nella medesima. Mentre dunque la condotta del concorrente necessario o interno è tipica ex art.416 bis c.p., quella del concorrente eventuale o esterno è atipica ex art.110 c.p., ed è tale condotta atipica che viene investita dal pertinente atteggiamento psicologico del soggetto agente. Sempre secondo la Corte, è inoltre astrattamente configurabile un concorso eventuale (o esterno) di tipo morale con riguardo all’associazione mafiosa, ma vanno scongiurati i rischi di una impostazione di tipo meramente soggettivistico laddove, giusta una sorta di conversione concettuale (e, in qualche caso, financo di sovvertimento dell’imputazione fattuale contestata), si finisca con l’autorizzare il surrettizio ed indiretto impiego della causalità psichica “da rafforzamento” del sodalizio criminale, e ciò al fine di dissimulare il difetto di prova della effettiva incidenza del contributo materiale prestato dal soggetto agente per la realizzazione del reato associativo. In sostanza, non si può sopperire all’assenza di prova di un reale contributo causale da parte del presunto extraneus affermando genericamente che la relativa condotta atipica, in qualche modo obiettivamente significativa, è stata comunque in grado di determinare nei membri interni dell’associazione mafiosa la fiduciosa consapevolezza di poter contare sul sicuro apporto del ridetto concorrente esterno, così arguendone comunque un reale effetto di vantaggio per la struttura organizzativa della compagine.
L’11 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.18080, alla cui stregua per l’applicabilità dell’art.416.ter c.p. occorre che lo scambio tra politica e mafia sia caratterizzato dall’effettivo ricorso alla intimidazione o alla prevaricazione, e dunque dal concreto ricorso al c.d. metodo mafioso (seppure non previsto dalla norma esplicitamente), giusta utilizzo appunto di atti intimidatori e di prevaricazione onde far convogliare i voti verso il politico di riferimento.
Il 30 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 20924 onde, nel solco di una giurisprudenza minoritaria di tipo “estensivo”, ai fini della configurabilità del c.d. scambio elettorale politico mafioso ex art.416.ter c.p., l’oggetto materiale dell’erogazione offerta in cambio della promessa di voti può essere rappresentato non solo dal denaro, ma anche da qualsiasi bene traducibile in un valore di scambio immediatamente quantificabile in termini economici, come nel caso di specie, dei posti di lavoro.
Il 21 agosto esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 32820, Battaglia, alla cui stregua per integrare la fattispecie criminosa di cui all’art.416.ter c.p. è sufficiente il mero accordo tra politico ed associazione mafiosa, quale reato di pericolo, senza che occorra accertare né la concreta presenza di atti di intimidazione tali da condizionare la consultazione elettorale, né l’esplicita menzione in ordine all’utilizzo del metodo mafioso nel contesto del pactum sceleris, stante la bastevolezza della qualità “mafiosa” del soggetto associativo con il quale il politico eligendo stipula il pertinente accordo.
2013
Il 24 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.18376 che, in tema di c.d. ne bis in idem, afferma innanzi tutto come la preclusione ex art. 649 cpp ricorra ogni qualvolta il “fatto” oggetto di contestazione sostanziale (comprensivo di tutti gli elementi strutturali del reato: condotta, evento, nesso causale, circostanze di tempo e di luogo), nei due diversi procedimenti penali, promossi contro la stessa persona, presenti caratteri di identità nei relativi elementi costitutivi, sì che, indipendentemente dal nomen iuris attribuito, i contenuti delle due diverse contestazioni sono pienamente sovrapponibili. Non hanno allora rilevanza ed efficacia per la Corte, ai fini della preclusione ex art. 649 cpp, l’identità delle fonti probatorie (rispetto a due distinti fatti penalmente rilevanti), ovvero l’unicità della condotta caratterizzante la fattispecie del concorso formale eterogeneo di reati, con la conseguenza onde le medesime fonti probatorie possono essere utilizzate per dimostrare l’esistenza di un ulteriore illecito che risulti essere stato commesso con la medesima azione con la quale è stato integrato quello già giudicato. Così fissati i principi di riferimento di diritto processuale, e venendo al merito del ricorso, interessa qui come la Corte affronta e risolve la terza questione di diritto posta dal ricorrente, che parte dalla premessa onde l’inammissibilità di un secondo giudizio da un lato impedisce di procedere contro uno stesso imputato per il medesimo fatto, ma, dall’altro non preclude di prendere in esame lo stesso fatto storico e di valutarlo liberamente ai fini della prova di un diverso fatto – reato. La premessa è per la Corte corretta: l’art. 649 cpp attiene alla sola “identità del fatto reato contestato” nei relativi elementi tipici e non si estende alle valutazioni di esso come componente probatoria di altro reato i cui elementi costitutivi siano ontologicamente diversi (nel caso di specie, proprio del concorso esterno in associazione mafiosa). Dalla lettura integrata delle sentenze di merito, prosegue la Corte, emerge che è stata fatta la ricostruzione comparativa fra le due diverse imputazioni ed è stato accertato che i fatti integranti i delitti di rivelazione di segreti di ufficio e di favoreggiamento aggravati non sono tuttavia prove dell’ulteriore e diverso delitto di cui agli artt. 110, 416 bis cp, ma sono i medesimi fatti, solo diversamente qualificati. Alla considerazione, pure messa in rilievo dall’Ufficio di Procura ricorrente, per la quale i delitti di rivelazione di segreti di ufficio e di favoreggiamento aggravati ex art. 7 l. 203/91 (c.d. aggravante mafiosa) sono comunque diversi da quello di concorso esterno in associazione mafiosa (essendo diverso l’interesse giuridico protetto da quest’ultimo rispetto ai primi e diversa la finalizzazione delle condotte), quand’anche realizzati attraverso una medesima condotta, va per la Corte contrapposto il rilievo dell’esistenza di un’incompatibilità strutturale tra il reato associativo e quello di favoreggiamento ex art. 378 c.p. (nella specie aggravato ex art. 7 l. 203/91). L’art. 378 cp pone come presupposto della fattispecie la circostanza che il soggetto agente non sia concorrente nel medesimo reato commesso dalla persona beneficiaria della condotta favoreggiatrice; di qui consegue che esiste, per previsione normativa, un’incompatibilità strutturale tra il reato di favoreggiamento e quello per il quale è intervenuta la suddetta condotta. Nel caso in esame l’imputato ha compiuto atti di rivelazione di segreti di ufficio e di favoreggiamento personale aggravati ex art. 7 l. 203/91, non solo nell’interesse di singoli soggetti (collocati in posizione di rilievo) aderenti ad associazione mafiosa, ma anche “al fine di agevolare l’attività dell’organizzazione mafiosa COSA NOSTRA“. Il tenore dell’addebito, per il quale è intervenuto il giudicato pone in evidenza che il C. ha agito favorendo persone che, in quanto aderenti all’associazione mafiosa COSA NOSTRA, stavano compiendo il delitto di cui all’art. 416 bis c.p.; donde consegue per la Corte che in virtù del limite posto dal testo dell’art. 378 cp, lo stesso imputato non può più essere ritenuto, nel contempo favoreggiatore di coloro che violano l’art. 416 bis cp e concorrente esterno nel medesimo delitto associativo. Sul punto – continua ancora la Corte – la Procura generale ricorrente argomenta (richiamando Cass. sez. Fer. 28.9.2004 n. 38236) che “…il reato di favoreggiamento personale presuppone l’avvenuta consumazione del reato ascritto al soggetto favorito” affermando ancora che “… qualora trattisi di reato associativo (nella specie, di tipo mafioso) occorre che si sia già verificata la sua cessazione, costituita dallo scioglimento del sodalizio, dandosi luogo altrimenti alla configurabilità, non del favoreggiamento, ma della partecipazione o del concorso esterno, a seconda che risulti o meno dimostrato lo stabile inserimento del soggetto nella struttura associativa“. La tesi non può tuttavia per la Corte essere accolta, perché la natura permanente del reato presupposto ex se non esclude che possa essere realizzata una condotta favoreggiatrice (quantomeno per la parte di azione già compiuta dal favorito) di chi quel reato abbia commesso e stia tutt’ora commettendo (viene richiamata Cass. 11.11.2003 n. 6905); indubbiamente è necessario che l’azione del c.d. favoreggiatore non si traduca in un atto di sostegno o di incoraggiamento alla prosecuzione dell’attività delittuosa da parte del favorito, perché in tal caso la condotta integrerebbe non già la violazione dell’art. 378 cp, ma quella di partecipazione al delitto associativo. Pertanto, ritenuta la piena sovrapposizione dei “fatti” contestati nei due procedimenti penali promossi nei confronti del C. e rilevata l’esistenza di un’incompatibilità strutturale tra le due accuse, ne consegue che nel presente caso, l’applicazione fatta dai giudici di merito dell’art. 649 cpp è per la Corte corretta.
2014
Il 17 aprile viene varata la legge n.62, che ridisegna la fattispecie di cui all’art.416.ter c.p., siccome originariamente introdotta nel 1992. Secondo la nuova formulazione della norma, chiunque accetta la promessa da parte di terzi di procurargli voti mediante le modalità di cui comma 3 dell’art.416.bis (e, dunque, esplicitamente con metodo mafioso) in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione da parte sua di denaro o di altra utilità viene penalmente sanzionato, con pena che viene applicata anche a chi promette di procurare voti secondo appunto le modalità di cui all’art.416. bis, comma 3, c.p. (metodo mafioso). Oltre alla maggior proporzione e ragionevolezza della pena applicata (conseguente ad un meno grave disvalore delle condotte incriminate: si passa da una cornice edittale che va da 7 a 12 anni ad un’altra che va da 4 a 10), la nuova formulazione della norma amplia notevolmente l’area della responsabilità penale rispetto alla condotta originaria, facendo poi un esplicito riferimento alla utilizzazione del c.d. metodo mafioso. In sostanza, si assiste ora ad una fattispecie di “voto di scambio” che è ormai una fattispecie c.d. plurisoggettiva propria, essendo punito tanto chi promette di procurare voti avvalendosi del metodo mafioso quanto chi accetta la ridetta promessa di voti; il politico eligendo, in cambio dei voti promessi, non promette o eroga direttamente soltanto denaro, essendo punita anche la promessa o la diretta erogazione, connessa alla promessa di voti, di altre utilità, rilevando per l’appunto (rispetto al passato), anche la sola promessa di denaro o altra utilità, senza che occorra da subito la dazione (peraltro, in passato, del solo denaro). Ormai anche quando il patto politico-mafioso abbia ad oggetto “altre utilità” si rientra nell’art.416.ter, senza dover invocare il combinato disposto degli articoli 110 e 416.bis c.p.; l’art.416.ter c.p. resta nondimeno (anche quando lo scambio con i voti promessi abbia ad oggetto utilità diverse rispetto al denaro, magari anche solo promesse) un reato di mera condotta, che si consuma per effetto della sola stipulazione senza che per il giudice sia necessario accertare gli effetti di eventuale conservazione o rafforzamento strutturale del clan mafioso che promette i voti. Come osserva la dottrina all’indomani del varo della nuova formulazione dell’art.416.ter, il nuovo “scambio elettorale politico mafioso” si colloca in un rapporto di sussidiarietà implicita rispetto al concorso esterno, poiché in entrambi i casi (416.ter da un lato e 110 + 416.bis dall’altro) si assiste ad una medesima aggressione del bene giuridico protetto dal sistema (in termini di tutela dell’ordine pubblico), ma la fattispecie di cui al nuovo art.416.ter palesa una intensità lesiva ed una consistenza in termini di disvalore complessivamente minori. Più nel dettaglio, il concorso esterno in associazione mafiosa resta un reato di evento, onde per la relativa configurazione occorre la prova del rafforzamento del sodalizio criminoso in termini di efficienza causale della condotta di chi lo pone in essere, mentre per la realizzazione della fattispecie di cui all’art.416.ter (patto elettorale politico mafioso), che resta reato di mera condotta, basta la mera stipula dell’accordo, senza che occorra acclarare alcun nesso di casualità in termini di conservazione o rafforzamento strutturale associativo; assistendosi dunque, in questo prisma ermeneutico dottrinale, ad una progressione di offensività avente ad oggetto il medesimo interesse penalmente tutelato, onde laddove lo scambio elettorale politico mafioso abbia prodotto anche, giusta nesso di causalità debitamente accertato, un rafforzamento della compagine criminale, il mero patto politico mafioso (che sarebbe già come tale autonomamente punibile ex art.416.ter c.p.) degrada a mero antefatto non punibile, con operatività del solo combinato disposto degli articoli 110 e 416.bis, e con esclusa applicabilità dell’art.416.ter c.p. (come dimostra anche la meno grave cornice edittale di cui a quest’ultima norma rispetto appunto al c.d. concorso esterno).
Il 30 aprile esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.18132, alla cui stregua – in tema di momento rappresentativo del dolo del concorrente esterno, o extraneus – occorre che questi abbia contezza dell’efficacia causale del proprio contributo, oltre che degli scopi e dei metodi dell’associazione mafiosa, senza tuttavia poter giungere a pretendere la condivisione di tali scopi e metodi, che è invece propria dell’intraneus, o concorrente necessario. Mentre dunque chi “fa parte” del sodalizio criminoso condivide gli scopi e i metodi seguiti dall’associazione mafiosa, questo non è predicabile per chi è concorrente meramente eventuale, quest’ultimo potendo financo provare avversione (oltre che indifferenza) rispetto al programma dell’associazione mafiosa, che tuttavia egli conosce ed in relazione al quale è consapevole di fornire un apporto in termini di conservazione o rafforzamento della pertinente compagine.
Il 28 agosto esce la sentenza della Sezione VI della Cassazione n.36382, Antinori, che si occupa della nuova formulazione dell’art.416.ter, laddove prevede la necessità che lo scambio tra politica e mafia sia necessariamente caratterizzato dall’utilizzo del c.d. metodo mafioso (art.416.bis, comma 3, c.p.). Secondo la Corte la novella ha inciso sul contenuto della promessa formulata dal clan mafioso e, per esso, dal relativo esponente che ha concluso l’accordo con il politico, laddove ormai lo scambio ha ad oggetto modalità di procacciamento dei voti in funzione dell’esigenza che il politico eligendo possa contare sul concreto dispiegamento del potere di intimidazione proprio del sodalizio mafioso, con quest’ultimo che nel patto si impegna a farvi ricorso, ove necessario, per il raggiungimento delle finalità elettorali divisate; onde per il Collegio non è più bastevole la semplice firma del patto tra politico e clan, occorrendo piuttosto l’espresso impegno da parte dell’associazione mafiosa procacciatrice di voti a procurarli secondo modalità mafiose, con conseguente necessità quanto meno di esplicitazione delle modalità mafiose che verranno usate in occasione della condizionanda consultazione elettorale. Occorre dunque sul versante soggettivo la piena rappresentazione e volizione da parte dell’imputato di aver concluso uno scambio politico-mafioso a fini elettorali implicante l’impiego da parte del clan mafioso della propria forza di intimidazione e di conseguente costrizione della volontà degli elettori. Poiché si assiste ad una successione di leggi penali, il corollario che la Corte trae dalle proprie precedenti affermazioni è che vanno assunte penalmente irrilevanti tutte le condotte antecedenti alla nuova formulazione della norma che si siano compendiate nella mera stipula del patto politico-mafioso, senza dunque l’espresso riferimento a modalità prevaricatorie o di intimidazione da porsi in campo, a fini elettorali, dall’esponente dell’associazione mafiosa “stipulante”. Si è infatti al cospetto per il Collegio di una relazione di “specialità per specificazione”: già nella originaria versione dell’art.416.ter c.p. doveva assumersi non far difetto il necessario riferimento al metodo mafioso, e tuttavia la nuova versione della norma ha esplicitato, “normativizzandolo”, l’orientamento interpretativo precedente alla cui stregua già ai sensi della originaria versione della norma era necessario che la promessa riconducibile al clan di procacciare voti riguardasse anche il “come”, ovvero l’utilizzo di modalità ed il perseguimento di obiettivi propri dell’associazione mafiosa. La conclusione è quella della irrilevanza penale di patti precedenti che non rechino alcun riferimento al c.d. metodo mafioso, anche laddove a concluderlo sia stato un esponente del clan in grado di impegnare l’associazione mafiosa con la propria promessa.
Il 23 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.53675, che si occupa della c.d. “messa a disposizione” della compagine criminosa; per la Corte in questi casi non è detto che si sia al cospetto di una partecipazione “interna” al sodalizio mafioso, potendo anche trattarsi di concorso esterno; ciò in quanto essere “a disposizione” può per la Corte voler dire tanto essere “intraneus” quanto “extraneus”, dovendosi in proposito osservare la concreta situazione di fatto di volta in volta affiorante, con conseguente giudizio di fatto affidato al giudice del merito. Di tal che, in caso di acclarata, stabile ed organica compenetrazione con il tessuto organizzativo dell’associazione mafiosa, potrà parlarsi di soggetto “interno” alla compagine e che dunque ne fa parte; quest’ultimo va tuttavia per la Corte considerato non già semplicemente come il titolare di un peculiare status di appartenenza, quanto piuttosto come un soggetto che riveste un ruolo dinamico e funzionale che lo annovera appunto come qualcuno che “fa parte” del sodalizio mafioso, rimanendovi a disposizione per il perseguimento dei comuni fini criminosi. Per la Corte va allora assunto non già concorrente esterno, ma “facente parte” interno dell’associazione chi consapevolmente accetti i voti sprigionati, in una tornata elettorale, dall’associazione mafiosa e, una volta eletto a cariche pubbliche, diventi il punto di riferimento della cosca mettendosi a disposizione, in modo stabile e continuativo, di tutti i relativi affiliati, ai quali rende conto del proprio operato nell’interesse del sodalizio criminale: in queste fattispecie affiora come dimostrata sia l’affectio societatis, sia un efficiente contributo causale al rafforzamento del proposito criminoso e all’accrescimento delle potenzialità operative e della complessiva capacità di intimidazione ed infiltrazione nel tessuto sociale dell’associazione mafiosa considerata. Oltre alla figura del politico, rileva anche quella dell’imprenditore, distinguendosi colui che è vittima dell’associazione mafiosa e che, soggiogato dalla intimidazione che essa esprime, non tenta di venire a patti con essa cedendo piuttosto alle relative imposizioni e così subendo un danno ingiusto, quand’anche persegua una qualche intesa al solo fine di limitare i danni; da colui che è un vero e proprio concorrente esterno della compagine criminale, essendo colluso con essa dacché stabilisce un rapporto sinallagmatico con le cosche di riferimento capace di produrre vantaggi per entrambe le parti dell’accordo, onde la mafia ottiene dall’imprenditore risorse, servizi e utilità, garantendogli in cambio una posizione dominante sul territorio di volta in volta considerato.
2015
Il 14 aprile esce la sentenza della IV sezione della Corte EDU sul caso Contrada, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, occasione nella quale la Corte Europea riscontra da parte dell’Italia la violazione dell’art.7 CEDU per difetto di prevedibilità al momento della commissione dei fatti contestati, da parte dell’imputato, di una propria responsabilità penale appunto per c.d. “concorso esterno” in associazione mafiosa. La Corte rammenta come si tratti – quelle contestate – di condotte afferenti ad un torno temporale che va dal 1979 al 1988; solo nel 1987, nondimeno, la Corte di Cassazione ha timidamente lasciato affacciare per la prima volta la non configurabilità di un concorso esterno in associazione mafiosa con una sentenza che non ha tuttavia subito trovato seguito costante presso la giurisprudenza della Corte medesima, essendo intervenuta la sentenza Demitry – favorevole (all’opposto) all’ammissibilità della pertinente figura e capace di sciogliere i maggiori contrasti interpretativi, oltre che di meglio definire i presupposti applicativi dell’istituto – solo nel 1994. Più nel dettaglio, e limitandosi alle considerazioni della Corte afferenti allo specifico caso di specie, essa assume come la questione che si pone sia quella di stabilire se, all’epoca dei fatti ascritti al ricorrente, la legge applicabile definisse chiaramente il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, dovendosi dunque esaminare se, a partire dal testo delle disposizioni pertinenti e con l’aiuto dell’interpretazione della legge fornita dai tribunali interni, il ricorrente potesse conoscere le conseguenze dei propri atti sul piano penale. Nel caso di specie, il ricorrente è stato condannato a una pena di 10 anni di reclusione per concorso in associazione di tipo mafioso con una sentenza emessa dal tribunale di Palermo il 5 aprile 1996 riguardo a fatti compiuti tra il 1979 e il 1988: nella parte in diritto della sentenza, tale concorso veniva definito «eventuale» o «esterno». La condanna del ricorrente, dapprima annullata da una sentenza della corte d’appello di Palermo, è stata poi confermata da un’altra sezione di quest’ultima e, in via definitiva, da una sentenza della Corte di cassazione. La Corte fa a questo punto notare che non è oggetto di contestazione tra le parti il fatto che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituisca un reato di origine giurisprudenziale. Come ha giustamente ricordato il Tribunale di Palermo nella sua sentenza del 5 aprile 1996 – prosegue la Corte – l’esistenza di questo reato è stata oggetto di approcci giurisprudenziali divergenti; l’analisi della giurisprudenza citata dalle parti dimostra infatti che la Corte di cassazione ha menzionato per la prima volta il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nella sentenza Cillari del gennaio 1987, depositata con il n. 8092 il 14 luglio di quell’anno. Nel caso di specie, la Corte di cassazione ha contestato l’esistenza di un tale reato e ha poi ribadito questa posizione in altre sentenze successive, in particolare nella sentenza Agostani, n. 8864 del 27 giugno 1989 e nelle sentenze Abbate e Clementi, nn. 2342 e 2348 del 27 giugno 1994. Nel frattempo, chiosa ancora la Corte, in altre cause la Corte di cassazione ha riconosciuto l’esistenza del reato di concorso eventuale in associazione di tipo mafioso, come nel caso della sentenza Altivalle, n. 3492, del 13 giugno 1987 e, successivamente, delle sentenze Altomonte, n. 4805 del 23 novembre 1992, Turiano, n. 2902 del 18 giugno 1993 e Di Corrado, del 31 agosto 1993. Tuttavia, è solo nella sentenza Demitry, pronunciata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione il 5 ottobre 1994, che quest’ultima ha fornito per la prima volta una elaborazione della materia controversa, esponendo gli orientamenti che negano e quelli che riconoscono l’esistenza del reato in questione e, nell’intento di porre fine ai conflitti giurisprudenziali in materia, ha finalmente ammesso in maniera esplicita l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno. In questo contesto, prosegue la Corte, l’argomento del ricorrente secondo il quale, all’epoca della perpetrazione dei fatti (1979-1988), la giurisprudenza interna in materia non era in alcun modo contraddittoria, non può essere accolto. La Corte considera poi che il riferimento del Governo italiano alla giurisprudenza in materia di concorso esterno, che si è sviluppata a partire dalla fine degli anni 60’ del secolo scorso, ossia prima dei fatti ascritti al ricorrente, non toglie nulla a questa constatazione, le cause menzionate dal Governo convenuto riguardando certamente lo sviluppo giurisprudenziale della nozione di «concorso esterno», e tuttavia i casi evidenziati non riguardando il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, che è oggetto del ricorso sottoposto ora alla Corte EDU, ma di reati diversi, ossia la cospirazione politica attraverso la costituzione di una associazione e gli atti di terrorismo. Pertanto, non si può per la Corte dedurre dallo sviluppo giurisprudenziale citato l’esistenza nel diritto interno del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, che si differenzia per sua stessa sostanza dai casi menzionati dal Governo, e che, come sopra ricordato è stato oggetto di uno sviluppo giurisprudenziale distinto e posteriore rispetto a questi ultimi. La Corte osserva ancora che, nella sentenza del 25 febbraio 2006, la Corte d’appello di Palermo, pronunciandosi sull’applicabilità della legge penale in materia di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, si è basata sulle sentenze Demitry, del 5 ottobre 1994, Mannino del 27 settembre 1995, Carnevale, 30 ottobre 2002 e nuovamente Mannino, del 17 luglio 2005, tutte posteriori ai fatti ascritti al ricorrente; per di più, la doglianza del ricorrente relativa alla violazione del principio della irretroattività e della prevedibilità della legge penale, sollevata dinanzi a tutti i gradi di giudizio non è stata oggetto di un esame approfondito da parte dei giudici nazionali, essendosi questi ultimi limitati ad analizzare in dettaglio l’esistenza stessa del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno senza tuttavia stabilire se un tale reato potesse essere conosciuto dal ricorrente all’epoca dei fatti a lui ascritti. In queste circostanze, per la Corte EDU il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni 80’ del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry, onde, all’epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest’ultimo, non potendo dunque egli conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti: tutti elementi sufficienti per concludere che vi è stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione.
Il 30 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.34147 che si occupa della differenza tra partecipazione ad associazione mafiosa e concorso esterno facendo perno sul diverso grado di compenetrazione del soggetto agente nella compagine criminale. Non si tratta per la Corte di una distinzione di natura quantitativa quanto piuttosto, qualitativa, palesandosi essa collegata alla organicità del rapporto tra il singolo soggetto considerato e la consorteria di riferimento, onde – sul crinale oggettivo – può essere considerato contributo di partecipazione quello del soggetto cui sia stato attribuito un ruolo nel sodalizio, quand’anche egli non abbia mai avuto occasione di attivarsi, mentre va all’opposto qualificato come contributo concorsuale “esterno” quello di colui sulla cui disponibilità l’associazione mafiosa non può contare, che sia stato più volte contattato per tenere determinate condotte agevolative, concordate con il ridetto extraneus sulla base di autonome determinazioni. Si tratta di un orientamento giurisprudenziale teso, fra l’altro, ad isolare gli elementi che consentono di distinguere tra contiguità illecita con il sodalizio criminale (a titolo di concorso esterno) e collateralismo mafioso penalmente irrilevante, seppure moralmente e socialmente riprovevole, onde esiste una soglia al di là della quale il secondo (collateralismo mafioso) si tramuta nella prima (contiguità mafiosa), solo quest’ultima palesandosi rilevante a titolo appunto di concorso esterno nel delitto di associazione mafiosa. Da questo punto di vista, una particolare pregnanza assume l’indagine afferente all’apporto causale concretamente offerto dal soggetto rispetto alla compagine criminosa, in termini di mantenimento in vita, potenziamento e consolidamento della compagine medesima: se in genere l’elemento causale ha lo scopo di consentire l’imputazione oggettiva di un fatto penalmente tipico al relativo autore, nella particolare fattispecie del reato di associazione mafiosa la causalità finisce con il tipizzare, come ha osservato la più attenta dottrina, il contributo concorsuale punibile, onde se si riscontra un nesso eziologico in termini appunto di mantenimento in vita, o di potenziamento e consolidamento, della compagine criminosa, può discorrersi di concorso esterno, mentre laddove ciò non accada si ha al massimo un mero collateralismo che non lambisce la soglia della responsabilità penale. Per la Corte, sotto altro profilo, va assunta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 110 e 416.bis c.p., in combinato disposto tra loro, con riferimento agli articoli 25, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art.7 della CEDU: anche dopo la decisione sul caso Contrada, la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa non costituisce un istituto di creazione giurisprudenziale, evincendosi esso piuttosto dalla operatività della funzione incriminatrice ascrivibile all’art.110 c.p., capace di estendere la punibilità laddove avvinto a singole norme incriminatrici di parte speciale (tra le quali appunto l’art.416 bis c.p.).
Il 16 ottobre esce la sentenza della I Sezione della Cassazione n.41801 che torna ad occuparsi del c.d. metodo mafioso, siccome previsto nella nuova formulazione dell’art.416.ter c.p. in termini di scambio elettorale politico-mafioso; secondo la Corte si è al cospetto di un reato comune, sia dal lato del candidato che vuole garantirsi l’elezione (che può stipulare l’accordo in proprio, ovvero avvalersi di un collaboratore o di un terzo che ne curi gli interessi politici), sia sul versante del clan mafioso che deve garantire i voti necessari, che potrebbe essere rappresentato in sede di pactum sceleris tanto da chi, “autorevole” esponente, è in grado di impegnare il clan con la pertinente promessa, fattispecie nella quale il metodo mafioso deve assumersi (ritraibile per) implicito, senza necessità di esplicita affermazione che ci si avvarrà del ridetto metodo, onde in questa fattispecie restano penalmente rilevanti anche le condotte anteriori alla novella (quando cioè l’esplicitazione dell’utilizzo del metodo mafioso non era ancora prevista in fattispecie incriminatrice); quanto il socio mafioso che agisca come singolo, ovvero il soggetto del tutto estraneo al sodalizio criminale, casi questi in cui è invece necessario l’esplicito riferimento all’utilizzo del metodo mafioso, con conseguente irrilevanza penale delle condotte anteriori alla novella medesima che non abbiano fatto alcun riferimento al ridetto metodo intimidatorio.
Il 18 novembre esce la sentenza della Corte d’appello di Caltanissetta che respinge l’istanza di revisione proposta dal Contrada.
2016
Il 12 febbraio esce la sentenza del G.I.P. del Tribunale di Catania n.1077 che dispone il non luogo a procedere nei confronti di un indagato per concorso esterno in associazione mafiosa menzionando il precedente della Corte EDU sul caso Contrada, sulla cui scorta va ormai negata penale rilevanza alle fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa: l’Italia è retta da un ordinamento di civil law, e non già di common law, onde proprio il fatto che l’istituto de quo – come ha riconosciuto appunto la Corte EDU – è di creazione giurisprudenziale lo pone in indefettibile frizione con il principio di legalità. Non sono mancate, nondimeno, critiche della dottrina a questo pronunciamento che non tiene conto del fatto che la sentenza europea Contrada non nega in astratto la configurabilità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, ma condanna piuttosto lo Stato italiano per violazione dell’art.7 della Convenzione con riguardo a fattispecie realizzate in un torno di tempo in cui la pertinente responsabilità penale non poteva dirsi prevedibile da parte del soggetto attivo del reato; del resto, se sul crinale della c.d. prevedibilità della sanzione penale, non rileva se la corrispondente fattispecie criminosa sia di origine legale o giurisprudenziale, dall’altro viene rammentato come la giurisprudenza italiana non abbia in realtà “creato” la figura delittuosa, ma la abbia piuttosto ricondotta per via interpretativa ad una precisa previsione legale, ovvero il combinato disposto degli articoli 110 e 416.bis c.p.
Il 17 marzo esce la criticata sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta che respinge l’istanza di revisione proposta dal Contrada a valle del pronunciamento della Corte EDU, assumendolo pienamente in grado di rappresentarsi essere le relative condotte agevolative dei clan mafiosi riconducibili al c.d. concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta di una pronuncia non perfettamente in linea con l’art.46 della CEDU, che impone agli Stati membri di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU, senza poter rimettere in discussione profili già scandagliati dalla medesima Corte EDU.
Il 13 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.18132 onde, ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo, in termini di dolo, in capo al concorrente esterno, è sempre necessario che l’agente, pur in assenza di affectio societatis e dunque della specifica volontà di far parte dell’associazione, sia comunque consapevole dei metodi e dei fini della compagine stessa e, insieme, dell’efficacia causale della propria attività di sostegno per la conservazione o il rafforzamento della pertinente struttura organizzativa, palesandosi peraltro sufficiente che egli abbia previsto ed accettato tale effetto come risultato non già solo possibile, quanto piuttosto certo o altamente probabile della propria condotta. Per la Corte, sotto altro profilo, va ribadita manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 110 e 416.bis c.p., in combinato disposto tra loro, con riferimento agli articoli 25, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art.7 della CEDU: per la Corte, anche dopo la decisione sul caso Contrada, la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa non costituisce un istituto di creazione giurisprudenziale, evincendosi esso piuttosto dalla operatività della funzione incriminatrice ascrivibile all’art.110 c.p., capace di estendere la punibilità laddove avvinto a singole norme incriminatrici di parte speciale (tra le quali appunto l’art.416 bis c.p.).
Il 17 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.43886, che dichiara inammissibile il ricorso per errore materiale o di fatto proposto dal Contrada ex art.625.bis c.p.p., a valle della sentenza della Corte EDU del 2015.
Il 24 ottobre esce l’ordinanza della I sezione della Corte d’appello di Palermo n.466 che, sollecitata ancora dal Contrada, nega che l’incidente di esecuzione possa costituire lo strumento processuale da azionare per porre rimedio nel diritto interno alla violazione, sul piano internazionale, dell’art.7 della CEDU, siccome accertata dalla Corte EDU.
2017
Il 23 giugno viene varata la legge n.103, meglio nota come “riforma Orlando” attraverso la quale vengono – tra le altre cose – inasprite le pene per taluni reati che destano un particolare allarme sociale, tra cui il delitto di scambio elettorale politico-mafioso (art. 416 ter, comma 1, c.p.).
Il 20 settembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.43112 che, scandagliando la pronuncia della Corte d’appello di Palermo n.466 del 2016, va in contrario avviso ed assume non eseguibile e dunque improduttiva di effetti la condanna a suo tempo emessa nei confronti di Contrada. Per la Corte, al quesito relativo alla sussistenza di un obbligo dei giudici italiani di conformarsi, per il caso Contrada, alla decisione della Corte EDU che lo riguarda, occorre fornire risposta positiva. Costituisce dato ermeneutico consolidato (viene richiamata la sentenza della Sez. 1, n. 2800 dell’01/02/2006, dep. 2007, Dorigo) quello dell’efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU, nonostante alle stesse non possa direttamente riconoscersi rango costituzionale (Corte cost., sent. n. 388 del 1999; Corte cost., sent. 10 del 1993). Sul piano applicativo, prosegue la Corte, l’efficacia precettiva delle norme della Convenzione EDU è garantita dall’art. 19 del testo convenzionale che prevede l’istituzione della Corte EDU per «assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte parti contraenti dalla presente Convenzione e dai suoi Protocolli […]», riconoscendo a tale organo sovranazionale una competenza estesa a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della predetta normativa. In questo contesto normativo, prosegue la Corte, si inserisce la previsione dell’art. 46 CEDU, secondo il cui primo paragrafo le «Alte Parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono Parti». La stessa disposizione precisa, nel suo secondo paragrafo, che «la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione». L’obbligo di conformazione alle sentenze della Corte EDU è ulteriormente ribadito dal terzo paragrafo dell’art. 46 CEDU, a tenore del quale se «il Comitato dei Ministri ritiene che il controllo dell’esecuzione di una sentenza definitiva sia ostacolato da una difficoltà di interpretazione di tale sentenza, esso può adire la Corte affinché questa si pronunci su tale questione di interpretazione […]». L’obbligo previsto dall’art. 46 CEDU, dunque, non può per la Corte essere messo in discussione. Il contrario assunto, da cui muove la Corte di appello di Palermo per emettere la declaratoria di inammissibilità censurata dalla difesa di Contrada, non è condivisibile, presupponendo un margine di discrezionalità nell’esecuzione delle decisioni della Corte EDU – che limitatamente allo specifico caso coinvolto dalla pronuncia in esame e a differenza dei casi analoghi – non può essere riconosciuto al giudice nazionale. Basti, in proposito, richiamare – prosegue la Corte – l’orientamento (Sez. 1, n. 2800 dell’01/02/2006, dep. 2007, Dorigo) secondo cui le decisioni della Corte EDU sono immediatamente produttive di diritti e obblighi nei confronti delle parti in causa, con la conseguenza che lo Stato è tenuto a conformarsi a tali pronunzie e a eliminare, fin dove é possibile, le conseguenze pregiudizievoli della violazione riscontrata. Occorre, pertanto, ribadire conclusivamente che la previsione dell’art. 46 CEDU, nelle ipotesi di violazioni delle norme del testo convenzionale, impone al giudice nazionale, limitatamente al caso di cui si controverte, di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU, i cui effetti si estendono sia allo Stato sia alle altre parti coinvolte dalla decisione che tale violazione ha censurato. Sgomberato il campo da ogni possibile equivoco in ordine all’efficacia precettiva delle norme CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, e chiarito quali effetti vincolanti discendano, per l’ordinamento interno, in relazione allo specifico caso esaminato, dalle decisioni con cui lo Stato italiano viene condannato dalla Corte EDU, occorre per il Collegio affrontare l’ulteriore questione, concernente gli strumenti in concreto attivabili per rimuovere le conseguenze della sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo nei confronti di Contrada il 25/02/2006. Osserva in proposito il Collegio che, nel caso di specie, il rimedio esperibile deve essere individuato, analogamente a quanto già affermato nella sentenza Dorigo citata, nell’incidente di esecuzione. Né osta alla praticabilità di tale soluzione la circostanza che la predetta decisione riguardava una violazione di natura processuale; mentre, nell’ipotesi in esame, la violazione ravvisata dalla Corte EDU è di natura sostanziale. Quello che rileva infatti, per la Corte, è che nel caso di violazioni delle norme convenzionali afferenti al diritto penale sostanziale, specificamente riconducibili all’art. 7, viene censurata la piattaforma legale sulla base della quale interviene una sentenza di condanna; piattaforma legale assunta generica, imprecisa ovvero indeterminata nelle relative connotazioni di conoscibilità e prevedibilità. La norma che impone che le decisioni di condanna intervengano sulla base di precetti astrattamente conoscibili e prevedibili – come già affermato dalla Corte EDU nella sentenza emessa il 06/03/2003 nel caso Zaprianov contro Bulgaria – è dunque caratterizzata da una matrice intrinsecamente garantista. Così inquadrata la violazione dell’art. 7 CEDU ravvisata dalla Corte EDU nella vicenda giurisdizionale che ha coinvolto il ricorrente, il Collegio osserva che non può comunque essere eluso l’obbligo di conformarsi a detta decisione, pur tenendo conto delle peculiarità del caso Contrada. E’ perciò compito dell’interprete ricercare nell’ordinamento interno gli strumenti processuali attraverso i quali eseguire, tenuto conto delle emergenze del caso concreto, la sentenza della Corte europea presupposta; e siffatti strumenti non possono che essere individuati – per la Corte – nell’ambito dei poteri di cui dispone il giudice dell’esecuzione. Si tratta di una soluzione che si impone anche alla luce della posizione giurisprudenziale da ultimo recepita dalle Sezioni unite (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto), che, intervenendo in relazione alle conseguenze sistematiche prodotte dalla sentenza della Corte costituzionale 11 febbraio 2014, n. 32, tra le quali il problema del bilanciamento tra il valore dell’intangibilità del giudicato e l’esecuzione di una decisione penale rivelatasi successivamente illegittima, hanno affermato il potere-dovere del giudice dell’esecuzione di incidere sul giudicato. Codesto potere-dovere del resto – prosegue la Corte – è connaturato alla funzione giurisdizionale propria del giudice dell’esecuzione, atteso che – come affermato in un precedente arresto chiarificatore delle stesse Sezioni unite (Sez. U, n. 4687 del 20/12/2005, dep. 2006, Catanzaro) – una volta «dimostrato che la legge processuale demanda al giudice una determinata funzione, allo stesso giudice è conferita la titolarità di tutti i poteri necessari all’esercizio di quella medesima attribuzione […]». Tanto si impone anche in ossequio a esigenze di razionalità del sistema processuale. Non è, pertanto, possibile ritenere non attivabile un percorso di tutela giurisdizionale di Contrada, in relazione alla decisione della Corte EDU presupposta, invocando l’avvenuto esaurimento del rapporto giurisdizionale, conseguente al fatto che il ricorrente ha interamente scontato la pena principale di 10 anni di reclusione irrogatagli dal Tribunale di Palermo con sentenza emessa il 05/04/1996, confermata dalla pronuncia della Corte di appello di Palermo del 25/02/2006. Questa soluzione, invero, non tiene conto degli effetti penali ulteriori rispetto a quelli connessi all’esecuzione della pena principale, dei quali, invece, occorre dichiarare l’improduttività. Come poi evidenziato dalle Sezioni unite (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto), l’ampiezza degli ambiti di intervento della giurisdizione esecutiva – che legittima nel caso di specie l’attivazione dei poteri di cui agli artt. 666 e 670 cod. proc. pen. per conformarsi alla decisione della Corte EDU – è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 210 del 2013), secondo la quale il giudice dell’esecuzione «non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso […]». Opzione, questa, già recepita in un precedente intervento chiarificatore delle Sezioni unite (Sez. U, n. 34472 del 24/10/2013, Ercolano), nel quale si era affermato che al giudice dell’esecuzione deve essere riconosciuto un ampio potere di intervento sul giudicato, ai sensi degli artt. 666 e 670 cod. proc. pen., atteso che lo strumento previsto «dall’art. 670 cod. proc. pen., pur sorto per comporre i rapporti con l’impugnazione tardiva e la restituzione nel termine, implica necessariamente, al di là del dato letterale, un ampliamento dell’ambito applicativo dell’istituto, che è un mezzo per far valere tutte le questioni relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del titolo, ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo». E ancora: «il genus delle doglianze da cui può essere investito il giudice degli incidenti ex art. 666 cod. proc. pen., in sostanza, è molto ampio ed investe tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, considerata l’esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo». In questa cornice sistematica, chiosa ancora la Corte, deve anzitutto escludersi la possibilità di attivare il procedimento di revisione previsto dall’art. 630 cod. proc. pen., così come prefigurato dalla Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 113 del 2011), per rimuovere gli effetti della sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006. Deve, infatti, rilevarsi che tale percorso giurisdizionale, originariamente attivato da Contrada davanti alla Corte di appello di Caltanissetta, non è più concretamente esperibile, in conseguenza della sentenza emessa il 20/01/2017 dalla Sezione quinta penale, che ha concluso il procedimento di revisione in questione con la declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione proposta, per effetto della rinuncia al ricorso, depositata il 28/12/2016. Va ad ogni buon conto evidenziato – prosegue la Corte – che, con la decisione n. 113 del 2011, la Corte costituzionale si riferisce allo «impegno degli Stati contraenti a permettere la riapertura dei processi, su richiesta dell’interessato, quante volte essa appaia necessaria ai fini della restitutio in integrum in favore del medesimo, nel caso di violazione delle garanzie riconosciute dalla Convenzione, particolarmente in tema di equo processo». E – a ragione della declaratoria d’illegittimità costituzionale «dell’art. 630 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo» – osserva come la revisione, comportando, quale mezzo straordinario di impugnazione a carattere generale, la riapertura del processo, che implica una ripresa delle attività processuali in sede di cognizione, estesa anche all’assunzione delle prove, costituisce l’istituto che presenta profili di maggiore assonanza con quello la cui introduzione appare necessaria al fine di garantire la conformità dell’ordinamento nazionale al parametro evocato. Tuttavia, prosegue ancora la Corte, fermo l’obbligo di conformazione, è la stessa Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 113, cit.) che ha rimarcato come la necessità della riapertura vada apprezzata sia in rapporto alla natura oggettiva della violazione accertata in sede convenzionale, sia tenendo conto delle indicazioni contenute nella sentenza della cui esecuzione si tratta, oltre che nella sentenza “interpretativa” eventualmente richiesta alla Corte di Strasburgo dal Comitato dei ministri, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 3, della CEDU. Nel caso in esame rileva dunque che non si verte in alcuna ipotesi di violazione delle regole del giusto processo e che la decisione della Corte di Strasburgo, per la relativa natura e per le ragioni su cui si fonda, non implica né appare superabile da alcuna rinnovazione di attività processuale o probatoria; che il nostro ordinamento non conosce la creazione di matrice giurisprudenziale di fattispecie incriminatrici e che il principio di irretroattività delle norme penali è principio fondante del nostro sistema penale, assistito da garanzia costituzionale; che, secondo la giurisprudenza interna, le sentenze di merito e quelle di legittimità che hanno portato alla condanna di Contrada, la questione di diritto diversamente intesa dalla Corte EDU atteneva, invece, alla configurabilità dell’ipotesi del concorso di persone (art. 110 cod. pen.) in relazione alla fattispecie di cui all’art. 416-bis cod. pen., anziché di mero favoreggiamento (principio di diritto affermato nella sentenza di annullamento con rinvio, Sez. 2, n. 15756 del 12/12/2002, dep. 2003, Contrada, e ribadito nella seconda sentenza di legittimità, Sez. 6, n. 542 del 10/05/2006, dep. 2007, Contrada); che, per conseguenza, nessuna “rinnovazione” di attività processuale, probatoria o del giudizio potrebbe o avrebbe potuto condurre al superamento di quello che, stando alla Corte EDU, sarebbe un mero errore di diritto. Nemmeno, per altro verso, è esperibile per la Corte il rimedio previsto dall’art. 673 cod. proc. pen., finalizzato all’eliminazione, mediante revoca, della sentenza di condanna nei casi in cui è venuto meno l’illecito penale per l’intervento del legislatore o della Corte costituzionale; condizioni, queste, pacificamente insussistenti nel caso in esame, che rendono infondate le pretese del ricorrente incentrate sulle potenzialità applicative dell’istituto revocatorio. Le esposte considerazioni, relative alla possibilità di intervenire sul giudicato ai sensi dell’art. 670 cod. proc. pen., al contempo, impongono di ritenere quantomeno irrilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 25 e 117 Cost., proposta da Contrada in via subordinata, nella parte in cui tale disposizione non prevede l’ipotesi della revoca della sentenza di condanna per le decisioni emesse dalla Corte EDU. Né, prosegue ancora la Corte, sussistono contrasti interpretativi, in ordine all’applicazione dell’art. 673 cod. proc. pen. alle ipotesi assimilabili a quelle in esame, idonei a legittimare la rimessione del procedimento alle Sezioni unite. Nel caso di specie, non vi è in effetti alcuno spazio per revocare il giudicato di condanna presupposto, la cui eliminazione non è richiesta, né direttamente né indirettamente, dalla Corte EDU, com’è desumibile – oltre che dall’assenza di riferimenti testuali a una tale possibilità – dalle statuizioni relative al rigetto della domanda di equa soddisfazione, rilevante ai sensi dell’art. 41 CEDU, contenute nel punto 4 del dispositivo della pertintene decisione. La decisione della Corte EDU non richiede né lascia spazio per interventi residui del giudice italiano, differenti da quelli adottabili in sede appunto esecutiva, ai sensi degli artt. 666 e 670 cod. proc. pen., occupandosi esaustivamente di tutti i profili censori sollevati da Contrada nel giudizio svoltosi in sede sovranazionale e riguardanti, oltre alla violazione dell’art. 7 CEDU, la domanda di equa soddisfazione – di cui si è detto – e i danni patiti per effetto del processo conclusosi con la sentenza irrevocabile presupposta. Occorre pertanto ribadire – conclude la Corte – che la sentenza pronunziata dalla Corte EDU nel caso Contrada contro Italia non impone interventi in executivis differenti da quelli legittimati dalle disposizioni degli artt. 666 e 670 cod. proc. pen.; non sussistendo, del resto, alcun limite letterale o sistematico all’applicazione al caso in esame di detti poteri, gli artt. 666 e 670 cod. proc. pen. non possono che essere interpretati nel senso di consentire l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti da una condanna emessa dal giudice italiano in violazione di una norma della Convenzione EDU, dovendosi ribadire che garante della legalità della sentenza in fase esecutiva è il giudice dell’esecuzione, cui compete, se necessario, di ricondurre la decisione censurata ai canoni della legittimità (Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto). Non resta allora che riconoscere che, a seguito della decisione emessa dalla Corte EDU il 14/04/2015, che ha dichiarato che la sentenza di condanna emessa nei confronti di Bruno Contrada dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006, divenuta irrevocabile il 10/05/2007, violerebbe l’art. 7 CEDU, tale pronuncia non è suscettibile di ulteriore esecuzione e non è produttiva di ulteriori effetti penali, onde l’ordinanza (in senso contrario) emessa dalla Corte di appello di Palermo l’11/10/2016 deve essere annullata senza rinvio e la sentenza emessa nei confronti di Bruno Contrada dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006, divenuta irrevocabile il 10/05/2007, deve essere dichiarata ineseguibile e improduttiva di effetti penali.
2018
Il 4 gennaio esce la sentenza delle Sezioni Unite n. 111 sul concetto di “appartenenza” ad un’associazione mafiosa ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione. Il concetto di appartenenza, evocato dalla norma, è più ampio di quello di partecipazione, con il conseguente rilievo attribuito in tema di misure di prevenzione a condotte che non integrano neppure in ipotesi di accusa la presenza del vincolo stabile tra il proposto e la compagine, ma rivelano una attività di collaborazione, anche non continuativa. La differente struttura risulta essenziale nel senso di impedire, anche sul piano logico ricostruttivo, la piena equiparazione tra situazioni radicalmente diverse.
Ne consegue che, nell’ipotesi in cui non siano apprezzati elementi indicativi di tale partecipazione, individuabile nella collaborazione strutturale con il gruppo illecito, nella consapevolezza della funzione del proprio apporto stabile e riconoscibile dai consociati, la collaborazione occasionalmente prestata, pur nel previo riconoscimento della funzione della stessa ai fini del raggiungimento degli scopi propri del gruppo, per la mancanza di stabilità connessa alla natura di tale cooperazione, non può legittimare l’applicazione di presunzioni semplici, la cui valenza è radicata nelle caratteristiche del patto sociale, la cui ideale sottoscrizione, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, costituisce il substrato giustificativo che l’apporto occasionale non possiede per definizione. In tal caso l’accertamento di attualità dovrà logicamente essere ancorato a valutazioni specifiche sulla ripetitività dell’apporto, sulla permanenza di determinate condizioni di vita ed interessi in comune.
Conclude quindi la Corte affermando che nel procedimento applicativo delle misure di prevenzione personali agli indiziati di “appartenere” ad una associazione di tipo mafioso, è necessario accertare il requisito della “attualità” della pericolosità del proposto.
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Il 9 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 9124 che, in tema di custodia cautelare in carcere disposta per il reato previsto dall’art. 416 bis c.p., afferma che ai fini del superamento della presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p., non assume rilevanza la distinzione tra mafie “storiche” e formazioni di nuova costituzione, in quanto in entrambi i casi la presunzione è superata a fronte della prova dell’irreversibile allontanamento dell’indagato dal sodalizio criminale, a prescindere dalla perdurante stabilità dell’associazione.
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Il 18 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n. 47504 onde, ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione all’associazione di tipo mafioso, l’affiliazione rituale può non essere sufficiente laddove alla stessa non si correlino ulteriori concreti indicatori fattuali rivelatori dello stabile inserimento del soggetto nel sodalizio con un ruolo attivo.
2019
Il 24 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 23110 onde la esclusione della rilevanza penale delle singole fattispecie contestate (ontologicamente tuttavia ben dettagliate) non influisce sulla dimostrazione del concorso esterno nella associazione mafiosa, in quanto la negazione del quadro indiziario sui reati fine non fa venir meno la configurabilità del reato.
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Il 21 maggio viene emanata la legge n. 43 recante modifiche dell’art. 416-ter del codice penale in materia di voto di scambio politico mafioso. L’articolo in questione viene completamente riscritto e, al comma 1, punisce “chiunque accetta, direttamente o a mezzo di intermediari, la promessa di procurare voti da parte di soggetti appartenenti alle associazioni di cui all’articolo 416 bis o mediante le modalità di cui al terzo comma dell’articolo 416 bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di qualunque altra utilità o in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa”. La stessa pena viene poi comminata, al comma 2, a chi “promette, direttamente o a mezzo di intermediari, di procurare voti nei casi di cui al primo comma”. Al comma 3 è prevista un’aggravante nel caso in cui “colui che ha accettato la promessa di voti, a seguito dell’accordo di cui al primo comma, è risultato eletto nella relativa consultazione elettorale”. Viene infine prevista, come pena accessoria, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Immediatamente la dottrina ha rilevato come tale intervento novellativo, il terzo in appena un lustro, pur avendo emendato alcune evidenti imprecisioni contenute nelle originarie versioni dei disegni di legge presentati in Parlamento, si riveli tutt’altro che soddisfacente.
Per un verso, la maggior parte delle novità introdotte risulta meramente simbolica, nulla apportando in termini di maggiore estensione delle condotte punibili come invece immaginato dal legislatore; per altro verso, le modifiche relative alla condotta incriminata ed al piano sanzionatorio appaiono irragionevoli e difficilmente compatibili con i principi, rispettivamente, di determinatezza, offensività ed extrema ratio da un lato e di proporzionalità e rieducazione della pena dall’altro. Ed invero la scelta di incriminare anche la mera disponibilità del promissario a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione, così come la previsione per le parti del patto illecito delle stesse pene previste per la partecipazione mafiosa, nonché di un’aggravante della ‘elezione’ con aumento fisso della metà della pena sembrano entrare in frizione con i principî costituzionali prima richiamati.
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Il 3 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 24658 onde il giudizio sulla attuale pericolosità sociale è passaggio necessario anche ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione personali nei confronti degli “appartenenti ad associazioni di tipo mafioso”. È possibile, tuttavia, là dove ricorra la figura prevista dall’art. 4, comma 1 lett. a), d.lgs. n.159 del 2001, valorizzare, a certe condizioni, anche la presunzione semplice relativa alla stabilità del vincolo associativo, purché la sua validità sia verificata alla luce degli specifici elementi di fatto desumibili dal caso concreto e la stessa non sia posta quale unico fondamento dell’accertamento di attualità della pericolosità. Ciò implica la necessità di una puntuale motivazione in punto di attualità della pericolosità sociale, quanto più gli elementi rivelatori dell’inserimento nel sodalizio siano lontani nel tempo rispetto al momento del giudizio.
In questa logica occorre in primo luogo un’appartenenza che si traduca in una forma di partecipazione, intesa come stabile compenetrazione nella struttura associativa, compenetrazione in discussione già al cospetto delle forme di cd. concorso esterno. Interventi rilevanti erano stati già quelli che, in diverse occasioni, aveva avuto modo di esprimere la Corte costituzionale. Occorre, dunque, una ripetitività del contributo con permanenza di determinate condizioni di vita e di interessi in comune.
Né, a fronte della condotta di partecipazione, il richiamo a forme di presunzione semplice può costituire l’unico dato fondante l’accertamento dell’attualità della pericolosità, dovendosi selezionare elementi di fatto che ne convalidino la sussistenza e, soprattutto, fondino la valenza strutturale del apporto tra singolo e gruppo.
In questa logica anche il decorso di un rilevante arco temporale, in difetto di ogni elemento di segno contrario o il mutamento delle condizioni di vita del singolo, possono risultare elementi o indicatori che rendono incompatibile una conclusione di persistenza del vincolo stesso, da cui inferire l’attualità del profilo di pericolosità personale.
Ciò per evitare automatismi applicativi essendo le stesse misure caratterizzate da evidenti profili di afflttività e dovendo esse essere conformi a regole di tassatività tipizzazione irrinunciabili.
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Il 13 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n. 26230 che, sull’aggravante della finalità agevolatrice dell’associazione mafiosa, si allinea con l’orientamento maggioritario secondo cui la stessa, in quanto connotata dal profilo del dolo specifico, richiede che il soggetto abbia agito con lo scopo di agevolare l’attività dell’associazione o, comunque, abbia fatto propria tale finalità; occorre, cioè, che questo fine costituisca l’obiettivo diretto della condotta, non rilevando possibili vantaggi indiretti, né il semplice scopo di favorire un esponente di vertice della cosca, indipendentemente da ogni verifica in merito all’effettiva ed immediata coincidenza degli interessi di un esponente o del capomafia con quelli dell’organizzazione.
Si tratta, invero, di una lettura più aderente al dato normativo, oltre che coerente, sotto il profilo assiologico, al consistente aumento di pena che la norma prevede ed alla conseguente necessità che esso sia giustificato da un significativo incremento qualitativo dell’offesa criminale.
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Il 28 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 43824 che, in tema di riconoscimento dell’attenuante prevista dall’art. 8 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, rileva come essa non sia soggetta al giudizio di bilanciamento fra le circostanze e che qualora ricorrano altre circostanze attenuanti in concorso con circostanze aggravanti, onde la pena deve determinarsi, dapprima, effettuando il giudizio di comparazione fra tali ultime circostanze, per poi applicare sul risultato ottenuto la riduzione derivante dall’attenuante della «dissociazione attuosa».
Ricorda inoltre la Corte che la misura della diminuzione di pena, rinvenendo il proprio presupposto oggettivo in un comportamento attivo dell’imputato nel prestare un concreto e significativo contributo alle indagini, determinante per la ricostruzione dei fatti e la cattura dei correi, non può essere ridimensionata in ragione di valutazioni inerenti alla gravità del reato o alla capacità a delinquere dell’imputato né alle ragioni che lo hanno determinato alla collaborazione.
2020
Il 25 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 7452 che si sofferma sul concetto di “medesimo disegno criminoso”. È stato chiarito che si tratta della rappresentazione, in capo al soggetto agente, della futura commissione dei reati, e dunque di elemento, che attiene alla sfera psicologica del soggetto, risalente a un momento precedente la commissione del primo fra i reati della serie considerata.
La ratio propria dell’istituto del reato continuato risiede nella considerazione che l’esistenza di un unitario momento deliberativo di più reati giustifica un trattamento sanzionatorio più favorevole e discrezionalmente determinato, non secondo i limiti edittali individuati da ciascuna fattispecie incriminatrice, bensì nel rispetto delle regole di cui all’art. 81 cod. pen..
In ordine al contenuto della rappresentazione delle future condotte criminose, va osservato che, da una parte, non può riguardare una scelta di vita, che implichi la reiterazione di determinate condotte criminose, né una generale tendenza a porre in essere determinati reati: la dedizione al delitto, il ricorso abituale ai proventi dell’attività criminosa e la soggettiva inclinazione a commettere gravi delitti dolosi sono connotazioni proprie del profilo soggettivo del reo che determinano, ai sensi degli artt. 102-108 cod. pen., un più grave trattamento sanzionatorio, e quindi risultano incompatibili con l’istituto della continuazione fra reati.
Dall’altra, la nozione di continuazione non può ridursi all’ipotesi che tutti i singoli reati siano stati dettagliatamente progettati e previsti, in relazione al loro graduale svolgimento, nelle occasioni, nei tempi, nelle modalità delle condotte, giacché siffatta definizione di dettaglio, oltre a non apparire conforme al dettato normativo – che parla soltanto di “disegno” – e a non risultare necessaria per l’attenuazione del trattamento sanzionatorio, non considera la variabilità delle situazioni di fatto e la loro prevedibilità normalmente solo in via di larga approssimazione.
Quello che occorre, invece, e che è sufficiente, è che si abbia una programmazione e deliberazione iniziale di una pluralità di condotte delineate (“disegnate”) attorno ad uno specifico elemento oggettivo idoneo a caratterizzare in termini di concretezza la deliberazione, così da poterle distinguere rispetto ad una scelta criminosa solo generica.
È significativo che anche la Corte costituzionale (sentenza n. 183 del 2013) abbia precisato che il giudizio sulla continuazione fra reati richiede sia accertato che il soggetto agente, prima di dare inizio alla serie criminosa, abbia avuto una rappresentazione, almeno sommaria, dei reati che si accingeva a commettere e che detti reati siano stati ispirati ad una finalità unitaria.
Nello stesso senso, la giurisprudenza è costante nel ricondurre la nozione in esame ad una rappresentazione, almeno sommaria o nelle linee essenziali, del fatto-reato oggetto di deliberazione, e non semplicemente di una astratta tipologia di reati.
L’accertamento dell’esistenza di un momento ideativo e deliberativo comune a più reati va compiuto, come ordinariamente avviene per l’accertamento degli stati soggettivi, secondo le regole della prova indiziaria.
Sono stati individuati una serie di elementi (il contesto di tempo e di luogo, le modalità esecutive, la comunanza di correi, il bene giuridico) rilevanti nell’accertamento in parola, da considerare con apprezzamento analitico, quanto alla specifica rilevanza di ciascuno, e complessivo, che li valuti in maniera unitaria.
Con particolare riguardo ai reati commessi da soggetto partecipe a sodalizio criminoso, si è posta la questione se la previsione del programma delittuoso del sodalizio, elemento costitutivo del reato associativo, significhi l’esistenza di un disegno criminoso comune alla partecipazione al sodalizio e alla commissione dei reati rientranti nel programma della associazione.
Di converso, ci si è chiesti se il fatto che un reato rientri nella tipologia dei reati fine di un sodalizio sia significativo di una originaria deliberazione criminosa unitaria e comune al reato associativo e ai singoli reati fine.
Osserva al Corte che la fattispecie associativa richiede l’elemento del fine di commettere più delitti, ed è stato precisato che si deve trattare di un programma criminoso indeterminato, mentre l’accordo per compiere una serie determinata di specifici delitti integra condotta di concorso morale in ciascun reato.
Ed ancora, è stato precisato che la condivisione del programma criminoso del sodalizio, proprio perché indeterminato, non determina, di per sé, responsabilità concorsuale nei reati commessi per attuare l’originario programma.
La continuazione tra reato associativo e uno o più reati-fine va quindi riconosciuta solo ove si accerti che nel momento della condivisione, da parte del partecipe, del generale programma criminoso del sodalizio – che è il momento della consumazione del delitto associativo – fosse precisato, e noto al partecipe, non solo un indeterminato programma delittuoso, ma anche la futura commissione di reati che risultino specificati, se non nel tempo e nelle modalità esecutive, comunque in relazione ad uno specifico dato fattuale idoneo a caratterizzare l’oggettività del fatto.
Dunque, chiosa la Corte, il giudizio sulla continuazione va rapportato al momento deliberativo del primo reato, che, nel caso di reato associativo, coincide con il momento in cui il soggetto inizia a partecipare al sodalizio, mentre la successiva condotta partecipativa, che si protrae nel tempo trattandosi di fattispecie di reato permanente, riguarda ancora la consumazione del reato, ma non il momento deliberativo.
L’oggetto del giudizio è la sussistenza di un disegno criminoso comune a più reati, e dunque una previsione di futuri reati indicati in termini tali da consentirne la individuazione specifica.
Si deve quindi escludere che la mera qualità di reato fine dell’associazione ovvero la mera strumentalità rispetto alla operatività del sodalizio siano elementi di per sé idonei a giustificare l’accertamento di un disegno criminoso comune al reato associativo, da una parte, e all’ulteriore e successivo reato, che sia fine o strumentale al sodalizio, dall’altra.
Le menzionate caratteristiche, infatti, consentono solo di ritenere che al momento dell’adesione al sodalizio l’associato abbia previsto la successiva commissione di un certo tipo di reati, perché rientranti nel programma associativo o perché evidentemente connessi al raggiungimento dei fini del gruppo criminale, ma non anche la futura commissione di reati specificamente individuati.
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Il 3 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.8544, onde I principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla (non) prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una sentenza pilota e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata.
Le Sezioni Unite premettono di esser chiamate a risolvere la seguente questione di diritto: «se la sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia una portata generale, estensibile nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna e, conseguentemente, qualora sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile».
Sul tema principale posto dal procedimento si registra effettivamente un contrasto di opinioni nella giurisprudenza di legittimità.
Secondo una prima linea interpretativa, sostenuta da Sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016, Dell’Utri, (cui si è uniformata anche Sez. 1, n. 53610 del 10/04/2017, Gorgone), chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del diniego di revoca della sentenza di condanna definitiva, inflitta al ricorrente per il delitto di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, commesso prima del 1994, è inammissibile il ricorso all’incidente di esecuzione in quanto, nonostante la contestazione all’imputato di condotta illecita in termini analoghi per titolo di reato e per estensione temporale rispetto a quella ascritta al Contrada, l’accertato deficit di prevedibilità dell’illecito e della pena conseguibile dalla relativa commissione, riscontrato per quest’ultimo condannato, richiede la valutazione della concreta vicenda fattuale e processuale del soggetto che invochi l’applicazione degli stessi principi, che nel caso specifico differiva da quella del Contrada.
La pronuncia in questione non ha natura di sentenza “pilota” e non ha rilevato una carenza strutturale dell’ordinamento italiano da superare mediante una riforma di valenza generale, -uniche situazioni nelle quali possono invocarsi gli effetti favorevoli di una sentenza della Corte EDU richiedendone l’applicabilità a casi non direttamente esaminati, ma analoghi-, ma ha riscontrato il difetto di prevedibilità della qualificazione giuridica del comportamento di agevolazione di un’associazione mafiosa in termini di concorso esterno, piuttosto che di partecipazione all’associazione stessa o di favoreggiamento.
Per poter beneficiare degli effetti di siffatta pronuncia, in cui il limitato deficit strutturale rilevato dal giudice europeo è dipendente da una norma di legge sostanziale, è comunque necessario attivare l’incidente di costituzionalità della disposizione per violazione dell’art. 117 Cost. e, solo qualora intervenga la declaratoria di illegittimità costituzionale, la rimozione o la modifica del giudicato di condanna potranno essere conseguiti mediante proposizione della domanda di revisione europea, – strumento da esperire in via privilegiata ed in termini di priorità logica, secondo le indicazioni della Corte costituzionale nella sentenza n. 113 del 2011- se la rimozione della lesione debba avvenire mediante la riapertura del processo di cognizione, già a suo tempo definito, oppure, in alternativa, dell’incidente di esecuzione in presenza di altre disposizioni di legge che prestabiliscano e consentano di conseguire l’effetto sperato, come nel caso dell’abolitio criminis o dell’adattamento del solo trattamento sanzionatorio, fermo restando il giudizio di responsabilità.
In termini adesivi si pone anche la successiva sentenza sez. 5, n. 27308 del 22/01/2019, Dell’Utri, che, nel respingere la domanda di revisione europea proposta dal predetto ricorrente, ha interpretato il contenuto della decisione Contrada come privo di valenza generalizzante e riferibile tout court ad ogni caso di condanna per concorso esterno in associazione di stampo mafioso, pronunciata per fatti verificatisi prima dell’ottobre 1994 e ne ha negato la collocazione nell’ambito di una linea interpretativa consolidata.
Secondo un diverso orientamento invece, prosegue la Corte, l’obbligo di conformazione nascente dall’art. 46 CEDU riguarda soltanto il caso specifico affrontato dalla Corte EDU, i cui principi, privi di portata generale, non sono esportabili in riferimento a situazioni processuali analoghe. Nel caso specifico della sentenza Contrada, in senso ostativo all’estensione si pone la considerazione che nell’ordinamento interno, governato dal principio di legalità formale e di tassatività, non può trovare ingresso una fattispecie penale di creazione giurisprudenziale, tale comunque non potendo definirsi il concorso esterno in associazione di stampo mafioso, che è frutto della combinazione della norma speciale incriminatrice e della clausola più generale di cui all’art. 110 cod. pen.
In continuità con tale posizione interpretativa si colloca anche la sentenza sez. 1, n. 13856 del n. 13856 del 27/2/2019, con la quale è stato rigettato il ricorso proposto dall’odierno ricorrente S. G. avverso il provvedimento del giudice dell’esecuzione che aveva respinto la sua richiesta di revoca del giudicato di condanna sul presupposto della negazione della portata generale della sentenza della Corte EDU nel caso Contrada e della relativa esportabilità per la decisione di casi analoghi.
Con l’ordinanza di rimessione – chiosa a questo punto il Collegio – la Sesta Sezione Penale si è confrontata in termini dissenzienti con entrambe le impostazioni citate: alla ricostruzione offerta dalla sentenza Esti e da quelle successive ad essa conformi ha addebitato il fraintendimento della nozione di diritto, in relazione alla quale si è ravvisata da parte della sentenza Corte EDU nel caso Contrada la violazione del principio di legalità, perché, in continuità con quanto già riconosciuto dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 18288 del 12/01/2010, Beschi, nella giurisprudenza della Corte europea tale principio viene riconosciuto e garantito in relazione, sia al diritto di produzione legislativa, sia a quello creato dall’interpretazione giurisprudenziale nell’ambito dell’intervento ricognitivo del contenuto e dell’esatta portata applicativa della disposizione di legge in riferimento ad un caso concreto.
Per la Sezione rimettente, l’essenza della decisione europea sta piuttosto nell’aver posto l’accento, non sulla natura della fonte di produzione, quanto sulle inalienabili qualità di accessibilità e prevedibilità della legge, che, se insussistenti, rendono la pronuncia di condanna in contrasto con la norma convenzionale dell’art. 7.
Anche alla soluzione ermeneutica espressa dalla sentenza Dell’Utri del 2016 l’ordinanza di rimessione ha mosso articolate obiezioni; pur riconoscendo che tale pronuncia ha correttamente individuato nella carenza di prevedibilità della punizione penale la ratio decidendi della determinazione assunta dalla Corte europea, la stessa avrebbe errato nel riferire la prevedibilità dell’incriminazione al piano soggettivo ed individuale dell’imputato, ossia alla relativa condizione ed esperienza personale ed alla linea di condotta difensiva assunta nel processo di cognizione, e non al profilo oggettivo della struttura della disposizione quanto a dato formale ed all’interpretazione giurisprudenziale affermatasi al momento del compimento della condotta.
Al contrario, per la Sesta Sezione Penale, facendo leva sulla nozione di prevedibilità in senso oggettivo e sulla relativa accertata carenza per la ravvisata incertezza circa la riconducibilità dei comportamenti contestati alla fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, oppure ad altre ipotesi criminose di minore gravità quali il favoreggiamento personale, in alternativa alla loro liceità, la Corte europea ha riscontrato un deficit sistemico nell’ordinamento giuridico interno in termini di non prevedibilità della norma incriminatrice e della relativa pena, sicché la pertinente pronuncia riveste portata generale, tale da poter essere estesa anche ad altri condannati per la medesima fattispecie, realizzata prima del febbraio 1994, risultando soltanto di incerta individuazione lo strumento processuale per conseguire tale risultato.
La soluzione del quesito giuridico sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite postula a questo punto, per il Collegio, la preventiva ricognizione dei contenuti decisori della sentenza del 14/04/2015, emessa nel caso Contrada contro Italia dalla Quarta Sezione della Corte EDU, cui era stata devoluta la questione della compatibilità con il diritto convenzionale della condanna, pronunciata dalla Corte di appello di Palermo in data 25/02/2006 per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, commesso da Contrada tra il 1979 ed il 1988, sul presupposto che in riferimento a tale arco temporale in giurisprudenza non era stato ancora univocamente risolto il quesito circa la configurabilità della fattispecie ravvisata e di conseguenza non era possibile prevedere il carattere illecito della condotta e la connessa sanzione, che sarebbero stati oggetto di interventi risolutivi da parte delle Sezioni Unite della Corte di cassazione soltanto in epoca successiva con la pronuncia n. 16 del 5/10/1994, Demitry.
La Corte EDU ha accolto la domanda e le ragioni di doglianza di Contrada, cui ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno morale sofferto a causa della violazione dell’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali, ritenendo che: «l’evoluzione giurisprudenziale in questa materia, posteriore ai fatti ascritti al ricorrente, dimostra che all’epoca in cui tali fatti sarebbero avvenuti il ricorrente non poteva ragionevolmente prevedere le conseguenze, in termini di sanzione, delle sue presunte azioni, in quanto l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso all’epoca dei fatti era oggetto di interpretazioni giurisprudenziali divergenti».
Passati in rassegna i principi tratti dalla propria giurisprudenza in ordine alle garanzie riconosciute dall’art. 7 della Convenzione, definite «un elemento essenziale dello stato di diritto» non derogabile nemmeno in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico, la Corte EDU ha precisato che la disposizione non esaurisce la propria portata nella proibizione dell’applicazione retroattiva del diritto penale a svantaggio dell’imputato, ma sancisce il principio della legalità dei delitti e delle pene nullum crimen, nulla poena sine lege, vietando di estendere il campo di applicazione dei reati già esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano illecito penale ed anche di applicare la legge penale in modo estensivo a sfavore dell’imputato, come nel caso del ricorso all’analogia.
La chiara definizione dei reati e delle pene con le quali essi sono puniti si realizza se la persona sottoposta a giudizio può conoscere dal testo della disposizione pertinente, con l’ausilio dell’interpretazione giudiziale e di consulenti, per quali atti e omissioni viene attribuita la responsabilità penale e di quale pena è passibile per tali atti. Ed è compito della stessa Corte europea, non già di interpretare il diritto di ciascuno Stato membro o di offrire qualificazione giuridica ai fatti oggetto del processo, funzione demandata ai giudici nazionali, ma di verificare che all’epoca della commissione del comportamento, oggetto di incriminazione e di condanna, «esistesse una disposizione di legge che rendeva l’atto punibile, e che la pena inflitta non eccedesse i limiti fissati da tale disposizione», in modo tale che il risultato dell’attività cognitiva giudiziale sia stato rispettoso dell’art. 7 della Convenzione.
Premesse tali affermazioni di principio – chiosa ancor il Collegio – la Corte sovranazionale ha osservato che nel caso del Contrada, secondo indicazione concorde e pacifica tra le parti, il delitto di concorso esterno in associazione di tipo mafioso ha origine giurisprudenziale e che la relativa sussistenza era stata oggetto di soluzioni divergenti nelle pronunce della giurisprudenza di legittimità nel lasso temporale in cui l’imputato aveva tenuto i comportamenti incriminati.
Ha quindi affermato che solo con la sentenza delle Sezioni Unite Demitry si è ammesso in maniera esplicita l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno, mentre la sentenza di condanna, emessa dalla Corte di appello di Palermo il 25/02/2006, per pervenire al giudizio di colpevolezza si era basata su affermazioni di principio desunte da pronunce delle Sezioni Unite, tutte posteriori ai fatti ascritti all’imputato.
Ha, infine, concluso nel senso che «il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry», sostenendo che all’epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti (1979-1988) «il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest’ultimo», così escludendo che il ricorrente avesse potuto conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti e in tal modo ha riconosciuto la lamentata violazione dell’art. 7 della Convenzione.
La vicenda personale del ricorrente Contrada è proseguita anche dopo la citata sentenza della Corte EDU a seguito della proposizione presso gli organi giudiziari interni, da un lato della domanda di revisione della condanna, che, una volta respinta dalla Corte di appello di Caltanissetta, era stata coltivata mediante ricorso per cassazione, cui però l’interessato aveva rinunciato, dall’altro di incidente di esecuzione per ottenere la conformazione alla pronuncia della Corte sovranazionale: in riferimento a quest’ultima iniziativa, respinta dalla Corte di appello di Palermo, il successivo ricorso è stato accolto dalla Prima Sezione penale della Corte di cassazione, che, con sentenza n. 43112 del 6/07/2017, Contrada, ha dichiarato ineseguibile nei suoi confronti la sentenza di condanna passata in giudicato.
Il quesito all’odierno esame richiede per la Corte di affrontare il tema preliminare dell’individuazione della natura e della portata della decisione della Corte EDU nel caso Contrada contro Italia.
Il ricorrente S.G., senza essere destinatario di una pronuncia favorevole della Corte EDU di contenuto sovrapponibile a quella conseguita dal Contrada, ne invoca gli effetti vantaggiosi per conseguire la revoca della sentenza definitiva di condanna sul presupposto del riscontro da parte della Corte sovranazionale di una violazione di ordine generale, tale da travalicare il singolo caso risolto e da imporre allo Stato convenuto l’obbligo giuridico di conformazione ai principi affermati dalla stessa Corte EDU in favore del Contrada, in modo da impedire il futuro ripetersi di analoghe trasgressioni nell’interesse generale dei soggetti che, pur senza avere adito la Corte europea, versino in situazione identica a quella già da questa vagliata.
Ad avviso delle Sezioni Unite, non può convenirsi con la tesi difensiva, come recepita dalla Sezione rimettente. Il ricorrente non può invocare in proprio favore l’applicazione diretta dell’art. 46 della CEDU, per il quale «gli Stati contraenti sono tenuti a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parte», non essendo stato parte del giudizio al cui esito è stata pronunciata la sentenza Contrada.
S’impone quindi la verifica circa la sussistenza delle condizioni che legittimino l’attribuzione alla stessa decisione dell’idoneità all’applicazione generalizzata degli affermati principi e la riferibilità della violazione dell’art. 7 CEDU a tutti i casi di condanna già irrevocabile per concorso esterno in associazione di stampo mafioso, consumato in epoca antecedente al febbraio 1994. La soluzione risiede nella considerazione della natura della violazione della norma convenzionale riscontrata e dei rimedi per la relativa eliminazione.
E’ opportuno premettere – chiosa ancora il Collegio – che nel sistema convenzionale l’espansione degli effetti di una decisione della Corte EDU ad altri casi non oggetto di specifica disamina rinviene una base normativa nell’art. 61 del regolamento CEDU, per il quale, ove venga rilevata una violazione strutturale dell’ordinamento statale, causa della proposizione di una pluralità di ricorsi di identico contenuto, é possibile adottare una sentenza “pilota“, che indichi allo Stato convenuto la natura della questione sistemica riscontrata e le misure riparatorie da adottare a livello generalizzato per conformarsi al decisum della sentenza stessa con eventuale rinvio dell’esame di tutti i ricorsi, fondati sulle medesime ragioni, in attesa dell’adozione dei rimedi indicati.
Oltre a tale strumento, è oggetto di formale riconoscimento normativo anche il diverso caso, in cui la pronuncia della Corte sovranazionale assume un rilievo ed una portata generali, perché, sebbene priva dei caratteri propri della sentenza pilota e non emessa all’esito della relativa formalizzata procedura, accerta una violazione di norme convenzionali in tema di diritti della persona, suscettibile di ripetersi con analoghi effetti pregiudizievoli nei riguardi di una pluralità di soggetti diversi dal ricorrente, ma versanti nella medesima condizione.
La nozione di sentenza a portata generale trova fondamento positivo nel comma 9 del predetto art. 61, il quale stabilisce testualmente che: «Il Comitato dei Ministri, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, il Segretario generale del Consiglio d’Europa e il Commissario per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa sono informati sistematicamente dell’adozione di una sentenza pilota o di qualsiasi altra sentenza in cui la Corte segnali l’esistenza di un problema strutturale o sistemico all’interno di una Parte contraente».
In tali situazioni il riscontro della violazione dei diritti individuali del proponente il ricorso contiene in sé anche l’accertamento di lacune ed imperfezioni normative o di prassi giudiziarie, proprie dell’ordinamento interno scrutinato, contrarie ai precetti della Convenzione, che assumono rilevanza anche per tutti coloro che subiscano identica violazione, sicché l’obbligo di adeguamento dello Stato convenuto trascende la posizione del singolo coinvolto nel caso risolto, ed investe tutti quelli caratterizzati dalla sussistenza di una medesima situazione interna a portata generale di contrarietà alle previsioni convenzionali.
Se ne trae conferma dalla giurisprudenza della Corte EDU che, sin dalla sentenza della Grande Camera del 13/07/2000 nel caso Scozzari e Giunta c. Italia, ha affermato il principio, poi più volte ribadito, per il quale «quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo dell’equa soddisfazione prevista dall’art. 41, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie» aventi contenuto ripristinatorio, ossia quegli interventi specificamente suggeriti dalla Corte europea, oppure individuati in via autonoma dallo Stato condannato, purché idonei ad eliminare il pregiudizio subito dal ricorrente, che deve essere posto, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non si fosse verificata l’inosservanza delle norme della Convenzione (in termini Corte EDU, GC, 17/09/2009, Scoppola c. Italia; Corte EDU, GC, 01/03/2006, Sejdovic c. Italia; Corte EDU, GC, 08/04/2004, Assanidze c. Georgia).
Ulteriori significative indicazioni provengono in tal senso anche dalla giurisprudenza costituzionale, che, impegnatasi più volte nel definire i rapporti tra giudice europeo e giudice interno nell’attività di interpretazione della legge nel rispetto della gerarchia delle fonti di produzione normativa, ha assegnato valore vincolante e fondante l’obbligo conformativo per lo Stato condannato nel giudizio celebrato dinanzi la Corte sovranazionale alla statuizione contenuta in sentenza pilota, oppure in quella che, seppur legata alla concretezza della situazione che l’ha originata, «tenda ad assumere un valore generale e di principio» (Corte cost., sent. n. 236 del 2011; sent. n. 49 del 2015).
A fronte di tali presupposti, allo Stato convenuto ed al relativo giudice non è consentito negare di dar corso alla decisione adottata dalla Corte di Strasburgo e di eliminare la violazione patita dal cittadino mediante i rimedi apprestati dall’ordinamento interno.
Qualora, invece, non ricorrano tali presupposti, compete al giudice interno applicare ed interpretare le disposizioni di legge, operazione da condursi in conformità alle norme convenzionali ed al significato loro attribuito dall’attività esegetica compiuta dalla Corte EDU, alla quale è rimessa una «funzione interpretativa eminente» sui diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione e dai relativi Protocolli secondo quanto previsto dall’art. 32 CEDU, al fine di realizzare la certezza e la stabilità del diritto (Corte cost., sent. nn. 348 e 349 del 2007).
Gli approdi, definitivamente acquisiti, della giurisprudenza costituzionale mostrano lo sforzo compiuto per conciliare autonomia interpretativa del giudice comune e dovere di quest’ultimo di prestare collaborazione con la Corte europea, affinché il significato del diritto fondamentale cessi di essere controverso e riceva effettiva attuazione.
Si è affermato che il giudice comune, nell’interpretare la disposizione del proprio ordinamento interno deve recepire i contenuti della «giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente» e, qualora, facendo ricorso a tutti gli strumenti di ermeneutica praticabili, la ravvisi in contrasto con i precetti della Carta costituzionale, non potendo disapplicarla, deve investire il giudice delle leggi della questione di costituzionalità della norma stessa in riferimento all’art. 117, comma 1, Cost., spettando poi a quest’ultimo pronunciarsi in adesione alla giurisprudenza europea, se uniforme e consolidata, salvo che in via eccezionale non ne riconosca la difformità dalla Costituzione.
In questa residuale ipotesi, il giudice delle leggi non può sostituirsi alla Corte EDU nell’interpretare le disposizioni della Convenzione, pena l’usurpazione di prerogative altrui in violazione dell’impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione del trattato internazionale, ma deve operare un giudizio di bilanciamento, finalizzato a verificare la sussistenza di un vuoto di tutela normativa rilevante in relazione ad un diritto costituzionalmente garantito.
Nel diverso caso, in cui il giudice interno ravvisi l’incompatibilità tra la norma nella lettura offertane dal diritto vivente europeo e la Costituzione, in assenza di un “diritto consolidato” il relativo dubbio è sufficiente per negarvi i potenziali contenuti assegnabili secondo la giurisprudenza sovranazionale e per operarne l’interpretazione costituzionalmente orientata, -doverosa e prioritaria rispetto a qualsiasi altra possibile-, che esclude la necessità di sollevare incidente di costituzionalità (Corte cost., sent. n. 113 del 2011; sent. n. 311 del 2009).
Rileva che, nel condurre tali verifiche, il giudice comune non resta relegato nella posizione di mero esecutore o di recettore passivo del comando contenuto nella pronuncia del giudice europeo, poiché una tale subordinazione finirebbe per violare la funzione assegnatagli dall’art. 101, comma 2, Cost. ed eludere il principio che ne prevede la soggezione soltanto alla legge e non ad altra fonte autoritativa, principio che non soffre eccezioni neppure in riferimento alle norme della CEDU, che hanno valenza nell’ordinamento interno grazie ad una legge ordinaria di adattamento.
Il giudice nazionale dispone quindi di un margine di apprezzamento del significato e delle conseguenze della pronuncia della Corte EDU, purché ne rispetti la sostanza e la stessa esprima una decisione che si collochi nell’ambito del diritto consolidato e dell’uniformità dei precedenti, mentre «nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo» (Corte cost., sent. n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009).
Ha avvertito la Consulta che l’esigenza di rispettare indicazioni esegetiche conformi e costanti, stabili rispetto ad altre pronunce della stessa Corte sovranazionale, nasce dalla constatazione della vocazione casistica dei relativi interventi decisori, legati alla situazione concreta esaminata e del loro flusso continuo di produzione in riferimento ad una pluralità e varietà di corpi legislativi di riferimento; non dipende, pertanto, dalla negazione della natura vincolante delle pronunce emesse dalle singole sezioni, piuttosto che dalla Grande Camera, quanto dalla necessità di individuare un pronunciamento che non sia isolato o contraddetto da altri di segno diverso (Corte cost., sent. n. 236 del 2011; n. 49 del 2015).
Del resto, è l’art. 28, comma 1 lett. b), come modificato dal Protocollo addizionale n. 14 della CEDU, a conferire un maggiore grado di autorevolezza e di capacità persuasiva alle pronunce espressive di un principio consolidato, tanto da consentire che la decisione sul ricorso individuale sia adottata da un comitato di tre giudici, anzichè da una Camera nella composizione ordinaria di sette giudici, e che la stessa sia direttamente definitiva, quando la questione di interpretazione ed applicazione delle norme della Convenzione o dei relativi Protocolli all’origine della causa è oggetto di una giurisprudenza consolidata della Corte.
Nozione questa che è stata costantemente richiamata e considerata quale criterio selettivo degli obblighi di adeguamento per il giudice interno dalla Consulta sino alle sue più recenti pronunce (Corte cost., sent. nn. 187/2015; 36/2016; 102/2016; 200/2016; 68/2017; 43/2018; 25/2019; 66/2019), per le quali «la denunciata violazione del parametro convenzionale interposto, ove già emergente dalla giurisprudenza della Corte EDU, può comportare l’illegittimità costituzionale della norma interna sempre che nelle pronunce di quella Corte sia identificabile un «approdo giurisprudenziale stabile» (sentenza n. 120 del 2018) o un «diritto consolidato» (sentenze n. 49 del 2015 e, nello stesso senso, n. 80 del 2011)» (sent. n. 25/2019), nonché dalle Sezioni Unite, sia civili (n. 9142 del 06/05/2016), che penali (n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta).
La Corte costituzionale, consapevole delle difficoltà per il singolo interprete di riconoscere nel contesto della giurisprudenza europea sui diritti fondamentali un orientamento contrassegnato da adeguato consolidamento, ha individuato i seguenti criteri negativi da impiegare a tal fine: «la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano» (sent. n. 49/2015).
La ricorrenza di tutti o di alcuni di tali indici svincola il giudice comune dal dovere di osservanza della linea interpretativa adottata dalla Corte EDU nella risoluzione della singola fattispecie concreta.
La Sezione rimettente – prosegue la Corte – ha evidenziato al riguardo che la portata interpretativa della citata sentenza n. 49 del 2015 nei termini come sopra riassunti avrebbe ricevuto smentita ad opera della sentenza della Grande Camera della Corte EDU del 28/06/2018, G.I.E.M. ed altri c. Italia, per la quale le proprie «sentenze hanno tutte lo stesso valore giuridico. Il loro carattere vincolante e la loro autorità interpretativa non possono pertanto dipendere dal collegio giudicante che le ha pronunciate» (§ 252).
Osservano a questo punto le Sezioni Unite che, non soltanto tale lapidaria affermazione non è corredata da nessun rilievo esplicativo, che ne chiarisca il significato in correlazione ed a confutazione delle diffuse e puntuali argomentazioni del giudice costituzionale italiano, ad eccezione delle annotazioni di un giudice di minoranza dissenziente, ma la stessa non pare avere nemmeno colto l’essenza del principio enunciato dalla Corte costituzionale, affidato, non già alla composizione numerica dell’organo giudicante ed alla relativa maggiore autorevolezza, quanto all’inserimento della singola pronuncia in un orientamento coerente con i precedenti, che renda acquisito il principio di diritto enunciato.
Inoltre, non può sostenersi che la teoria del diritto consolidato costituisca un espediente per avvalorare prassi esegetiche elusive dell’obbligo di dare piena esecuzione alle sentenze della Corte EDU. Attenta dottrina ha evidenziato che proprio la sentenza G.I.E.M. contro Italia offre conferma della fondatezza del criterio prudenziale, prescelto dal giudice costituzionale, allorché nel 2015 non aveva recepito i principi dettati dalla sentenza Varvara contro Italia del 29/10/2015, laddove si era affermato che la confisca di terreni abusivamente lottizzati, misura che realizza una pena, pretende che il reato non sia prescritto e che sia pronunciata una condanna, e non aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380: tali principi non si ascrivono, infatti, al diritto consolidato, perché successivamente smentiti o fortemente limitati nella loro portata proprio dalla Grande Camera nel 2018, i cui esiti, differenti dal precedente pronunciamento, non avrebbero potuto vanificare gli effetti della pronuncia di illegittimità costituzionale nel frattempo eventualmente intervenuta, per loro natura definitivi e non suscettibili di revoca.
La considerazione della sentenza nel caso Contrada in base ai principi esposti consente per le SSUU di escludere che essa rientri nello schema formale della sentenza pilota e che sul piano contenutistico contenga l’affermazione, esplicita e chiaramente rintracciabile dall’interprete, della natura generale della violazione riscontrata.
Al contrario, prosegue il Collegio, essa si sviluppa mediante l’esame del caso specifico ed analizza l’imputazione elevata al ricorrente nel processo celebrato a relativo carico, la linea di difesa adottata, le risposte giudiziarie ottenute ed i relativi percorsi giustificativi, incentrati sul tema della definizione giuridica del fatto e della sua prevedibilità. Esprime quindi il giudizio finale di violazione dell’art. 7 CEDU in termini strettamente individuali, ma senza specificare se la trasgressione rilevata riguardi il primo o il secondo periodo dell’art. 7, § 1, ossia se risieda nell’accertamento in sé di responsabilità penale, oppure nel titolo e nella connessa punizione, come pare potersi dedurre dal seguente inciso conclusivo della motivazione, secondo cui «Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti» (§ 74, cit.).
Infine, la sentenza non è corredata da una qualsiasi indicazione in ordine ai rimedi adottabili, suscettibili di applicazione individuale a favore del ricorrente vittorioso, oppure generalizzata nei riguardi di soggetti protagonisti di casi identici o similari per prevenire il futuro ripetersi di violazioni analoghe a quella accertata. Queste ultime considerazioni sono state rappresentate dal Governo italiano in replica alla richiesta, formulata dal Dipartimento per l’esecuzione delle sentenze della Corte EDU 1’8 febbraio 2018, di informazioni sullo stato dell’adozione di misure generali, conseguenti alla sentenza sul caso Contrada, come già detto non specificate nella loro consistenza, nel senso della non necessità di rimedi sistemici e della sollecitazione ad una revisione del pronunciamento, siccome affetto da errori di fatto e di diritto.
Resta allora da verificare – chiosa ancora la Corte – se alla pronuncia in esame possa assegnarsi portata generale, secondo quanto previsto dal comma 9 del citato art. 61, e se vi sia ricavabile il riscontro di una carenza di ordine strutturale nel sistema giuridico italiano, derivante dal testo delle norme di legge pertinenti, lesiva dell’interesse non soltanto del singolo ricorrente, ma di una pluralità di soggetti trovatisi nella medesima situazione processuale.
L’unico profilo che potrebbe autorizzare siffatta conclusione riguarda la stigmatizzazione del contrasto interpretativo, emerso nella giurisprudenza interna, sulla configurabilità quale fattispecie di reato autonoma del concorso esterno in associazione mafiosa, con la conseguente incertezza sulla relativa illiceità penale e sulla pena conseguente, pregiudizievole per l’imputato per l’origine giurisprudenziale della fattispecie stessa.
A ben vedere però – chiosa ancora il Collegio – il giudizio espresso nella sentenza Contrada si sviluppa, sia sul piano oggettivo, allorché rileva la carenza di sufficiente chiarezza del reato, sia al contempo su quello soggettivo per la ritenuta imprevedibilità dell’incriminazione delle condotte compiute e della loro punizione da parte dell’imputato alla stregua dell’andamento del processo di cognizione, delle difese articolate e dei contenuti motivazionali delle decisioni susseguitesi. Come puntualmente osservato nella citata sentenza Dell’Utri del 2016, la Corte EDU «pur evidenziando le criticità derivanti dalla tumultuosa evoluzione giurisprudenziale in tema di concorso esterno in associazione mafiosa non realizza – a ben vedere — una considerazione generalizzata di illegittimità convenzionale di qualsiasi affermazione di responsabilità, per fatti antecedenti al 1994, divenuta irrevocabile».
Tale considerazione, che si condivide perché aderente alle statuizioni della pronuncia, priva dell’indicazione di misure ripristinatorie, impersonali ed universali, sarebbe già in sé sufficiente per negare l’efficacia estensiva della decisione Contrada nei riguardi di altri condannati per la medesima fattispecie di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, ravvisata per comportamenti agevolativi dell’organizzazione, realizzati prima dell’anno 1994.
Ma ulteriore e non meno rilevante ragione – precisa ancora la Corte – milita a favore di tale conclusione.
Considerata alla stregua dei criteri orientativi, formulati dalla giurisprudenza costituzionale, la pronuncia non costituisce espressione di un diritto consolidato, ossia non si inserisce in un filone interpretativo uniforme, costantemente rintracciabile in pronunce di analogo tenore argomentativo e dispositivo. Non risultano, infatti, in precedenza, ma nemmeno dal 2015 ad ora, ulteriori decisioni di accoglimento di ricorsi proposti da soggetti, condannati dallo Stato italiano per la identica fattispecie di cui agli artt. 110 e 416-bis cod. pen., quanto alla carente prevedibilità della natura di illecito penale delle condotte compiute ed alla pena discendente.
Ed anche il ricorso proposto da Marcello Dell’Utri in data 30 dicembre 2014 per far valere analoga violazione, sovrapponibile a quella del Contrada, a distanza di oltre cinque anni è tuttora pendente e non è stato deciso.
Inoltre, come segnalato in più contributi dottrinali, nella giurisprudenza europea non è dato nemmeno rinvenire una univoca e costante impostazione interpretativa ed applicativa dei concetti di accessibilità e prevedibilità del diritto penale, intesi quale possibilità materiale per il cittadino di prendere anticipata conoscenza del comando normativo penale e precognizione delle conseguenze punitive in caso di relativa trasgressione, entrambi requisiti qualitativi del principio di legalità.
Se è ricorrente nelle sentenze della Corte EDU l’affermazione che, privilegiando l’approccio sostanzialistico rispetto a quello formale e la tradizione giuridica dei paesi di common law, intende il diritto nella più ampia accezione di corpo precettivo e sanzionatorio di formazione, sia legale, che giurisprudenziale, sul presupposto che le pronunce giudiziali contribuiscono a chiarire il significato e l’ambito applicativo della regola generale ed astratta, promanante dalla fonte di produzione parlamentare, non altrettanto unico ed invariato è il criterio in base al quale si è esercitato il sindacato sulla prevedibilità del comando e della sanzione nel valutare i casi giudiziari già risolti dai giudici nazionali, così come non sono costanti e sovrapponibili gli esiti di tale verifica, raggiunti in base ai medesimi criteri.
In numerose pronunce, sia precedenti, che successive a quella resa nei confronti del Contrada, è accolta la concezione soggettiva della prevedibilità, apprezzata in riferimento ad attività professionali, qualifiche ed esperienze individuali, dalle quali si è ricostruito il dovere per l’imputato, nonché la materiale possibilità, di conoscere l’illiceità penale dei comportamenti che aveva in animo di tenere, nonostante la relativa proibizione non fosse stata ancora trasfusa in un testo normativo o non fosse stata oggetto di precedenti interpretazioni giudiziali (Corte EDU, 01/09/2016, X e Y c. Francia; 6/10/2011, Soros c. Francia; 10/10/2006, Pessino c. Francia; 28/03/1990, Groppera Radio AG c. Svizzera).
In altre situazioni la Corte europea ha fatto ricorso, non al patrimonio di conoscenze personali del soggetto giudicato, ma al dato formale del contenuto precettivo della legge, puntuale e determinato, e dell’interpretazione giudiziale già formatasi in precedenza (Corte EDU, 26/04/1979, Sunday Times c. Regno Unito; 25/05/1993, Kokkinakis c. Grecia; GC, 15/11/1996, Cantoni c. Francia; GC, 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna).
In altre ancora è stata oggetto di valutazione l’evoluzione della considerazione sociale del comportamento come antigiuridico, ritenendo prevedibile l’incriminazione persino se in contrasto con un testo normativo dal tenore liberatorio e pur in assenza di indicatori orientativi oggettivi (Corte EDU, 22/11/1995, S.W. c. Regno Unito e C.R. c. Regno Unito; 24/05/1988, Muller c. Svizzera).
La sentenza Contrada rivela, come già detto, l’impiego di una combinazione di criteri, quello soggettivo incentrato sulla condotta processuale del ricorrente e quello, che è preponderante, propriamente oggettivo, basato sull’assenza di una norma precisa e chiara e di una interpretazione giurisprudenziale univoca, situazione superata soltanto da un intervento giudiziale delle Sezioni Unite successivo ai fatti accertati.
Nel panorama delle decisioni della Corte dei diritti fondamentali l’inedito rigore col quale è stata risolta la vicenda Contrada, che avrebbe conseguito un ben diverso epilogo, se soltanto fosse stata apprezzata alla luce del criterio soggettivo o di quello basato sulla considerazione sociale, si contraddistingue, oltre che per il metro di apprezzamento della prevedibilità, anche per il fatto di avere superato i rilievi in precedenza ed anche in seguito espressi sul necessario ruolo evolutivo e specificativo da assegnare all’interpretazione giurisprudenziale, quale fattore ineliminabile di progressiva chiarificazione delle regole legislative e di possibile violazione dell’art. 7 CEDU soltanto quando non congruente con l’essenza del reato e quale sviluppo non conoscibile rispetto alla linea interpretativa già affermata.
La Corte EDU aveva in precedenza sostenuto: «per quanto chiaramente formulata sia una previsione, in ogni sistema legale, ivi incluso il diritto penale, esiste un inevitabile elemento di interpretazione giudiziale L’art. 7 della Convenzione non può essere inteso nel senso che pone fuori dal quadro convenzionale la graduale chiarificazione delle regole relative alla responsabilità penale attraverso l’interpretazione giudiziale, in relazione ai casi concreti, quante volte lo sviluppo conseguente sia coerente con l’essenza dell’incriminazione e possa essere ragionevolmente previsto» (S.W. c. Regno Unito, citata, § 36).
Analoghi concetti – prosegue la Corte – erano stati espressi nella nota sentenza della Grande Camera, 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna (si vedano altresì Kokkinakis, sopra citata, § 40, e Cantoni, sopra citata, § 31), con la quale la medesima Corte aveva ravvisato la violazione dell’art. 7 CEDU a ragione di un improvviso mutamento giurisprudenziale nel diniego di benefici penitenziari, che, per la relativa subitaneità ed il contrasto con le prassi applicative a lungo osservate in precedenza, non era «equivalso a un’interpretazione del diritto penale che seguiva una linea percettibile dello sviluppo giurisprudenziale» (§ 115).
Indicazioni conformi sono leggibili nelle pronunce della Grande Camera, 22/03/2001, Streletz, Kessler e Krenz c. Germania (§ 50 e 82) e 17/05/2010, Kononov c. Lituania (§ 185) e, proprio in riferimento a questioni insorte in riferimento all’ordinamento giuridico italiano, 17/9/2009, Scoppola c. Italia, mentre anche la recente pronuncia, resa il 17/10/2017 nel caso Navalnyye c. Russia, si è posta nel solco di quelle sopra citate.
Va poi aggiunto – chiosa ancora il Collegio – che è nota una pronuncia della medesima Corte, nella quale l’esistenza contestuale negli interpreti di visioni esegetiche difformi in ordine alla configurabilità di un reato, nella specie quello di genocidio nell’ambito dell’ordinamento tedesco, non disciplinato espressamente, ma tratto da norme internazionali pubbliche, non è stata ritenuta causa di violazione del principio di legalità, sebbene quella accolta nei confronti del ricorrente fosse stata l’interpretazione sfavorevole all’imputato, non restrittiva e mai applicata in precedenza (Corte EDU, 12/07/2007, Jorgic c. Germania).
Le superiori considerazioni convincono le SSUU del carattere peculiare della decisione in esame, condivisibilmente definito atipico o anomalo da parte della dottrina e meritevole di più attenta rielaborazione, anche perché basato su presupposti di fatto non correttamente percepiti: essa si inserisce in un contesto in cui, per la vocazione naturalmente casistica delle decisioni, risulta mutevole e di volta in volta diverso il criterio adottato per riconoscere la prevedibilità dell’esito giudiziario e di tale variabilità di valutazioni è consapevole anche la Sesta Sezione Penale nell’ordinanza di rimessione, che le richiama, pur senza trarne la dovuta conseguenza dell’impossibilità di estrarne un principio di diritto consolidato, oltre che chiaramente espresso in ordine alla tipologia di violazione ravvisata.
Né in senso contrario è sufficiente il solo dato dell’inserimento della sentenza Contrada nella guida all’interpretazione dell’art. 7 CEDU, predisposta dalla stessa Corte europea, in riferimento al concetto di prevedibilità, posto che tale catalogazione attiene all’individuazione della norma convenzionale ritenuta violata, senza che se ne possa inferire la riconducibilità della decisione ad un indirizzo uniforme e coerente.
Ne discende che, ad avviso delle Sezioni Unite, la statuizione adottata nei confronti del ricorrente Contrada dalla Corte EDU non è vincolante per il giudice nazionale al di fuori dello specifico caso risolto e non consente di affermare in termini generalizzati l’imprevedibilità dell’incriminazione per concorso esterno in associazione mafiosa per tutti gli imputati italiani condannati per avere commesso fatti agevolativi di un siffatto organismo criminale prima della sentenza Demitry e che non abbiano adito la Corte europea, ottenendo a loro volta una pronuncia favorevole.
Plurimi profili di criticità, non considerati nell’ordinanza di rimessione e nemmeno nelle pur articolate prospettazioni difensive, inducono la Corte a ritenere che l’applicazione del concetto di prevedibilità, contenuto nella sentenza Contrada, non sia esportabile nei riguardi di altri soggetti già condannati irrevocabilmente per la stessa fattispecie e nello specifico dell’odierno ricorrente G., nemmeno ai fini di un’interpretazione convenzionalmente orientata del principio di legalità, che possa condurre al positivo apprezzamento della relativa istanza di revisione della condanna.
In primo luogo, è singolare e non rispondente al reale contenuto delle decisioni adottate nel panorama giurisprudenziale interno sul tema del concorso esterno in associazione mafiosa, intervenute prima del 1994, l’affermazione circa la «creazione giurisprudenziale» della fattispecie. L’errore che vi si annida, indotto dalla concorde deduzione delle parti, non riguarda tanto l’individuazione del formante della regola applicata, pronuncia giudiziale in luogo di atto legislativo, che di per sé non si concilia col principio, proprio dell’ordinamento nazionale, di riserva di legge di cui all’art. 25, comma 2, Cost. e crea insormontabili difficoltà di adattamento al sistema di legalità interno, in cui la giurisprudenza ha soltanto una funzione dichiarativa (Corte cost., sent. n. 25 del 2019) e di cui la Corte europea pare non essersi avveduta, quanto piuttosto la totale pretermissione della considerazione della base legislativa dalla quale muoveva l’interpretazione poi accolta dalle Sezioni Unite Demitry.
La configurabilità come reato del concorso esterno in associazione mafiosa – chiariscono le SSUU – non è stato l’esito di operazioni ermeneutiche originali e svincolate dal dato normativo, operate dalla giurisprudenza di legittimità ex abrupto in termini innovativi rispetto allo spettro delle soluzioni praticabili già affermate; al contrario, discende dall’applicazione in combinazione di due disposizioni già esistenti nel sistema codicistico della legge scritta, pubblicata ed accessibile a chiunque, ossia degli artt. 110 e 416-bis cod. pen., la prima norma generale sul concorso di persone, la seconda avente funzione più specificamente incriminatrice ed è l’approdo di un lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che si era svolto in parallelo anche sul tema sulla definizione della condotta punibile di partecipazione, rientrante nell’ipotesi di cui all’art. 416-bis cod. pen..
Come evidenziato in dottrina e da sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016, Dell’Utri, tale esito è stato il portato di una riflessione teorica, che, dall’epoca postunitaria, si è sviluppata mediante plurimi riconoscimenti giudiziari dell’ammissibilità del concorso nel reato a plurisoggettività necessaria a fronte di condotte in vario modo agevolatrici, compiute in favore o del singolo associato, ovvero dell’attività dell’associazione di per sé considerata, non integranti il fatto tipico della partecipazione.
Riconoscimento operato in riferimento, sia all’associazione a delinquere, sia a quella di tipo politico eversivo. Tale percorso era giunto già nel corso degli anni ottanta del secolo scorso a riferire i medesimi concetti anche alla fattispecie di associazione di stampo mafioso, introdotta nell’ordinamento dalla legge 13 settembre 1982, n. 646, in relazione a fenomeni di contiguità con la mafia, aventi come protagonisti soggetti non formalmente affiliati, ma di estrazione imprenditoriale, politico-amministrativa o appartenenti alle forze dell’ordine: in tal senso si erano espresse la sentenza sez. 1, n. 3492 del 13/06/1987, dep. 1988, Altivalle, Rv. 177889 ed altre coeve e successive, ma antecedenti alla pronuncia Demitry.
Inoltre, la prima decisione del giudice di legittimità ad avere esaminato l’ipotesi del concorso esterno (Sez. 1, n. 8092 del 19/01/1987, Cillari), aveva rielaborato principi già affermati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione nei precedenti decenni a partire da Sez. 1, n. 1569 del 27/11/1968, dep. 1969, Muther.
I superiori rilievi convincono che i contrasti interpretativi, considerati dalla Corte EDU, non avevano pregiudicato la possibilità di comprendere e conoscere la possibile punizione per le condotte agevolatrici o di rafforzamento di una formazione di stampo mafioso, ritenute integrare la fattispecie del concorso esterno, ma al contrario costituivano il fondamento giuridico di un dovere di informazione mediante qualsiasi utile accertamento, e, nella persistenza dell’incertezza, di astensione in via prudenziale e precauzionale dalla commissione di comportamenti, che vi era il rischio incorressero nella contestazione dello stesso reato, rischio tanto più percepito con chiarezza dall’agente quanto più specifico il patrimonio di conoscenze ed esperienze individuali di tipo professionale e relazionale.
E’ altresì sfuggito alla considerazione dei giudici europei – chiosa ancora il Collegio – che, sia la citata sentenza Cillari, sia quelle successive pur richiamate nella sentenza Contrada, avevano risolto negativamente il tema dell’autonomia concettuale del concorso eventuale nel delitto associativo mafioso, ma non perché le condotte di agevolazione o comunque di ausilio alla vita ed all’operato dell’organizzazione, compiute dell’estraneo, fossero ritenute integrare comportamenti leciti e quindi da mandare esenti da responsabilità, ma perché ricomprese nella nozione di partecipazione, penalmente rilevante e punibile e ravvisata in tutti i casi in cui il soggetto prestasse un contributo all’organizzazione.
Può quindi condividersi quanto osservato nelle due sentenze Dell’Utri (Sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016 e Sez. 5, n. 27308 del 22/01/2019) e da parte della dottrina, ossia che il contrasto composto dalle Sezioni Unite nel 1994 in ordine alla condotta che, al di fuori dello stabile inserimento nei ranghi dell’organizzazione criminosa, ne realizzasse il rafforzamento ed il mantenimento in vita, non presupponeva l’alternativa decisoria tra l’incriminazione a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa ai sensi degli artt. 110 e 416-bis cod. pen. secondo la tesi che l’ammetteva e l’assoluzione da ogni forma di responsabilità penale per quella che la negava, poiché quest’ultima impostazione faceva rientrare il concorso nel fatto tipico di partecipazione e comportava la punizione del reo.
In base agli arresti giurisprudenziali e dottrinali dell’epoca di commissione dei fatti ascritti al ricorrente G. le conseguenze giuridiche del comportamento, causalmente rilevante e volto al consolidamento ed al mantenimento in essere della organizzazione mafiosa, ipotizzabili anche con l’assistenza di consulenti giuristi da parte dell’agente nel periodo antecedente la sentenza Demitry, comportavano la relativa incriminazione quale delitto, potendo variare soltanto la definizione giuridica tra le due opzioni della partecipazione concorsuale piena da un lato e del concorso eventuale o del favoreggiamento personale, continuato ed aggravato ai sensi dell’art. 7 della legge n. 203/91, dall’altro.
Contrariamente a quanto sostenuto dalle difese, non potevano residuare dubbi o insuperabili incertezze sul carattere illecito della condotta e sulla pertinente rilevanza penale, sicchè l’unico esito non prevedibile in quel contesto interpretativo della fattispecie era l’assoluzione, senza riflessi pregiudizievoli nemmeno sotto il profilo sanzionatorio, stante l’invariata punizione della partecipazione del concorrente necessario e dell’apporto del concorrente eventuale.
Il che è tanto più vero nel caso del G., al quale, a differenza che per la posizione del Contrada, nel processo di cognizione erano state ascritte plurime condotte, poste in essere in un arco temporale protrattosi sino al febbraio 1994, ossia sino a pochi mesi prima dell’intervento delle Sezioni Unite con la sentenza Demitry, quando il dibattito tra gli interpreti aveva già ben delineato la fattispecie di concorso esterno poi ravvisata a relativo carico.
Nella sentenza della Corte EDU non si rinviene nemmeno una posizione coerente con i propri precedenti pronunciamenti quanto all’incidenza del contrasto interpretativo, attinente al solo profilo della qualificazione giuridica del fatto illecito, sulla reale capacità di previsione dell’esito giudiziario da parte del cittadino.
Si è osservato da parte della dottrina, e si condivide dalla Corte il rilievo, che le divergenti definizioni giuridiche date al contributo dell’extraneus ed il numero limitato di opzioni alternative, individuate in giurisprudenza, rendevano conoscibile in via anticipata al momento del compimento della condotta la possibile adozione di una delle soluzioni in discussione, conducenti in ogni caso all’incriminazione ed alla punizione, senza che la stessa potesse manifestarsi quale effetto a sorpresa, quale risposta giudiziaria postuma, improvvisa ed inedita, tale da sorprendere l’affidamento del soggetto agente come formatosi al momento del compimento dei fatti, in cui erano già presenti segnali discernibili, anticipatori del realizzarsi dell’incriminazione e della punizione.
In altri termini, come sottolineato dal Procuratore Generale, la tesi accolta dalla sentenza Demitry nel 1994 si presenta, non come un mutamento normativo, ma quale mera evoluzione nell’interpretazione della disposizione di legge vigente, coerente con l’essenza della fattispecie tipizzata dagli artt. 110 e 416-bis cod. pen., possibile e conoscibile in anticipo, oltre che consentita dalla Convenzione nel significato attribuitole dalla Corte EDU, che ha sanzionato sino ad ora soltanto gli interventi decisori dei giudici nazionali dissonanti rispetto ai precedenti costanti orientamenti, sia per il loro contenuto radicalmente innovativo, sia per gli effetti peggiorativi per l’imputato, frutto di un’applicazione in via retroattiva, non consentita dall’art. 7 della Convenzione (Corte EDU, GC, Del Rio Prada, § 116; 24/05/2007, Dragotoniu e Militaru-Pidhorni c. Romania, § 44; GC, 20/10/2005, Vasiliauskas c. Lituania, § 181; 05/05/1993, Kokkinakis c. Grecia, § 52).
Per quanto già esposto, chiosa ancora la Corte, nel caso del concorso esterno in associazione mafiosa la sentenza Demitry non ha operato in via esegetica una ricostruzione in malam partem della fattispecie di reato in riferimento a comportamenti tenuti in un periodo temporale in cui gli stessi erano considerati leciti ed esenti da pena, ma ha recepito una delle possibili soluzioni, già nota ed ampiamente illustrata nel relativo fondamento giuridico, quindi conoscibile e tale da avvertire il cittadino del rischio di punizione in sede penale.
Convincenti conferme della correttezza della lettura qui proposta, non isolata nel panorama dei precedenti di legittimità, sono ricavabili dalla giurisprudenza già occupatasi di casi, in cui si era dedotto l’intervento di un c.d. overruling giurisprudenziale, ossia di un mutamento ermeneutico, ascrivibile alla Corte di cassazione e foriero di un’applicazione retroattiva sfavorevole della disposizione di legge, sia processuale, che sostanziale, denunciata dalle difese come trasgressiva degli artt. 2 cod. pen. 25 Cost. e 7 CEDU.
Singole sezioni penali della Corte, chiamate a pronunciarsi in relazione a decisioni giudiziali, assunte dalle Sezioni Unite in un momento successivo alla violazione dei precetti che aveva dato luogo al processo, quindi giocoforza retroattive, in tema di imprescrittibilità della pena dell’ergastolo (Sez. U. n. 19756 del 24/09/2015, Trubia), di corretta interpretazione del delitto di cui all’art. 615-ter cod. pen. (Sez. U. n. 41210 del 18/05/2017, Savarese) e di inammissibilità dell’appello per genericità dei motivi (Sez. U. n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli), hanno rilevato che l’overruling non consentito, perché non prevedibile per l’imputato, è ravvisabile nei soli casi di radicale innovazione della soluzione giurisprudenziale, inconciliabile con le precedenti decisioni, mentre va esclusa qualora la soluzione offerta si collochi nel solco di interventi già noti e risalenti, di cui costituisca uno sviluppo prefigurabile pur nel contrasto di opinioni, che di per sé rende l’esito conseguito comunque presente e possibile, anche se non accolto dall’indirizzo maggioritario.
Altrettanto conformi i precedenti della giurisprudenza delle Sezioni Unite civili, le quali, seppur in riferimento al limitato campo applicativo del diritto processuale e non sostanziale, e con la precisazione della relativa valenza circoscritta agli interventi interpretativi in malam partem, hanno di recente ribadito che: «Il prospective overruling è finalizzato a porre la parte al riparo dagli effetti processuali pregiudizievoli (nullità, decadenze, preclusioni, inammissibilità) di mutamenti imprevedibili della giurisprudenza di legittimità su norme regolatrici del processo sterilizzandoli, così consentendosi all’atto compiuto con modalità ed in forme ossequiose dell’orientamento giurisprudenziale successivamente ripudiato, ma dominante al momento del compimento dell’atto, di produrre ugualmente i suoi effetti» (Sez. U. civ. n. 4135 del 12/02/2019; Sez. U. civ., n. 28575 del 08/11/2018; Sez. U. civ., n. 15144 del 11/07/2011).
Al contrario, precisa il Collegio, si è negata tutela alla parte incorsa in sanzioni processuali nei casi di innovazioni esegetiche, postesi quale sviluppo non irragionevole di un pregresso indirizzo già affermato.
In aggiunta ai superiori rilievi s’impone per le SSUU l’ulteriore considerazione delle difficoltà di individuare il momento in cui, a fronte di divergenti interpretazioni del dato normativo, affermatesi contestualmente, il grado di consolidamento del quadro ermeneutico in sede giudiziaria sia sufficiente per garantire la prefigurazione per il soggetto agente della punizione penale: nell’ambito dell’ordinamento interno, contrassegnato dal valore non vincolante del precedente, dall’efficacia soltanto persuasiva, per la profondità ed accuratezza dei pertinenti argomenti, dell’interpretazione giurisprudenziale, il cui avvento non soggiace di per sé al divieto di retroattività e non è assimilabile ad una nuova disposizione di legge, un eccessivo irrigidimento del criterio della prevedibilità dell’esito processuale in senso oggettivo finirebbe per precludere alla Corte di cassazione, cui questa attività compete istituzionalmente, di individuare una nuova soluzione esegetica sfavorevole all’imputato, ma rispettosa dell’essenza del reato tipizzato dalla legge, quindi perfettamente ragionevole e coerente con il testo normativo, ciò solo per il suo carattere innovativo, per l’assenza di casi precedenti già risolti, o perché preceduta da contrasti sulla corretta lettura del testo stesso.
Tanto comporterebbe una limitazione dei poteri decisori del giudice di legittimità ed il vincolo del rispetto del precedente in chiara collisione col disposto dell’art. 101, comma 2, Cost., finendo per assegnare al principio di legalità un contenuto contrastante con il precetto costituzionale, che, come tale, non può essere recepito (Sez. 5, n. 42996 del 14/09/2016, Ciancio Sanfilippo).
L’eventualità di un sindacato postumo sulla formazione del giudicato di condanna per verificare il rispetto dei diritti di garanzia dell’individuo, considerati nell’ottica del principio di legalità convenzionale, come inteso nella sentenza Contrada, costituisce altresì un freno al dibattito giuridico ed all’evoluzione del diritto vivente nella relativa accezione siccome fornita dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost., n. 276/1974), che postula la funzione di «mediazione accertativa della giurisprudenza, nel senso che deve riconoscersi ai giudici un margine di discrezionalità, che comporta una componente limitatamente ‘creativa’ della interpretazione, la quale, senza varcare la ‘linea di rottura’ col dato positivo ed evadere da questo, assume un ruolo centrale nella precisazione del contenuto e della latitudine applicativa della norma e assolve sostanzialmente una funzione integrativa della medesima» (Sez. U. n. 18288 del 12/01/2010, Beschi).
A convincere che nel sistema giuridico italiano non è possibile riscontrare una carenza strutturale, universalmente rintracciabile in tutti i giudicati di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti antecedenti il 1994 e verificatasi anche nella situazione del G., è anche la considerazione che all’epoca l’unico profilo di incertezza in presenza di definizioni giuridiche del fatto di reato non uniformi, ma nessuna comportante l’esenzione da responsabilità e nemmeno variazioni di pena, era confinato a quale di esse avrebbe potuto essere recepita in sede giudiziaria, dubbio che però non eliminava la colpevolezza, perché evitabile attraverso consulenze giuridiche e la considerazione dell’evoluzione della riflessione giurisprudenziale sul tema e tale da imporre di astenersi dai comportamenti poi incriminati.
Il concetto di prevedibilità delle conseguenze penali della condotta non è estraneo all’ordinamento nazionale, ma è veicolato attraverso la nozione di errore di diritto incolpevole, come elaborata dalla giurisprudenza costituzionale nella sentenza n. 364 del 1988, poi ripresa nella sentenza n. 185 del 1992, che ha dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 5 cod. pen. «nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile».
La decisione si basa sulla considerazione che il principio di legalità dei reati e delle pene, inteso quale riserva di legge statale di cui all’art. 25, comma 2, Cost., costituisce presidio a tutela della persona e della libertà individuale, che viene posta al riparo da interventi creativi delle fattispecie di illecito, compiuti dal giudice contro o al di là del dato testuale della norma e dall’imputazione di responsabilità per la violazione di precetti non conoscibili o inevitabilmente ignorati; esso pretende la determinatezza della norma penale ed impone al legislatore l’obbligo di formulare testi di legge precisi sotto il profilo semantico della chiarezza e della intelligibilità delle espressioni, in modo che il soggetto vi possa «trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento».
Se difettino tali requisiti, la indeterminatezza della fattispecie pregiudica la relativa conoscibilità e la prevedibilità delle conseguenze penali delle azioni, sicché vengono meno la relazione tra soggetto e legge penale, la personalità dell’illecito, la possibilità di muovere un rimprovero per l’infrazione commessa ed il fondamento legale della punizione per la mancanza del requisito della colpevolezza, costituzionalmente preteso dall’art. 27, comma 1, che «compendia tutti i requisiti subiettivi minimi d’imputazione».
Rileva poi che, secondo il giudice delle leggi, per identificare l’errore inevitabile sul divieto normativo, occorre fare riferimento a criteri oggettivi, “puri“, o “misti“, ossia basati su obiettiva oscurità del testo di legge, su irrisolti e gravi contrasti interpretativi giurisprudenziali, su “assicurazioni erronee” delle competenti autorità pubbliche, ma anche sulle condizioni e conoscenze personali del singolo soggetto agente; dalla combinazione di tali parametri discende che l’ignoranza può essere inescusabile anche in presenza di un generalizzato errore sul divieto quando l’agente si rappresenti comunque la possibilità che il fatto sia antigiuridico, mentre è inevitabile se il dubbio sia oggettivamente irrisolvibile, oppure se l’assenza di dubbio dipenda da carente socializzazione della persona.
Concetti non dissimili – chiarisce ancora il Collegio – sono stati espressi più di recente dalla Grande Camera della Corte EDU nella citata sentenza G.I.E.M. c. Italia, per la quale, come già affermato nel precedente arresto 20/01/2009, Sud Fondi s.r.l. ed altri c. Italia, l’art. 7 della Convenzione, pur senza menzionare testualmente «il legame morale esistente tra l’elemento oggettivo del reato e la persona che ne è considerata l’autore» (§ 241), lo presuppone.
Infatti, la logica della punizione e la nozione di colpevolezza autorizzano a ritenere che l’art. 7 pretenda, per poter infliggere la pena, «un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato», così riconoscendo la «correlazione tra il grado di prevedibilità di una norma penale e il grado di responsabilità personale dell’autore del reato» (§ 242).
Può dunque concludersi che la Corte europea ha ricondotto al principio di legalità convenzionale quella nozione di prevedibilità che la giurisprudenza costituzionale italiana aveva già riconosciuto, pur se correlata al principio di colpevolezza, in termini altrettanto funzionali per la garanzia del cittadino, ma che non possono assumere rilievo per la soluzione del caso rimesso odiernamente alle Sezioni Unite: l’apprezzamento di un errore incolpevole dell’imputato, indotto dalla pretesa oscurità o incertezza del dato normativo e della relativa interpretazione, dovrebbe tradursi nella rivisitazione del giudizio ricostruttivo del fatto di reato e dell’atteggiamento soggettivo dell’autore, operazione preclusa dalla già avvenuta formazione del giudicato, quindi non conducibile nella fase esecutiva, tranne che non ricorrano i presupposti di attivazione della revisione speciale di cui all’art. 630 cod. proc. pen., che nella presente vicenda per la Corte e non ricorrono per quanto già esposto.
A tale ostacolo, evidenziato anche nell’ordinanza di rimessione, si aggiunge l’ulteriore difficoltà di intendere l’errore incolpevole di diritto in base ai costanti insegnamenti della giurisprudenza della Corte. Invero, nelle applicazioni della nozione di prevedibilità, successive alla pronuncia della Corte costituzionale, è stata esclusa la colpevolezza quando l’errore di diritto sia dipeso da ignoranza inevitabile della legge penale, giustificata da una pacifica posizione giurisprudenziale che abbia indotto nell’agente la ragionevole conclusione della correttezza della propria condotta; per contro, a fronte di difformi orientamenti interpretativi accolti nelle pronunce giudiziali, si è esclusa la possibilità di invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile, poiché lo stato di incertezza impone al soggetto di astenersi dall’agire e di condurre qualsiasi utile accertamento per conseguire la corretta conoscenza della legislazione vigente in materia anche attraverso la mediazione applicativa operatane dalla giurisprudenza.
Deve conclusivamente escludersi che dal giudicato della Corte europea nel caso Contrada sia possibile rintracciarvi contenuti che consentano di estrarvi, per espressa indicazione, oppure in base al complessivo percorso ermeneutico seguito, la individuazione di una fonte generale di violazione dei diritti individuali, garantiti dalla Convenzione.
Con riferimento alla questione principale oggetto del ricorso deve dunque per le SSUU essere enunciato il seguente principio di diritto: «I principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una sentenza pilota e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata».
* * *
Lo stesso giorno esce la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 8545 che risolve la seguente questione: “se l’aggravante speciale già prevista dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 ed oggi inserita nell’art. 416-bis 1 cod. pen., che prevede l’aumento di pena quando la condotta tipica sia consumata al fine di agevolare le associazioni mafiose, abbia natura oggettiva concernendo le modalità dell’azione, ovvero abbia natura soggettiva concernendo la direzione della volontà”.
La disposizione dell’art. 416-bis 1 cod. pen. prevede l’aggravante del metodo mafioso. Con essa si dispone l’aumento della pena prevista per qualsiasi reato, nell’ipotesi in cui l’illecito sia stato realizzato con l’utilizzazione di una forza intimidatoria che – a prescindere da qualsiasi legame del suo autore con l’organizzazione mafiosa o con l’esistenza stessa di tale compagine in quel contesto – ne mutui le modalità di azione, per proporre il clima di assoggettamento che le è caratteristico.
Sotto questo profilo, la norma evidenzia un duplice carattere preventivo: evitare fenomeni emulativi, essi stessi forieri di un rafforzamento della tipica struttura mafiosa, volta alla sopraffazione, e liberare i soggetti passivi dal potenziale giogo conseguente a tali atti, restituendo loro strumenti per una pronta reazione, a tutela della liberà di autodeterminazione. Pacifica è la natura oggettiva di questa circostanza, che si caratterizza e si esaurisce per le modalità dell’azione. Controversa è invece la natura dell’aggravante prevista nella seconda parte del primo comma dell’art. 416-bis 1 cod. pen., caratterizzata dalla finalità di agevolazione.
La Corte procede quindi ad esaminare le varie letture interpretative cui ha dato origine l’istituto che prevede l’aggravamento di pena ove qualsiasi reato sia stato commesso «al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dall’articolo 416-bis cod. pen.», per poi individuare la disciplina applicabile in caso di concorso di persone nel reato.
Secondo un primo orientamento tale circostanza è integrata da un atteggiamento di tipo psicologico dell’agente, che richiama i motivi a delinquere ed è riconducibile alle circostanze indicate nell’art. 118 cod. pen.: quindi non estensibile ai concorrenti nel reato. Secondo un contrapposto orientamento, l’aggravante è integrata da un elemento obiettivo, attinente alle modalità dell’azione, ed è quindi riconducibile alle circostanze di natura oggettiva ai sensi dell’art. 70 cod. pen., non contemplate dall’art. 118 cod. pen., con conseguente estensibilità ai concorrenti, ai sensi dell’art. 59, secondo comma, cod. pen., purché conosciuta e conoscibile. Secondo un ulteriore orientamento, la natura dell’aggravante e la disciplina in caso di concorso di persone nel reato dipendono da come la stessa si atteggia in concreto e dal reato cui essa acceda.
Secondo l’orientamento che ritiene l’aggravante di natura soggettiva, essa sarebbe integrata da un atteggiamento psicologico, per lo più definito in termini di dolo specifico: occorre cioè che l’agente, oltre alla coscienza e volontà del fatto materiale integrante l’elemento oggettivo del reato base, agisca per un fine particolare (quello di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso), la cui realizzazione non è necessaria per l’integrazione dell’aggravante. Questa viene quindi ritenuta di natura soggettiva, in quanto concernente i motivi a delinquere o l’intensità del dolo, e riconducibile nell’ambito di quelle contemplate dall’art. 118 cod. pen., che «sono valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono» e non si estendono, pertanto, ai concorrenti nel reato.
Nell’ambito di questo orientamento non è tuttavia pacifico come deve individuarsi l’elemento soggettivo necessario ad integrare l’aggravante, se cioè occorra che l’agente persegua esclusivamente come scopo finale quello di agevolare l’associazione, in quanto molte sentenze ritengono che l’aggravante non sia esclusa dal fatto che l’agente persegua un diverso scopo, purché sia sicuramente consapevole di avvantaggiare l’associazione mafiosa. Analogamente non appare pacifico, nell’ambito del medesimo orientamento, quale sia il requisito necessario ai fini dell’applicazione della circostanza in caso di concorso di persone nel reato, ai sensi dell’art. 118 cod. pen., e cioè se sia necessario individuare in capo a ciascun concorrente il dolo specifico richiesto dalla norma o se, invece, sia sufficiente che il concorrente abbia arrecato il proprio contributo nella consapevolezza della finalità agevolatrice perseguita dall’agente.
Infatti, mentre in alcune pronunce che hanno originato il contrasto la Corte richiede la necessità di accertare il dolo specifico di agevolazione in capo a ciascun concorrente a cui deve essere applicata, secondo molte altre l’aggravante dell’agevolazione mafiosa può essere applicata al concorrente nel reato, in base all’art. 118 cod. pen., non soltanto quando risulti che lo stesso abbia agito con lo scopo di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, ma anche quando abbia fatta propria tale finalità, perseguita da altro concorrente. Ciò in linea con quanto ritenuto per altre aggravanti di natura soggettiva, quali quelle del nesso teleologico, dei motivi abietti o futili o della premeditazione.
Nelle pronunce che seguono questo percorso esegetico è poi generalmente richiesta la necessaria presenza, ai fini del riconoscimento dell’aggravante, di un elemento di natura oggettiva, costituito dalla direzione o dall’idoneità dell’azione ad agevolare l’associazione mafiosa. Se tale requisito è prevalentemente richiesto a fini di prova dell’elemento soggettivo che integra l’aggravante, tuttavia talora la giurisprudenza ne ha evidenziato la necessità, quale ulteriore elemento costitutivo dell’aggravante, ai fini del rispetto del principio di offensività.
Il contrapposto orientamento è nel senso che la circostanza in esame sia integrata da un elemento oggettivo, consistente nell’essere l’azione «rivolta ad agevolare un’associazione di tipo mafioso», e che sia quindi di natura oggettiva ai sensi dell’art. 70 cod. pen., in quanto concernente le modalità dell’azione. Secondo le sentenze riconducibili a tale orientamento, quindi, l’aggravante dell’agevolazione non è riconducibile a quelle contemplate dall’art. 118 cod. pen., ed è pertanto estensibile ai concorrenti nel reato.
Dette pronunce, per quanto è dato comprendere dalle motivazioni, non ritengono però sufficiente, ai fini dell’integrazione della circostanza, un atteggiamento riconducibile all’ignoranza incolpevole. L’ignoranza incolpevole può essere sufficiente ai fini dell’estensione della circostanza ai concorrenti nel reato, ma non per l’integrazione dell’aggravante, per la quale sembra richiesta la sussistenza, in capo ad almeno uno dei concorrenti, o del dolo specifico o della consapevolezza della funzionalizzazione della condotta all’agevolazione dell’associazione di tipo mafioso. Si rileva quindi che, anche la classificazione della circostanza quale oggettiva, non si sottrare alla necessità di verifica dell’elemento psicologico caratterizzante la finalizzazione della condotta. L’analisi del percorso valutativo appena riportata chiarisce che in entrambe le chiavi di lettura si conferisce rilievo, nel primo caso, ad una ricaduta oggettiva dell’aspirazione dell’agente, e nel secondo ad una direzione di volontà, che comunque deve accompagnare l’utilità potenziale ed astratta del risultato per la compagine illecita, sotto l’aspetto della previsione dell’agente.
L’orientamento intermedio è nel senso che la natura dell’aggravante (e la disciplina in caso di concorso di persone nel reato) dipende da come la stessa si atteggia in concreto e dal reato a cui accede: quando l’aggravante, in concreto, si configura come un dato oggettivo, che travalica la condotta del singolo agente, e che, piuttosto che denotare una specifica attitudine delittuosa del singolo concorrente, finisce per agevolare la commissione del reato, deve ritenersi estensibile ai concorrenti, in base al principio ubi commoda ibi incommoda che deve guidare l’interpretazione nei casi dubbi, e far ritenere oggettive le aggravanti che abbiano facilitato la commissione del reato.
Ciò viene ritenuto ravvisabile, con riferimento al reato associativo, allorquando la finalità di agevolare un’associazione mafiosa risulti direttamente connessa alla concreta struttura organizzativa dell’associazione semplice, perché questa si pone in collegamento con l’associazione mafiosa (vuoi perché la seconda le garantisce spazi di operatività nei territori controllati, oppure avallo e protezione in cambio dello svolgimento a suo vantaggio di parte della propria attività, vuoi perché la prima sostiene la seconda o ne reimpiega i profitti, o contribuisce a formare una cassa comune, o comunque la agevola con altre modalità), e rappresenta un dato oggettivo e strutturale, che riguarda il modo di essere della associazione e dunque le modalità di commissione del fatto di reato.
Anche tale orientamento richiede, in via generale, ai fini dell’integrazione dell’aggravante, che l’attività dell’agente esprima comunque una oggettiva capacità di agevolare, almeno potenzialmente, l’associazione criminale, ritenendo necessaria un’interpretazione della norma che prevede l’aggravante in termini che, non confinandosi entro il tenore letterale della disposizione, si conformino alla struttura di un diritto penale (quale è quello del vigente sistema italiano) del comportamento.
L’ordinanza di rimessione fonda il rilevato contrasto sulla considerazione che l’orientamento secondo cui l’aggravante di natura soggettiva non richiederebbe, ai fini dell’integrazione, il dolo specifico, ma il solo dolo generico, in quanto, postulando la necessità di un elemento di natura oggettiva, ridurrebbe la rilevanza dell’elemento psicologico alla «copertura volitiva» di tale elemento obiettivo. Conseguentemente il contrasto sarebbe ridotto alla «copertura volitiva» dell’elemento materiale consistente nella «concreta funzionalizzazione dell’attività criminosa contestata all’agevolazione di un’associazione mafiosa», nel senso cioè che il contrasto si configurerebbe tra una tesi che ritiene necessaria «la volizione piena e specifica ovvero la piena consapevolezza» della oggettiva finalità agevolatrice della condotta, ed una contrapposta tesi per la quale «è sufficiente che il nesso funzionale tra reato contestato e associazione mafiosa sia sorretto da una ‘volizione attenuata’ cioè l’ignoranza colposa».
Il Supremo Consesso rileva che, in realtà, dall’analisi delle sentenze riconducibili all’orientamento che ritiene l’aggravante di natura soggettiva emerge che, quando è richiesto un ulteriore elemento, di natura oggettiva, attinente alle «modalità dell’azione», questo, prevalentemente, non viene configurato come elemento costitutivo della fattispecie che prevede la circostanza aggravante, bensì quale fatto da cui desumere la prova della sussistenza dell’elemento psicologico, che rappresenta l’unico elemento costitutivo dell’aggravante. Non si tratta quindi di stabilire quale sia la «copertura volitiva di tale elemento», perché questo rileva, unicamente, ai fini di prova dell’elemento psicologico integrante l’aggravante, prevalentemente individuato nel dolo specifico.
Pertanto, diversamente da quanto ritenuto nell’ordinanza di rimessione, dalla lettura dei precedenti in argomento risulta che la richiesta di tale ulteriore requisito, di natura oggettiva, attenendo alla prova dell’elemento soggettivo che integra l’aggravante, e non essendo quindi configurato quale ulteriore elemento costitutivo della fattispecie che prevede la circostanza, non escluda che quest’ultima possa essere inquadrata tra quelle relative ai motivi a delinquere.
Peraltro, all’esclusione della configurabilità dell’aggravante come relativa ai motivi a delinquere non conduce neppure la tesi che ha valorizzato la necessità di tale ulteriore elemento obiettivo non a meri fini di prova del dolo specifico, bensì quale ulteriore elemento costitutivo dell’aggravante, nell’ottica di rendere la disposizione di cui all’art. 416-bis 1 cod. pen. maggiormente aderente al principio di offensività.
Tale tesi, infatti, ritiene elementi costitutivi dell’aggravante tanto l’elemento soggettivo del dolo specifico, quanto l’ulteriore elemento, di natura oggettiva, individuato nell’idoneità del fatto a realizzare il fine dell’agente, e quindi nell’idoneità del fatto ad agevolare l’attività dell’associazione mafiosa: in tal modo sembra configurare una circostanza mista, i cui elementi costitutivi sono uno di natura soggettiva e uno di natura oggettiva, riconducibili tanto a quelle attinenti ai motivi a delinquere, quanto a quelle oggettive inerenti le modalità della condotta.
D’altra parte, l’orientamento che ritiene di natura oggettiva l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, non considera sufficiente, ai fini dell’integrazione della circostanza, un atteggiamento riconducibile all’ignoranza incolpevole, per essa richiedendo la sussistenza, in capo ad almeno uno dei concorrenti, o del dolo specifico o della consapevolezza della funzionalizzazione della condotta all’agevolazione dell’associazione di tipo mafioso. Pertanto, non potendosi escludere che l’orientamento secondo cui la natura soggettiva dell’aggravante richieda anche la prova del dolo specifico dell’agente, e non potendosi ritenere che per l’orientamento che ritiene la natura oggettiva dell’aggravante sia sufficiente ai fini della sua integrazione la colpevole ignoranza dell’elemento oggettivo della funzionalizzazione della condotta all’agevolazione dell’associazione di tipo mafioso, il contrasto non sembra poter essere ricondotto alla contrapposizione tra una tesi che ritiene necessaria «la volizione piena e specifica ovvero la piena consapevolezza della finalità agevolatrice » della condotta e una contrapposta tesi per la quale «è sufficiente che il nesso funzionale tra reato contestato e associazione mafiosa sia sorretta da una ‘volizione attenuata’ cioè l’ignoranza colposa».
L’analisi delle sentenze che hanno seguito gli opposti orientamenti, e la loro lettura, anche alla luce delle fattispecie in cui si sono pronunciate, conduce a ravvisare il contrasto sotto i seguenti profili: – l’individuazione dell’elemento soggettivo necessario ad integrare l’aggravante, dovendosi stabilire se esso consista nel dolo specifico ovvero nella mera consapevolezza della direzione (o idoneità) della condotta ad agevolare l’attività dell’organizzazione criminale (con la puntualizzazione che entrambe le tesi sono sostenute nell’ambito di ciascuno dei contrapposti orientamenti); – il requisito necessario per l’«estensione» o l’applicabilità dell’aggravante ai concorrenti nel reato, individuato nel dolo specifico o nella consapevolezza dalle sentenze riconducibili all’orientamento che la ritiene di natura soggettiva, ovvero nella mera ignoranza colposa dalle sentenze che la ritengono di natura oggettiva.
Infatti, per quanto attiene all’individuazione dell’elemento soggettivo integrante l’aggravante dell’agevolazione mafiosa: – nell’ambito dell’orientamento che ritiene soggettiva l’aggravante, l’elemento psicologico necessario ad integrarla, per alcune sentenze, consiste nel dolo specifico, mentre, per altre, si esaurisce nella consapevolezza che la condotta sia funzionale ad agevolare l’organizzazione criminale; – analogamente, anche nell’ambito del contrapposto orientamento che ritiene oggettiva l’aggravante, ai fini della sua integrazione, oltre all’elemento oggettivo, inerente alle modalità della condotta, è richiesto che in capo ad almeno uno dei concorrenti sia configurabile il dolo specifico, oppure, secondo alcune sentenze, è sufficiente la mera consapevolezza della oggettiva finalizzazione dell’azione all’agevolazione dell’attività dell’associazione mafiosa.
Analizzando le decisioni che si occupano di individuare la disciplina applicabile in caso di concorso di persone nel reato, il contrasto non si riduce alla mera alternativa tra chi sostiene l’applicabilità dell’art. 118 cod. pen. e chi ritiene, invece, applicabile l’art. 59, secondo comma, cod. pen., e quindi sufficiente l’ignoranza colposa per l’estensione dell’aggravante al concorrente. Infatti, nell’ambito dell’orientamento che ritiene di natura soggettiva l’aggravante si distingue la tesi che richiede per la sua applicazione al concorrente nel reato che anch’esso sia animato dal dolo specifico, da quella che ritiene sufficiente la mera consapevolezza della finalità perseguita dall’agente o, addirittura, la sola ignoranza colposa dell’idoneità della condotta ad agevolare l’attività dell’associazione mafiosa.
L’individuazione dei requisiti necessari per l’applicazione della circostanza in esame al concorrente dipende da come si ricostruisce l’elemento soggettivo integrante la stessa aggravante, essendo evidente che là dove si ritenga sufficiente la mera consapevolezza dell’idoneità della condotta ad agevolare l’attività dell’associazione mafiosa, ai fini del riferimento dell’aggravante tanto a carico dell’agente, quanto a carico del concorrente, ai sensi dell’art. 118 cod. pen., risulterebbe sufficiente tale mera consapevolezza.
E’ bene evidenziare che alle oscillazioni giurisprudenziali sulla natura della aggravante in oggetto non ha fatto sponda l’analisi dottrinale, che proprio sulla base del dato testuale ha sostenuto la sua natura soggettiva, limitandosi ad esigere che tale rappresentazione si accompagni ad elementi di fatto di natura oggettiva, proprio per evitare di punire più severamente un’azione la cui potenzialità lesiva si esaurisca nell’elaborazione intenzionale, cosi giungendo a punire il pericolo del pericolo. Solitamente si ritiene quindi che l’aggravante si configuri in maniera simile ai reati di pericolo, con dolo di danno.
La ricerca della concreta potenzialità offensiva, che deve caratterizzare ogni condotta illecita, ha suggerito un parallelo tra i reati a dolo specifico o intenzionale, ai quali si ascrive, per quanto detto, il reato aggravato ai sensi dell’art. 416-bis 1 cod. pen. ed il reato tentato, richiedendo per la configurazione della fattispecie, non solo l’intenzione, ma elementi concreti, idonei a rendere possibile la realizzazione dell’intento avuto di mira, quali l’esistenza del gruppo criminale ed il possibile raccordo tra quanto programmato dall’agente e l’attività illecita che caratterizza il primo.
Quel che è dato sottolineare nella ricostruzione operata dalla dottrina è inoltre una sostanziale fungibilità della funzione del soggetto agevolatore che, proprio in quanto estraneo alla compagine, non è essenziale ai suoi scopi, ma occasionalmente ne agevoli, almeno in parte, le attività, anche quelle di natura marginale, e l’irrilevanza dell’effettivo ritorno di utilità della condotta illecita in favore della compagine, perché possa configurarsi l’aggravante.
In tali elementi può cogliersi il senso della previsione dell’aggravante, che tende ad evitare effetti emulativi connessi all’esistenza del gruppo illecito, con le finalità pervasive previste quale elemento caratterizzante dall’art. 416-bis, comma 3, cod. pen., e crea una sorta di cordone di contenimento, con il proposito di colpire tutte le aree che, attraverso le modalità della condotta, o attraverso la consapevole agevolazione, producano l’effetto del rafforzamento, se non concretamente della compagine, del pericolo della sua espansione, con la forza che le è tipica e la tacitazione di tutte le forze sociali che dovrebbero ad essa resistere.
Non si può dimenticare inoltre, nel tentativo di ricostruzione della natura giuridica dell’aggravante in esame che, oltre ad un ostacolo di carattere testuale, una lettura in termini puramente oggettivi della sua previsione deve essere esclusa anche in quanto connessa al pericolo di una individuazione postuma delle finalità, che consenta di ravvisare l’agevolazione tutte le volte in cui una condotta illecita abbia di fatto prodotto, o abbia le potenzialità per produrre, vantaggi alla compagine. Basti pensare all’amplissima gamma di condotte illecite ascrivibili al gruppo mafioso, spesso orbitante nell’ambito delle ordinarie attività economiche, per rendersi conto che un difetto di rappresentazione e volizione di tali conseguenze comporterebbe un difetto di tipicità della fattispecie, suscettibile di censure di costituzionalità.
Sulla base di quanto precede il Collegio si determina nel senso che il dato testuale imponga la qualificazione della circostanza nell’ambito di quelle di natura soggettiva, inerenti al motivo a delinquere.
Per far questo, la Corte ritiene di approfondire se il richiamo alla finalità agevolativa debba esaurire la volizione dell’agente o se possa accompagnarsi a finalità più egoistiche. In argomento è bene prendere le mosse dall’analisi svolta in punto di elemento intenzionale dalle Sezioni Unite n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, per evidenziare che nella forma del dolo specifico o intenzionale la volontà della condotta si accompagna alla rappresentazione dell’evento, che è tenuto di mira dall’agente e giustifica l’azione, ancorché non necessariamente in forma esclusiva; tale forma di atteggiamento psicologico si distingue dal dolo diretto per la specifica direzione della condotta rispetto all’evento, che nella forma diretta si limita alla rappresentazione e non alla volizione, oltre che dell’azione, delle sue conseguenze.
La forma aggravata in esame esige quindi che l’agente deliberi l’attività illecita nella convinzione di apportare un vantaggio alla compagine associativa: è necessario però, affinché il reato non sia privo di offensività, che tale rappresentazione si fondi su elementi concreti, inerenti, in via principale, all’esistenza di un gruppo associativo avente le caratteristiche di cui all’art. 416- bis cod. pen. ed alla effettiva possibilità che l’azione illecita si inscriva nelle possibili utilità, anche non essenziali al fine del raggiungimento dello scopo di tale compagine, secondo la valutazione del soggetto agente, non necessariamente coordinata con i componenti dell’associazione.
Trattandosi invero di un’aggravante che colpisce la maggiore pericolosità di una condotta, ove finalizzata all’agevolazione, è necessario che la volizione che la caratterizza possa assumere un minimo di concretezza, anche attraverso una mera valutazione autonoma dell’agente, che non impone un raccordo o un coordinamento con i rappresentanti del gruppo e, soprattutto, non prevede che il fine rappresentato sia poi nel concreto raggiunto, pur essendo presenti tutti gli elementi di fatto, astrattamente idonei a tale scopo.
È bene ribadire che tale finalità non deve essere esclusiva, ben potendo accompagnarsi ad esigenze egoistiche quali, ad esempio, la volontà di proporsi come elemento affidabile al fine dell’ammissione al gruppo o qualsiasi altra finalità di vantaggio, assolutamente personale, che si coniughi con l’esigenza di agevolazione.
Sia pure con le richiamate specificazioni non vi è dubbio quindi che il fine agevolativo costituisca un motivo a delinquere; peraltro il nostro sistema penale riconosce la rilevanza del motivo, non solo come elemento caratterizzante la fattispecie (finalità di terrorismo o di arricchimento patrimoniale per il sequestro di persona), ma anche nella forma circostanziale (quale il motivo abietto e futile, la finalità di discriminazione e odio etnico-razziale, la finalità di profitto nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, la finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico). Non risulta pertanto condivisibile la perplessità espressa nell’ordinanza di rimessione, relativa all’inquadramento di un elemento strutturale della fattispecie, quale il dolo specifico, nell’elemento accidentale, costituito dalla circostanza.
A parte il richiamo a fattispecie analoghe, appena riferite, il dato si rivela anche concettualmente del tutto compatibile con il sistema, posto che il particolare atteggiamento psicologico è richiesto per la configurazione del solo elemento accidentale che, ove riscontrabile, si salda con quelli del reato a cui è applicabile per definire una autonoma fattispecie, che accede alla diversa disciplina nascente dalla fusione delle due previsioni. Sul punto viene richiamato quanto espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 40982 del 21/06/2018, ove si è affermata la mancanza di differenza strutturale tra elementi costitutivi e circostanze del reato, in ragione di quanto emerge dalle disposizioni di cui agli artt. 61, 62 e 84 cod. pen. e la libertà del legislatore di configurare determinate ipotesi quali elementi costitutivi o elementi circostanziali.
Nel concreto, all’ordinario elemento psicologico che caratterizza il reato, si deve aggiungere la rilevanza della finalità specifica, per giustificare l’aggravamento sanzionatorio. Assume rilievo in proposito sottolineare quanto già emerso dall’analisi della giurisprudenza e della dottrina, che univocamente richiedono per la configurazione dell’aggravante agevolativa, la compresenza di elementi oggettivi e soggettivi, al di là della scelta in tema di classificazione astratta operata. Quel che innegabilmente la disposizione richiede, per consentire l’applicazione dell’aggravante, è la presenza del dolo specifico o intenzionale in uno dei partecipi. Tale atteggiamento soggettivo può essere individuato quale elemento tipizzante del reato (come ad esempio nell’abuso di ufficio, nel sequestro di persona a scopo di estorsione, nel furto) o elemento circostanziale (aggravante di discriminazione o di odio razziale o la finalità di terrorismo, o i motivi abietti e futili) ed è conseguenza della rilevanza attribuita dalla legge al motivo a delinquere per caratterizzare la fattispecie o giustificare l’aggravamento di pena.
Come si accennava la ricostruzione del motivo a delinquere in tal senso non è mai esclusiva, poiché plurimi possono essere gli stimoli all’azione; quel che rileva è che tra questi sussistano elementi che consentono di ravvisare anche quello valutato necessario dalla norma incriminatrice. Costituisce dato di comune esperienza che possano sussistere plurimi motivi che determinano all’azione che, ove accertati, non depotenziano la funzione intenzionale della condotta richiesta dalla norma specifica.
E’ quindi possibile la presenza di una pluralità di motivi, mentre essenziale alla configurazione del dolo intenzionale è la volizione da parte dell’agente, tra i motivi della sua condotta, della finalità considerata dalla norma. Tenuto conto della richiesta di elementi oggettivi a riscontro della offensività della condotta, che non assume alcuna pericolosità ulteriore ove non abbia alcuna possibilità o potenzialità di realizzazione, la ricostruzione ermeneutica impone quindi un approccio alla fattispecie, che vada al di là della classificazione formale, per valutare l’estensibilità della circostanza al concorrente.
Tale chiave interpretativa del reato risulta seguire le stesse linee ermeneutiche applicate per l’aggravante della finalità di terrorismo, in relazione alla quale si è univocamente sostenuto che l’intenzione dell’agente deve assumere una connotazione oggettiva, esplicitando gli effetti della condotta, tipizzati dalla previsione normativa di cui all’art. 270-sexies cod. pen. Si é osservato al riguardo che la norma, pur descrivendo una finalità, comprende anche elementi di carattere obiettivo, «quali misuratori della specifica offensività, e quali garanzie di un ordinamento che, per necessità costituzionale, deve rimanere distante dai modelli del diritto penale dell’intenzione e del tipo d’autore».
A questo punto le Sezioni Unite riconoscono come sia delicata la ricostruzione dello spazio di autonomia tra la fattispecie aggravata dalla finalità agevolatrice ed il concorso esterno in associazione mafiosa. Partendo dal dato comune alle figure giuridiche richiamate, inerente alla esistenza dell’associazione territoriale illecita, quel che caratterizza il concorrente esterno rispetto all’autore dell’illecito aggravato è che solo il primo ha un rapporto effettivo e strutturale con il gruppo, della cui natura e funzione ha una conoscenza complessiva, che gli consente di cogliere l’assoluta funzionalità del proprio intervento, ancorché unico, alla sopravvivenza o vitalità del gruppo. Inoltre perché possa dirsi realizzata la fattispecie delittuosa si richiede che si verifichi il risultato positivo per l’organizzazione illecita, conseguente a tale intervento esterno, che si caratterizza per la sua infungibilità.
Non a caso elemento differenziale della condotta è l’intervento non tipico dell’attività associativa, ma maturato in condizioni particolari (la cd. fibrillazione o altrimenti definita situazione di potenziale capacità di crisi della struttura), che rendono ineludibile un intervento esterno, per la prosecuzione dell’attività. Rispetto allo sviluppo dello scopo sociale l’azione del concorrente esterno si contraddistingue da elementi di atipicità ed al contempo di necessarietà in quel particolare ambito temporale.
Gli elementi costitutivi appena richiamati sono estranei alla figura aggravata, con cui condivide solo la necessità dell’esistenza dell’associazione mafiosa, mentre nella forma circostanziale l’utilità dell’intervento può essere anche valutata astrattamente solo da uno degli agenti, senza estensione ai componenti del gruppo, e del tutto estemporanea e fungibile rispetto all’attività delinquenziale programmata e, soprattutto, non necessariamente produttiva di effetti di concreta agevolazione.
Si è chiarito inoltre che anche l’associato può consumare condotte aggravate dalla finalità agevolativa, mentre non può essere concorrente esterno, per la intrinseca contraddizione logica di un concorso ex art. 110 cod. pen. del partecipe. Non appare per contro rilevante, al fine di escludere la natura di dolo intenzionale nella forma circostanziale, la possibile esistenza di una discrasia logica di una figura delittuosa, quale il concorso esterno, per cui è sufficiente il dolo diretto, e la richiesta del dolo intenzionale per la figura circostanziale. Basterà sul punto rilevare la differente struttura delle due figure delittuose, delle quali l’art. 416-bis cod. pen. non opera alcun riferimento ad una finalità specifica, per escludere che la sua forma concorsuale possa essere ricostruita diversamente; per contro l’illogicità di un dolo specifico inerente ad un elemento accessorio della fattispecie, come si accennava, è superata agevolmente dal richiamo ad altre figure analoghe (per tutte l’art. 61 n. 1 cod. pen.) che avvalorano la possibilità di una richiesta del dolo per la circostanza.
La considerazione che questa si applichi ad una fattispecie delittuosa che deve essere perfetta nei suoi elementi essenziali, non priva di rilievo la possibilità che si richieda un particolare collegamento psicologico, con l’ulteriore finalità della realizzazione di un evento specifico, che si aggiunge a quello tipico della fattispecie.
Definite le caratteristiche dell’aggravante della finalità agevolativa della associazione mafiosa, si deve chiarire la sua applicabilità ai concorrenti nel reato.
Il dibattito sulla natura oggettiva o soggettiva dell’aggravante in esame è stato determinato, soprattutto, per le diverse conseguenze in ordine all’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 59 o 118 cod. pen.. Viene in proposito sottolineato che le due norme richiamate sono state ridisegnate dalla novella contenuta nella legge 7 febbraio 1990 n. 19, modifica normativa che non ha toccato invece l’art. 70 cod. pen. che classifica le circostanze a seconda della loro natura soggettiva od oggettiva.
L’esigenza perseguita da tale intervento novellatore è stata quella di garantire l’eliminazione di qualsiasi riflesso di responsabilità oggettiva, anche su elementi non costitutivi del reato, per l’esigenza di ricollegare qualsiasi componente dell’illecito, costitutivo o circostanziale, alla volontà del soggetto agente, imposta dall’attuazione del criterio costituzionale della responsabilità personale. In tal senso l’art. 59 cod. pen., che prima prevedeva l’attribuzione all’autore delle aggravanti e delle attenuanti, anche se da lui non conosciute, è stato modificato nel senso di consentire l’applicazione delle aggravanti solo se conosciute dall’agente; contestualmente se prima l’art. 118 cod. pen. imponeva l’applicazione a tutti i concorrenti delle circostanze aggravanti soggettive non inerenti alla persona del colpevole, se avevano agevolato la consumazione del reato, cosi attribuendo maggiore gravità al fatto, a prescindere dall’adesione a tutte le sue componenti da parte dei singoli concorrenti, attualmente il nuovo testo circoscrive l’applicazione di alcune aggravanti soggettive alla persona a cui si riferiscono.
Viene rilevato, per contro, che la modifica non ha raggiunto la bipartizione tra circostanze oggettive e soggettive, di cui all’art. 70 cod. pen., rimasto immutato. L’analisi storica della modifica porta a correggere l’assunto generalizzato secondo cui le circostanze soggettive devono essere escluse dall’estensione ai concorrenti, posto che, a ben vedere, tale esclusione, sancita solo dall’art. 118 cod. pen., è circoscritta a quelle aggravanti attinenti alle sole intenzioni dell’agente, pertanto potenzialmente non riconoscibili dai concorrenti.
Se le circostanze soggettive richiamate dall’art. 70 cod. pen. sono quelle che concernono «la intensità del dolo o il grado della colpa, o le condizioni e le qualità personali del colpevole, o i rapporti fra il colpevole e l’offeso, ovvero che sono inerenti alla persona del colpevole», l’art. 118 cod. pen. non prevede l’impossibilità di estensione delle circostanze soggettive tout court, ma opera un’indicazione autonoma, limitata alle «circostanze che aggravano o diminuiscono le pene concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze inerenti alla persona del colpevole» che richiede siano «valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono»; vengono così escluse da tale delimitazione le condizioni e le qualità personali del colpevole, ed i rapporti tra il colpevole e l’offeso, elementi che, pur nella chiara connotazione soggettiva, possono essere percepite anche ab externo.
Si pensi, in particolare, alla qualifica soggettiva del colpevole, derivante dalla sua natura professionale, o ai rapporti di parentela di questi con l’offeso, elementi personali, ma nei fatti astrattamente conoscibili dal coimputato. Il discrimine, ai fini della possibilità di estensione delle circostanze, non sembra riguardare la natura, oggettiva o soggettiva della circostanza, secondo la classificazione contenuta nel codice, ma piuttosto la possibilità di estrinsecazione della circostanza all’esterno, cosicché rimane esclusa dall’attribuzione al compartecipe qualsiasi elemento, di aggravamento o di attenuazione della fattispecie, confinato all’intento dell’agente che, proprio in quanto tale, non può subire estensione ai concorrenti, perché da questi non necessariamente conoscibile.
In conseguenza, qualora si rinvengano elementi di fatto suscettibili di dimostrare che l’intento dell’agente sia stato riconosciuto dal concorrente, e tale consapevolezza non lo abbia dissuaso dalla collaborazione, non vi è ragione per escludere l’estensione della sua applicazione, posto che lo specifico motivo a delinquere viene in tal modo reso oggettivo, sulla base degli specifici elementi rivelatori che, per quanto detto, devono accompagnarne la configurazione, per assicurare il rispetto del principio di offensività.
La soluzione qui accolta, del resto, non appare nuova, ma ampiamente acquisita nella giurisprudenza, con riferimento ad altre figure di aggravanti che riguardano altri motivi a delinquere o l’intensità del dolo. È quanto avvenuto in tema di premeditazione, circostanza inesorabilmente connessa all’intensità del dolo e, quindi, compresa nell’art. 118 cod. pen., e tuttavia ritenuta chiaramente estensibile al concorrente non partecipe di tale intensa programmazione, ove ne sia consapevole.
In giurisprudenza è stato infatti chiaramente affermato che la conoscenza effettiva e non la mera conoscibilità della premeditazione altrui impone l’applicazione dell’aggravante anche al partecipe, sgomberando il campo dalla possibilità di una imputazione colposa della circostanza ex art. 59, secondo comma, parte seconda, cod. pen.
Ad analoghe conclusioni si è giunti in tema di estensione al concorrente dell’aggravante dei motivi abietti e futili, anch’essa pacificamente ascrivibile al motivo a delinquere, estensione condizionata solo alla conoscenza di tali fini a cura del partecipe, prima di assicurare il suo intervento di collaborazione.
In senso conforme si è concluso anche nell’ipotesi dell’aggravante del nesso teleologico, connessa allo scopo dell’agente, ma ritenuta applicabile al concorrente che non abbia elaborato tale nesso, ove lo stesso fosse a questi conoscibile ed a lui attribuibile, anche a titolo di dolo eventuale in forza della intervenuta rappresentazione.
In definitiva, là dove l’elemento interno proprio di uno degli autori sia stato conosciuto anche dal concorrente che non condivida tale fine, quest’ultimo viene a far parte della rappresentazione ed è quindi oggetto del suo dolo diretto ove il concorrente garantisce la sua collaborazione nella consapevolezza della condizione inerente il compartecipe.
Quanto esposto induce a ritenere che il concorrente nel reato, che non condivida con il coautore la finalità agevolativa, ben può rispondere del reato aggravato, le volte in cui sia consapevole della finalità del compartecipe, secondo la previsione generale dell’art. 59, secondo comma, cod. pen., che attribuisce all’autore del reato gli effetti delle circostanze aggravanti da lui conosciute. Tale disposizione è applicabile al concorrente ex art. 110 cod. pen., atteso che l’impostazione monistica del reato plurisoggettivo impone l’equivalenza degli apporti causali alla consumazione dell’azione concorsuale, cosi che la realizzazione della singola parte dell’azione, convergente verso il fine, consente di attribuire al partecipe l’intera condotta illecita, che rimane unitaria.
In tal caso per il coautore del reato, non coinvolto nella finalità agevolatrice, è sufficiente il dolo diretto, che comprende anche le forme di dolo eventuale. E’ evidente però che la natura soggettiva dell’aggravante di pertinenza del partecipe non consente di estendere l’imputazione soggettiva alla colpa, prevista dalla seconda parte della disposizione richiamata, in quanto la condizione in esame è incompatibile con un obbligo giuridico di conoscenza o di ordinaria prudenza, necessariamente ricollegabile all’imputazione colposa.
Invero le situazioni contingenti, l’occasionalità della compartecipazione, l’ignoranza dell’esistenza di una compagine mafiosa o dei suoi collegamenti con l’occasionale partecipe, non potrebbe mai generare un obbligo giuridico di diligenza, suscettibile di sostenere le condizioni dell’imputazione colposa. La funzionalizzazione della condotta all’agevolazione mafiosa da parte del compartecipe in definitiva deve essere oggetto di rappresentazione, non di volizione, aspetto limitato agli elementi costitutivi del reato, e non può caratterizzarsi dal mero sospetto, poiché in tal caso si porrebbe a carico dell’agente un onere informativo di difficile praticabilità concreta.
A tal riguardo occorre accertare se il compartecipe è in grado di cogliere la finalità avuta di mira dal partecipe, condizione che può verificarsi sia a seguito della estrinsecazione espressa da parte dell’agente delle proprie finalità, o per effetto della manifestazione dei suoi elementi concreti, quali particolari rapporti del partecipe con l’associazione illecita territoriale, o di altri elementi di fatto che emergano dalle prove assunte. In presenza di tali dati dimostrativi, non potrebbe negarsi che l’agente, cui si riferisce l’art. 59, secondo comma, cod. pen., concetto che comprende chiunque dia il suo contributo alla realizzazione dell’illecito, e quindi anche il compartecipe, si sia rappresentato la finalità tipizzante la fattispecie aggravata, e pur, non agendo personalmente a tal fine, abbia assicurato il suo apporto al perfezionamento dell’azione illecita, nelle forme volute dai concorrenti.
Sulla base di quanto illustrato viene enunciato il seguente principio di diritto: «L’aggravante agevolatrice dell’attività mafiosa prevista dall’art. 416-bis 1 cod. pen. ha natura soggettiva ed è caratterizzata da dolo intenzionale; nel reato concorsuale si applica al concorrente non animato da tale scopo, che risulti consapevole dell’altrui finalità».
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Il 7 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 11570 che ribadisce l’elemento che distingue il delitto di associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato continuato è individuabile nel carattere dell’accordo criminoso, che nel concorso è occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati, con la realizzazione dei quali si esaurisce l’accordo. Nel reato associativo, invece, l’accordo risulta diretto all’attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti.
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Il 9 ottobre esce la sentenza della I sezione della Cassazione penale n. 28201, alla stregua della quale non è possibile esportare le conclusioni formulate dalla Corte EDU nella c.d. sentenza “Contrada” ad altri procedimenti riguardanti soggetti non coinvolti da tale pronuncia, non potendosi attribuire alla pronuncia in esame una portata generalizzata.
Questioni intriganti
Quando si è posta e quale è la problematica che investe i rapporti tra reato associativo e c.d. concorso esterno?
- negli anni Settanta, il fenomeno del terrorismo ha implicato numerosi processi per banda armata in relazione ai quali, a fini repressivi, si è inteso punire anche soggetti la cui partecipazione alla banda armata appariva meno strutturata;
- aperta la via, la fattispecie ha trovato sempre maggiore applicazione con riguardo ad associazioni di stampo mafioso, capaci di maggiore pervasività a fronte della palesata, peculiare abilità di infiltrazione nel tessuto politico, amministrativo, economico, imprenditoriale e più in genere sociale che connota determinati territori;
- il reato associativo è tipicamente plurisoggettivo;
- si consuma quando 3 o più persone si associano per commettere più delitti;
- chi partecipa all’associazione ne “fa parte” (come chiarisce l’416.bis, comma 1, c.p.) e dunque riveste un ruolo all’interno della compagine associativa criminosa, risultandovi profondamente integrato dal punto di vista dell’organizzazione che si prefigge scopi criminali;
- il partecipe è dunque – sul crinale oggettivo – stabilmente e permanentemente inserito nella struttura dell’associazione, della quale appunto “fa parte” e della quale si mette a disposizione, in quanto partecipe, aderendo alle regole che con l’accordo associativo sono state poste, e così rinforzandola appunto sul crinale strutturale;
- il partecipe medesimo – dal punto di vista soggettivo – vuole consapevolmente far parte della societas sceleris, dacché ne condivide scopi e metodi, palesando dunque la c.d. affectio societatis;
- il problema che si è posto col trascorrere dei lustri – e col connesso sempre più evidente e tragico palesarsi della operatività di compagini di tipo mafioso – è quello di verificare se anche chi non partecipa, e dunque non “fa parte”, dell’associazione a delinquere possa incorrere in responsabilità penale perché ad essa in qualche modo “limitrofo”, contermine o comunque contiguo, e dunque potenziale “concorrente” ai sensi dell’110 c.p., in combinato disposto con la singola fattispecie associativa criminosa, ed in particolare con l’art.416.bis;
- vanno assunti come punti di riferimento la conservazione dell’associazione ovvero il relativo rafforzamento: solo per chi dall’esterno concorre a questi fenomeni, fornendo un contributo alla vita ed alla operatività dell’associazione medesima, si pone un problema di possibile “concorso esterno” o “dall’esterno”;
- il concorrente esterno, al cospetto di talune specifiche condizioni viene assunto punibile come quello “interno” e strutturato perché partecipa – quand’anche appunto non, strutturalmente, alla compagine – in ogni caso al vulnus che per il tramite del sodalizio criminoso viene inferto all’interesse che la pertinente fattispecie penale intende tutelare, e sostanzialmente riconducibile alla tutela dell’ordine pubblico.
E’ configurabile un concorso “esterno” o “eventuale” (non necessario) in associazione mafiosa?
- nessun problema si pone per la configurabilità di un concorso esterno di tipo morale, come nel classico caso di chi non fa più parte dell’associazione criminosa, ma istiga altri – ab externo appunto – a farne parte entrandovi;
- per quanto concerne invece il concorso esterno materiale, si contrappongono in dottrina ed in giurisprudenza fondamentalmente 2 tesi: b.1) non configurabilità: chi contribuisce all’associazione in modo evidente e concreto, ne fa già parte, e dunque è concorrente necessario (e non già meramente eventuale) della compagine criminosa; sia dal punto di vista della condotta materiale, sia sul crinale del pertinente approccio psicologico, il concorso c.d. esterno o eventuale è in realtà pienamente sovrapponibile e non differenziabile rispetto al concorso c.d. interno o necessario, non distinguendosi dunque il primo da secondo, e dunque nella sostanza essi coincidendo pienamente; sul crinale oggettivo, chi fornisce un apporto alla realizzazione dell’associazione mafiosa o ne fa parte, e ne è dunque concorrente necessario, oppure delinque sotto l’usbergo di altre figure criminose, come ad esempio il favoreggiamento; anche sul versante dell’elemento soggettivo, non è possibile differenziare il partecipe necessario da quello eventuale, stante il del tutto sovrapponibile atteggiamento volitivo delle due categorie dei concorrenti i quali, ai sensi dell’110 c.p., si propongono di realizzare il “medesimo reato” che in effetti realizzano consapevolmente e volitivamente per tale, facendo dunque parte tutti dell’associazione mafiosa (ovvero, alternativamente, rimanendone fuori); a ciò si aggiunge che tutto quello che è in qualche modo limitrofo alla mafia e ad essa contiguo, pur al di fuori della partecipazione all’associazione, appare già disciplinato in modo esaustivo dal legislatore, senza la necessità che si forgi l’ambigua figura del c.d. “concorso esterno”, come dimostrano – sul crinale dei singoli associati mafiosi – le figure della c.d. assistenza agli associati ex art.418 c.p. e del favoreggiamento aggravato ex art.378, comma 2, cp. (agevolata elusione delle indagini o sottrazione alle medesime da parte del soggetto responsabile della commissione del delitto di cui all’art.416.bis c.p.) e – sul versante delle associazioni mafiose complessivamente intese – l’aggravante ex art.7 del decreto legge n.152.91, convertito con legge n.203.91 ed afferente a chi commetta delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo al fine di agevolare le attività delle associazioni mafiose o di quelle ad esse equiparate ex art.416.bis, ultimo comma, c.p.; tutte disposizioni normative che si rivelerebbero inutili, nel prisma ermeneutico abbracciato dalla tesi negazionista, laddove fosse appunto configurabile un concorso esterno in associazione mafiosa;
Cosa occorre rammentare degli elementi che contraddistinguono il concorso esterno in associazione mafiosa?
- i singoli contributi prestati dall’estraneo sono occasionali, o comunque autonomi rispetto al contributo strutturale tipico di chi “fa parte” dell’associazione;
- si tratta tuttavia di contributi immediatamente funzionali alla struttura organizzativa dell’associazione;
- si tratta, altresì, di contributi normalmente infungibili rispetto alle prestazioni che il sodalizio può pretendere da chi è interno al medesimo;
- deve essere riscontrabile un nesso di causalità tra ciascun contributo ed un concreto vantaggio ritratto dal sodalizio criminoso (strutturalmente inteso);
- tale vantaggio deve tradursi in un rafforzamento, in un consolidamento, o quantomeno nel mantenimento in vita della compagine, quand’anche limitatamente ad uno solo dei diversi settori di interesse e di operatività dell’associazione criminale;
- dal punto di vista soggettivo, occorre poi la volontaria consapevolezza in capo all’”esterno” di favorire, attraverso la spiegata condotta, l’organizzazione mafiosa nel relativo complesso.