Corte Costituzionale, sentenza 26 luglio 2022 n. 198
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 93, comma 6, e 216, comma 1, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 49, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e rese esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Consiglio di Stato, sezione quinta, con l’ordinanza in epigrafe indicata.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– Il Consiglio di Stato, sezione quinta, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 49, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, del combinato disposto degli artt. 93, comma 6, e 216, comma 1, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), nella parte in cui limita l’applicazione della più favorevole disciplina da esso dettata in tema di garanzia provvisoria «alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore».
Il giudice rimettente espone che il raggruppamento temporaneo di imprese facente capo al Consorzio Leonardo Servizi e Lavori (d’ora in avanti: Consorzio Leonardo) ha partecipato alla procedura di gara indetta, il 21 marzo 2014, da Consip spa per l’affidamento di servizi integrati negli immobili in uso alle pubbliche amministrazioni, presentando un’offerta per una pluralità di lotti e collocandosi al primo posto della graduatoria solamente per uno di essi (il lotto 6).
Accertata una serie di irregolarità fiscali a carico di due società del raggruppamento, la stazione appaltante lo ha escluso dalla gara e ha disposto l’escussione della cauzione provvisoria in relazione alle offerte da esso presentate anche per i lotti nei quali non è risultato aggiudicatario, ai sensi dell’art. 48 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), applicabile ratione temporis.
Questo provvedimento è stato impugnato dinnanzi al Tribunale amministrativo del Lazio che, con la sentenza 28 aprile 2020, n. 4315, ha rigettato il ricorso.
Avverso tale sentenza, il Consorzio Leonardo e PH Facility srl hanno proposto appello davanti all’odierno rimettente.
2.– Il Consiglio di Stato osserva come l’art. 93, comma 6, del d.lgs. n. 50 del 2016 (d’ora in avanti: anche nuovo o vigente codice dei contratti pubblici) circoscriva la possibilità, per la stazione appaltante, di escutere la garanzia provvisoria nei confronti del solo aggiudicatario che, per fatto a lui imputabile, non sottoscriva il contratto. La disposizione, tuttavia, ai sensi dell’art. 216, comma 1, del medesimo decreto, è applicabile solamente alle «procedure e ai contratti per i quali i bandi […] siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore […]», indipendentemente dal momento di adozione del provvedimento di incameramento della cauzione.
Pertanto, nella specie – essendo stata la procedura di gara bandita prima dell’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici – deve essere applicato il d.lgs. n. 163 del 2006 (d’ora in avanti anche: previgente codice dei contratti pubblici), che, all’art. 48, comma 1, prevedeva la possibilità di escutere la garanzia provvisoria nei confronti di qualsiasi concorrente, anche non aggiudicatario, il quale, all’esito del cosiddetto controllo a campione, non avesse dimostrato il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa dichiarati in sede di offerta.
Da qui la rilevanza, nel giudizio a quo, delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.
3.– Con riferimento alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo premette che l’istituto dell’escussione della garanzia provvisoria disciplinato dal previgente codice dei contratti pubblici, oltre ad avere la funzione «di indennizzare la stazione appaltante dall’eventuale mancata sottoscrizione del contratto da parte dell’aggiudicatario […], può svolgere altresì una funzione sanzionatoria verso altri possibili inadempimenti contrattuali dei concorrenti».
Tale istituto, infatti, «non può essere considerato una misura meramente ripristinatoria dello status quo ante, né ha natura risarcitoria […], né mira semplicemente alla prevenzione di nuove irregolarità da parte dell’operatore economico». Si tratterebbe, invece, di «una sanzione amministrativa, seppur non in senso proprio», dotata di «elevata carica afflittiva (nel caso di specie, all’incirca due milioni di euro), che in assenza di una specifica finalità indennitaria (propria della sola ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto da parte dell’aggiudicatario) o risarcitoria, si spiega soltanto in chiave di punizione dell’autore dell’illecito».
Alla garanzia provvisoria, pertanto, dovrebbe applicarsi il principio di retroattività della lex mitior che, secondo la più recente giurisprudenza costituzionale, si estende alle «sanzioni di carattere amministrativo che abbiano natura “punitiva”», quale sarebbe appunto l’escussione della garanzia provvisoria come disciplinata dall’art. 48 del previgente codice dei contratti pubblici.
Ad avviso del giudice a quo, l’art. 216, comma 1, del nuovo codice, impedendo l’applicazione della più favorevole disciplina sanzionatoria dettata dall’art. 93, comma 6 – che limita «l’escussione della garanzia provvisoria solo a valle dell’aggiudicazione (definitiva) e, dunque, solo nei confronti dell’aggiudicatario» – si porrebbe, pertanto, in contrasto con gli artt. 3 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 49 CDFUE e 7 CEDU.
4.– In via preliminare, va osservato che l’intervento ad adiuvandum spiegato nel giudizio di costituzionalità da Comat spa, Tepor spa e Caitec srl è inammissibile.
L’atto di intervento, infatti, è stato depositato il 14 giugno 2022, oltre il termine, previsto dall’art. 4, comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, vigente ratione temporis, di venti giorni dalla pubblicazione dell’atto introduttivo del giudizio, che è avvenuta nella Gazzetta Ufficiale n. 36 dell’8 settembre 2021.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, il termine previsto dal richiamato art. 4, comma 4, deve ritenersi perentorio e non ordinatorio, con la conseguenza che l’intervento avvenuto dopo la sua scadenza è inammissibile (ex plurimis, sentenze n. 106 del 2019, n. 99 del 2018, n. 303 del 2010, n. 263 e n. 215 del 2009).
5.– In via ulteriormente preliminare, va rilevato che le parti costituite in giudizio, appellanti nel giudizio principale, hanno dedotto, in via subordinata alla dichiarazione di non fondatezza delle questioni sollevate con l’ordinanza di rimessione, l’illegittimità costituzionale degli artt. 48 e 75 del d.lgs. n. 163 del 2006, nella parte in cui prevedono l’escussione della garanzia provvisoria «in caso di perdita fino al compimento dell’aggiudicazione di determinati requisiti», «per violazione degli artt. 56 ss. TFUE sulla libera prestazione di servizi, nonché dei principi generale del diritto europeo in materia di procedimenti sanzionatori; e della direttiva 18/2004 applicabile alla fattispecie ratione temporis nel suo complesso e in particolare in riferimento agli articoli 36, 45/48 al considerando 43 e all’allegato VII A».
5.1.– Tali questioni non possono avere ingresso nel presente giudizio di costituzionalità, il cui oggetto, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, è limitato alle norme e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione, con esclusione della possibilità di ampliare il thema decidendum proposto dal rimettente, fino a ricomprendervi questioni formulate dalle parti, che tuttavia egli non abbia ritenuto di fare proprie (ex plurimis, sentenze n. 230, n. 203, n. 147 e n. 49 del 2021, n. 186 del 2020 e n. 7 del 2019).
5.2.– La richiesta di autorimessione delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 48 e 75 del d.lgs. n. 163 del 2006 non può essere accolta.
La stessa delimitazione delle questioni di legittimità costituzionale all’inapplicabilità della più favorevole disciplina della garanzia provvisoria dettata dal nuovo codice dei contratti pubblici alle procedure di gara bandite prima della sua entrata in vigore vale ad escludere che ricorrano i presupposti perché questa Corte proceda all’autorimessione sollecitata dalle parti.
Le questioni sollevate dal Consiglio di Stato, come già rilevato, non attengono, infatti, all’istituto della garanzia provvisoria e al suo incameramento nell’ipotesi di esito negativo del controllo a campione ai sensi dell’art. 48 del d.lgs. n. 163 del 2006. Le censure del rimettente si appuntano, per contro, sulla disciplina transitoria dettata dal nuovo codice dei contratti pubblici (art. 216, comma 1), laddove esclude l’applicazione retroattiva (ossia alle procedure di gara bandite prima della sua entrata in vigore) della più favorevole disciplina dettata in tema di garanzia provvisoria.
Tra i due gruppi di questioni non è quindi ravvisabile «quel nesso di necessaria strumentalità o di pregiudizialità logica, idoneo a giustificare l’esercizio, da parte di questa Corte, dell’eccezionale potere di autorimessione dinanzi a sé della questione di legittimità costituzionale di una norma rimasta estranea al fuoco delle censure del rimettente (sentenze n. 255 del 2014, n. 179 del 1976, n. 122 del 1976, n. 195 del 1972, nonché ordinanze n. 114 del 2014, n. 42 del 2001, n. 197 e n. 183 del 1996, n. 297 e n. 225 del 1995, n. 294 del 1993, n. 378 del 1992, n. 230 del 1975 e n. 100 del 1970)» (sentenza n. 49 del 2021).
5.3.– Dall’estraneità al thema decidendum delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 48 e 75 del d.lgs. n. 163 del 2006 per incompatibilità con il diritto dell’Unione europea, prospettate dalle parti, deriva l’estraneità ad esso anche della questione interpretativa che le medesime parti chiedono, in via subordinata, di sottoporre con istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea (in tal senso, sentenze n. 230 e n. 49 del 2021).
6.– Nel merito, le questioni non sono fondate in relazione a tutti i parametri evocati dal rimettente, che possono essere scrutinati congiuntamente, posto che il principio di retroattività della lex mitior in materia penale trova fondamento nell’ordinamento costituzionale, sia direttamente, sia per effetto dell’azione degli artt. 49 CDFUE e 7 CEDU, in forza degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.
7.– Per il primo profilo, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 238 del 2020, n. 63 del 2019, n. 236 del 2011, n. 215 del 2008 e n. 393 del 2006), il principio di retroattività della lex mitior in materia penale non è riconducibile alla sfera di tutela dell’art. 25, secondo comma, Cost., secondo cui «[n]essuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso».
Il principio sancito da questa disposizione costituzionale «deve essere interpretato nel senso di vietare l’applicazione retroattiva delle sole leggi penali che stabiliscano nuove incriminazioni, ovvero che aggravino il trattamento sanzionatorio già previsto per un reato, non ostando così a una possibile applicazione retroattiva di leggi che, all’opposto, aboliscano precedenti incriminazioni ovvero attenuino il trattamento sanzionatorio già previsto per un reato» (sentenza n. 63 del 2019).
Come ha chiarito questa Corte, la ratio immediata di detta norma è – in parte qua – quella di tutelare la libertà di autodeterminazione individuale, garantendo al singolo di non essere sorpreso dall’inflizione di una sanzione penale per lui non prevedibile al momento della commissione del fatto. Una simile garanzia non è posta in discussione dall’applicazione di una norma penale, pur più gravosa di quelle entrate in vigore successivamente, che era comunque in vigore al momento del fatto: e ciò «per l’ovvia ragione che, nel caso considerato, la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, al quale l’autore si era liberamente autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo» (sentenza n. 394 del 2006)» (sentenze n. 238 del 2020 e n. 63 del 2019).
Tuttavia, il principio di retroattività in mitius, sancito nel codice penale dall’art. 2, commi secondo, terzo e quarto, ha comunque un fondamento costituzionale, «riconducibile allo spettro di tutela del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.» (sentenza n. 63 del 2019), che impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice (sentenze n. 238 del 2020 e n. 63 del 2019; in precedenza sentenza n. 394 del 2006). Ciò in quanto, in via generale, «[n]on sarebbe ragionevole punire (o continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo la legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è prevista una pena più lieve)» (sentenza n. 236 del 2011).
7.1.– Per il secondo aspetto, il principio di retroattività della lex mitior ha un fondamento di origine sovranazionale – avente ingresso nel nostro ordinamento attraverso l’art. 117, primo comma, Cost. – che è riconducibile sia all’art. 49, paragrafo 1, CDFUE, quest’ultimo rilevante anche ai sensi dell’art. 11 Cost., sia all’art. 7 CEDU, nella lettura offertane dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (oltre alla sentenza 17 settembre 2009, grande camera, Scoppola contro Italia, anche le sentenze 27 aprile 2010, Morabito contro Italia, 24 gennaio 2012, Mihai Toma contro Romania, 12 gennaio 2016, Gouarré Patte contro Andorra, 12 luglio 2016, Ruban contro Ucraina), nonché alle altre norme del diritto internazionale dei diritti umani vincolanti per l’Italia che enunciano il medesimo principio, tra cui l’art. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (sentenze n. 238 del 2020, n. 63 del 2019 e n. 236 del 2011).
Peraltro, già la sentenza n. 393 del 2006 aveva richiamato «gli obblighi internazionali derivanti dall’art. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e dall’art. 49, paragrafo 1, CDFUE, considerati in quell’occasione come criteri interpretativi […] delle stesse garanzie costituzionali» (sentenza n. 63 del 2019).
E, sulla sostanziale corrispondenza di contenuto tra i parametri citati, questa Corte ha da ultimo chiarito che la ratio del principio in oggetto è pur sempre «identificabile in sostanza nel diritto dell’autore del reato a essere giudicato, e se del caso punito, in base all’apprezzamento attuale dell’ordinamento relativo al disvalore del fatto da lui realizzato, anziché in base all’apprezzamento sotteso alla legge in vigore al momento della sua commissione» (sentenza n. 63 del 2019).
Non è da trascurare, d’altro canto, che, mentre l’irretroattività in peius della legge penale costituisce un valore assoluto e inderogabile, la regola della retroattività in mitius della legge penale medesima è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, «purché giustificabili al metro di quel “vaglio positivo di ragionevolezza” […], in relazione alla necessità di tutelare interessi di rango costituzionale prevalenti rispetto all’interesse individuale in gioco» (sentenza n. 63 del 2019; nello stesso senso, sentenza n. 236 del 2011).
7.2.– Qualora poi si verta in ambiti in cui trova applicazione il diritto dell’Unione europea – come nel caso di specie, in quanto la normativa in materia di contratti pubblici dettata dal d.lgs. n. 163 del 2006 era attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, mentre quella dettata dal d.lgs. n. 50 del 2016 attua le direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/15/UE, che hanno abrogato le precedenti – opera, come si è detto, anche la garanzia di cui all’art. 49, paragrafo 1, CDFUE, che il giudice a quo ha evocato quale parametro interposto insieme all’art. 7 CEDU.
Come messo in rilievo dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, infatti, «il principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite – che rientra nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e fa parte dei principi generali del diritto dell’Unione di cui la Corte garantisce il rispetto (sentenze del 3 maggio 2005, Berlusconi e a., C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Racc. pag. I-3565, punti 67 e 68; dell’11 marzo 2008, Jager, C-420/06, Racc. pag. I-1315, punto 59, nonché del 28 aprile 2011, El Dridi, C-61/11 PPU, Racc. pag. I-3015, punto 61) – è menzionato anche all’articolo 49, paragrafo 1, terza frase, della Carta» (sentenza 14 febbraio 2012, Toshiba Corporation e altri, in causa C-17/10).
Pertanto, il giudice a quo ben può investire questa Corte della questione di legittimità costituzionale di una normativa che si assuma in contrasto, per analoghi profili, con una garanzia offerta al diritto fondamentale sia dalla Costituzione, sia dal diritto dell’Unione.
Sulla scorta della costante giurisprudenza costituzionale (ex multis, sentenze n. 13 del 2022, n. 20 e n. 63 del 2019, n. 269 del 2017 e, da ultimo, sentenza n. 149 del 2022), infatti, non può ritenersi precluso a questa Corte, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, «l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti; e ciò fermo restando il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta» (sentenza n. 63 del 2019, proprio con riferimento alla diretta applicabilità del principio di retroattività della lex mitior sancito dall’art. 49, paragrafo 1, CDFUE).
7.3.– Parimenti pertinente è, in linea astratta, l’art. 7 CEDU, il cui significato converge con quello tratto dalla Costituzione e dall’art. 49 CDFUE nel delineare un assetto di tutela omogeneo.
Dopo una prima affermazione di principio contenuta nella sentenza n. 193 del 2016, questa Corte, con la pronuncia n. 63 del 2019, ha infatti espressamente affermato l’applicabilità della regola della retroattività in mitius anche alle sanzioni amministrative, richiamandosi alla giurisprudenza della Corte Edu.
Si è chiarito che, «rispetto a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità “punitiva”, il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della “materia penale” – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior […] – non potrà che estendersi anche a tali sanzioni» (sentenza n. 63 del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 68 del 2021 e n. 193 del 2016).
Questa Corte ha poi osservato, quanto al rapporto tra le fonti di diritto europeo e la Costituzione, che «[l]’estensione del principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione “punitiva” è conforme [anche] alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura “punitiva”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare nei confronti [dell’autore dell’illecito] tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento. E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di contro-interessi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo “vaglio positivo di ragionevolezza”, al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale» (sentenza n. 63 del 2019; nello stesso senso, sentenza n. 68 del 2021).
8.– Tanto premesso, l’esame delle odierne questioni di legittimità costituzionale impone di verificare la correttezza del presupposto interpretativo da cui muove l’ordinanza di rimessione, secondo cui l’escussione della garanzia provvisoria, nell’ipotesi di esito negativo del controllo a campione sul possesso dei requisiti speciali a carico dei partecipanti alla procedura di gara diversi dall’aggiudicatario (art. 48, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006), ha natura di sanzione “punitiva” agli effetti della CDFUE e della CEDU e, quindi, soggiace alle garanzie dalle stesse previste, tra cui il principio di retroattività della lex mitior.
8.1.– Questa Corte ritiene opportuno ricostruire brevemente il quadro normativo di riferimento.
Nella vigenza del d.lgs. n. 163 del 2006, l’art. 75, comma 1, disponeva che l’offerta presentata dall’operatore economico in una procedura di affidamento di contratti pubblici dovesse essere corredata da una garanzia (cosiddetta provvisoria), pari al due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell’invito, sotto forma di “cauzione” o di “fideiussione”, a scelta dell’offerente.
L’escussione della garanzia provvisoria ad opera della stazione appaltante poteva avvenire in due differenti ipotesi.
La prima era prevista dall’art. 48 del previgente codice dei contratti pubblici, che dettava una specifica disciplina dell’iter che le stazioni appaltanti dovevano seguire per verificare il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa (i cosiddetti requisiti speciali) dichiarati dai concorrenti in sede di gara, delineando l’istituto del controllo a campione.
Ai sensi dell’art. 48, comma 1, infatti, le stazioni appaltanti, prima di procedere all’apertura delle buste delle offerte presentate, dovevano richiedere, ad un numero di offerenti non inferiore al dieci per cento scelti con sorteggio pubblico di dimostrare, entro i successivi dieci giorni, il possesso dei requisiti speciali richiesti nel bando di gara, mediante apposita documentazione (il cosiddetto controllo a campione, appunto).
Entro dieci giorni dalla conclusione delle operazioni di gara, analoga richiesta veniva inoltrata, ai sensi del comma 2 del menzionato art. 48, nei confronti dell’aggiudicatario e del concorrente che seguiva in graduatoria, che non fossero compresi fra i concorrenti sorteggiati.
Qualora la prova non fosse fornita o non confermasse le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell’offerta, le stazioni appaltanti procedevano all’esclusione del concorrente dalla gara, all’escussione della relativa cauzione provvisoria e alla segnalazione del fatto all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (d’ora in avanti: AVCP), le cui funzioni sono oggi assegnate all’Autorità nazionale anticorruzione (d’ora in avanti: ANAC) per i provvedimenti previsti dall’art. 6, comma 11.
«[L]’incameramento della cauzione provvisoria [era] previsto dal citato art. 48, comma 1, quale automatica conseguenza del provvedimento di esclusione» (ordinanza n. 211 del 2011), determinato dalla mancata dimostrazione del possesso dei requisiti speciali di partecipazione in capo al concorrente, anche non aggiudicatario.
La seconda ipotesi di escussione della cauzione provvisoria era prevista dall’art. 75, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006 e copriva il rischio della mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell’aggiudicatario, potendo essere disposta, pertanto, solamente a carico di questi.
Il nuovo codice dei contratti pubblici (come si è visto introdotto dal d.lgs. n. 50 del 2016), riducendo al momento dell’aggiudicazione i controlli sul possesso dei requisiti di partecipazione per esigenze di semplificazione e celerità delle procedure di gara, ha mantenuto unicamente questa seconda fattispecie, prevedendo, all’art. 93, comma 6, che la garanzia provvisoria, che deve corredare l’offerta, copre «la mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all’affidatario o all’adozione di informazione antimafia interdittiva emessa ai sensi degli articoli 84 e 91 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159». La garanzia è, infatti, «svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto».
Tuttavia, questa più favorevole disciplina – che limita l’incameramento della cauzione provvisoria nei confronti del solo aggiudicatario il quale, per fatto a lui imputabile, impedisca la stipulazione del contratto – è applicabile, in virtù dell’art. 216, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016, «alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte», indipendentemente dal momento di adozione del provvedimento di incameramento stesso.
Questa disciplina transitoria, dettata dalla norma censurata per risolvere i problemi di diritto intertemporale legati all’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici, è peraltro in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo cui «la procedura di affidamento di un contratto pubblico è soggetta alla normativa vigente alla data di pubblicazione del bando, in conformità al principio tempus regit actum ed alla natura del bando di gara, quale norma speciale della procedura che regola non solo le imprese partecipanti, ma anche la pubblica amministrazione, che non vi si può sottrarre». Ciò a garanzia dei principi di certezza del diritto, di buon andamento e di tutela dell’affidamento dei concorrenti, i quali portano ad escludere «che lo ius superveniens possa avere alcun effetto diretto sul procedimento di gara» (ex multis, Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenze 25 marzo 2021, n. 2521; nello stesso senso, sentenze 12 maggio 2017, n. 2222 e 7 giugno 2016, n. 2433).
8.2.– La ricostruzione dell’ordinanza di rimessione in ordine alla natura di sanzione “punitiva” dell’escussione della garanzia provvisoria, in caso di esito negativo del controllo a campione di cui all’art. 48 del d.lgs. n. 163 del 2006, non riflette il quadro giurisprudenziale costituzionale e amministrativo, che è sempre stato prevalentemente orientato in senso opposto.
Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che la garanzia provvisoria prevista dal citato art. 48 rispondeva «alla funzione di garantire serietà ed affidabilità dell’offerta», tutelando la correttezza del procedimento di gara, in modo da assicurarne il «regolare e rapido espletamento» (ordinanza n. 211 del 2011).
La funzione della garanzia provvisoria di responsabilizzare i partecipanti in ordine alle dichiarazioni rese e al dovere di correttezza, «allo scopo di garantire la serietà e l’affidabilità dell’offerta e prevenire l’inutile e non proficuo svolgimento di complesse attività selettive», è stata di recente ribadita da questa Corte, con la sentenza n. 23 del 2022, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 17 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 16 aprile 2020, n. 3 (Variazioni al bilancio di previsione della Provincia autonoma di Bolzano per gli esercizi 2020, 2021 e 2022 e altre disposizioni), laddove sospendeva l’obbligo di corredare l’offerta con una garanzia provvisoria «per tutte le procedure di gara, di qualsiasi tipo e per qualunque importo», per violazione dei limiti statutari in relazione appunto all’art. 93 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Ancorché la pronuncia riguardi la disciplina dettata dal nuovo codice dei contratti pubblici, deve rimarcarsi che essa non circoscrive la funzione della cauzione provvisoria, in termini di garanzia della serietà delle offerte e dell’efficienza dell’azione amministrativa, ai soli comportamenti contrari al dovere di correttezza dell’aggiudicatario, predicandola, per contro, per tutti i partecipanti alla procedura di gara.
L’evidenziata esigenza di assicurare l’affidabilità delle offerte e di evitare un’inutile attività procedimentale dell’amministrazione vale, dunque, a sottolineare una sostanziale omogeneità di funzioni tra le differenti ipotesi di incameramento della garanzia provvisoria (quella di cui al previgente art. 48 e quella di cui al nuovo art. 93, reiterativo del precedente art. 76).
Nel ritenere il citato art. 48 «strumentale rispetto all’esigenza di garantire imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa», infatti, questa Corte ha sottolineato come l’incameramento della cauzione provvisoria, in caso di esito negativo del controllo a campione, sia «preordinato ad assicurare il regolare e rapido espletamento della procedura e la tempestiva liquidazione dei danni prodotti dalla alterazione della stessa a causa della mancanza dei requisiti da parte dell’offerente» (ordinanza n. 211 del 2011), tenuto conto peraltro che «l’operatore economico, con la domanda di partecipazione, sottoscrive e si impegna ad osservare le regole della relativa procedura, delle quali ha, dunque, contezza» (ancora, ordinanza n. 211 del 2011).
In termini analoghi si è espressa la prevalente giurisprudenza amministrativa, secondo la quale l’escussione della cauzione provvisoria, in entrambe le ipotesi contemplate dal d.lgs. n. 163 del 2006 (artt. 48, comma 1, e 75, comma 6), «si profila come garanzia del rispetto dell’ampio patto di integrità cui si vincola chi partecipa ad una gara pubblica. La sua finalità è quella di responsabilizzare i partecipanti in ordine alle dichiarazioni rese, di garantire la serietà e l’affidabilità dell’offerta, nonché di escludere da subito i soggetti privi delle richieste qualità volute dal bando» (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 10 dicembre 2014, n. 34; in senso conforme, ex multis, Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 22 aprile 2021, n. 3255 e sezione quinta, sentenze 10 aprile 2018, n. 2181, 19 aprile 2017, n. 1818, e 22 dicembre 2014, n. 6302). Questo perché la presenza di dichiarazioni non corrispondenti al vero «altera di per sé la gara quantomeno per un aggravio di lavoro della stazione appaltante, chiamata a vagliare anche concorrenti inidonei o offerte prive di tutte le qualità promesse» (ancora, Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza n. 34 del 2014).
Si tratta, insomma, di «una misura di indole patrimoniale, priva di carattere sanzionatorio amministrativo nel senso proprio», che costituisce l’automatica conseguenza della violazione del dovere di correttezza gravante sull’offerente e realizza un’anticipata liquidazione dei danni subiti dalla stazione appaltante (ancora, Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza n. 34 del 2014; in senso analogo, Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 4 febbraio 2009, n. 2634, che ne ha sottolineato l’affinità con la caparra confirmatoria).
Innanzi a così solide conclusioni, supportate da pronunce di questa Corte con la quale il giudice rimettente non si è confrontato, non apporta alcun argomento in senso contrario il riferimento (non essenziale, peraltro, nell’economia della decisione), che si rinviene nella recente pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 26 aprile 2022, n. 7, alla funzione “punitiva” propria dell’incameramento della cauzione provvisoria.
Né, infine, sono in grado di apportare validi argomenti critici al riferito orientamento giurisprudenziale le generiche considerazioni del rimettente, che qualifica l’istituto in esame come «una sanzione amministrativa, seppur non in senso proprio», potendo assolvere, oltre alla «funzione di indennizzare la stazione appaltante dall’eventuale mancata sottoscrizione del contratto da parte dell’aggiudicatario», «altresì una funzione sanzionatoria verso altri possibili inadempimenti contrattuali dei concorrenti».
8.3.– Questa Corte deve ora verificare l’eventuale natura di sanzione “punitiva” dell’incameramento della cauzione provvisoria disposto ai sensi dell’art. 48, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006.
Secondo la giurisprudenza costante della Corte di Strasburgo, «l’esistenza o meno di una “accusa in materia penale” deve essere valutata sulla base di tre criteri, indicati comunemente con il nome di “criteri Engel” (Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, § 82, serie A n. 22, A e B c. Norvegia [GC], nn. 24130/11 e 29758/11, § 107, 15 novembre 2016, e Ramos Nunes de Carvalho e Sá c. Portogallo [GC], nn. 55391/13 e altri 2, § 122, 6 novembre 2018). Il primo è la qualificazione giuridica del reato nel diritto interno, il secondo è la natura stessa del reato e il terzo è il grado di severità della sanzione in cui incorre l’interessato. Il secondo e il terzo criterio possono essere alternativi e non necessariamente cumulativi» (Corte europea dei diritti dell’uomo, grande camera, 8 luglio 2019, Mihalache contro Romania), anche se «ciò non impedisce di adottare un approccio cumulativo se l’analisi separata di ciascun criterio non permette di giungere a una conclusione chiara circa l’esistenza di una accusa in materia penale» (Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione seconda, 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia).
Nella specie, l’escussione della garanzia provvisoria – che deve essere presentata a corredo dell’offerta, ai sensi del previgente art. 75, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006 e del vigente art. 93, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 – non è formalmente qualificata dall’ordinamento nazionale come sanzione penale.
Il suo eventuale carattere sanzionatorio “punitivo” va allora apprezzato sulla base dei due criteri sostanziali di cui si è detto: da un lato, la natura della violazione, desunta dal suo ambito applicativo, in quanto, per essere “penale”, essa deve essere rivolta alla «generalità dei consociati» e non agli appartenenti ad un ordinamento particolare, e, soprattutto, dallo scopo perseguito, che deve essere «non meramente risarcitorio, ma repressivo e preventivo»; dall’altro, la natura e la gravità della sanzione cui l’interessato si trova esposto, che deve presentare «una connotazione afflittiva, potendo raggiungere un rilevante grado di severità» (sentenza n. 43 del 2017).
8.3.1.– Con riferimento al primo di questi criteri, deve sottolinearsi che l’escussione della garanzia provvisoria ha un ambito applicativo limitato agli operatori economici che partecipano alle procedure di gara per l’affidamento di contratti pubblici e non è rivolta alla generalità dei consociati. Detta escussione mira, infatti, a garantire l’ordinato svolgersi di una specifica procedura amministrativa, al punto che il relativo importo non viene assicurato al bilancio pubblico in generale, ma incamerato dalla stazione appaltante.
Lo scopo da essa perseguito, inoltre, non è repressivo e punitivo, essendo volta, da un lato, a «garantire serietà ed affidabilità dell’offerta», dall’altro, a consentire «l’anticipata liquidazione dei danni subiti dalla stazione appaltante» in caso di omessa dimostrazione dei requisiti speciali di partecipazione dichiarati dal concorrente in sede di presentazione dell’offerta (ordinanza n. 211 del 2011).
Questa stessa Corte, nell’ordinanza n. 211 del 2011 più volte citata, nel delineare la differenza e l’incomparabilità tra l’escussione della cauzione provvisoria e le ulteriori sanzioni applicate dall’AVCP (oggi, ANAC), nell’ipotesi di cui al menzionato art. 48, comma 1, ha rilevato che i provvedimenti della menzionata Autorità, «previsti dalla norma censurata, mirano a garantire che nel settore operino soggetti rispettosi delle regole che lo disciplinano e, quindi, sono diretti a sanzionare la condotta dell’offerente per finalità ulteriori e diverse rispetto a quelle cui è preordinato l’incameramento della cauzione provvisoria, caratterizzato da una funzione differente da quella che connota detti provvedimenti», una funzione appunto di tipo riparatorio.
Anche se talvolta, in letteratura e in giurisprudenza, viene adottata la assai generica espressione “sanzione”, trattasi comunque di un rimedio non “punitivo”. L’escussione della cauzione provvisoria, anche se può avere un effetto indirettamente punitivo del concorrente che ha partecipato alla procedura di gara, dichiarando il possesso di requisiti che non ha poi confermato, risponde infatti all’esigenza di garantire il rispetto delle regole procedurali e, quindi, l’affidabilità di tutti i concorrenti e dell’offerta da essi presentata, nonché la speditezza della procedura medesima.
In questa stessa ottica, l’incameramento della garanzia provvisoria “sanziona” «la violazione dell’obbligo di diligenza gravante sull’offerente» (ordinanza n. 211 del 2011), nel senso che costituisce il rimedio apprestato dall’ordinamento a tutela dell’interesse della stazione appaltante alla serietà e affidabilità dell’offerente stesso e al rispetto, da parte sua, delle regole di gara.
L’attività contrattuale dell’amministrazione, «sebbene svolta con i moduli autoritativi e impersonali dell’evidenza pubblica», è infatti inquadrabile «nello schema delle trattative prenegoziali», da cui deriva «l’assoggettamento al generale dovere di comportarsi secondo buona fede enunciato dall’art. 1337 cod. civ.» (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 29 novembre 2021, n. 21). Quest’obbligo grava, ovviamente, su entrambe le parti “della trattativa” e, quindi, non solamente sulla stazione appaltante, ma anche sui partecipanti alla procedura di gara e la sua violazione dà vita a responsabilità precontrattuale, che è posta appunto «a presidio dell’interesse di ordine economico a che sia assicurata la serietà dei contraenti nelle attività preparatorie e prodromiche al perfezionamento del vincolo contrattuale» (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza n. 21 del 2021).
L’escussione della garanzia provvisoria risponde, quindi, alla funzione tipica dei rimedi apprestati dall’ordinamento a fronte di condotte contrarie a buona fede fondanti la responsabilità precontrattuale, che, anche quando “sanzionano” comportamenti scorretti imputabili alla parte, non sono “punitivi” perché sono tesi a salvaguardare posizioni giuridiche soggettive contro la violazione ingiustificata del dovere di correttezza.
Peraltro, il carattere sanzionatorio che assumono, in taluni casi, i rimedi civilistici non implica che essi siano conseguentemente qualificabili come sanzioni “punitive” agli effetti della CEDU e della CDFUE, in ragione della ormai riconosciuta natura polifunzionale della responsabilità civile.
L’incameramento della cauzione provvisoria è, insomma, un rimedio atto a sanzionare il mancato rispetto del dovere di buona fede e correttezza nella fase precontrattuale da parte di coloro che, partecipando alla procedura di gara, si impegnano a osservarne le regole.
Come accade in altri istituti previsti dal nostro ordinamento, inoltre, alla funzione di tutela dell’interesse dell’amministrazione ad evitare l’inutile e non proficuo svolgimento di complesse attività selettive, si aggiunge quella di liquidare, preventivamente e forfettariamente, il danno da essa eventualmente subito.
Da qui la funzione complessa della garanzia provvisoria e della sua escussione, volte a rafforzare complessivamente la posizione giuridica dell’amministrazione a tutela dell’interesse pubblico alla concorrenza, trasparenza e legalità delle procedure di affidamento dei contratti pubblici di cui essa è portatrice.
«La stessa mancanza di discrezionalità in capo all’autorità amministrativa» (sentenza n. 276 del 2016) chiamata ad escutere la cauzione provvisoria, la quale consegue automaticamente all’esclusione dalla procedura di gara per assenza o mancata dimostrazione del requisito speciale dichiarato in sede di offerta, costituisce un indice ulteriore del fatto che l’incameramento di questa cauzione non abbia carattere “punitivo”, ma sia essenzialmente diretto a garantire il rispetto delle regole di gara, restaurando l’interesse pubblico leso, che è quello di evitare la partecipazione alla gara stessa di concorrenti inidonei o di offerte prive dei requisiti richiesti.
8.3.2.– Una volta escluso che la misura in oggetto persegua le finalità afflittive proprie della pena, poste nell’interesse generale dell’ordinamento, anziché in quello settoriale della pubblica amministrazione coinvolta nella gara, va aggiunto che neppure il suo grado di severità conforta le premesse ermeneutiche del rimettente.
Nella specie, si deve sottolineare – come dedotto dall’Avvocatura generale dello Stato – che l’entità della garanzia provvisoria, ai sensi dell’art. 75 del previgente codice dei contratti pubblici, era pari al «due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell’invito» e, quindi, ad una percentuale non particolarmente elevata di esso.
Peraltro, il comma 7 del medesimo art. 75 prevedeva una serie di ipotesi, cumulabili tra loro, in cui l’importo di questa garanzia era ridotto da un minimo del quindici a un massimo del cinquanta per cento, giustificate dal possesso, da parte degli operatori economici, di determinate certificazioni.
Dall’importo della garanzia provvisoria, dalla previsione di forme alternative di costituzione (la cauzione o la fideiussione) e dal regime delle riduzioni previste dal legislatore, dunque, può ben desumersi l’assenza di quel connotato di speciale gravità, necessario affinché la misura pregiudizievole possa essere assimilata a una sanzione sostanzialmente penale.
9.– Sulla base delle considerazioni che precedono, non può condividersi il presupposto interpretativo dal quale muove l’ordinanza di rimessione, che si basa sulla natura di sanzione “punitiva” dell’incameramento della garanzia provvisoria in caso di esito negativo del controllo a campione ai sensi dell’art. 48 del d.lgs. n. 163 del 2006.
L’erroneità del presupposto interpretativo infirma le conclusioni del giudice a quo circa la violazione di tutti i parametri costituzionali evocati.