Principio di diritto pronunciato
“L’ordinanza che decide sul merito della ricusazione ai sensi dell’art. 41, comma 3, cpp, provvede contestualmente a dichiarare, in caso di accoglimento della dichiarazione di ricusazione, se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice ricusato devono considerarsi efficaci; contro tale ordinanza è proponibile, anche in caso di omessa pronuncia sulla conservazione della efficacia degli atti, ricorso per cassazione nelle forme dell’art. 611 cpp.”
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La sentenza in commento ha trovato necessità di esplicazione per ragioni legate alla difficoltà di avere precedenti giurisprudenziali caratterizzati da precisione e chiarezza. Si noterà negli argomenti adottati che anche successivamente alle pronunce emesse in seguito ad interpello di precedenti Sezioni Unite[1], che l’addentellato nomofilattico principe, appare discutibile e ad interpretazione alternativa. Si pensi, ad esempio, all’organo giudicante deputato alla valutazione della permanenza dell’efficacia degli atti adottati sotto la direzione del giudice sospetto o, ancora, alla disciplina della tipicità degli atti svolti, a natura probatoria o meramente organizzativa. Di certo possiamo affermare che nella decisione in commento si rinviene un effettivo tentativo di fissare parametri valutativi atti ad evitare contraddizioni e contrasti interpretativi. Le S.U. pervengono ad una duplice conclusione: da una parte ritengono che sia connotato ineludibile quello che impone al giudice chiamato a decidere sull’oggetto della ricusazione l’obbligo di indicare quali, tra gli atti adottati dinanzi al giudice ricusato, conservino piena efficacia e, dall’altra, quale debba essere lo strumento processuale al quale ricorrere qualora il richiamato Giudice ometta di provvedere alla indicazione degli atti ad efficacia permanente. Quanto alla prima disputa, dobbiamo condividere l’assunto delle S.U. ove si limita a premettere che “Muovendo dal quadro di principi stabiliti con la sentenza Tanzi[2], la questione rimessa alle Sezioni Unite è agevolmente risolvibile, ove si consideri che nel modello tipico di atto processuale cui il legislatore ha dato veste formale con il decreto che dispone il giudizio sono senza dubbio ravvisabili i connotati strutturali e funzionali propri di un atto del procedimento che definisce la regiudicanda cui la dichiarazione di ricusazione si riferisce”. Infatti, non dobbiamo dimenticare, che il dubbio che le S.U. avrebbero dovuto sciogliere, secondo le indicazioni fornite dalla sezione rimettente, riguardava la qualificazione del “decreto che dispone il giudizio” quale atto identificabile tra quelli richiamati dal legislatore nell’art. 42 co. 2 Cpp. La norma prevede, infatti, che “Il provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione dichiara se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia”. Come si può notare, la norma non distingue gli atti oggetto di disamina ricusatoria in alcun modo. E’ stato il solco segnato dalla giurisprudenza a colmare il vuoto legislativo scomponendo la varietà degli atti compiuti dinanzi al giudice ricusato secondo parametri valutativi autonomi e soggettivi. A nostro parere già tale premessa operativa si pone in stridente contrasto con la ratio insita all’istituto della ricusazione. Ove il legislatore ammette che l’ordinanza che accoglie la richiesta di ricusazione debba contenere l’indicazione degli atti in capo ai quali permane l’efficacia processuale tipica, realizza una discrepanza operativa che avrebbe dovuto essere valutata con maggiore attenzione. Infatti, l’assenza di limitazioni di qualsiasi natura, consente al giudice della ricusazione di annullare, di fatto, il provvedimento di accoglimento della istanza ricusatoria atteso che ben potrebbe, tale giudice, ritenere che in concreto non vi siano atti inficiati dalle ragioni della ricusazione. Le disarmonie legislative, hanno spinto il giudice di legittimità a fornire una soluzione di compromesso che permane anche dopo il vaglio delle Sezioni Unite in esame. La giurisprudenza ha infatti autonomamente proceduto individuando gli atti inficiabili dalle ragioni della ricusazione distinguendo gli atti a contenuto probatorio dagli atti privi di tale carattere individualizzante. Senza ripercorrere le decisioni che hanno avallato nel tempo tale modalità operativa, nella decisione che si commenta, l’argomento è stato affrontato in quanto la richiesta ricusatoria aveva ad oggetto il provvedimento conclusivo della udienza preliminare di rinvio a giudizio degli imputati e, quindi, un atto che certamente non può essere incluso tra quelli a contenuto “probatorio”. Per tale ragione, la Corte di Cassazione nella sua formazione massima, ha scrutinato il dubbio circa la attribuzione al significato della norma contenuta nell’art. 42 co. 2 Cpp onde poter definire esattamente che cosa dovesse intendersi per “atti compiuti precedentemente” dal giudice ricusato. Da questo punto di vista, dobbiamo vedere con favore il percorso argomentativo seguito dalle Sezioni Unite tenuto conto della eccessiva genericità della previsione normativa richiamata. Seguendo una motivazione condivisibile che ha percorso l’evoluzione interpretativa dell’udienza preliminare e dei provvedimenti conclusivi della stessa, la Corte è giunta alla conclusione che negli atti indicati dall’art. 42 co. 2 Cpp debba inevitabilmente includersi anche quello che ha natura decisoria essendo frutto di una valutazione degli elementi di prova utilizzabili e, quindi, del discernimento valutativo operato dal giudice sospetto. Superato questo primo momento, pur permanendo il nostro dubbio circa la inopportunità di una norma che limiti comunque l’inefficacia degli atti posti in essere sotto la dirigenza del giudice ricusato, possiamo procedere alla analisi della seconda parte della decisione delle Sezioni Unite connotata dalla fase successiva e consequenziale alla declaratoria di accoglimento della decisione di ricusazione. Tale analisi si impone sia con riferimento alla ipotesi di provvedimento di accoglimento che ometta di indicare quali atti debbano ritenersi efficaci in seguito alla riconosciuta sussistenza della causa di ricusazione, sia con riferimento alla possibilità di impugnare la decisione che abbia incluso tra gli atti la cui efficacia deve ritenersi mantenuta anche atti che avrebbero dovuto esserne esclusi. Quanto alla prima ipotesi le Sezioni Unite hanno delibato l’ammissibilità del ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 611 cpp, quindi in sede di udienza in camera di consiglio non partecipata, nel caso di ricorrenza dell’atto omesso.[3] Nulla viene chiarito in punto di tipicità della pronuncia che potrebbe emettere la Suprema Corte. Ne consegue che, non essendo rimettibile alla Corte di Cassazione il giudizio sul merito della regiudicanda, cioè quale sia l’atto che mantiene efficacia anche se adottato dinanzi al giudice ricusato, deve ritenersi che la Corte di Cassazione si debba limitare a constatare l’avvenuta omissione, annullare, conseguentemente, la decisione e rimettere al giudice competente gli atti affinché adempia l’obbligo previsto dalla legge. La decisione commentata, inoltre, nello stabilire il principio di ricorribilità in Cassazione del provvedimento privo di declaratoria di efficacia di determinati atti, si è espressa esattamente nei seguenti termini: “Contro tale ordinanza è proponibile, anche in caso di omessa pronuncia sulla conservazione della efficacia degli atti, ricorso per cassazione nelle forme dell’artt. 611 cpp”. Tale postulato di principio lascia intendere che il ricorso per cassazione è proponibile non solo nella ipotesi di omessa pronuncia, ma anche nel caso opposto, cioè di pronuncia dichiarativa della efficacia di atti e provvedimenti che la parte interessata ritiene, al contrario, doversi espungere dal paniere probatorio utilizzabile per la decisione. Quindi, è possibile ricorrere per la cassazione del provvedimento dichiarativo della efficacia di determinati atti processuali anche per affermare la inefficacia del provvedimento ammissivo in parte qua. Secondo l’arresto del massimo organo della nomofilachìa, il provvedimento che accoglie la richiesta di ricusazione omettendo di indicare quali degli atti assunti dinanzi al giudice sospetto debbano mantenere efficacia, è affetto da nullità ex art. 178, co. 1, lett. a) Cpp rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio a nulla valendo il passaggio del processo alla fase dibattimentale non essendo prospettabile nella specie alcuna possibilità di sanatoria. Opportunamente, infine, le S.U. hanno chiarito che nessun potere di scelta è rimesso al nuovo giudice designato a ciò ostando la previsione normativa di cui all’art. 40 Cpp che individua il giudice funzionalmente competente ad assumere la competenza in tema di ricusazione. Si tratta, invero, di un procedimento incidentale autonomo al cui vaglio è preposto il giudice indicato nell’art. 40 Cpp. Ad esso, conseguentemente, deve attribuirsi la competenza ad assumere tutti i provvedimenti relativi al procedimento ricusatorio. Per concludere guardiamo di buon occhio la decisione delle Sezioni Unite, apparendo uno sforzo utile e chiarificatorio di un procedimento che ha sempre lasciato dubbi di compatibilità con il principio del giusto processo ribadito a forza dalla previsione di cui all’art. 111 Cost., co. 2, nella parte in cui espressamente impone che ogni imputato ha il diritto di essere giudicato da un giudice terzo ed imparziale.
Riziero Angeletti
[1] Cass. S.U., 16/12/2010, n. 13626; Cass., S.U., 27/1/2011, n. 13626
[2] Cass., n. 13626 cit.
[3] Perché debba essere omessa una attività obbligata dalla legge è questione che si dovrebbe chiarire. Possiamo immaginare che la Corte abbia voluto fare riferimento a casi sporadici di mera dimenticanza, quindi fortuiti. Se così fosse il futuro non dovrebbe riservare alla Corte Suprema molto impegno sul punto.