<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Massima</strong></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ogni qual volta una prestazione non sia dovuta in senso assoluto ovvero, sul crinale relativo, essa non sia dovuta “</em>da quel debitore<em>” o “</em>a quel creditore<em>”, affiora un difetto di causa dell’attribuzione patrimoniale che a quella prestazione è sottesa, onde il “</em>pagamento<em>” indebito è fatto che obbliga chi ha ricevuto (</em>accipiens, <em>o terzi che a lui si collegano) alle restituzioni nei confronti di chi ha dato (</em>solvens<em>, o terzi che a lui si collegano). Non sempre tuttavia è facile comprendere se si è al cospetto di un pagamento realmente “</em>indebito<em>” piuttosto che, in qualche modo, causalmente giustificato; ancor più a monte poi, non è sempre agevole intendere se quello operato dal </em>solvens<em> sia stato – in concreto - un autentico “</em>pagamento<em>”, come dimostra la lunga vicenda dei rapporti tra la banca </em>accipiens<em> ed il correntista </em>solvens<em>, allorché sia dubbio se quest’ultimo abbia provveduto a “</em>pagare<em>” ovvero a meramente “</em>ripristinare<em>”, con delicati risvolti anche in tema di decorrenza e prova della prescrizione che correda il pertinente diritto alle restituzioni.</em></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Crono-articolo</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1865</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 25 giugno viene varato il R.D. 2358, codice civile del Regno d’Italia, di impianto liberale, che disciplina l’indebito nell’ambito dei c.d. quasi contratti, agli articoli 1145 e seguenti.</p> <p style="text-align: justify;">In particolare, stando all’art.1145 chi per errore o scientemente riceve ciò che non gli è dovuto è obbligato a restituirlo a colui dal quale lo ha indebitamente ricevuto; per converso, ai sensi del successivo art.1146 chi per errore si credeva debitore, quando abbia pagato il debito, ha il diritto della ripetizione contro il creditore, diritto che tuttavia cessa se il creditore, in conseguenza del pagamento (erroneo) si è privato in buona fede del titolo e delle cautele relative al credito, fatto salvo in tale fattispecie, in capo al debitore che abbia erroneamente pagato, il regresso nei confronti del vero debitore.</p> <p style="text-align: justify;">In forza dell’art.1147 poi quegli che ha ricevuto il pagamento, se era in mala fede, è tenuto a restituire tanto il capitale, quanto gli interessi o i frutti dal giorno del pagamento; quegli che, ex art.1148, indebitamente abbia ricevuto una cosa, deve restituirla in natura, se sussiste; qualora invece la cosa più non sussista o sia deteriorata, quegli che l’abbia ricevuta in mala fede deve restituirne il valore, ancorché la cosa sia perita ovvero sia deteriorata per solo caso fortuito; mentre ove l’abbia ricevuta in buona fede, non è tenuto alla restituzione se non fino alla concorrenza di ciò che è stato rivolto a relativo profitto.</p> <p style="text-align: justify;">Ancora, secondo l’art.1149 chi ha venduto la cosa ricevuta in buona fede, non è tenuto che a restituire il prezzo ricavato dalla vendita od a cedere l’azione per conseguirlo.</p> <p style="text-align: justify;">Infine, ai sensi dell’art.1150 colui al quale la cosa è restituita deve rimborsare anche il possessore in mala fede delle spese fatte per la conservazione della cosa medesima, oltre che di quelle utili a norma dell’art.705.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1936</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 giugno esce la sentenza della Cassazione n. 287 che – mutuando la dottrina - afferma il diritto alla ripetizione di indebito essere fondato sostanzialmente, oltre che su due elementi espressi – il “<em>pagamento</em>” ed il difetto di causa che lo rende “<em>indebito</em>” – anche su uno tacito ed inespresso, compendiantesi nell’errore del <em>solvens</em> in ordine alla doverosità del pagamento.</p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1942</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 16 marzo viene varato il R.D. n.267, nuovo codice civile (entrato in vigore il 21 aprile), che all’art.1173 disciplina le fonti delle obbligazioni assumendole nascenti da contratto, da fatto illecito o da qualunque altro atto o fatto idoneo a produrle secondo l’ordinamento giuridico; tra le fonti “atipiche” dell’obbligazione rientra anche il pagamento di una prestazione indebita, “fatto” dal quale nasce l’obbligo restitutorio in capo all’<em>accipiens</em> ed in favore del <em>solvens</em>.</p> <p style="text-align: justify;">Così, secondo il cui art.2033, rubricato “<em>indebito oggettivo</em>”, chi ha eseguito un <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2380.html">pagamento non dovuto</a> ha diritto di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1084.html">ripetere</a> ciò che ha pagato ed ha inoltre diritto ai <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/998.html">frutti</a> e agli <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3589.html">interessi</a> dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4545.html">mala fede</a>, oppure, se questi era in <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1488.html">buona fede</a>, dal giorno della domanda.</p> <p style="text-align: justify;">Stando al successivo art.2034 non è invece ammessa la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2286.html">ripetizione</a> di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2382.html">doveri morali o sociali</a> , salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace (comma 1); si tratta di doveri che – come ogni altro per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato - non producono altri effetti (comma 2). Del pari, ai sensi dell’art.2035 chi ha eseguito una <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4122.html">prestazione</a> per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa al <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/605.html">buon costume</a> non può ripetere quanto ha pagato. Si tratta dunque di due fattispecie di indebito “<em>irripetibile</em>”.</p> <p style="text-align: justify;">La disciplina del c.d. indebito soggettivo si ritrova invece all’art.2036, onde chi ha pagato un debito altrui , credendosi <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3991.html">debitore</a> in base a un <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2385.html">errore scusabile</a>, può ripetere ciò che ha pagato, sempre che il <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1530.html">creditore</a> non si sia privato in <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1488.html">buona fede</a> del titolo o delle <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1538.html">garanzie</a> del credito (comma 1); chi ha ricevuto l'<a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2388.html">indebito</a> è peraltro anche tenuto a restituire i <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/998.html">frutti</a> e gli <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/3589.html">interessi</a> dal giorno del pagamento, se era in <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4545.html">mala fede</a>, o dal giorno della domanda, se era in buona fede (comma 2); quando invece la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1084.html">ripetizione</a> non è ammessa, colui che ha pagato subentra nei diritti del creditore (comma 3).</p> <p style="text-align: justify;">La restituzione di cosa determinata trova la propria disciplina all’art.2037, onde chi ha ricevuto indebitamente una cosa determinata è tenuto a restituirla (comma 1); se la cosa è perita, anche per <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1295.html">caso fortuito</a>, chi l'ha ricevuta in <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4545.html">mala fede</a> è tenuto a corrisponderne il valore, mentre se la cosa è soltanto deteriorata, colui che l'ha data può chiedere l'equivalente, oppure la restituzione e un'indennità per la diminuzione di valore (comma 2); chi invece ha ricevuto la cosa in <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1488.html">buona fede</a>, non risponde del perimento o del deterioramento di essa, ancorché dipenda da fatto proprio, se non nei limiti del proprio <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2400.html">arricchimento</a>.</p> <p style="text-align: justify;">Peculiare la disciplina dell’alienazione di cosa ricevuta indebitamente, ex art.2038 c.c., onde chi, avendo ricevuto la cosa in <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1488.html">buona fede</a>, l'ha alienata prima di conoscere l'obbligo di restituirla è tenuto a restituire il corrispettivo conseguito; se questo è ancora dovuto, colui che ha pagato l'indebito subentra nel diritto dell'<a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2392.html">alienante</a>, mentre nel caso di alienazione <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2393.html">a titolo gratuito</a>, il <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2394.html">terzo acquirente</a> è obbligato, nei limiti del proprio <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2400.html">arricchimento</a>, verso colui che ha pagato l'indebito (comma 1). Chi invece ha alienato la cosa ricevuta in <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4545.html">mala fede</a>, o dopo aver conosciuto l'obbligo di restituirla, è obbligato a <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2395.html">restituirla in natura</a> o a corrisponderne il valore; colui che ha pagato l'indebito può nondimeno esigere il corrispettivo dell'alienazione e può anche agire direttamente per conseguirlo; infine, se l'alienazione è stata fatta a titolo gratuito, l'acquirente, qualora l'alienante sia stato <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2396.html">inutilmente escusso</a>, è obbligato, nei limiti dell'arricchimento, verso colui che ha pagato l'indebito (comma 2).</p> <p style="text-align: justify;">Qualora l’indebito sia stato ricevuto da un incapace, scatta l’art.2039 onde l'<a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1781.html">incapace</a> ridetto, anche se in <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/4545.html">mala fede</a>, non è tenuto che nei limiti in cui ciò che ha ricevuto è stato rivolto a suo vantaggio.</p> <p style="text-align: justify;">Infine, ai sensi dell’art.2040, colui al quale è restituita la cosa è tenuto a rimborsare il <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1473.html">possessore</a> delle spese e dei miglioramenti, a norma degli articoli <a href="https://www.brocardi.it/codice-civile/libro-terzo/titolo-viii/capo-ii/sezione-i/art1149.html">1149</a>, <a href="https://www.brocardi.it/codice-civile/libro-terzo/titolo-viii/capo-ii/sezione-i/art1150.html">1150</a>, <a href="https://www.brocardi.it/codice-civile/libro-terzo/titolo-viii/capo-ii/sezione-i/art1151.html">1151</a> e <a href="https://www.brocardi.it/codice-civile/libro-terzo/titolo-viii/capo-ii/sezione-i/art1152.html">1152</a>.</p> <p style="text-align: justify;">Significative sotto altro profilo le norme che disciplinano l’arricchimento senza causa, di cui ai successivi articoli 2041 e seguenti, nonché l’art.1180 in tema di c.d. adempimento del terzo e l’art.2126 in rapporto ai c.d. rapporti contrattuali “<em>lavoristici</em>” di fatto.</p> <p style="text-align: justify;">Dal punto di vista dell’indebito soggettivo sul crinale del creditore (<em>ex latere accipientis</em>) sono poi rilevanti tanto l’art.1188, comma 2, in tema di “<em>destinatario del pagamento</em>”, alla cui stregua il pagamento fatto a chi non era legittimato a riceverlo libera il debitore, se il creditore lo <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1757.html">ratifica</a> o se ne ha approfittato, ipotesi queste ultime in cui invece il debitore deve assumersi liberato; quanto l’art.1189 c.c., in tema di pagamento al creditore apparente, onde il debitore che esegue il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1488.html">buona fede</a> (comma 1), chi ha ricevuto il pagamento essendo peraltro tenuto alla restituzione verso il vero creditore secondo le regole stabilite per la <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1084.html">ripetizione dell'indebito</a> (comma 2). Quanto invece all’indebito soggettivo sul versante del debitore, significativa importanza assume invece l’adempimento - con effetti estintivi – del terzo ex art.1180 c.c.</p> <p style="text-align: justify;">Importante anche l’art.1422 c.c. alla cui stregua l'<a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1774.html">azione</a> per far dichiarare la nullità di un contratto non è soggetta a <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1095.html">prescrizione</a> , salvi gli effetti dell'<a href="https://www.brocardi.it/dizionario/1776.html">usucapione</a> e della prescrizione delle <a href="https://www.brocardi.it/dizionario/2286.html">azioni di ripetizione</a>, laddove il richiamo esplicito alle “<em>azioni di ripetizione</em>” sembra appunto avvincere alla perdita di effetti originaria o sopravvenuta di un contratto le azioni restitutorie modellate sulla ripetizione di indebito ex art.2033 e seguenti.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1948</strong></p> <p style="text-align: justify;">La Costituzione repubblicana, sul crinale dei rapporti economici, annovera il fondamentale art.41, comma 1 e 2, alla cui stregua se da un lato l'iniziativa economica privata è libera, dall’altro essa non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; ancora, stando all’art.42, comma 2, la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale (oltre che di renderla accessibile a tutti), così costituzionalizzando appunto quei “<em>limiti</em>” alla proprietà privata dal cui superamento discende, più o meno direttamente, una forma di c.d. abuso del diritto. Ne discende che le attribuzioni patrimoniali debbono trovare una causa, finendo altrimenti con il compendiare una “<em>disfunzione sociale</em>” e, nei casi più gravi, un modo di acquisto atipico della proprietà di una <em>res</em>, che entra nel dominio di taluno in base ad una indebita prestazione di talaltro non sorretta da veruna giustificazione “<em>causale</em>”.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1958</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 9 ottobre esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.3178, alla cui stregua perché un pagamento possa dirsi indebito la c.d. <em>causa solvendi</em> può far difetto tanto <em>ab origine</em> quanto venir meno in un momento successivo.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1959</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 7 luglio esce la sentenza della sezione … della Cassazione n.2162 che ribadisce il principio onde ogni prestazione deve essere sorretta da una valida causa negoziale che laddove difetti o sia invalida determina, in via automatica, la nullità del pertinente trasferimento.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1968</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 30 dicembre esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.4089 che ribadisce il principio onde ogni prestazione deve essere sorretta da una valida causa negoziale che laddove difetti o sia invalida determina, in via automatica, la nullità del pertinente trasferimento.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1975</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 12 febbraio esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.556 alla cui stregua nell’ipotesi in cui una res sia stata volontariamente consegnata ad altri nella convinzione che questi ne fosse il proprietario, il tradens che – accortosi dell’errore di tale convincimento – voglia affermare di essere egli il proprietario della cosa stessa, può esperire a propria scelta o l’azione di restituzione di cosa determinata ex art.2037 c.c., ovvero l’azione di rivendicazione (prescrizione decennale).</p> <p style="text-align: justify;">Per la prima è sufficiente che l’attore dimostri la res non essere di proprietà del convenuto, sostenendo che il medesimo non ha alcun diritto a possederla o a detenerla; per la seconda deve invece provare di essere lui il proprietario della res (azione imprescrittibile).</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1977</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 15 marzo esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n.1035 alla cui stregua devono assumersi irripetibili, a norma dell'art. 2035 c.c., i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume, non anche le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte va ritenuto contrario a norme imperative (e non già al buon costume) l'accordo con il quale si sia pattuito che il preponente ometta di iscrivere l'agente all'Enasarco e. gli corrisponda direttamente le somme che dovrebbe versare a titolo di contributi al fondo di previdenza, in deroga alla disciplina previdenziale del settore.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1981</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 17 luglio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.4414 alla cui stregua l'accertamento che un contratto sia contrario a norme imperative e quindi nullo per tale ragione (art. 1343 c.c.) non impedisce una autonoma valutazione dell'atto dal punto di vista della relativa eventuale immoralità al fine di negare l'azione di ripetizione (art. 2035 c.c.).</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, più in specie, la nozione dei negozi contrari al buon costume non può essere limitata ai negozi contrari alle regole del pudore sessuale e della decenza, ma si estende fino a comprendere i negozi contrari a quei principi ed esigenze etiche della coscienza morale collettiva che costituiscono la morale sociale, in quanto ad essi uniforma il proprio comportamento la generalità delle persone corrette, di buona fede e sani principi, in un determinato momento ed in dato ambiente. Pertanto, poiché la causa turpe deve essere apprezzata in relazione al momento in cui il negozio è stato compiuto, deve escludersi che sia contrario al buon costume un contratto diretto a violare norme imperative ma non più sanzionate penalmente al momento della conclusione del contratto, in quanto lo stesso legislatore, escludendo la rilevanza penale di tali fatti, quanto meno <em>pro tempore</em>, attenua la valutazione negativa dei fatti stessi anche sotto il profilo etico e sociale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1982</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 gennaio esce la sentenza della sezione … della Cassazione n.2029, secondo la quale la tutela restitutoria tipica del pagamento di indebito ex art.2033 c.c. assiste non già soltanto le prestazioni (indebite) di <em>dare</em>, ma anche quelle di <em>facere</em>.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1983</strong></p> <p style="text-align: justify;">L’8 luglio esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.4598, alla cui stregua nella domanda di restituzione di immobili per disconoscimento del titolo della relativa detenzione da parte del convenuto deve ravvisarsi non già un’azione di revindica, quanto piuttosto quella di rilascio o restituzione di immobili stessi per il cui accoglimento è sufficiente la dimostrazione dell’inefficacia (originaria o sopravvenuta) del rapporto che legittimava quella detenzione.</p> <p style="text-align: justify;">Presupposto dell’azione di revindica è infatti per la Corte, che si colloca nel solco di una giurisprudenza collaudata, lo spossessamento del proprietario contro o senza la propria volontà, mentre la ridetta azione di rilascio o restituzione postula solo la mancanza nel convenuto di un valido titolo affinché egli possa detenere (o continuare a detenere) la cosa chiesta in restituzione, in conseguenza della esaurita funzione di un contratto, ovvero della nullità, rescindibilità o risolvibilità dello stesso; onde unicamente la sopravvenuta usucapione per inequivoco mutamento della detenzione in possesso (c.d. interversione) può paralizzare la pretesa del dominus per conto del quale era detenuta la cosa (o del relativo successore <em>inter vivos</em> o <em>mortis causa</em>).</p> <p style="text-align: justify;">Ne deriva in sostanza la non cumulabilità delle azioni, rispettivamente, di ripetizione di indebito e di revindica, che oltre alla diversa natura rispettiva (l’una personale, l’altra reale; l’una prescrittibile in 10 anni e l’altra imprescrittibile) presentano anche diversi presupposti di esperibilità.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1995</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 marzo esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.2936, alla cui stregua l’azione di ripetizione di indebito è soggetta a prescrizione decennale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1996</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 febbraio esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n.105 alla cui stregua – inserendosi in consolidato orientamento pretorio - va assunta illegittima la ripetizione di indebito che una PA spicchi nei confronti di un proprio dipendente quando, con il relativo contegno, abbia ingenerato nel medesimo la ragionevole convinzione di avere diritto al pertinente emolumento, e questo sia stato dal dipendente medesimo riscosso in buona fede ed utilizzato per soddisfare bisogni fondamentali della vita propria o di quella dei propri familiari.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 giugno esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.5512, onde in caso di restituzione da parte dell’<em>accipiens</em> di una <em>res</em> determinata ricevuta indebitamente che sia perita o si sia deteriorata, si applica il normale riparto dell’onere della prova alla cui stregua è a carico dell’attore la dimostrazione dei fatti costitutivi della propria pretesa; ne discende che l’impossibilità di restituzione del bene (che trasforma la ordinaria obbligazione restitutoria in quella di versare una somma di denaro) va allegata e provata dall’<em>accipiens</em>, e non già dal <em>solvens</em> (quand’anche quest’ultimo, prefigurandosi la perdita o la distruzione del bene determinato, agisca direttamente per conseguire l’equivalente in denaro), potendo peraltro l’<em>accipiens</em> medesimo opporre al <em>solvens</em> la possibilità di restituzione della <em>res</em> stessa.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>1998</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 2 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.8722, alla cui stregua il contratto stipulato dal privato con la P.A., ma nullo per difetto di forma scritta, non può essere considerato contrario al buon costume ai sensi dell'art. 2035 c.c., conseguendone che il privato, il quale abbia effettivamente eseguito la propria prestazione, può utilmente agire nei confronti della P.A. con l'azione di indebito arricchimento.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 6 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.9906 che, in termini di ripetizioni dovute a valle di una “invalidità” contrattuale, recepisce la c.d. teoria del saldo.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, nei contratti caratterizzati da una esecuzione continuata, in caso di scioglimento, qualora una prestazione già eseguita (e, dunque, da restituire) non sia proporzionale all’altra occorre che, anche attraverso una restituzione parziale, sia ristabilito l’equilibrio sinallagmatico tra prestazioni e controprestazioni, onde le prestazioni già eseguite che non possono essere oggetto di restituzione sono solo quelle riferibili, nel loro valore satisfattorio, al periodo di vigenza del contratto, e non quelle anticipatamente eseguite le quali, in relazione alla sopravvenuta risoluzione, non trovano più giustificazione causale, in tutto o in parte.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2000</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 4 febbraio esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.1252 alla cui stregua, in presenza di un vizio del contratto che produca il venir meno del vincolo contrattuale tra le parti rispettive, può essere applicabile alle pertinenti restituzioni la disciplina dell’indebito ex art.2033 e seguenti c.c.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 4 agosto esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.10227, alla cui stregua l’azione di ripetizione di indebito ha natura personale ed è dunque spiccabile dal solo solvens, quale soggetto che ha proceduto al pagamento indebito.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2003</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 marzo esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.3802 alla cui stregua, poiché l’indebito soggettivo <em>ex latere accipientis</em> non è previsto esplicitamente dal codice civile, lo stesso deve assumersi disciplinato quale indebito oggettivo, ricevendo l’<em>accipiens</em> (che non è il creditore di chi paga) qualcosa che non aveva diritto di ricevere.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 14 maggio esce la sentenza della sezione V del Consiglio di Stato n.2560 onde la P.A. datrice di lavoro intenzionata ad agire per il recupero di una somma indebitamente erogata ad un proprio dipendente ha l’onere di allegare di aver commesso un errore di quantificazione e di dimostrare l’indebito pagamento.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2004</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 14 ottobre esce la sentenza della sezione VI del Consiglio di Stato n.6654 alla cui stregua il recupero di emolumenti indebitamente corrisposti ad un pubblico dipendente costituisce per la PA l'esercizio di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2005</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 12 dicembre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.27334 alla cui stregua,in presenza di un vizio del contratto che produca il venir meno del vincolo contrattuale tra le parti rispettive, può essere applicabile alle pertinenti restituzioni la disciplina dell’indebito ex art.2033 e seguenti c.c.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2006</strong></p> <p style="text-align: justify;">*Il 23 febbraio esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.3994 alla cui stregua, alla cui stregua,in presenza di un vizio del contratto che produca il venir meno del vincolo contrattuale tra le parti rispettive, può essere applicabile alle pertinenti restituzioni la disciplina dell’indebito ex art.2033 e seguenti c.c.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 maggio esce la sentenza della sezione IV del Consiglio di Stato n.2679 alla cui stregua, in caso di procedimento volto al recupero delle somme indebitamente erogate dalla P.A. ai propri dipendenti, la buona fede del dipendente non può rappresentare un impedimento all’esercizio del recupero dell' indebito, neanche quando il procedimento intervenga a lunga distanza di tempo dall'erogazione, in quanto l’Amministrazione ha solo l'obbligo di procedere con modalità tali da non incidere pesantemente sulle esigenze di vita del debitore.</p> <p style="text-align: justify;">Va poi ribadito per il Collegio che è da escludere che la buona fede del percipiente, ed il relativo affidamento rispetto all’operato della P.A., siano di ostacolo al diritto-dovere di recuperare le somme indebitamente ricevute, essendo il recupero un atto dovuto, pur ammettendo che le modalità in base al quale esso deve avvenire non devono per l’appunto rivelarsi eccessivamente onerose.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2007</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 24 maggio esce la sentenza della sezione IV del Consiglio di Stato n.2651 alla cui stregua – anche sulla scorta della progressiva privatizzazione dell’impiego pubblico – l’indebito riscosso dal pubblico dipendente va ricondotto nell’alveo dell’indebito civilistico, onde il privato (quand’anche appunto dipendente della PA) che abbia conseguito attribuzioni patrimoniali non dovute <em>ex parte publica</em> è tenuto a restituirle ai sensi degli articoli 2033 e seguenti, salve le modalità di restituzione che devono essere tali da non gravare in misura eccessiva sulla situazione patrimoniale dell’<em>accipiens</em> obbligato.</p> <p style="text-align: justify;">Quanto al requisito dell’interesse pubblico al recupero della somma (che richiama in qualche modo l’autotutela), la relativa motivazione è per il Collegio integrata, <em>ex se</em>, dall’accertamento concreto della non spettanza degli emolumenti percepiti dal dipendente.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2010</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 2 dicembre esce la sentenza delle SSUU n. 24418 che torna occuparsi del tema dell’anatocismo. Dato per assodato che le clausole anatocistiche sono nulle, un primo problema è quello di individuare il regime prescrizionale dell’azione di ripetizione delle somme alla banca. Le SSUU abbracciano almeno parzialmente – al fine di determinare il termine di decorrenza della prescrizione - la concezione “<em>atomistica</em>” del contratto bancario, fino ad allora minoritaria: il rapporto è unitario sullo sfondo, ma non per questo il diritto alla ripetizione dell’indebito (interessi anatocistici) si prescrive sempre dalla chiusura del conto.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte muove da altri rapporti di durata che prevedono prestazioni di somme di denaro ripetute e scaglionate nel tempo, come nel caso dei canoni di locazione o d’affitto, o nel caso del prezzo della somministrazione periodica di cose: il rapporto è unitario, ma ciascun singolo pagamento non dovuto è come tale indebito, e dal momento di tale pagamento (da quando ha avuto concretamente luogo) decorre il termine di prescrizione dell’azione di ripetizione. E’ infatti da quel momento che è sorto il credito del <em>solvens</em> alla ripetizione, e che dunque decorre la prescrizione della relativa azione. Bisogna tuttavia tenere conto, soggiunge la Corte, che nel caso particolare del conto corrente bancario il rapporto unitario che ne sorge è connotato dal predicato della “<em>contabilità</em>”: è un rapporto unitario meramente contabile, e le singole operazioni hanno natura puramente contabile, senza che ad esse corrisponda un reale spostamento patrimoniale tra le parti. Il problema è allora quello di capire quando può dirsi avvenuto un reale pagamento (non dovuto) tra le parti, con conseguente spostamento patrimoniale di somme (non dovute), anche in considerazione del fatto che l’art.2033 prevede un rimedio quasi-contrattuale che trova nell’effettivo pagamento (disposizione patrimoniale) senza causa (<em>ab origine</em> o per fatti sopravvenuti) il proprio fondamento.</p> <p style="text-align: justify;">Se è al pagamento effettivo che occorre guardare, pur nel contesto unitario del rapporto contrattuale bancario, occorre distinguere: a) il rapporto di conto corrente, che ha natura meramente contabile, con la conseguenza che le annotazioni attive e passive non possono qualificarsi come pagamenti veri e propri; in presenza di una clausola anatocistica nulla che accede ad un conto corrente bancario, una annotazione passiva indebita non equivale ad un pagamento in senso tecnico, e non fa decorrere il termine prescrizionale, pur potendo il cliente ottenere subito dalla banca una rettifica dell’annotazione, ma confidando ad un tempo sul fatto che potrà agire per la ripetizione dal momento della chiusura del conto corrente; b) il particolare rapporto di apertura di credito in conto corrente, che ha natura e funzionamento suoi propri: qui occorre per la Corte ulteriormente distinguere – come già accaduto in tema di revocatoria fallimentare - tra b.1) il caso in cui il cliente della banca si limiti a ripristinare la provvista di cui gode con l’apertura di credito, atto che non è pagamento in senso tecnico e per il quale vale il medesimo regime prescrizionale (in termini di indebito) già visto per le annotazioni in conto corrente, con decorrenza dalla chiusura del rapporto; b.2) il diverso caso in cui vi sia un effettivo spostamento patrimoniale, in quanto il cliente della banca non si limita a ripristinare la provvista dell’apertura di credito, ma trovandosi “<em>allo scoperto</em>” egli copre un passivo che eccede i limiti dell’accreditamento ricevuto: qui il versamento reintegratorio costituisce pagamento in senso tecnico, e la prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito (eventuali interessi anatocistici non dovuti) inizia a decorrere dal momento del pagamento stesso (e non dalla chiusura del rapporto).</p> <p style="text-align: justify;">Altra questione affrontata dalle SSUU è quella, eventualmente, di sostituire (ex art. 1419 c.c.) la clausola anatocistica trimestrale nulla con una clausola, del pari anatocistica, valida: secondo la Corte ciò è impossibile in quanto qualsivoglia clausola di capitalizzazione di interessi deve assumersi nulla perché contraria al divieto di anatocismo ex art.1283 c.c. (gli usi ivi previsti sono normativi, non negoziali), con la conseguenza onde nessuna clausola nulla può sostituirsi ad altra clausola nulla.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2011</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 01 aprile esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n.7586 alla cui stregua gli interessi sulle somme indebitamente riscosse sono dovuti dal percettore (<em>accipiens</em>) in buona fede dal momento della domanda, ovvero dalla costituzione in mora, quanto ai pagamenti anteriori, e dalla data dei singoli pagamenti, quanto a quelli successivi alla domanda stessa. Per la Corte – innovativamente – deve intendersi per “domanda” anche quella stragiudiziale, e non necessariamente quella giudiziale.</p> <p style="text-align: justify;">La Corte medesima precisa che la domanda - anche, se stragiudiziale, purché idonea alla costituzione in mora - è dunque sufficiente perché decorrano gli interessi legali, dal momento del pagamento, anche sulle somme corrisposte successivamente, senza necessità di ulteriori richieste di rimborso.</p> <p style="text-align: justify;">Siffatto effetto va ricondotto per il Collegio alla domanda non in quanto domanda di restituzione, riguardante necessariamente versamenti già effettuati, ma in quanto implicante la contestazione giudiziale dell'unica <em>causa solvendi</em> cui i singoli pagamenti si riferiscono.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2012</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 5 aprile esce la sentenza della Corte costituzionale n.78 che scandaglia la legittimità costituzionale dell’art.2, comma 61 della legge n.10.11 in tema di decorrenza della prescrizione per la ripetizione di interessi anatocistici indebiti: si tratta di una norma con efficacia retroattiva (perché interpretativa) che, secondo la Corte, lede in primo luogo il principio di ragionevolezza delle norme cristallizzato all’art.3 Cost..</p> <p style="text-align: justify;">Invero, non può dirsi sussistente una incertezza in ordine all’interpretazione dell’art.2935 c.c., neppure <em>ratione materiae</em>, vista la presa di posizione della Cassazione a SSUU che ha fatto riferimento in genere alla chiusura del rapporto contrattuale con la banca e, in specie (apertura di credito), all’eventuale pagamento con natura solutoria.</p> <p style="text-align: justify;">Inoltre, secondo la Corte la disposizione di legge censurata non attribuisce un significato all’art.2935 c.c. tra quelli in astratto possibili (natura interpretativa), ma ha sostanziale natura innovativa in quanto prevede che, limitatamente ai contratti bancari in conto corrente, il diritto può essere fatto valere non dal momento del pagamento, ma dal momento della mera annotazione in conto corrente della singola posta. Peraltro, il correntista può sempre agire per far dichiarare, ai sensi dell’art.1422 c.c. (imprescrittibilità dell’azione di nullità), la nullità del titolo su cui la singola annotazione illegittima si basa e per ottenere la rettifica di tali annotazioni illegittime sul relativo conto: questo conferma che la legge censurata non si è intesa riferire alla prescrizione dei diritti di contestazione cartolare (rettifica ed eliminazione) delle annotazioni a lui sfavorevole, ma proprio al diritto alla ripetizione dell’indebito che, a differenza dell’azione di nullità, proprio ai sensi dell’art. 1422 c.c. è invece esplicitamente soggetta a prescrizione. Peraltro, ad essere violato è lo stesso principio di eguaglianza in quanto il contratto di conto corrente viene reso parzialmente asimmetrico per le parti che ne sono protagoniste, a tutto svantaggio del cliente correntista che si vede ridurre il tempo che ha a disposizione per far valere il proprio diritto alla ripetizione dei non dovuti interessi anatocistici.</p> <p style="text-align: justify;">Inoltre, la Corte assume la norma censurata costituzionalmente illegittima anche per violazione dell’art.117, comma 1, Cost., in relazione all’art.6 della CEDU (norma interposta, come esplicitamente affermato dalle precedenti sentenze della Corte n.348 e 349 del 2007), con particolare riguardo ai principi della preminenza del diritto e del processo equo: è vero che il legislatore – al di fuori della materia penale, per la quale vige l’art.25 della Costituzione – gode di un limitato spazio di intervento in via retroattiva, ma esso deve essere giustificato da motivi di interesse generale; tali motivi di interesse generale vanno valutati dal legislatore nazionale e dalla Corte costituzionale con riferimento a principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, nell’ambito del margine di apprezzamento che la Corte EDU riconosce, con la sua giurisprudenza, ai singoli ordinamenti statali. Proprio la non rintracciabilità, nel caso di specie, dei detti motivi di interesse generale sospinge la Corte costituzionale a ritenere illegittima la norma censurata anche per violazione dell’art.117, comma 1, Cost. Infine, la Corte dichiara costituzionalmente illegittimo per connessione anche il secondo periodo della norma censurata, laddove impedisce la restituzione degli importi già versati dai correntisti alle banche.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2014</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 28 marzo esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.7305 onde unanimemente si riconosce che le azioni di rivendicazione e di restituzione sono accomunate dallo scopo pratico cui entrambe tendono - ottenere la disponibilità materiale di un bene, della quale si è privi - ma si distinguono nettamente per la natura, poichè all'analogia del <em>petitum</em> non corrisponde quella delle rispettive <em>causae petendi</em>: la proprietà per l'una, un rapporto obbligatorio per l'altra. La prima è connotata quindi da realità e assolutezza, la seconda da personalità e relatività. Nella rivendicazione la ragione giuridica e l'oggetto del giudizio coincidono, identificandosi nel diritto di proprietà, di cui l'attore deve dare la c.d. <em>probatio diabolica</em>, dimostrando un acquisto del bene avvenuto a titolo originario da parte sua o di uno dei propri danti causa a titolo derivativo (acquisto che per lo più deriva dall'usucapione, maturata eventualmente mediante i meccanismi dell'accessione o dell'unione dei possessi). Nel caso dell'azione di restituzione si verte invece su una prestazione di dare, derivante da un rapporto di carattere obbligatorio.</p> <p style="text-align: justify;">Ciò stante, sono due – rammenta la Corte - le questioni su cui si sono delineati contrasti nella giurisprudenza della Corte medesima: se le difese di carattere petitorio (“<em>si tratta di un revindica</em>”) opposte a un'azione di rilascio o consegna comportino la trasformazione in reale della domanda che sia stata proposta e mantenuta ferma dall'attore come personale (“<em>chiedo la ripetizione dell’indebito</em>”); se sia inquadrabile nell'una o nell'altra specie l'azione esercitata nei confronti di chi non accampa alcun titolo a giustificazione della disponibilità materiale del bene oggetto della controversia.</p> <p style="text-align: justify;">L'incidenza delle ragioni dominicali fatte valere dal convenuto era stata inizialmente limitata - con le sentenze 17 novembre 1977 n. 5027, 20 novembre 1979 n. 6061, 22 gennaio 1980 n. 518, 12 maggio 1980 n. 3126, 2 febbraio 1982 n. 613 - alla distribuzione della competenza per valore tra il pretore e il tribunale. Successivamente si è tuttavia affermato - con le sentenze 26 settembre 1991 n. 10073, 2 giugno 1998 n. 5397, 30 giugno 1998 n. 6403, 19 maggio 2006 n. 11114 - che tali difese hanno anche l'effetto di modificare in azione di rivendicazione quella di restituzione esercitata dall'attore e se ne è desunto che egli viene quindi ad essere gravato dell'onere di fornire la <em>probatio diabolica</em>, per poter ottenere il rilascio o la consegna del bene.</p> <p style="text-align: justify;">Che dal vanto del convenuto possano derivare conseguenze di tal genere, è stato invece negato con le sentenze 9 settembre 1998 n. 8930, 12 ottobre 2000 n. 13605, 27 febbraio 2001 n. 2908, 26 febbraio 2007 n. 4416, 27 gennaio 2009 n. 1929, 23 dicembre 2010 n. 26003, 17 gennaio 2011 n. 884.</p> <p style="text-align: justify;">Tra questi due orientamenti, ritiene il Collegio che debba essere seguito il secondo, stante la relativa coerenza con i basilari principi di disponibilità e di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, che riservano alle parti la formulazione delle loro richieste, la deduzione delle relative ragioni, l'allegazione dei fatti su cui esse si fondano, mentre vietano al giudice di pronunciare al di fuori o oltre i limiti delle domande come effettivamente proposte. Il destinatario di un'azione personale di restituzione, pertanto, può bensì contrastarla con eccezioni o domande riconvenzionali di carattere petitorio, senza tuttavia che ciò dia luogo a una <em>mutatio</em> o <em>emendatio libelli</em>, che non sono consentite neppure all'attore, se non nei ristretti limiti stabiliti dall'art. 183 c.p.c.. La domanda di restituzione, in ipotesi, sarà allora respinta non perché la <em>probatio diabolica</em> non sia stata data dall'attore, ma ove sia stata fornita dal convenuto, il quale con le proprie deduzioni se ne era accollato l'onere, proponendo, egli sì, in via riconvenzionale, un'eccezione o azione di carattere reale.</p> <p style="text-align: justify;">Dal piano dei diritti relativi di natura obbligatoria, sul quale l'interessato ha inteso porre la propria pretesa, questa non può dunque essere dislocata, per iniziativa altrui (segnatamente, del convenuto), nel campo dei diritti assoluti di natura reale, con la conseguenza di addossare all'attore, tra l'altro, un compito probatorio particolarmente pesante, per assolvere il quale egli non era tenuto ad approntarsi. L'argomento che (unicamente) viene posto a fondamento della tesi della trasformazione della domanda - dovere il giudice "<em>decidere sulla sussistenza del diritto di proprietà vantato da una parte e negato dall'altra</em>" - non è dunque congruente con la conseguenza che si pretende di trame. Resta comunque salvo il potere del giudice di dare della domanda l'esatta qualificazione giuridica, eventualmente in difformità da quella prospettata dalla parte, ma sempre alla stregua dei fatti allegati, delle ragioni esposte, delle richieste formulate.</p> <p style="text-align: justify;">E' appunto sul tema della qualificazione giuridica delle domande di rilascio o consegna di un bene, che si è delineato nell'ambito della giurisprudenza di legittimità l'ulteriore contrasto da risolvere. Il possibile fondamento delle azioni personali di restituzione è stato generalmente ravvisato con le sentenze 11 luglio 1981 n. 4507, 7 gennaio 1983 n. 120, 8 luglio 1983 n. 4589, 28 gennaio 1985 n. 439, 30 novembre 1987 n. 7162, 26 giugno 1991 n. 7162, 19 luglio 1996 n. 6522, 19 febbraio 2002 n. 2392, 4 luglio 2005 n. 14135 - nell'invalidità oppure nell'esaurimento, per risoluzione, per rescissione, per esercizio della facoltà di recesso, per decorso del termine di durata e così via, del rapporto di natura obbligatoria in base al quale il convenuto aveva conseguito la detenzione del bene.</p> <p style="text-align: justify;">Ma talvolta, in alternativa a queste ipotesi - con le sentenze 5 aprile 1984 n. 2210, 12 ottobre 2000 n. 13605, 27 febbraio 2001 n. 2908, 10 dicembre 2004 n. 23086, 26 febbraio 2007 n. 4416, 23 dicembre 2010 n. 26003, 24 luglio 2013 n. 17941 - è stato inserito nel novero dei presupposti delle azioni di cui si tratta anche quello dell'assoluta iniziale insussistenza di qualsiasi titolo giustificativo della disponibilità materiale della cosa da parte del convenuto. L'opposto principio è stato enunciato con le sentenze 4 luglio 2005 n. 14135 e 14 gennaio 2013 n. 705, secondo cui non è azione di restituzione ma di rivendicazione quella "<em>con cui l'attore chieda di dichiarare abusiva ed illegittima l'occupazione di un immobile di sua proprietà da parte del convenuto, con conseguente condanna dello stesso al rilascio del bene ed al risarcimento dei danni da essa derivanti, senza ricollegare la propria pretesa al venir meno di un negozio giuridico, che avesse giustificato la consegna della cosa e la relazione di fatto sussistente tra questa ed il medesimo convenuto</em>".</p> <p style="text-align: justify;">A quest'ultimo indirizzo – rappresentano le SSUU - occorre aderire, poiché l'azione personale di restituzione, come già dice il nome, è destinata a ottenere l'adempimento dell'obbligazione di ritrasferire una cosa che è stata in precedenza volontariamente trasmessa dall'attore al convenuto, in forza di negozi quali la locazione, il comodato, il deposito e così via, che non presuppongono necessariamente nel <em>tradens</em> la qualità di proprietario. Essa non può pertanto surrogare l'azione di rivendicazione, con elusione del relativo rigoroso onere probatorio, quando la condanna al rilascio o alla consegna viene chiesta nei confronti di chi dispone di fatto del bene nell'assenza anche originaria di ogni titolo. In questo caso la domanda è tipicamente di rivendicazione, poiché il relativo fondamento risiede non in un rapporto obbligatorio personale <em>inter partes</em>, ma nel diritto di proprietà tutelato <em>erga omnes</em>, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione, mediante la <em>probatio diabolica</em>.</p> <p style="text-align: justify;">La tesi opposta comporta la sostanziale vanificazione della stessa previsione legislativa dell'azione di rivendicazione, il cui campo di applicazione resterebbe praticamente azzerato, se si potesse esercitare un'azione personale di restituzione nei confronti del detentore <em>sine titulo</em>.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2015</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 marzo esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.4267 che, in termini di ripetizioni dovute a valle di una “invalidità” contrattuale, ribadisce, con riguardo ad un contratto di locazione, la c.d. teoria del saldo.</p> <p style="text-align: justify;">Per la Corte, nei contratti caratterizzati da una esecuzione continuata, in caso di scioglimento, qualora una prestazione già eseguita (e, dunque, da restituire) non sia proporzionale all’altra occorre che, anche attraverso una restituzione parziale, sia ristabilito l’equilibrio sinallagmatico tra prestazioni e controprestazioni, onde le prestazioni già eseguite che non possono essere oggetto di restituzione sono solo quelle riferibili, nel loro valore satisfattorio, al periodo di vigenza del contratto, e non quelle anticipatamente eseguite le quali, in relazione alla sopravvenuta risoluzione, non trovano più giustificazione causale, in tutto o in parte.</p> <p style="text-align: justify;">Nel caso di specie la parte locatrice adempiente ha diritto alle sole controprestazioni del conduttore riferibili al periodo di effettivo godimento del bene da parte del medesimo, e non anche a quelle ulteriori (nella specie, l’intero canone annuale di locazione, da corrispondersi in via anticipata) che, per il sopravvenuto scioglimento del rapporto, non trovano più giustificazione causale.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 27 ottobre esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n.25631 onde la nozione di prestazione non ripetibile di cui all’art. 2035 c.c. (c.d. prestazione immorale), non si identifica con un dato materiale, qual è la ripetibilità in concreto della prestazione, bensì con un dato giuridico, nel senso che la prestazione fornita non può formare oggetto di obbligazione restitutoria, in favore di chi sia stato partecipe del negozio immorale, in quanto fondata su un contratto illecito, non corrispondente, di conseguenza, ad un interesse giuridicamente tutelabile del creditore.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2018</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 3 gennaio esce la sentenza della Corte d’Appello di Napoli alla cui stregua laddove la banca eccepisca la prescrizione dell'azione di ripetizione dell'indebito, assumendo la natura solutoria di tutte le rimesse su saldo passivo, spetta al correntista l'onere di ribaltare il pertinente quadro probatorio producendo un eventuale contratto di apertura di credito da cui emerga l'esatto importo dell'affidamento, al fine di consentire al giudice la valutazione della natura ripristinatoria – e non già solutoria - delle medesime rimesse.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 26 gennaio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n. 2026 che afferma applicarsi l’ordinario termine decennale di prescrizione all’azione di ripetizione dell’indebito proposta dal correntista che lamenti la nullità della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 3 aprile esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.8169 onde - ai fini dell'applicabilità della "<em>soluti retentio</em>" prevista dall'art. 2035 c.c. (c.d. prestazione immorale) - la nozione di buon costume non si identifica soltanto con le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza, ma comprende anche quelle contrastanti con i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico; pertanto, per la Corte chi abbia versato una somma di denaro per l'ottenimento di un posto di lavoro (nella specie, presso un istituto bancario), a prescindere dall'esito della trattativa immorale, non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tale finalità, certamente contraria a norme imperative, è da ritenere anche contraria al buon costume.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 30 ottobre esce l’ordinanza della I sezione della Cassazione n. 27680 che rimette alle SSUU una importante questione in tema di rapporti tra conto corrente bancario, prescrizione e ripetizione di indebito. In particolare, si tratta di stabilire le modalità di formulazione dell'eccezione di prescrizione estintiva, sollevata dalla banca per paralizzare la domanda del correntista di restituzione di somme indebitamente versate nel corso del rapporto di conto corrente, questione sorta all'esito della sentenza delle Sezioni Unite del 2 dicembre 2010, n. 24418.</p> <p style="text-align: justify;">Quest'ultima – precisa il Collegio - ha enunciato il principio secondo cui l'azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all'ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell'ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. La pronuncia muove dal rilievo per cui non può ipotizzarsi il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giuridico, definibile come pagamento, che l'attore pretende essere indebito, perché prima di quel momento non è configurabile alcun diritto di ripetizione.</p> <p style="text-align: justify;">Di conseguenza, se il correntista, nel corso del rapporto, abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti) e da fare decorrere il termine prescrizionale, in quanto siano consistiti nell'esecuzione di una prestazione da parte del <em>solvens</em> ed abbiano avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento patrimoniale in favore dell'<em>accipiens</em>. E ciò accadrà quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'affidamento, o ove si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo ("<em>scoperto</em>") cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista; non così in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell'affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere (sent. cit., in motivazione).</p> <p style="text-align: justify;">Le Sezioni Unite sostengono la necessità, in base ai principi richiamati, di distinguere i versamenti solutori da quelli ripristinatori della provvista: giacché solo i primi possono considerarsi pagamenti nel quadro della fattispecie di cui all'art. 2033 c.c.; con la conseguenza che la prescrizione del diritto alla ripetizione dell'indebito decorre, per tali versamenti, dal momento in cui le singole rimesse abbiano avuto luogo. I versamenti ripristinatori, invece, non soddisfano il creditore ma ampliano o ripristinano la facoltà d'indebitamento del correntista: sicché, con riferimento ad essi, di pagamento non potrà parlarsi prima del momento in cui, chiuso il rapporto, egli provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato, nel qual caso, qualora la restituzione abbia ecceduto il dovuto a causa del computo di interessi in misura non consentita, l'eventuale azione di ripetizione d'indebito non potrà che essere esercitata in un momento successivo alla chiusura del conto, e solo da quel momento comincerà perciò a decorrere il relativo termine di prescrizione.</p> <p style="text-align: justify;">E' subito sorto nella pratica applicativa – chiosa a questo punto il Collegio - il problema di come la banca, alla quale il correntista chieda la restituzione di somme versate indebitamente, debba formulare l'eccezione di prescrizione; in particolare, se questa, per essere validamente proposta e quindi ammissibile, debba contenere l'allegazione, non solo, dell'inerzia del titolare, ma anche delle singole rimesse operate nel corso del rapporto aventi natura solutoria e, pertanto, dell'avvenuto superamento del limite dell'affidamento da parte del cliente. In effetti, la distinzione tra atti ripristinatori della provvista ed atti di pagamento compiuti dal correntista per estinguere il proprio debito verso la banca è stata elaborata dalla giurisprudenza - come riconosciuto dalle Sezioni Unite - "<em>ad altri fini</em>" ed averla valorizzata, enfatizzandola, per stabilire il momento da cui possa scaturire la pretesa restitutoria del correntista, ai fini della decorrenza della prescrizione, è un'operazione suscettibile di generare incertezze applicative.</p> <p style="text-align: justify;">Al riguardo, precisa ancora la Corte, si sono delineati nella giurisprudenza di legittimità due diversi orientamenti, secondo il primo dei quali l'eccezione di prescrizione genericamente formulata dalla banca con riferimento a tutte le rimesse affluite sul conto, senza indicazione di quelle aventi natura solutoria, sarebbe inammissibile. Si ritiene, in presenza di un contratto di apertura di credito, che "<em>la natura ripristinatoria delle rimesse è presunta: spetta dunque alla banca che eccepisce la prescrizione di allegare e di provare quali sono le rimesse che hanno invece avuto natura solutoria (cfr. Cass., sez. I, n. 26 febbraio 2014, n. 4518); con la conseguenza che, a fronte della formulazione generica dell'eccezione, indistintamente riferita a tutti i versamenti intervenuti sul conto in data anteriore al decennio decorrente a ritroso dalla data di proposizione della domanda, il giudice non può supplire all'omesso assolvimento di tali oneri, individuando d'ufficio i versamenti solutori</em>" (Cass., sez. VI-I, 7 settembre 2017, n. 20933). Nella stessa direzione si colloca, in sostanza, un'altra ordinanza, secondo la quale "<em>grava sulla banca, a fronte di un rapporto di conto corrente con apertura di credito, l'onere di allegare, ai fini dell'ammissibilità dell'eccezione di prescrizione - e poi di provare, ai fini della fondatezza dell'eccezione, - non solo il mero decorso del tempo, ma anche l'ulteriore circostanza dell'avvenuto superamento, ad opera del cliente, del limite dell'affidamento. Tale attività di allegazione, per quanto 'attenuata' nella relativa deduzione (e, cioè, senza la necessità di un'allegazione analitica delle rimesse ritenute solutorie), deve, però, comunque recare un grado di specificità tale da consentire alla controparte un adeguato esercizio di difesa sul punto, e, in mancanza, la relativa eccezione deve essere respinta, in quanto genericamente formulata (prima che infondata). Tale dato costituisce infatti il fondamento del fatto estintivo della pretesa azionata in giudizio dall'attore, dal momento che solo nelle operazioni extra-fido può ravvisarsi un'attività solutoria, con decorso della prescrizione dalla data del versamento, anziché dalla data di chiusura del conto. Nella specie, la banca, nel sollevare l'eccezione di prescrizione in primo grado, non aveva allegato, sussistendo un'apertura di credito e quindi un affidamento, che vi erano state, nel corso del rapporto bancario, rimesse effettuate ultra-fido, non più ripetibili essendo decorsi 10 anni (art. 2033 c.c</em>.)" (Cass., sez. I, 24 maggio 2018, n. 12977, ha accolto il ricorso dei correntisti che denunciavano la genericità e inammissibilità dell'eccezione di prescrizione sollevata dalla banca).</p> <p style="text-align: justify;">Al predetto orientamento (più favorevole al correntista) se ne contrappone un altro, secondo il quale "<em>non compete alla banca convenuta fornire specifica indicazione delle rimesse solutorie cui è applicabile la prescrizione. Un tale incombente è estraneo alla disciplina positiva dell'eccezione in esame. Una volta che la parte convenuta abbia formulato la propria eccezione di prescrizione, compete al giudice verificare quali rimesse, per essere ripristinatorie, o attuate su di un conto in attivo, siano irrilevanti ai fini della prescrizione, non potendosi considerare quali pagamenti</em>"; "<em>non si vede per quale ragione la banca che eccepisca la prescrizione debba essere gravata dell'onere di indicare i detti versamenti solutori (su cui la detta prescrizione possa, poi, in concreto operare</em>)" (Cass., sez V-I, 22 febbraio 2018, n. 4372). Ed infatti, "<em>a fronte della comprovata esistenza di un contratto di conto corrente assistito da apertura di credito, la natura ripristinatoria o solutoria dei singoli versamenti emerge dagli estratti conto che il corrente, attore nell'azione di ripetizione, ha l'onere di produrre in giudizio. La prova degli elementi utili ai fini dell'applicazione dell'eccepita prescrizione è, dunque, nella disponibilità del giudice che deve decidere la questione: perlomeno lo è ove il correntista assolva al proprio onere probatorio; se ciò non accada il problema non dovrebbe nemmeno porsi, visto che mancherebbe la prova del fatto costitutivo del diritto azionato, onde la domanda attrice andrebbe respinta senza necessità di prendere in esame l'eccezione di prescrizione</em>" (Cass. cit.). In altri termini, "<em>il carattere solutorio o ripristinatorio delle singole rimesse non incide, dunque, sul contenuto dell'eccezione, che rimane lo stesso, indipendentemente dalla natura, solutoria o ripristinatoria, dei singoli versamenti: semplicemente, la distinzione concettuale esistente tra le diverse tipologie di versamento imporrà al giudice, se del caso con l'ausilio del consulente tecnico, di selezionare giuridicamente le rimesse che assumano concreta rilevanza ai fini della ripetizione dell'indebito e della prescrizione</em>" (Cass. cit.).</p> <p style="text-align: justify;">La menzionata ordinanza n. 4372 del 2018 dichiara di porsi in linea di continuità con il costante indirizzo (tra le tante, Cass., sez. III, 29 luglio 2016, n. 15790; sez. I, 27 luglio 2016, n. 15631; sez. I, 16 maggio 2016, n. 9993; sez. V-III, 20 gennaio 2014, n. 1064; sez. III, 22 dicembre 2011, n. 28292; sez. lav. 22 ottobre 2010, n. 21752; sez. III, 22 giugno 2007, n. 14576; sez. I, 22 maggio 2007, n. 11843; sez. I, 3 novembre 2005, n. 21321; sez. lav., 23 agosto 2004, n. 16573), risalente alla sentenza delle Sezioni Unite del 25 luglio 2002, n. 10955, secondo cui "<em>elemento costitutivo della eccezione di prescrizione estintiva è l'inerzia del titolare del diritto fatto valere in giudizio, mentre la determinazione della durata di questa, necessaria per il verificarsi dell'effetto estintivo, si configura come una quaestio iuris concernente l'identificazione del diritto stesso e del regime prescrizionale per esso previsto dalla legge. Ne consegue che la riserva alla parte del potere di sollevare l'eccezione implica che ad essa sia fatto onere soltanto di allegare il menzionato elemento costitutivo e di manifestare la volontà di profittare di quell'effetto, non anche di indicare direttamente o indirettamente (cioè attraverso specifica menzione della durata dell'inerzia) le norme applicabili al caso di specie, l'identificazione delle quali spetta al potere-dovere del giudice</em>". Pertanto, secondo quest'ultimo orientamento, non incorre nelle preclusioni di legge la parte che, proposta originariamente un'eccezione di prescrizione quinquennale, invochi nel successivo corso del giudizio la prescrizione ordinaria decennale, o viceversa. Inoltre, il riferimento della parte ad uno di tali termini non priva il giudice del potere officioso di applicazione (previa attivazione del contraddittorio sulla relativa questione) di una norma che prevede un termine diverso, atteso che la questione relativa all'applicabilità di uno specifico termine di prescrizione attiene all'obbligo inerente all'esatta applicazione della legge, la cui rilevazione non è riservata al monopolio della parte ma può avvenire anche d'ufficio.</p> <p style="text-align: justify;">Il Collegio ritiene dunque alfine di rimettere gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ai fini della composizione del rilevato contrasto.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il 30 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n. 2660 secondo la quale, in materia di contratto di conto corrente bancario, poiché la decorrenza della prescrizione è condizionata al carattere solutorio, e non meramente ripristinatorio, dei versamenti effettuati dal cliente della banca, essa matura sempre dalla data del pagamento, qualora il conto risulti in passivo e non sia stata concessa al cliente un'apertura di credito, oppure i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento; ne discende che, eccepita dalla banca la prescrizione del diritto alla ripetizione dell'indebito per decorso del termine decennale dal pagamento, è onere del cliente provare l'esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quel versamento come mero ripristino della disponibilità accordata.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 31 gennaio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2993 onde, nell'ipotesi di nullità di un contratto, la disciplina degli obblighi restitutori tra le parti del ridetto contratto dichiarato nullo è da assumersi mutuata da quella dell'indebito oggettivo, poiché viene a mancare la causa giustificativa delle rispettive attribuzioni patrimoniali; ne consegue per il Collegio che, ai fini della decorrenza degli interessi, rileva la condizione soggettiva dell'<em>accipiens</em> al momento in cui ha ricevuto la prestazione (“<em>pagamento</em>”), essendo lo stesso tenuto a restituirli dal giorno del pagamento, se in mala fede, e da quello della domanda giudiziale, se in buona fede.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 12 febbraio esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n.3971 alla cui stregua qualora un contratto di locazione sia dichiarato nullo, pur conseguendo in linea di principio a detta dichiarazione il diritto per ciascuna delle parti di ripetere la prestazione effettuata, tuttavia la parte che abbia usufruito del godimento dell'immobile non può pretendere la restituzione di quanto versato a titolo di corrispettivo per tale godimento, in quanto ciò importerebbe un'inammissibile arricchimento senza causa in danno del locatore.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 febbraio esce l’ordinanza della VI sezione della Cassazione n.4263 alla cui stregua, a seguito della chiusura del procedimento di esecuzione forzata, è da escludere la possibilità di ottenere una modifica della distribuzione del ricavato della vendita mediante l'esperimento dell'azione di ripetizione di indebito da parte di un creditore nei confronti degli altri; ciò in quanto – precisa il Collegio - la definizione di quel procedimento con l'approvazione del progetto di distribuzione senza contestazioni da parte dei creditori determina l'intangibilità della concreta ed effettiva distribuzione delle somme ricavate dalla vendita.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 13 giugno esce l’importante sentenza delle SSUU della Cassazione n. 15895 onde, in tema di prescrizione estintiva, l'onere di allegazione gravante sull'istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l'eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l'azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da apertura di credito, è soddisfatto con l'affermazione dell'inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare, senza che sia necessaria l'indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte.</p> <p style="text-align: justify;">Precisa altresì la Corte come in tema di ripetizione dell'indebito oggettivo, ai fini del decorso degli interessi sulla somma oggetto di restituzione, l'espressione dal giorno della «<em>domanda</em>», contenuta nell'art. 2033 c.c., non va intesa come riferita esclusivamente alla domanda giudiziale, ma comprende anche gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora ai sensi dell'art. 1219 c.c.</p> <p style="text-align: justify;">La questione posta all'esame delle Sezioni Unite si incentra sulla delimitazione dell'onere di allegazione gravante sull'istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l'eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l'azione di ripetizione di somme indebitamente pagate (nella specie, per interessi passivi e commissioni di massimo scoperto non dovuti, rispettivamente, perché pattuiti mediante clausole nulle, e perché non concordate), nel corso del rapporto di conto corrente che sia assistito da un apertura di credito. L'ordinanza interlocutoria evidenzia, in particolare, che la distinzione tra atti ripristinatori della provvista ed atti di pagamento, elaborata "<em>ad altri fini</em>" e valorizzata, dalla sentenza n. 24418 del 2010 delle Sezioni Unite "<em>per stabilire il momento da cui possa scaturire la pretesa restitutoria del correntista, ai fini della decorrenza della prescrizione</em>", ha generato incertezze applicative che si sono, poi, tradotte nei diversi orientamenti giurisprudenziali che essa riassume.</p> <p style="text-align: justify;">Muovendo dalla menzionata sentenza n. 24418 del 2.12.2010, questi, in sintesi, i relativi passaggi argomentativi, svolti in premessa generale ed in riferimento al rapporto tra correntista e Banca: - perché possa sorgere il diritto alla ripetizione di un pagamento indebitamente eseguito tale pagamento deve esistere ed essere ben individuabile. Per esistere, il pagamento deve essersi tradotto nell'esecuzione di una prestazione da parte di un soggetto (il solvens) con conseguente spostamento patrimoniale in favore di altro soggetto (l'accipiens). Esso può dirsi indebito quando difetti di una idonea causa giustificativa; -non può ipotizzarsi il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giuridico definibile come pagamento, nel senso anzidetto, che l'attore affermi indebito. Tale situazione non muta quando la natura indebita sia la conseguenza dell'accertata nullità del negozio giuridico in esecuzione del quale il pagamento è stato effettuato, diverse essendo la domanda volta alla declaratoria di nullità di un atto, che non si prescrive affatto, e quella volta ad ottenere la condanna alla restituzione di ciò che si è pagato, soggetta a prescrizione in dieci anni; -in base al disposto degli artt. 1842 e 1843 c.c., l'apertura di credito si attua mediante la messa a disposizione, da parte della banca, di una somma di denaro che il cliente può utilizzare anche in più riprese e della quale, per l'intera durata del rapporto, può ripristinare in tutto o in parte la disponibilità, eseguendo versamenti che gli consentiranno poi eventuali ulteriori prelevamenti entro il limite complessivo del credito accordatogli; -i versamenti effettuati dal correntista durante lo svolgimento del rapporto potranno esser considerati pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove indebiti), quando abbiano avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca, e cioè quando siano stati eseguiti su un conto in passivo (o "scoperto") cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accredita mento; -per converso, quando il passivo non ha superato il limite dell'affidamento concesso, i versamenti in conto fungono unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere, rispetto ai quali la prescrizione decennale decorre non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. La sentenza in esame è pervenuta a tali conclusioni, ritenendo che la distinzione tra rimessa con funzione solutoria (in entrambi i casi di conto non assistito da apertura di credito che presenti un saldo a debito del correntista, e di quello scoperto a seguito di sconfinamento del fido convenzionalmente accordatogli) ovvero semplicemente ripristinatoria della provvista, elaborata in giurisprudenza in tema di revocabilità delle rimesse sul conto corrente dell'imprenditore poi fallito, ex art.67 L. Fall. (nel testo antecedente la modifica apportata dal d.l. n. 35 del 2005), costituiva un parametro idoneo a stabilire, anche, la configurabilità di un pagamento, asseritamente indebito, idoneo ad ingenerare una pretesa restitutoria in favore del correntista. Peraltro, a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione di detta sentenza, è stato emanato il d.l. n. 225 del 2010, art. 2, co 61, convertito in I. n. 10 del 2011, secondo cui l'art. 2935 c.c. andava interpretato nel senso che "la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione sul conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione", norma che è stata, tuttavia, dichiarata illegittima con sentenza della Corte costituzionale n. 78 del 2012. Il menzionato arresto, costantemente applicato dalla giurisprudenza successiva, va qui riconfermato. Prima ancora che per la coerenza di sistema in riferimento alle note applicazioni giurisprudenziali in tema di revocatoria di rimesse bancarie ad opera di correntista poi fallito, l'approdo, nel comporre l'antinomia tra i contrapposti argomenti relativi al dies a quo del decorso prescrizionale dell'azione di ripetizione in ipotesi di domanda volta all'accertamento della nullità del titolo in forza del quale è il pagamento, in tesi indebito, è stato eseguito (dalla chiusura del conto o dall'annotazione di ciascun addebito in applicazione di clausola nulla), si connota per il suo rigore logico nell'individuazione dell'atto giuridico qualificabile come pagamento -e dunque ripetibile ove indebito- nell'ambito dello specifico rapporto di conto corrente bancario, in cui il saldo passivo non è immediatamente esigibile , salvo che non ecceda l'importo dell'affidamento concesso al correntista, o in ipotesi di conto corrente "scoperto'; non assistito da aperture di credito.</p> <p style="text-align: justify;">La distinzione tra rimesse solutorie e ripristinatorie della provvista non ha dato luogo a specifici problemi interpretativi in relazione all'onere di allegazione dovuto dal correntista nella proposizione dell'azione di ripetizione: la questione relativa alla necessità che l'attore, oltre all'indicazione del conto corrente, dell'eventuale apertura di credito, della durata del relativo rapporto dovesse indicare partitamente i versamenti effettuati, e specificarne la natura, o se, invece, fosse sufficiente l'allegazione di versamenti indebiti, con la richiesta di restituzione di una determinata somma, è stata risolta nel secondo senso in modo esplicito da Cass.n. 28819 del 2017, secondo cui non compete al correntista l'allegazione della mancata effettuazione di versamenti c.d. solutori, trattandosi di un fatto negativo estraneo alla fattispecie costitutiva del diritto azionato; conclusione che è data per assunta nelle sentenze n. 18581 del 2017; n. 4273 del 2018, n. 18144 del 2018, che richiamano, anche per tale aspetto, la giurisprudenza, formatasi in materia di revocatoria fallimentare ante L. n. 80 del 2005, ferma nel ritenere che non sia affetta da nullità per indeterminatezza dell'oggetto o della causa petendi la citazione contenente la domanda di revocatoria fallimentare di pagamenti costituiti da rimesse di conto corrente bancario, seppure in mancanza d'indicazione dei singoli versamenti solutori (cfr. in proposito, Cass. S.U. n. 8077 del 2012, che ha, tra l'altro, affermato che l'atto di citazione per la revoca di rimesse in conto corrente bancario non è affetto da nullità per vizio del petitum se l'attore ha identificato una somma minima o un importo complessivo ed ha chiesto la revoca di tutte le rimesse affluite, non essendo necessaria, per l'individuazione della domanda, l'indicazione di ciascuna singola rimessa revocabile).</p> <p style="text-align: justify;">Problemi interpretativi si sono invero registrati, proprio come registra l'ordinanza interlocutoria, sulla modalità di formulazione dell'eccezione di prescrizione da parte della banca, convenuta in ripetizione. Posto che, secondo la menzionata sentenza n. 24418 del 2010 delle Sezioni Unite, la prescrizione del diritto alla restituzione ha decorrenza diversa a seconda del tipo di versamento effettuato -solutorio o ripristinatorio- si è, infatti, posta la questione se, nel formulare l'eccezione di prescrizione, la banca debba necessariamente indicare il termine iniziale del decorso della prescrizione, e cioè l'esistenza di singoli versamenti solutori, a partire dai quali l'inerzia del titolare del diritto può venire in rilievo, o se possa limitarsi ad opporre tale inerzia, spettando poi al giudice verificarne effettività e durata, in base alla norma in concreto applicabile. Al quesito sono state date soluzioni differenti, che di seguito vengono riassunte, senza pretesa di completezza.</p> <p style="text-align: justify;">Hanno aderito alla prima soluzione: Cass. n. 4518 del 2014, secondo cui i versamenti eseguiti in conto corrente hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all'accipiens, rispondendo allo schema causale tipico del contratto, sicchè una diversa finalizzazione dei singoli versamenti (o di alcuni di essi) deve essere in concreto provata da parte di chi intende far decorrere la prescrizione da una data diversa e anteriore rispetto a quella della chiusura del conto (in quel caso, la banca non aveva mai dedotto né allegato tale diversa destinazione dei versamenti in deroga all'ordinaria utilizzazione dello strumento contrattuale); - Cass n. 20933 del 2017, secondo cui la natura ripristinatoria delle rimesse è presunta: spetta dunque alla banca che eccepisce la prescrizione di allegare e di provare quali sono le rimesse che hanno, invece, avuto natura solutoria, con la conseguenza che, a fronte della formulazione generica dell'eccezione, indistintamente riferita a tutti i versamenti intervenuti sul conto in data anteriore al decennio decorrente a ritroso dalla data di proposizione della domanda, il giudice non può supplire all'omesso assolvimento di tale onere, individuando d'ufficio i versamenti solutori; - Cass. n. 28819 del 2017 cit., secondo cui incombe sulla banca, quando eccepisce la prescrizione del credito, l'onere di far valere l'avvenuta effettuazione di rimesse solutorie in pendenza di rapporto, non essendo configurabile, in mancanza di tali versamenti, l'inerzia del creditore, che rappresenta il fatto costitutivo dell'eccezione; - Cass. n. 17998 del 2018, secondo cui il fatto costitutivo dell'eccezione di prescrizione (ossia la finalizzazione del versamento da parte del correntista a una funzione diversa da quella ripristinatoria della provvista) deve essere allegato e provato dalla Banca, e pertanto l'eccezione di prescrizione non può considerarsi validamente proposta, quando non sono stati allegati i fatti che ne costituiscono il fondamento, sicchè "la prescrizione va fatta decorrere dalla chiusura del conto" (in quel caso neppure verificatasi); - Cass. n. 18479 del 2018, che ha riaffermato il principio secondo cui la natura ripristinatoria delle rimesse deve presumersi, spettando, dunque, alla banca di indicare specificamente i versamenti solutori rispetto ai quali è intervenuta la prescrizione. In particolare, la sentenza ha aggiunto che il principio, secondo cui l'eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, ossia l'inerzia del titolare, senza che rilevi l'erronea individuazione del termine applicabile, ovvero del momento iniziale o finale di esso, trattandosi di questione di diritto sulla quale il giudice non è vincolato dalle allegazioni di parte, deve esser coniugato con quello secondo cui quando, come nella specie, si è in presenza di pluralità di rimesse affluite sul conto corrente, ognuna delle quali costituisce un distinto credito, è necessario che l'elemento costitutivo dell'eccezione sia specificato, dovendo il convenuto precisare, appunto, il momento iniziale dell'inerzia in relazione a ciascuno dei diritti azionati; - Cass. n. 33320 del 2018, che ha ribadito esser onere della banca, che ha eccepito la prescrizione, fornire la prova della decorrenza e quindi della natura solutoria delle rimesse.</p> <p style="text-align: justify;">Hanno aderito alla seconda soluzione: - Cass. n. 2308 del 2017, che ha ritenuto fondata, e così implicitamente ammissibile, l'eccezione di prescrizione formulata dall'istituto di credito, con riferimento alla richiesta di restituzione di tutte le rimesse, evidenziando che la Corte territoriale correttamente si è limitata ad accoglierla solo in parte, distinguendo, tramite l'ausilio del tecnico nominato, tra rimesse aventi funzione solutoria e rimesse aventi funzione ripristinatoria; - Cass. n. 18581 del 2017 cit., secondo cui, in un quadro processuale definito dalla presenza degli estratti conto, non compete alla banca convenuta fornire specifica indicazione delle rimesse solutorie cui è applicabile la prescrizione, essendo tale incombente estraneo alla disciplina positiva dell'eccezione, che è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, e cioè l'inerzia del titolare, e manifestato la volontà di avvalersene. La decisione ha ritenuto, in particolare, che un'allegazione nel senso indicato non cessa di esser tale ove la parte interessata correli quell'inerzia anche ad atti (id est, versamenti ripristinatori) che non spieghino incidenza sul diritto fatto valere dell'attore, evidenziando che, così come, ai fini della valida proposizione della domanda di ripetizione, non si richiede che il correntista specifichi una ad una le rimesse, da lui eseguite, che, in quanto solutorie, si siano tradotte in pagamenti indebiti a norma dell'art. 2033 c.c, non si vede, in conseguenza, perché debba essere la banca, che eccepisca la prescrizione, ad essere gravata dell'onere di indicare i detti versamenti solutori (su cui la prescrizione possa, poi, in concreto operare); - Cass. n. 4372 del 2018 cit., del medesimo tenore. Nel ribadire che l'eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, e cioè l'inerzia del titolare, e manifestato la volontà di avvalersene, specifica come la natura ripristinatoria o solutoria dei singoli versamenti emerga dagli estratti conto che il correntista, attore nell'azione di ripetizione, ha l'onere di produrre in giudizio. Riafferma che non sussistono ragioni per distinguere l'onere di allegazione del correntista da quello della banca, richiamando, al riguardo, la giurisprudenza di legittimità formatasi sull'azione revocatoria in tema di rimesse bancarie riferita alla disciplina anteriore alla riforma della legge fallimentare (di cui si è sopra dato conto al § 3.). La decisione conclude affermando che il carattere solutorio o ripristinatorio delle singole rimesse non incide sul contenuto dell'eccezione, che rimane lo stesso, indipendentemente dalla natura dei singoli versamenti: semplicemente, la distinzione concettuale esistente tra le diverse tipologie di versamento imporrà al giudice, anche con l'ausilio del consulente tecnico, di selezionare giuridicamente le rimesse che assumano concreta rilevanza ai fini della ripetizione dell'indebito e della prescrizione; - Cass. n. 5571 del 2018, che, nel cassare la decisione d'appello che aveva ritenuto inammissibile l'eccezione di prescrizione, afferma, che per principio consolidato, l'eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, ossia l'inerzia del titolare, senza che rilevi l'erronea individuazione del termine applicabile, ovvero del momento iniziale o finale di esso, trattandosi di questione di diritto sulla quale il giudice non è vincolato dalle allegazioni di parte; - Cass. n. 18144 del 2018, che ripercorre gli argomenti svolti dalle sentenze n. 18581 del 2017 e n. 4372 del 2018, rilevando che in un quadro processuale definito dagli estratti conto non compete alla banca convenuta fornire specifica indicazione delle rimesse solutorie cui è applicabile la prescrizione, e che, una volta che la parte convenuta abbia formulato l'eccezione di prescrizione, compete al giudice verificare quali rimesse, per essere ripristinatorie, siano irrilevanti ai fini della decorrenza della prescrizione nel corso del rapporto, non potendosi considerare quali pagamenti; - Cass. n. 30885 del 2018, che, nel rigettare il motivo di ricorso del correntista, secondo cui la Corte del merito avrebbe eluso gli oneri delle parti attribuendo la ricerca ufficiosa del thema decidendum al CTU anzichè alla parte, che aveva genericamente eccepito la prescrizione decennale dei presunti pagamenti indebiti, ha ricondotto la questione nell'ambito della qualificazione dei fatti rilevati e riepilogati in chiave ricostruttiva dal CTU, affermando che l'accertamento della natura dei versamenti era dipeso dalla condivisione da parte del giudice dell'affermazione svolta dal CTU, circa la mancanza di un'apposita convenzione di affidamento di credito bancario e l'esclusione della natura ripristinatoria dei versamenti con applicazione della prescrizione, solo, con riferimento ai "pagamenti" effettuati nel decennio anteriore alla domanda giudiziale; - Cass. n. 2660 del 2019, che, nel ricostruire il modo in cui si atteggia l'onere della prova nei giudizi in esame, ha affermato che, nel formulare l'eccezione di prescrizione, l'istituto di credito ha l'onere di dedurre l'inerzia, il tempo del pagamento ed il tipo di prescrizione invocata, aggiungendo che l'eccezione è comunque validamente proposta, quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, e cioè l'inerzia del titolare, e manifestato la volontà di avvalersene.</p> <p style="text-align: justify;">Si colloca in una posizione intermedia Cass. n. 12977 del 2018, che l'ordinanza di rimessione menziona tra quelle adesive alla prima soluzione. Tale sentenza condivide, in effetti, il presupposto da cui muovono quelle decisioni (che peraltro vengono richiamate), secondo cui, in costanza di rapporto, i versamenti eseguiti sul conto corrente hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all'accipiens sicchè una diversa finalizzazione dei versamenti deve essere in concreto provata da parte di chi intende far decorrere la prescrizione, quale fondamento del fatto estintivo della pretesa azionata in giudizio ex adverso. La decisione conclude affermando che grava sulla banca, a fronte di un rapporto di conto corrente con apertura di credito, l'onere di allegare, ai fini dell'ammissibilità dell'eccezione di prescrizione -e poi di provare, ai fini della fondatezza dell'eccezione- non solo il mero decorso del tempo, ma anche l'ulteriore circostanza dell'avvenuto superamento, ad opera del cliente, del limite dell'affidamento. Tale attività di allegazione, per quanto "attenuata" nella relativa deduzione e, cioè, senza la necessità di un'allegazione analitica delle rimesse ritenute solutorie, deve, però, recare un grado di specificità tale da consentire alla controparte un adeguato esercizio di difesa sul punto, e, in mancanza, la relativa eccezione deve essere respinta, in quanto genericamente formulata (prima che infondata), non potendo il giudice supplire all'omesso assolvimento di tali oneri, individuando d'ufficio i versamenti solutori. Diversamente, in caso di conto non "affidato", tutte le rimesse devono automaticamente reputarsi solutorie, con conseguente inesistenza di alcun onere in capo alla banca di individuarle specificamente.</p> <p style="text-align: justify;">Per la composizione del contrasto, il Collegio ritiene opportuno ricordare che, in generale, la nozione di allegazione "<em>in senso proprio</em>", che è quella che qui rileva, si identifica con l'affermazione dei fatti processualmente rilevanti, posti a base dell'azione o dell'eccezione: essa individua i fatti costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi dei diritti fatti valere in giudizio, sinteticamente definiti come fatti principali (per distinguerli dai c.d. fatti secondari, dedotti in funzione di prova di quelli principali). E', poi, necessario precisare che non rientra nell'ambito dell'onere di allegazione la qualificazione dei fatti allegati, che costituisce, invece, attività riservata al giudice, che, nel provvedere al riguardo, non è vincolato da quella eventualmente offerta dalle parti.</p> <p style="text-align: justify;">L'art. 163 n. 4 c.p.c. impone all'attore l'allegazione dei fatti costituenti le ragioni della domanda, e ne sanziona con la nullità, ex art. 164, co 4, c.p.c., l'omessa esposizione. Secondo la giurisprudenza della Corte, la relativa indagine va compiuta caso per caso, tenuto conto che l'adempimento dell'onere di allegazione può mutare in relazione alle caratteristiche degli elementi costitutivi della domanda (cfr. SU n. 26242 del 2014 in tema di diritti autodeterminati ed eterodeterminati), e che l'incertezza dei fatti costitutivi della domanda deve essere vagliata in coerenza con la ragione ispiratrice della norma, che risiede, principalmente, nell'esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese, oltre che di offrire al giudice l'immediata contezza del thema decidendum (Cass. n. 11751 del 2013; n. 29241 del 2008). La giurisprudenza, sopra menzionata, in tema di allegazioni dovute dal correntista, che agisca in ripetizione di versamenti asseritamente indebiti, costituisce specifica applicazione di tale principio. L'onere di allegazione del convenuto va distinto a seconda che si sia in presenza di eccezioni in senso stretto, o eccezioni in senso lato: nel primo caso, i fatti estintivi, modificativi o impeditivi, possono esser introdotti nel processo solo dalla parte, mentre nel secondo sussiste il potere-dovere di rilievo da parte dell'Ufficio. Tale distinzione è stata posta in evidenza dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 1099 del 1998 (successivamente seguita dalla giurisprudenza di legittimità), che, nell'ambito della contestazione del convenuto, ha, appunto, differenziato il potere di allegazione da quello di rilevazione, nel senso che il primo compete esclusivamente alla parte e va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal rito in concreto applicabile (soggiacendo, pertanto, alle relative preclusioni e decadenze), mentre il secondo compete alla parte (e soggiace perciò alle preclusioni previste per le attività di parte) solo nei casi in cui la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un'azione costitutiva), ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l'iniziativa di parte, dovendosi, in ogni altro caso ritenere la rilevabilità d'ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo e provati alla stregua della specifica disciplina processuale in concreto applicabile. E', quindi, necessario rimarcare che, pur nella loro indiscutibile connessione, l'onere di allegazione è concettualmente distinto dall'onere della prova, attenendo il primo alla delimitazione del thema decidendum mentre il secondo, attenendo alla verifica della fondatezza della domanda o dell'eccezione, costituisce per il giudice regola di definizione del processo. Non è ozioso, infatti, rilevare che l'aver assolto all'onere di allegazione non significa avere proposto una domanda o un'eccezione fondata, in quanto l'allegazione deve, poi, esser provata dalla parte cui, per legge, incombe il relativo onere, e le risultanze probatorie devono, infine, esser valutate, in fatto e in diritto, dal giudice.</p> <p style="text-align: justify;">Nello specifico tema della prescrizione estintiva, oggetto della presente disamina, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 10955 del 2002 -anch'essa menzionata nell'ordinanza interlocutoria- hanno chiarito che il relativo elemento costitutivo è rappresentato dall'inerzia del titolare del diritto fatto valere in giudizio, mentre la determinazione della durata di detta inerzia, necessaria per il verificarsi dell'effetto estintivo, si configura come una quaestio iuris concernente l'identificazione del diritto e del regime prescrizionale per esso previsto dalla legge. Ne consegue che la riserva alla parte del potere di sollevare l'eccezione -che, com'è noto, costituisce una tipica eccezione in senso stretto- implica che ad essa sia fatto onere soltanto di allegare il menzionato elemento costitutivo e di manifestare la volontà di profittare di quell'effetto, e non anche di indicare direttamente o indirettamente (cioè attraverso specifica menzione della durata dell'inerzia) le norme applicabili al caso di specie, l'identificazione delle quali spetta al giudice, che -previa attivazione del contraddittorio sulla relativa questione- potrà applicare una norma di previsione di un termine diverso. In particolare, analizzando la struttura nella fattispecie estintiva delineata dall'art. 2934 c.c. secondo cui "ogni diritto si estingue quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge", la sentenza n. 10955 in esame, chiamata a dirimere il contrasto esistente circa la necessità che la parte che formuli tale eccezione debba o meno specificare il lasso di tempo a ciò necessario, è pervenuta alla esposta conclusione, evidenziando che l'identificazione della fattispecie estintiva cui corrisponde l'eccezione di prescrizione, va correttamente compiuta alla stregua del "fatto principale" e che tale fatto va individuato nell'inerzia del titolare; laddove il tempo è configurato soltanto come la dimensione del fatto principale, una circostanza ad esso inerente, che non ha valore costitutivo di un corrispondente tipo di prescrizione. Si è, pertanto, precisato che non esistono tanti tipi di prescrizione in relazione al tempo del relativo maturarsi, e correlativamente, con l'indicazione di un termine o di un altro non si formula una nuova eccezione "fermo restando, in ogni caso, che l'eccezione stessa è correttamente formulata anche quando la parte siasi limitata ad invocare l'effetto estintivo dell'inerzia del titolare, senza alcuna indicazione espressa della durata a tal fine sufficiente".</p> <p style="text-align: justify;">In linea con gli esposti principi in tema di onere di allegazione, in generale, e di onere di allegazione riferito alla specifica eccezione di prescrizione, la soluzione del contrasto nel caso di specie va risolta nel senso della non necessarietà dell'indicazione, da parte della banca, del dies a quo del decorso della prescrizione, secondo la pertinente giurisprudenza indicata supra. Deve, infatti, ribadirsi che l'elemento qualificante dell'eccezione di prescrizione è l'allegazione dell'inerzia del titolare del diritto, che costituisce, appunto, il fatto principale, nei sensi di cui si è detto, al quale la legge riconnette l'invocato effetto estintivo. Se ciò è vero, pare al Collegio che richiedere al convenuto, ai fini della valutazione di ammissibilità dell'eccezione, che tale inerzia sia "particolarmente connotata" in riferimento al termine iniziale della stessa (in tesi, individuando e specificando diverse rimesse solutorie) comporti l'introduzione, sia pur indiretta, di una nuova tipizzazione delle diverse forme di prescrizione, che le Sezioni Unite, nella condivisa pronuncia n. 10955 del 2002, hanno voluto espressamente escludere. Del resto, la giurisprudenza, che ha ritenuto necessaria l'indicazione delle rimesse solutorie, fa leva su di un argomento -e cioè la presunta natura ripristinatoria dei versamenti, secondo un andamento fisiologico del rapporto- che, riferendosi allo schema delle presunzioni, attiene al profilo probatorio (art. 2727 e segg. c.c.), che, come si è detto, va distinto dal profilo allegatorio, che è, appunto, quello rilevante ai fini dell'ammissibilità dell'eccezione. Merita, ancora, condivisione la considerazione che esalta la simmetria che, in base a tale ricostruzione, viene richiesta alle parti ai fini della validità della domanda di ripetizione e dell'ammissibilità dell'eccezione di prescrizione: il correntista potrà limitarsi ad indicare l'esistenza di versamenti indebiti e chiederne la restituzione in riferimento ad un dato conto e ad un tempo determinato, e la Banca, dal canto suo, potrà limitarsi ad allegare l'inerzia dell'attore in ripetizione, e dichiarare di volerne profittare. Resta da aggiungere che il problema della specifica indicazione delle rimesse solutorie non viene eliminato, ma semplicemente si sposta dal piano delle allegazioni a quello della prova, sicchè il giudice valuterà la fondatezza delle contrapposte tesi al lume del riparto dell'onere probatorio, se del caso avvalendosi di una consulenza tecnica a carattere percipiente.</p> <p style="text-align: justify;">Ne scaturisce per il Collegio il principio di diritto onde l'onere di allegazione gravante sull'istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l'eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l'azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da un apertura di credito, è soddisfatto con l'affermazione dell'inerzia del titolare del diritto, e la dichiarazione di volerne profittare, senza che sia anche necessaria l'indicazione di specifiche rimesse solutorie.</p> <p style="text-align: justify;">Il tema dell'apprezzamento di un atto interruttivo della prescrizione – chiosa poi il Collegio - è stato affrontato dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 15661 del 2005, che, richiamata la precedente pronuncia n. 1099 del 1998, hanno affermato il principio secondo cui l'eccezione di interruzione della prescrizione integra un'eccezione in senso lato e, pertanto, può essere rilevata d'ufficio dal giudice sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti. Con la successiva ordinanza n. 10531 del 2013 è stato, inoltre, chiarito che il rilievo d'ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati ex actis, in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione.</p> <p style="text-align: justify;">Secondo la giurisprudenza tradizionale e maggioritaria (tra le tante, Cass. 3912 del 2018; n. 10161 del 2016; n. 9934 del 2016; n. 4436 del 2014; n. 17558 del 2006; n. 4745 del 2005; n. 1581 del 2004; n. 11969 del 1992), nella ripetizione dell'indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., il debito dell'accipiens, che non sia in mala fede, produce interessi solo a seguito della proposizione dell'apposita domanda giudiziale, non essendo sufficiente un qualsiasi atto di costituzione in mora, e ciò in quanto all'indebito si ritiene applicabile la tutela prevista per il possessore in buona fede in senso soggettivo dell'art. 1148 c.c., a norma del quale questi è obbligato a restituire i frutti soltanto della domanda giudiziale, secondo il principio per il quale gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della proposizione della domanda. Si è anche posto in evidenza che, pur avendo ad oggetto una somma di danaro liquida ed esigibile, l'art. 2033 c.c. è, perciò, norma parzialmente derogatoria rispetto sia all'art. 1282 c.c. che all'art. 1224 c.c. Le Sezioni Unite hanno affrontato il tema della decorrenza degli interessi in ipotesi di ripetizione d'indebito, con la sentenza n. 7269 del 1994, in tema di domanda restitutoria di somme indebitamente versate per contributi assicurativi dal datore di lavoro all'I.N.P.S. Dopo aver ricordato lo stato della giurisprudenza di legittimità, nei sensi appena esposti, la decisione ha evidenziato che in materia previdenziale, in forza della specialità della normativa, la domanda giudiziale deve esser preceduta dalla domanda amministrativa (che costituisce una condizione di proponibilità della prima), ed ha concluso affermando che gli interessi decorrono non già dalla domanda giudiziale ma dalla precedente domanda amministrativa, che non può esser considerata come una mera richiesta di restituzione -avendo caratteristiche del tutto analoghe alla domanda giudiziale sia per la certezza del dies a quo sia per l'idoneità a rendere consapevole l'accipiens dell'indebito nel quale versa- e tenuto conto che, un'interpretazione restrittiva del termine "domanda" nel senso tecnico-giuridico di domanda giudiziale determinerebbe conseguenze pregiudizievoli per i diritti del solvens e quindi dubbi di legittimità costituzionale della citata norma in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione. Con le successive sentenze n. 5624 del 2009 e n. 14886 del 2009, rese in ipotesi di condanna alla restituzione di somme di denaro versate in esecuzione di un accordo sull'indennità di espropriazione, divenuto inefficace in seguito all'interruzione del procedimento ablativo, le Sezioni Unite hanno ritenuto, con la prima, costituire jus receptum l'affermazione secondo cui il termine "domanda" contenuto nell'art. 2033 c.c. si riferisce alla domanda giudiziale, sicchè gli interessi (compensativi) decorrono "dal momento della domanda giudiziale (e mai comunque da quello della messa in mora), salva la dimostrazione della mala fede dell'accipiens"; e, con la seconda, si sono limitate a dare seguito all'orientamento sopra esposto, richiamandolo espressamente. Il fondamento dell'obbligo dell'accipiens in buona fede di corrispondere gli interessi, ricostruito in riferimento ai principi in tema di possesso, è stato sconfessato con la sentenza n. 7526 del 2011. Tale decisione ha posto in evidenza che la formula letterale dell'art. 2033 c.c. riconosce all'attore in ripetizione il diritto agli interessi dalla "domanda" senza alcuna connotazione e che la relativa qualificazione in termini di "domanda giudiziale" si basa su di un fondamento storico non più corrispondente all'attuale sistema del codice civile: il codice del 1865 includeva la restituzione dell'indebito (riprendendo l'art. 1377 del codice francese) nella sezione dei quasi contratti e disciplinava, all'art. 1147 c.c., il solo caso della ricezione in mala fede facendo decorrere gli interessi "dal giorno del pagamento", mentre, per l'ipotesi, in quel codice non prevista, della ricezione in buona fede, l'accipiens veniva considerato non già come debitore per la restituzione/ ma come possessore della somma altrui, con conseguente suo obbligo di restituzione dei frutti pervenutigli "dopo la domanda giudiziale" (art. 703 c.c. del 1865, corrispondente all'attuale art. 1148 c.c.). E ciò non perchè la domanda giudiziale faceva venir meno lo stato di buona fede (la mala fede sopravvenuta non nuoceva al possessore), ma in virtù del principio secondo cui la durata del processo non può danneggiare la parte vittoriosa. L'attuale disciplina codicistica, prosegue la decisione in esame, ha inserito l'istituto della ripetizione dell'indebito nel libro delle obbligazioni, sicchè l'incongruenza circa il fondamento legale della decorrenza degli interessi (la cui natura si afferma non chiaramente definita) va superata portando la materia per intero nel diritto delle obbligazioni, e cioè intendendo la "domanda" di cui all'art. 2033 come atto di costituzione in mora, anche stragiudiziale (art. 1219, co 1 c.c.). A tale principio, pure di sfuggita affermato con la sentenza n. 16657 del 2014, si è dichiaratamente riferita la sentenza n. 22852 del 2015, in tema di applicabilità dei principi dell'indebito in ipotesi di pagamento dell'indennità di espropriazione concordata, e della successiva revoca della dichiarazione di pubblica utilità per ragioni di pubblico interesse. Tale decisione, richiamate le menzionate sentenze Cass. S.U. n. 5624 e n. 14886 del 2009 (trattandosi della medesima questione), ha, infatti, ritenuto che, in tema di ripetizione d'indebito oggettivo, l'espressione "domanda" di cui all'art. 2033 c.c. non va intesa come riferita esclusivamente alla domanda giudiziale, ma comprende anche gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora, ai sensi dell'art. 1219 c.c., dovendosi considerare l'accipiens (in buona fede) quale debitore e non come possessore, con conseguente applicazione dei principi generali in materia di obbligazioni e non di quelli relativi alla tutela del possesso ex art. 1148 c.c. Agli argomenti svolti nella precedente decisione n. 7526 del 2011, la sentenza ne ha aggiunto uno letterale, a dimostrazione della diversità della disciplina del possesso rispetto a quella delle obbligazioni, ed un altro desunto dalla comparazione giuridica con l'ordinamento tedesco.</p> <p style="text-align: justify;">Le SSUU assumono di dover aderire alla seconda esegesi dell'art.2033 c.c. Oltre al superamento delle ragioni storiche sopra esposte (per la specifica previsione della spettanza degli interessi in ipotesi d'indebito oggettivo ricevuto in buona fede), idonee a dar conto della genesi della considerazione dell'accipiens come possessore piuttosto che come debitore, onde escludere la correttezza della tesi che sovrappone dette situazioni giuridiche milita, anzitutto, il dato normativo. L'art. 2033 c.c. stabilisce, infatti, che chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto agli interessi "dal giorno della domanda", laddove l'art. 1148 c.c. dispone che il possessore in buona fede fa suoi i frutti naturali separati e i frutti civili "fino al giorno della domanda giudiziale". La circostanza che la domanda -indicata quale dies a quo della decorrenza degli interessi dovuti dall'accipiens in buona fede- non sia ulteriormente connotata in termini di "giudiziale" non è fatto in sé neutro e consente, già in prima battuta, di affermare che, riferendosi alla "domanda", il legislatore non abbia voluto unicamente riferirsi alla notificazione dell'atto con cui si inizia un giudizio, come invece ha fatto, a proposito dell'interruzione della prescrizione, nel primo comma dell'art. 2943 (che al secondo menziona la "domanda proposta nel corso di un giudizio"). Del resto, con la sentenza n. 8491 del 2011, le Sezioni Unite, nell'affermare che il termine "ricorso" contenuto nell'art. 1137 c.c. (nel testo antecedente la modifica di cui all'art. 15 della L. n. 220 del 2012) non vale ad identificare la forma che deve assumere l'atto introduttivo dei giudizi d'impugnativa delle delibere condominiali, hanno già evidenziato che il riferimento a nozioni processuali che, come nella specie, sia inserito in un contesto normativo - il codice civile - destinato alla configurazione dei diritti e all'apprestamento delle relative azioni sotto il profilo sostanziale, può avere carattere generico. Da un punto di vista sistematico, va, poi, rilevato che il possessore, in virtù dell'apparenza di verità che è data al relativo titolo dalla buona fede (che si presume), non cessa di esser tale né diventa mero detentore per il solo fatto che un terzo rivendichi il bene, seppure con una richiesta formale, in tesi analoga a quella idonea alla costituzione in mora: gli effetti della sentenza retroagiscono, infatti, alla "domanda giudiziale", di cui parla l'art. 1148 c.c., non perché la relativa proposizione produca l'effetto della costituzione in mora, ma perché lo status di possessore in buona fede e la connessa tutela possono cessare solo con la sentenza che accolga la rivendica, mentre, com'è noto, i tempi del processo non possono gravare sulla parte rimasta vittoriosa. In caso d'indebito oggettivo, invece, il legislatore, come affermato da accorta dottrina, non si preoccupa di qualificare la situazione che lo determina, e non prende neppure posizione sul problema se il pagamento non dovuto trasferisca la proprietà della cosa pagata oppure ne trasferisca il solo possesso: si limita più semplicemente a prendere atto che manca un presupposto legale affinché la prestazione corrisposta possa esser mantenuta, e concede alla parte che ha effettuato il pagamento il diritto di riprendersi quanto pagato. Il principio ha avuto l'avallo delle Sezioni Unite (n. 14828 del 2012), che hanno affermato che qualora venga acclarata la mancanza di una causa adquirendi, ed in qualsiasi casoin cui venga meno il vincolo originariamente esistente, l'azione accordata dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del titolo invalido è quella di ripetizione di indebito oggettivo. Il Collegio ritiene, pertanto, di dover superare la propria giurisprudenza, che, nelle decisioni del 2009, ha fatto proprio l'indirizzo tradizionale qualificandolo come jus receptum, ma senza alcuna specifica argomentazione, mentre con la decisione del 1994 ha mostrato un'apertura, sia pur settoriale e riferita al valore della domanda amministrativa nelle cause previdenziali, e di dover affermare che i principi che governano l'indebito devono individuarsi solo in quelli che regolano le obbligazioni, nel cui ambito l'istituto trova, appunto, la sua sedes materiae. Il che comporta che, in base ai principi generali, l'obbligo della corresponsione degli interessi da parte dell'accipiens in buona fede, quale debitore dell'indebito percepito, può decorrere da data antecedente a quella dell'instaurazione del giudizio, ove sia stata preceduta da uno specifico atto di costituzione in mora, dovendo il termine "domanda" di cui all'art. 2033 c.c. esser inteso come riferito non esclusivamente alla domanda giudiziale ma, anche, agli atti stragiudiziali di cui all'art. 1219 c.c. Il regime della disposizione in esame, che si riferisce, comunque, ad una domanda per il sorgere del debito per interessi consente, sotto altro profilo, di confermare che l'art. 2033 c.c. è norma parzialmente derogatoria rispetto all'art. 1282 c.c., costituendo eccezione -che la disposizione in esame, appunto, ammette- al principio secondo cui i crediti liquidi ed esigibili di una somma di danaro producono interessi (corrispettivi) di pieno diritto, e ciò in ragione del fatto che la legge considera legittima l'utilizzazione del denaro da parte dell'accipiens in buona fede prima della "domanda" nel senso qui specificato.</p> <p style="text-align: justify;">Ne scaturisce allora per il Collegio il principio di diritto onde ai fini del decorso degli interessi in ipotesi di ripetizione d'indebito oggettivo, il termine "domanda", di cui all'art. 2033 c.c., non va inteso come riferito esclusivamente alla domanda giudiziale ma comprende anche gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora, ai sensi dell'art. 1219 c.c.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 23 luglio esce la sentenza della sezione tributaria della Cassazione n.19798 onde, in tema di accisa sul gas metano, la domanda di ripetizione proposta dal consumatore verso il fornitore per quanto indebitamente pagato a causa della mancata applicazione dell'aliquota ridotta per usi industriali può essere accolta con decorrenza dalla data di presentazione della relativa istanza all'autorità finanziaria e non da un momento anteriore, posto che il godimento del beneficio è subordinato alla dimostrazione della sussistenza dei presupposti da parte del contribuente (fornitore) e alla verifica dei medesimi da parte dell'autorità competente, ciò che riverbera i relativi effetti anche nel rapporto privatistico tra consumatore e fornitore.</p> <p style="text-align: justify;">* * *</p> <p style="text-align: justify;">Il 20 settembre esce l’ordinanza delle SSUU della Cassazione n.23540, alla cui stregua rientra nella giurisdizione esclusiva del GA ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. c) del cod. proc. amm. la domanda con cui una concessionaria di pubblico servizio sanitario in seno al Servizio Sanitario nazionale, a seguito dell’invio da parte dell’Amministrazione sanitaria, all’esito dell’esercizio del potere di controllo di cui all’art. 8-octies del d.lgs. n. 502 del 1992 e della relativa normativa di attuazione, della richiesta di emissione di note di credito a titolo di c.d. penalizzazione ai sensi del comma 3, lettera a) di detta norma, e della minaccia, in mancanza di emissione delle stesse, di compensare il preteso su corrispettivi fatturandi dalla concessionaria, chieda in via negativa l’accertamento della mancata adozione di un provvedimento amministrativo sanzionatorio, nonché della inesistenza delle condizioni della minacciata compensazione e di non essere tenuta ad emettere le chieste note di credito.</p> <p style="text-align: justify;">Nel caso di specie, precisa la Corte, la domanda proposta dalla ricorrente (struttura sanitaria accreditata con il SSN) concerne nella sostanza l’accertamento negativo di un preteso “<em>indebito</em>” concernente somme da essa riscosse in ragione delle prestazioni concessone nel 2013; tale credito da “<em>indebito</em>” è vantato dall’Amministrazione giusta richiesta di emissione di note di credito, accompagnata dalla prospettazione, in mancanza, di una “<em>compensazione</em>” con quanto da essa dovuto in futuro alla struttura per somme fatturande quale corrispettivo di prestazioni non ancora pagate; la domanda si presenta dunque per il Collegio certamente riconducibile alla nozione delle “<em>controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi</em>”, in quanto la pretesa delle Amministrazioni si risolve nella postulazione che una parte dei corrispettivi riscossi non sarebbero dovuti e dovrebbero essere restituiti; la richiesta delle Amministrazioni appare tuttavia giustificata, chiarisce il Collegio sulla base dell’esercizio di un’attività riconducibile ad un potere autoritativo riconosciuto dalla legge, onde le domande proposte dalla ricorrente tendono ad accertare – come domande di accertamento negativo di pretesa vantata da esse - l’inesistenza del presupposto per la restituzione o, se si vuole, della non debenza di parte dei corrispettivi già pagati dalla PA, e che questa assume indebiti, con conseguente scandaglio del potere pubblico da affidarsi alla giurisdizione esclusiva del GA.</p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Questioni intriganti</strong></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare della ripetizione di indebito in generale?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>occorre muovere dal principio di necessaria causalità delle attribuzioni patrimoniali, onde ciascuna di esse deve avere una “causa” e, dunque, deve corrispondere ad un interesse giuridicamente rilevante (personale o patrimoniale) di chi “<em>patrimonialmente attribuisce</em>” a qualcun altro;</li> <li>laddove tale attribuzione non sia retta da una causa legittima causa giustificativa, si è al cospetto di una prestazione indebita;</li> <li>chi la ha operata, detto <em>solvens</em>, è in quanto tale legittimato a pretenderne la restituzione da parte di chi ne ha beneficiato, detto <em>accipiens</em>;</li> <li>l’oggetto di tale azione di ripetizione restitutoria è, per l’appunto, l’indebito inteso in senso “<em>oggettivo</em>” ex art.2033 c.c., laddove in sostanza nulla era dovuto di quanto è stato attribuito;</li> <li>è anche possibile che una causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale in realtà vi sia (e dunque si configura in astratto una obbligazione da adempiere), e che tuttavia essa non coinvolga i soggetti tra i quali in concreto interviene, configurandosi in tal caso un indebito soggettivo a connotazione alternativa, onde: e.1) il <em>solvens</em> X crede dovuta la propria prestazione al creditore Y, mentre in realtà il vero debitore di Y è X1 (indebito soggettivo passivo o indebito “<em>ex latere solventis</em>”: secondo una tesi dottrinale, poiché in questo caso il debitore nulla deve, si tratterebbe ancora una volta di indebito oggettivo, e non già soggettivo); e.2) il solvens X crede dovuta la propria prestazione nei confronti del creditore Y, mentre in realtà il vero creditore è Y1 (indebito soggettivo attivo o indebito “<em>ex latere accipientis</em>”);</li> <li>laddove un indebito abbia luogo, il pagamento costituisce un fatto fonte di obbligazione ex art.1173 c.c. in capo all’<em>accipiens;</em> quest’ultimo è infatti tenuto a restituire quanto gli è stato attribuito al solvens: f.1) se in buona fede, con frutti e interessi dal giorno della domanda giudiziale; f.2) se in mala fede, con frutti ed interessi dal giorno del ricevuto pagamento;</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare della ripetizione di indebito “<em>oggettivo</em>” in particolare ?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>è previsto dall’art.2033 c.c.;</li> <li>occorre innanzi tutto che vi sia stato un “<em>pagamento</em>”; si tratta di una espressione che, tecnicamente intesa, vale “<em>prestazione avente ad oggetto una somma di denaro</em>”; nondimeno, stante il disposto dell’art.2037 c.c., in materia di indebito si intende per “<em>pagamento</em>” anche la dazione di cose determinate, che l’<em>accipiens</em> deve restituire in natura al <em>solvens</em>; per quanto invece riguarda le prestazioni indebite di <em>facere</em>, si contrappongono 2 diverse opzioni ermeneutiche: b.1) tesi accreditata soprattutto in dottrina: la nozione di “<em>pagamento</em>” in materia di ripetizione di indebito va intesa in senso restrittivo, con conseguente esclusione delle prestazioni aventi ad oggetto un “<em>facere</em>”, che del resto non possono essere restituite per via “<em>reale</em>” e che, al più, possono formare oggetto di un arricchimento senza causa dell’<em>accipiens</em> ai danni del <em>solvens</em>, ai sensi degli articoli 2041 e seguenti c.c., con conseguente nascita dell’obbligo per il primo di indennizzare il secondo; b.2) tesi accreditata massime in giurisprudenza: anche le prestazioni di <em>facere</em>, se indebite, sono disciplinate dagli articoli 2033 e seguenti c.c., come palesa in primo luogo, sul crinale letterale, il testo degli articoli 2034 e 2035 c.c., che parano più genericamente di “<em>prestazione</em>”; si tratta peraltro di una tutela restitutoria più agile e più efficace per il <em>solvens</em> rispetto all’arricchimento senza causa (limitato ad un indennizzo corrispondente al relativo impoverimento, pari all’arricchimento dell’<em>accipiens</em>), istituto che del resto il legislatore ha previsto in via meramente sussidiaria;</li> <li>dopo le SSUU del 2010 in tema di decorrenza del termine prescrizionale del diritto alla ripetizione di indebito nei rapporti tra banca e correntista (in relazione a clausole anatocistiche dichiarate nulle), perché l’esecuzione di una prestazione possa essere tecnicamente considerata come un “<em>pagamento</em>” deve potersi registrare: c.1) uno spostamento patrimoniale dalla sfera giuridica del solvens a quella dell’accipiens; c.2) la funzionale soddisfazione, attraverso tale spostamento patrimoniale, di un interesse del creditore, e dunque dell’<em>accipiens</em>, ai sensi dell’art.1174 c.c.; per le SSUU, nella peculiare fattispecie vagliata, entrambi questi requisiti possono dirsi sussistenti al momento della chiusura del conto corrente e al contestuale varo del pertinente saldo definitivo, allorché lo spostamento patrimoniale concretamente avviene a soddisfazione dell’interesse della banca creditrice (onde è da quel momento che inizia a decorrere il termine prescrizionale);</li> <li>occorre poi che si registri il difetto di causa che sottende il “<em>pagamento</em>”; deve dunque mancare la c.d. <em>causa solvendi</em>, tanto <em>ab origine</em> quanto in via successiva; un esempio classico è quello della prestazione sottoposta a condizione sospensiva ed effettuata anzitempo rispetto all’evento dedotto in condizione; diverso invece il caso in cui la ridetta prestazione sia effettuata prima che spiri il termine di adempimento, giacché l’art.1185, comma 2, c.c. assume tale prestazione comunque dovuta e “<em>non indebita</em>”, potendo il <em>solvens</em> “<em>in anticipo</em>” pretendere solo il quantum del proprio impoverimento, corrispondente all’arricchimento ritratto dal creditore <em>accipiens</em>; vi sono due casi particolari in cui, nonostante difetti la <em>causa solvendi</em>, non è ammesso ripetere la prestazione (genericamente) “<em>indebita</em>”: d.1) l’obbligazione naturale ex art.2034 c.c.: la prestazione operata spontaneamente in esecuzione di particolari doveri morali e sociali non è ripetibile, escluso solo il caso in cui il <em>solvens</em> sia incapace; normalmente si tratta di una prestazione di dare, ma si configura una prestazione di “facere” nel caso in cui il dovvere morale e sociale abbia ad oggetto l’intervento nella gestione degli affari di chi sia impossibilitato a provvedervi ex art.2028 e seguenti c.c.: anche in questo caso infatti il “<em>solvens</em>” non può “<em>tornare indietro</em>”, avendo dato l’abbrivio ad una fattispecie che è – anche per lui – fonte di obbligazioni; d.2) l’obbligazione nulla perché contraria al buon costume ex art.2034 c.c.: si tratta di un obbligo, e di una eventuale prestazione adempitiva, nulli perché derivanti da una fonte nulla, sicchè difetterebbe la <em>causa solvendi</em>, stante la illiceità della pertinente causa siccome riferita a scopi, comuni a creditore e debitore, contrari al buon costume; e tuttavia in simili fattispecie la “<em>pari causa turpidunis</em>” rende migliore la “<em>condicio possidentis</em>”, onde il solvens “<em>immorale</em>” non può ripetere il pagamento all’<em>accipiens</em> del pari “<em>immorale</em>”; per buon costume si intende, restrittivamente, il compendio dei precetti etici che, in un dato contesto spazio-temporale, detta la morale ed il senso del pudore (come nel caso della prostituzione: in questo settore, peraltro, a detta di parte della dottrina anche con late finalità di protezione del soggetto debole ed oggetto di possibile sfruttamento); mentre estensivamente è buon costume anche il compendio dei precetti etici che, dal punto di vista morale e sociale, rendano riprovevole una certa prestazione (come nel caso di chi paghi un funzionario pubblico per corromperlo ed ottenere favori), anche al di fuori dunque dell’area del pudore e della decenza sessualmente intesi; d.3) l’obbligazione nulla o annullabile perché è nullo o annullabile il contratto di lavoro subordinato ex art.2126 c.c.: in questi casi, per il periodo in cui il rapporto di lavoro ha avuto esecuzione, la nullità o l’annullamento ridetti non producono effetti, onde sono irripetibili le retribuzioni comunque pagate in via corrispettiva dal datore al prestatore di lavoro, salvo il solo caso in cui la causa o l’oggetto del contratto di lavoro subordinato siano illeciti; anche peraltro in quest’ultimo grave caso (nullità dell’oggetto o della causa), il lavoratore mantiene integro il proprio diritto alla retribuzione se la nullità affetti il contratto sotto il profilo della violazione delle norme poste a protezione del lavoratore, giacché anche in tal caso quest’ultimo potrà pretendere la retribuzione e, in caso di già intervenuto versamento della stessa, potrà trattenerla senza che la parte datoriale possa ripeterla;</li> <li>secondo una dottrina risalente al vigore del codice del 1865, per configurare un diritto alla ripetizione dell’indebito sarebbe necessario anche un ulteriore requisito, inespresso, compendiantesi nell’errore del <em>solvens</em> in ordine alla doverosità del pagamento; oggi, con riguardo all’indebito oggettivo, si tende ad escludere la necessità di tale ulteriore, tacito requisito argomentando <em>a contrario</em> dal fatto che esso è invece previsto dall’art.2036 c.c. per la diversa fattispecie dell’indebito soggettivo <em>ex latere solventis</em>, disposizione da assumersi speciale rispetto a quella, generale, dell’art.2033 che non richiede per l’appunto una analoga consapevolezza; del resto, che l’indebito soggettivo <em>ex latere solventis</em> necessiti dell’errore in buona fede del debitore discenderebbe – per chi assume imprescindibile il requisito implicito dell’errore - dalla necessità di distinguere la pertinente figura da altre contermini cui è sotteso un analogo comportamento materiale del soggetto agente, quali le attribuzioni patrimoniali gratuite (liberali e non liberali: il fatto di non essere in errore fa presumere in capo al <em>solvens</em> un <em>animus donandi</em> o comunque un intento gratuito “<em>interessato</em>”) e l’adempimento del terzo ex art.1180 c.c. (che ha effetti solutori, soddisfa il creditore e consente al <em>solvens</em> di soddisfarsi sul “<em>vero debitore</em>”, mentre nel caso dell’indebito il solvens può pretendere dal creditore la restituzione di quanto pagato, sempre che il creditore non si sia in buona fede privato del titolo o delle garanzie inerenti al credito stesso): figure che presuppongono la consapevolezza da parte del debitore di non essere “<em>debitore del creditore</em>”; si è opposto, nondimeno, che per integrare una donazione non è sufficiente l’<em>animus donandi</em>, occorrendo peculiari requisiti formali (onde sapere di non essere debitore non implica necessariamente “<em>donare</em>”, in difetto dei ridetti requisiti formali); e che del pari il fatto di “<em>sapere di non dovere</em>” (e dunque il fatto di non essere in errore) non sempre esclude il diritto alla ripetizione (come nel caso di chi paga perché intimidito o minacciato; ovvero per sfuggire ad una procedura esecutiva che lo coinvolge; ovvero perché fideiussore con clausola “<em>solve et repete</em>”: in tutti questi casi, il <em>solvens</em> sa di non dovere nulla, ma ad un tempo non è terzo adempiente ex art.1180 c.c.); onde il requisito tacito dell’errore del <em>solvens</em>, certamente imprescindibile nell’ipotesi di indebito soggettivo ex art.2036 c.c., è invece ultroneo con riguardo alla diversa fattispecie dell’indebito oggettivo.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare della ripetizione di indebito “s<em>oggettivo</em>” in particolare ?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>nell’indebito soggettivo <em>ex latere solventis</em>, il debitore crede per errore di essere il “<em>debitore del creditore</em>”, senza in realtà esserlo; si tratta di una fattispecie esplicitamente disciplinata dall’art.2036 c.c, proprio nella <em>sedes materiae</em> dell’indebito soggettivo, e che fa perno su un <em>solvens</em> che non è il vero debitore dell’<em>accipiens</em> (vero creditore) che riceve la prestazione; poiché qui il creditore è “<em>vero creditore</em>”, perché il solvens possa ripetere quanto gli ha pagato occorre che si verifichino 2 precise condizioni: a.1) il <em>solvens</em> in errore deve essere vittima, nondimeno, di un errore “<em>scusabile</em>” nel momento in cui “<em>paga</em>”, richiamandosi in proposito il principio di c.d. autoresponsabilità; a.2) l’<em>accipiens</em>, che confida in buona fede nell’effetto solutorio dell’operazione (e nel corrispondente intento del <em>solvens</em>) non deve, per parte sua, essersi privato del titolo o delle garanzie del proprio (vero) credito facendo perno sull’adempimento del terzo ex art.1180 c.c., che produce appunto l’effetto di estinguere l’obbligazione anche in capo al “<em>vero debitore</em>”; nell’adempimento del terzo infatti il terzo “<em>vuole</em>” estinguere il debito del “<em>vero debitore</em>”, circostanza che non si verifica invece nel caso dell’indebito soggettivo <em>ex latere solventis</em>, in cui chi paga si crede debitore e adempie per errore: e tuttavia, ponendosi dal lato del creditore, questi può fare affidamento (che va tutelato) sul fatto che il <em>solvens</em> “<em>vuole</em>” adempiere in veste di terzo, così liberandosi del titolo e delle garanzie del proprio credito che, dunque, non potrà più far valere nei confronti del proprio “<em>vero debitore</em>”; quando, al di là delle apparenze, le carte si scoprono ed affiora la verità, qualora vi sia stato errore del <em>solvens</em> e, dunque, indebito soggettivo, l’eventuale privazione da parte del creditore del titolo e delle garanzie del proprio credito implicherà la surroga automatica ed <em>ex lege</em> del <em>solvens</em> nei diritti che il “<em>vero creditore</em>” vanta nei confronti del “<em>vero debitore</em>” rimasto inadempiente (art.2036, comma 3, c.c., quale fattispecie di surrogazione automatica <em>ex lege</em> ai sensi dell’art.1203, n.5, c.c.); qualora invece vi sia un vero e proprio adempimento del terzo, “<em>voluto</em>” dunque come tale dal terzo medesimo, poiché è il creditore che riceve la prestazione a poter surrogare il terzo adempiente nei propri diritti verso il “<em>vero debitore</em>”, facendolo in modo espresso e contestualmente al pagamento, sarà il terzo adempiente che “<em>vuole adempiere</em>” in luogo del vero debitore che potrà chiedere al creditore <em>accipiens</em> di essere surrogato – espressamente appunto, e contestualmente al pagamento, dietro pertinente richiesta - nei relativi diritti verso il ridetto vero debitore;</li> <li>nell’indebito soggettivo <em>ex latere accipientis</em>, il debito esiste, ma il creditore non è quello che riceve materialmente la prestazione a causa di un errore del debitore; si tratta di una fattispecie che, a differenza di quella dell’indebito soggettivo <em>ex latere solventis</em>, non è esplicitamente prevista dal codice civile (quanto meno nell’ambito della ripetizione di indebito: art.2033 e seguenti), e che, nella sostanza, finisce col compendiare un indebito oggettivo in quanto l’<em>accipiens</em> che riceve la prestazione non aveva in realtà alcun diritto giuridicamente tutelato a riceverla; qui il debitore è debitore, ma non già di “quel creditore”, onde la prestazione effettuata non può assumersi spiegare effetti solutori e si risolve, per l’appunto, in un indebito pagato a chi non è creditore legittimato a ricevere il pagamento, che deve dunque restituirlo (con gli eventuali frutti e interessi); può tuttavia accadere che il vero creditore ratifichi il pagamento fatto all’<em>accipiens</em> o che comunque ne approfitti, circostanza che fa scattare l’art.1188 c.c. (che dunque contempla in qualche modo la fattispecie di indebito soggettivo in parola), venendo meno <em>ex post</em> il carattere indebito della prestazione operata dal debitore, che va ricondotta alfine al rapporto tra debitore e “<em>vero</em>” creditore; e può inoltre accadere che l’<em>accipiens</em> appaia, sulla base di circostanze univoche, legittimato a ricevere il pagamento (apparendo dunque univocamente effettivo creditore) e che, ad un tempo, il <em>solvens</em> sia in buona fede nell’operare tale pagamento, circostanza al cui cospetto si verifica <em>ex lege</em> l’effetto solutorio per il <em>solvens</em> nonostante l’errore sull’identità dell’<em>accipiens</em>, e quest’ultimo è invece obbligato alle restituzioni nei confronti del vero creditore sulla scorta proprio delle norme sulla ripetizione di indebito (non manca tuttavia chi in dottrina vede nella fattispecie del pagamento al creditore apparente una sorta di “<em>spostamento</em>”, seppure inteso in senso “<em>atecnico</em>”, dell’obbligo tra due rapporti diversi, ovvero quello originario intercorrente tra debitore e “<em>vero creditore</em>” e quello che invece – sulla scorta di elementi obiettivi quali la buona fede e l’apparenza - lega il debitore ed il “<em>terzo creditore apparente</em>”, onde non si sarebbe in realtà al cospetto di un vero e proprio “<em>indebito</em>”, come dimostrerebbe lo stesso effetto pienamente solutorio del pagamento operato);</li> <li>si configura l’indebito soggettivo “<em>misto</em>”, allorché il <em>solvens</em> si creda debitore dell’<em>accipiens</em> senza esserlo (perché il “<em>vero debitore</em>” di “<em>quella prestazione</em>” è un terzo rispetto al <em>solvens</em>) e, ad un tempo, cada in errore sull’identità di colui che crede essere il pertinente creditore (perché il “<em>vero creditore</em>” di “<em>quella prestazione</em>” è ancora una volta un terzo); diviene in queste fattispecie “<em>complesse</em>” difficile capire quale sia la disciplina applicabile, dacché mentre all’indebito soggettivo <em>ex latere solventis</em> dovrebbe applicarsi l’art.2036 c.c.(si può ottenere la restituzione di quanto pagato in luogo del “vero debitore”, sempre che il <em>solvens</em> versi in errore scusabile e l’accipiens abbia conservato il titolo e le garanzie del proprio credito), all’indebito soggettivo <em>ex latere accipientis</em> dovrebbe applicarsi l’art.2033 sull’indebito oggettivo (si può ottenere la restituzione di quanto pagato, a meno che non ricorrano le due ipotesi eccezionali della ratifica del vero creditore ex art.1188 c.c. o del pagamento al creditore apparente ex art.1189 c.c.); stando all’ipotesi più accreditata, occorre esaminare attentamente ciascuna singola fattispecie e le relative sfaccettature (l’errore del <em>solvens</em> è scusabile? Vi è un’apparenza tale da giustificare il pagamento in buona fede all’<em>accipiens</em> che “<em>sembra</em>” il creditore? E così via) in modo da applicare una disciplina che sia la più idonea a preservare gli interessi delle parti rispettive, a seconda della relativa meritevolezza di tutela;</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare della ripetizione di indebito nel caso in cui l’<em>accipiens</em> sia un soggetto incapace?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>l’accipiens incapace deve restituire quanto indebitamente ricevuto;</li> <li>ai sensi dell’art.2039 c.c., la restituzione non è tuttavia integrale, ma è limitata a quanto sia stato rivolto dall’<em>accipiens</em> a proprio vantaggio, quand’anche abbia ricevuto in mala fede;</li> <li>si tratta di una norma che il sistema pone a protezione dell’incapace, che va correlata all’art.1190 alla cui stregua il pagamento al (“<em>vero</em>”) creditore incapace libera il debitore – del pari - nei limiti dell’effettivo vantaggio che quegli ne abbia ritratto;</li> <li>secondo la dottrina più accreditata, tanto all’art.1190 quanto all’art.2039 del codice civile la parola “<em>vantaggio</em>” (che va provato dal <em>solvens</em> attraverso parametri oggettivi) non va intesa come sinonimo di arricchimento, ma indica piuttosto un concetto diverso, specificamente riferibile al solo soggetto incapace; si fa riferimento all’utilizzo ragionevole e fruttuoso di quanto ricevuto (che va dunque restituito), con esclusione – a contrario – di quanto, proprio a cagione dell’incapacità dell’accipiens, sia stato utilizzato in modo irragionevole o comunque sperperato (che non va invece restituito, pena il far ricadere sull’incapace le conseguenze della propria incapacità); peculiare il caso in cui a ricevere il pagamento indebito sia stato il legale rappresentante dell’incapace, laddove – stante la presunzione di indirizzamento del quantum ricevuto a vantaggio dell’incapace medesimo – l’intero indebito va restituito al <em>solvens</em>;</li> <li>l’incapacità cui fa riferimento l’art.2039 c.c. è l’incapacità di agire, ma la medesima disciplina viene assunta applicabile anche alle ipotesi di palese incapacità naturale, stante da un lato la necessità di tutelare in ogni caso chi sia “<em>incapace</em>” quando riceve e, dall’altra, l’opportunità di non richiedere al <em>solvens</em> un controllo in ordine alla effettiva capacità di ricevere dell’<em>accipiens</em>, circostanza che richiede – affinché scatti la disciplina de qua – che l’incapacità naturale sia per l’appunto evidente;</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Quali obbligazioni nascono dal pagamento dell’indebito?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>va sgombrato subito il campo dall’ipotesi in cui l’<em>accipiens</em> sia incapace, dovendo questi restituire solo quanto rivoto a proprio vantaggio;</li> <li>allorché invece si tratti di soggetto capace, la restituzione avrà ad oggetto l’intero indebito ricevuto, con interessi e frutti, dovendosi distinguere sul crinale soggettivo: b.1) il caso in cui abbia ricevuto in buona fede: frutti e interessi sono dovuti dal giorno della domanda, da intendersi anche solo come domanda stragiudiziale che abbia valore di costituzione in mora ex art.1219 c.c.; b.2) il caso in cui abbia ricevuto in mala fede: frutti e interessi sono dovuti dal giorno del pagamento, e dunque dal giorno della pertinente “<em>ricezione</em>”;</li> <li>quando la domanda è giudiziale, si è al cospetto di un atto che dà la stura ad un’azione di natura personale che, come tale, è legittimato a spiccare solo il <em>solvens</em>, ovvero chi ha operato il pagamento indebito, azione soggetta a prescrizione decennale;</li> <li>quando il pagamento indebito ha avuto ad oggetto una cosa determinata, l’<em>accipiens</em> è tenuto, ex art.2037 c.c., a restituirla in natura; per quanto concerne la relativa sorte <em>medio tempore</em>, occorre distinguere: d.1) la cosa determinata è perita: l’<em>accipiens</em> è obbligato a corrispondere al <em>solvens</em> il pertinente valore; d.2) la cosa determinata è deteriorata: il <em>solvens</em> può optare tra il farsi restituire l’equivalente dell’intero valore in denaro, ovvero farsi restituire la <em>res</em> deteriorata insieme ad una somma a titolo di indennità per la pertinente diminuzione di valore. Tanto in ipotesi di perimento quanto in quella di relativo deterioramento, l’accipiens che abbia ricevuto la cosa determinata in buona fede risponderà del perimento o del deterioramento – quand’anche derivino da fatto a lui imputabile – nei limiti dell’arricchimento che ne abbia ritratto. Per quanto concerne l’eventuale alienazione della cosa determinata, ai sensi dell’art.2038 occorre distinguere: d.1) l’<em>accipiens</em> è in buona fede ed aliena la cosa determinata quando non è ancora a conoscenza dell’obbligo di restituzione nei confronti del <em>solvens</em>; in questi casi, laddove l’alienazione sia avvenuta a titolo oneroso: d.1.1.) se l’<em>accipiens</em> ha già conseguito il corrispettivo dell’alienazione, deve corrisponderlo al solvens; d.1.2.) se non ha ancora conseguito il corrispettivo dell’alienazione, il solvens subentra ex lege nel credito che l’accipiens vanta nei confronti del terzo acquirente; laddove invece l’alienazione sia avvenuta a titolo gratuito, poiché l’accipiens si è spogliato del bene in buona fede ed appunto a titolo gratuito, egli esce di scena ed il <em>solvens</em> ha azione diretta nei confronti del terzo che ha ricevuto la cosa determinata dall’<em>accipiens</em>; d.2) l’<em>accipiens</em> è in mala fede ed aliena la cosa determinata quando ha già saputo che deve restituirla al solvens; in questi casi, laddove l’alienazione sia avvenuta a titolo oneroso, l’accipiens deve restituire al solvens la cosa determinata (previo relativo recupero) o il relativo valore, ma il solvens può sempre esigere dall’accipiens il corrispettivo conseguito dal terzo e può sempre pretendere di surrogarsi all’accipiens nel relativo credito per corrispettivo vantato verso il terzo, qualora lo assuma più conveniente; laddove invece l’alienazione sia avvenuta a titolo gratuito, il solvens deve preventivamente escutere l’accipiens e, solo in caso di relativa infruttuosità, può ottenere la restituzione dal terzo nei limiti dell’arricchimento che questi abbia ritratto dalla cosa determinata che gli è stata attribuita gratuitamente. In tutte queste variegate fattispecie restitutorie, resta fermo l’obbligo per il solvens – ex art.2040 c.c. - di rimborsare l’accipiens per le spese sostenute ed i miglioramenti apportati alla res determinata di che trattasi, secondo la disciplina dettata in tema di possesso, esplicitamente richiamata proprio dall’art.2040 c.c. e che ancora una volta differisce a seconda della posizione soggettiva di buona o mala fede dell’accipiens (art.1150, comma 3, c.c.), il quale ultimo viene comunque tenuto indenne delle eventuali spese sostenute per riparazione straordinarie, quand’anche in mala fede; in tutte queste fattispecie, l’<em>accipiens</em> vanta un diritto di ritenzione sulla res determinata oggetto di restituzione sino al pagamento di quanto eventualmente gli spetti, allorché abbia fatto valere in giudizio tale credito offrendo prova generica del relativo fondamento;</li> <li>quando il pagamento indebito ha avuto ad oggetto una somma di denaro, la stessa va restituita secondo il relativo valore nominale, alla stregua dell’art.1277 c.c. (principio nominalistico) e senza che rilevi l’eventuale variazione del valore del denaro <em>medio tempore</em> intervenuta;</li> <li>quando il pagamento di indebito ha avuto ad oggetto una prestazione di fare o di non fare, chi in dottrina e giurisprudenza assume applicabile analogicamente la disciplina sulla restituzione di indebito (e non già, direttamente, quella sull’ingiustificato arricchimento) fa derivare dalla palmare impossibilità di una restituzione in natura dell’indebito (corrispondente ad un <em>facere</em> indebito o, all’opposto, ad un <em>non facere</em> indebito) la pretesa vantata dal solvens nei confronti dell’accipiens di una somma di denaro pari al valore della prestazione (di <em>facere</em> o di <em>non facere</em>) eseguita a pertinente vantaggio;</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare dell’indebito in rapporto alle singole “<em>invalidità</em>” contrattuali (nullità, annullabilità, rescindibilità, risolubilità) ?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>quando il pagamento di indebito si inserisce in un rapporto sinallagmatico tra il <em>solvens</em> e l’<em>accipiens</em>, l’obbligo restitutorio discende per lo più dalla inefficacia originaria o sopravvenuta di tale rapporto sinallagmatico, laddove esso abbia avuto (almeno parziale) esecuzione, stante la necessità di preservare l’equilibrio contrattuale siccome divisato dalle parti e “<em>sconvolto</em>” dalla ridetta inefficacia; da questo punto di vista, si deve tenere conto che laddove una compravendita diventi <em>ex post</em> inefficace, il venditore sarà tenuto a restituire il prezzo (ad esempio, 100) ed il compratore la cosa acquistata, che tuttavia potrebbero aver <em>medio tempore</em> subito mutazioni di valore, onde se ad esempio la cosa venduta è aumentata di valore (da 100 a 150), l’inefficacia del contratto (magari perché dichiarato nullo) potrebbe risolversi – applicando rigidamente il principio nominalistico – in un arricchimento del venditore (che tornerà nella disponibilità di una cosa che vale +50) ed in un contestuale impoverimento del compratore (al quale verrà restituito il prezzo originario pari a 100); proprio per scongiurare questo e per favorire l’equilibrio delle prestazioni contrattuali in sede di restituzione dell’indebito in sede ad una intervenuta “<em>invalidità</em>” (e inefficacia) contrattuale, è stata abbracciata in dottrina e in giurisprudenza la dottrina c.d. del saldo, onde per l’appunto le reciproche restituzioni devono rispecchiare, in termini di valore, l’equilibrio contrattuale proprio di quelle originariamente divisate dai contraenti (c.d. “<em>sinallagma rovesciato</em>”); nel caso in cui ciò non accada, la parte svantaggiata può spiccare eccezione di inadempimento ex art.1460 c.c. per paralizzare la pretesa restitutoria della parte che si avvantaggia del pertinente meccanismo; inoltre, in deroga al canone “<em>res perit domino</em>”, il rischio del fortuito grava sul titolare “<em>apparente</em>” del bene, ovvero dell’acquirente che ne fruisce pur non essendone, per inefficacia sopravvenuta, proprietario, che in sede di restituzione della res perita o diminuita di valore potrà pretendere solo una somma proporzionalmente ridotta, e non già l’intero a suo tempo versato all’alienante (<em>cuius commoda, eius incommoda</em>);</li> <li>dal punto di vista sistematico, un problema isolato dalla dottrina e dalla giurisprudenza è quello di verificare se – una volta venuto meno il vincolo contrattuale per “<em>vizi</em>” del contratto (nullità, annullabilità, rescindibilità, risolubilità) – sia applicabile alle conseguenti restituzioni la disciplina dell’indebito di cui agli articoli 2033 e seguenti c.c., tenuto conto massime del fatto che ciascuno dei pertinenti istituti può avere una propria disciplina incompatibile con quella del ridetto indebito (con particolare riguardo allo stato soggettivo, di buona o mala fede, dell’<em>accipiens</em>; nonché agli effetti del meccanismo restitutorio rispetto ai terzi);</li> <li>si distinguono in proposito, fondamentalmente, 3 opzioni ermeneutiche: c.1) una tesi favorevole <em>tout court</em> ad applicare in simili fattispecie, laddove possibile, la disciplina dell’indebito, sulla scorta di una dichiarata unicità del regime restitutorio che informerebbe l’ordinamento italiano (come anche quello francese) e che trova un preciso addentellato all’art.1422 c.c. laddove, in tema di nullità, richiama appunto la disciplina dell’indebito; secondo questa tesi, è possibile raccordare la disciplina dell’indebito ex art.2033 e seguenti c.c. con le singole discipline della “<em>invalidità contrattuale</em>” (che dunque non ostano all’applicazione della prima); onde se è pur vero che la singola disciplina della “<em>invalidità contrattuale</em>” sovente non prevede distinzioni “<em>soggettive</em>” con riguardo all’<em>accipiens</em>, è parimenti vero che, quando il contratto è ad esempio nullo per contrarietà a norme imperative, il pertinente vizio era conoscibile dall’<em>accipiens</em> stesso, che dunque dovrà restituire quanto ricevuto dal giorno del pagamento (in quanto, per l’appunto, in mala fede); per quanto poi riguarda gli effetti del meccanismo restitutorio rispetto ai terzi acquirenti dall’<em>accipiens</em>, il coordinamento appare meno difficile di quanto possa sembrare a prima vista, dacché il regime dell’indebito penalizza solo il terzo che abbia acquistato dall’accipiens a titolo gratuito, e non anche a titolo oneroso, circostanza che trova sostanziale conferma anche nella disciplina delle singole invalidità contrattuali, laddove gli acquisti dei terzi a titolo oneroso vengono, normalmente e a determinate condizioni, fatti salvi; c.2) una tesi, all’opposto, contraria all’applicazione della disciplina dell’indebito, sulla scorta della considerazione onde tra le parti sussiste già un rapporto negoziale sicché, se il regime delle restituzioni fosse stato davvero quello dell’indebito, il legislatore del codice avrebbe disciplinato l’indebito nella pertinente <em>sedes materiae</em> e dunque in concomitanza con i vizi del contratto, cosa che invece non è avvenuta; c.3) una tesi intermedia, alla cui stregua la disciplina dell’indebito sarebbe applicabile nei limiti della compatibilità con la <em>ratio</em> di ciascuna delle forme di patologia – in termini di invalidità e/o di inefficacia - del contratto (nullità, annullabilità, rescindibilità, risolubilità), tenendo d’occhio in particolare la tutela dei terzi rispetto ai contraenti, onde mentre nel caso di annullabilità e nullità del contratto potrebbe assumersi operativa la disciplina dell’indebito, lo stesso non potrebbe dirsi delle diverse ipotesi di rescindibilità e risolubilità del contratto, laddove lo scioglimento del rapporto concerne solo le parti e dunque, applicando la disciplina dell’indebito, si finirebbe col riservare ai terzi una regolamentazione per loro deteriore;</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come si atteggia la disciplina dell’indebito allorché nella fattispecie sia coinvolta una PA?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>un problema si è posto nel peculiare caso in cui il solvens sia, per l’appunto, una PA e l’accipiens un soggetto privato (in particolare, un dipendente pubblico);</li> <li>quando l’accipiens privato beneficia di una attribuzione patrimoniale indebita da parte di un <em>solvens</em> pubblico (ad esempio, una somma a titolo di retribuzione non dovuta), potrebbe essere in una situazione di buona fede, facendo affidamento sull’autorità del provvedimento dal quale discende, <em>ex parte publica</em>, la ridetta attribuzione; ciò, secondo la giurisprudenza più risalente, poteva paralizzare la ripetizione pubblica in presenza della buona fede del dipendente accipiens e dell’utilizzo della pertinente somma (ad esempio, un emolumento non dovuto) per soddisfare bisogni fondamentali propri o dei propri familiari;</li> <li>la progressiva privatizzazione dell’impiego pubblico ha tuttavia ricondotto questo genere di indebito nell’alveo dell’indebito civilistico, onde il privato (quand’anche dipendente della PA) che abbia conseguito attribuzioni patrimoniali non dovute ex parte publica è tenuto a restituirle ai sensi degli articoli 2033 e seguenti, salve le modalità di restituzione che devono essere tali da non gravare in misura eccessiva sulla situazione patrimoniale dell’<em>accipiens</em></li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare della ripetizione di indebito in rapporto all’azione di rivendicazione ex art.948 c.c.?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>anche l’azione di rivendicazione tende, da parte del proprietario non possessore, alla restituzione di qualcosa;</li> <li>più in specie, quando un negozio non sia sorretto da una giusta causa, esso si palesa inidoneo a trasferire la proprietà di una <em>res</em> che tuttavia, laddove sia stata materialmente consegnata all’acquirente, fa luogo ad un indebito tale da legittimare il <em>solvens</em> all’azione di ripetizione, quale azione personale che si prescrive nel termine di 10 anni;</li> <li>il <em>solvens</em>, ad un tempo, è rimasto proprietario della res consegnata (ma non “<em>trasferita</em>”), palesandosi dunque – almeno in apparenza - alternativamente legittimato a spiccare anche azione di revindica ex art.948 c.c., quale azione reale imprescrittibile, ma soggetta a c.d. <em>probatio diabolica</em> (concorso di azioni);</li> <li>la tesi maggioritaria giurisprudenza tende tuttavia ad escludere l’operatività in concorso dell’art.948 c.c. (azione di revindica) e degli art.2033 e seguenti c.c. (azione di ripetizione di indebito); ciò in quanto: d.1) nella ripetizione di indebito, il solvens ha eseguito volontariamente una prestazione che non è sorretta da nessuna causa o che sul crinale soggettivo non lo coinvolgeva; d.2) l’azione di rivendicazione deve invece intendersi avere a proprio fondamento – come nelle ipotesi di azioni a tutela del possesso - la violenza o la clandestinità dello spoglio subito da chi agisce, che dunque è tutt’altro che un volontario “<em>solvens</em>”;</li> <li>la dottrina è invece maggiormente possibilista sul c.d. concorso di azioni, facendo leva sulla circostanza onde nell’art.948 c.c. non vi è traccia della violenza o clandestinità dello spoglio, con conseguente arbitrarietà dell’atteggiamento giurisprudenziale che assimila la tutela della proprietà a quella del possesso; da questo punto di vista, quando l’indebito abbia ad oggetto l’attribuzione di una res determinata, il solvens ha a disposizione nei confronti dell’accipiens tanto l’azione di revindica quanto quella di ripetizione di indebito.</li> </ol> <p style="text-align: justify;"><strong> </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Cosa occorre rammentare della ripetizione di indebito in rapporto al c.d. ingiustificato arricchimento?</strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li>per parte della dottrina, che si rifà alla dottrina tedesca, la ripetizione di indebito siccome disciplinata dal codice civile costituisce una species dell’ingiustificato arricchimento di cui agli articoli 2041 e seguenti, dacché in entrambe le fattispecie si rinverrebbe un comune canone inteso a scongiurare arricchimenti di taluno a scapito di talaltro senza una valida giustificazione causale alle spalle;</li> <li>altra parte della dottrina rappresenta come la disciplina dell’indebito di cui agli art.2033 e seguenti presenti dei propri tratti peculiari rispetto a quella dell’arricchimento senza causa (che peraltro scatta solo in via sussidiaria ex art.2042 c.c., e dunque solo laddove non sia per l’appunto applicabile la restituzione di indebito), configurando un rimedio “<em>restitutorio</em>” con presupposti specifici ed effetti del pari specifici, massime in termini di disciplina della pertinente restituzione da parte dell’<em>accipiens</em>; da questo punto di vista;</li> <li>da altra voce si focalizza l’attenzione sui tratti comuni e su quelli distintivi tra i due istituti, onde: c.1) i presupposti sembrano differenti, dacché mentre per l’arricchimento senza causa occorre l’esecuzione di una prestazione in difetto di una legittima causa di attribuzione, il depauperamento del <em>solvens</em> e – collegato da nesso di causalità – il contestuale arricchimento dell’<em>accipiens</em>; per la configurazione dell’indebito è sufficiente l’esecuzione di una prestazione in difetto di legittima causa di attribuzione e, nel caso di indebito <em>ex latere solventis</em>, anche l’errore del <em>solvens</em> in ordine alla propria qualità di debitore; c.2) la disciplina delle restituzioni sembra del pari – ancorché parzialmente - diversa, dacché a seguito dell’arricchimento senza causa l’<em>accipiens</em> deve corrispondere al <em>solvens</em> un indennizzo pari alla somma che corrisponde, ad un tempo, al proprio arricchimento e all’impoverimento del <em>solvens</em>; a seguito dell’indebito l’<em>accipiens</em> deve invece operare la restituzione di quanto ricevuto in natura e, solo in caso di impossibilità, con una somma pari al pertinente valore del “<em>pagato</em>” (nondimeno anche in caso di arricchimento, laddove abbia avuto luogo giusta attribuzione di un bene determinato, l’accipiens deve restituirlo in natura se ancora sussiste al tempo della domanda, ex art.2041, comma 2, c.c.); c.3) omogenea invece si palesa la disciplina allorché l’<em>accipiens</em> sia in buona fede ed abbia ricevuto una <em>res</em> che sia perita o si sia deteriorata, laddove egli risponde al <em>solvens</em> nei limiti del proprio arricchimento (art.2037, comma 2, c.c.); ovvero allorché l’accipiens abbia trasferito il bene ricevuto dal <em>solvens</em> a terzi a titolo gratuito, potendo in tal caso il <em>solvens</em> stesso (che abbia vanamente escusso l’<em>accipiens</em>) rivalersi nei confronti dei terzi stessi, e tuttavia nei limiti del loro arricchimento (art.2038, comma 2, c.c.);</li> </ol> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"></p>