Corte di Cassazione, Sez. III Civile, sentenza 23 giugno 2022 n. 20315
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il cessionario di un credito beneficia ope legis, in conseguenza della cessione, degli effetti dell’azione pauliana vittoriosamente esperita dal cedente.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Col primo motivo la ricorrente prospetta sia il vizio di violazione di legge (assume violati l’art. 1264 c.c., e D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 58), sia quello di omesso esame d’un fatto decisivo.
Sostiene che la M. s.r.l. (e per essa la rappresentante (…) s.p.a., cioè il soggetto che iniziò l’esecuzione forzata) non poteva ritenersi “creditrice”, perché la cessione di credito stipulata all’estero produce effetti solo dal momento del deposito dell’atto presso un notaio italiano, ai sensi dell’art. 106 della legge notarile (L. 16 febbraio 1913, n. 89).
Nel caso di specie, invece, la cessione del credito avvenne il 27.6.2002, fu pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 1.8.2002, ma fu depositata presso un notaio italiano solo il 27.9.2002: dunque, ad avviso della ricorrente, quella cessione non produsse alcun effetto rispetto al debitore ceduto.
1.1. Il motivo è infondato.
La L. 16 febbraio 1913, n. 89, art. 106, comma 1, n. 4, recita: “nell’archivio notarile distrettuale sono depositati e conservati (…) gli originali e le copie degli atti pubblici rogati e delle scritture private autenticate in Stato estero prima di farne uso nel territorio dello Stato italiano”.
Tale previsione, come già ritenuto da questa Corte, ha lo scopo di consentire il controllo sulla conformità dell’atto ai principi fondamentali dell’ordinamento italiano, ai sensi dell’art. 28 della legge notarile (così Sez. 3, Sentenza n. 7089 del 28/03/2006, in particolare al § 4.3 della motivazione).
Il deposito dell’atto stipulato all’estero nell’archivio notarile non è dunque un elemento perfezionativo dell’atto, che esiste a prescindere da esso. Prova ne sia che, se il vaglio del notaio italiano è superato positivamente, l’atto produce i suoi effetti dalla stipula, non certo dal deposito nell’archivio notarile.
Pertanto, la circostanza che nel caso di specie il deposito presso un notaio italiano dell’atto di cessione “in blocco” stipulato all’estero abbia seguito, e non preceduto, la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, non ha reso la cessione invalida.
Né quella cessione potrebbe dirsi, nel caso di specie, “inefficace”: ed infatti il deposito nell’archivio notarile dell’atto stipulato all’estero è prescritto dall’art. 106 L. cit. “prima di fare uso dell’atto”.
Nel presente caso, però, la società cessionaria ha “fatto uso” della cessione solo allorché notificò il precetto, vale a dire il 23.6.2006: e dunque ben quattro anni dopo il deposito nell’archivio notarile.
- Col secondo motivo la ricorrente prospetta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 – un error in procedendo.
Deduce che erroneamente il giudice di merito ha ritenuto che la creditrice disponesse di un valido titolo esecutivo. Assume che così, in realtà, non era, poiché il titolo esecutivo era rappresentato da un decreto ingiuntivo la cui notificazione fu inesistente, in quanto eseguita:
- a) a persona che fu nominata dal debitore proprio rappresentante solo ai fini della stipula della vendita immobiliare poi revocata ex art. 2901 c.c.;
- b) nel domicilio del (preteso) rappresentante.
L’inesistenza della notifica – prosegue la ricorrente – era insanabile, e dunque il debitore non aveva alcun onere di proporre l’opposizione tardiva nel termine stabilito dall’art. 650 c.p.c..
2.1. Il motivo è infondato.
Le Sezioni Unite di questa Corte, sanando i precedenti contrasti, hanno definitivamente stabilito quando una notificazione possa dirsi “inesistente”: e cioè quando sia mancata la consegna stessa dell’atto (Sez. U, Sentenza n. 14916 del 20/07/2016).
Nel caso di specie, per contro, l’atto (il decreto ingiuntivo) fu consegnato, e fu consegnato ad un rappresentante del destinatario.
La circostanza poi che dai poteri del rappresentante esulasse quello di ricevere la notifica di atti giudiziari; come pure la circostanza che il rappresentato non avesse affatto eletto domicilio presso il rappresentante costituirono – alla luce dei principi affermati dalla sentenza delle Sezioni Unite sopra ricordata – motivo di nullità, e non di inesistenza, della notificazione.
- Col terzo motivo la ricorrente prospetta il vizio di omessa pronuncia. Deduce che la Corte d’appello non si sarebbe pronunciata sugli argomenti da lei spesi a sostegno del motivo di appello con cui lamentava il rigetto dell’eccezione di prescrizione.
Spiega la ricorrente che, in grado di appello, aveva sostenuto una tesi così riassumibile:
-) la M. s.r.l. aveva acquistato il credito vantato dalla banca mutuante nei confronti di Z.B. nel 2002;
-) la M. non aveva mai interrotto la prescrizione;
-) il precetto notificato a I.F. dalla Banca (…) il 24.5.2004 non interruppe la prescrizione, perché effettuato da soggetto che non era più il creditore, avendo ceduto il proprio credito;
-) su tutti questi argomenti la Corte d’appello non si è pronunciata.
3.1. Il motivo è infondato.
Sulla questione della prescrizione, infatti, la Corte d’appello si è pronunciata (p. 6 della sentenza), dichiarando inammissibile la relativa doglianza per genericità, dal momento che “l’appellante si limita sul punto ad esporre il proprio punto di vista senza però prendere in esame e censurare specificamente la motivazione che il primo giudice (…) ha posto a fondamento della propria convinzione, e consistente nella ritenuta applicabilità alla fattispecie del disposto dell’art. 111 c.p.c., in tema di successione a titolo particolare nel diritto controverso”.
Il suddetto giudizio di inammissibilità esclude che la Corte d’appello sia incorsa nel vizio di omessa pronuncia, di cui all’art. 112 c.p.c..
- Col quarto motivo la ricorrente impugna la statuizione di inammissibilità per genericità del motivo di appello con cui si invocava la prescrizione del diritto fatto valere dalla banca.
La ricorrente lamenta il “vizio di motivazione” e “l’omessa pronuncia”. Nella illustrazione del motivo sostiene una tesi così riassumibile:
-) il Tribunale aveva rigettato l’eccezione di prescrizione;
-) questo capo di sentenza era stato impugnato col terzo motivo di appello, sul presupposto della “impossibilità per la Nettuno Gestione Crediti (società cessionaria del credito, n. d.e.) di utilizzare la sentenza revocatoria” pronunciata su domanda della Banca (…)(…) (società cedente del credito);
-) erroneamente la Corte d’appello ritenne tale censura, che era “precisa ed intelligibile”, inammissibile per “genericità e cripticità”.
4.1. Il motivo è inammissibile per difetto di rilevanza.
È la stessa ricorrente a dedurre che la Banca (…)(…) nel 1992 propose un’azione revocatoria nei confronti di Z.B. e I.F. .
Tale giudizio si concluse solo nel 2014, per effetto della già ricordata sentenza di questa Corte 26168 del 12.12.2014.
La proposizione dell’azione revocatoria ha l’effetto di interrompere il decorso della prescrizione del diritto di credito a garanzia del quale l’azione revocatoria fu proposta (Sez. 3, Sentenza n. 16293 del 04/08/2016, Rv. 641667 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1084 del 18/01/2011, Rv. 616404 – 01).
Risulta dunque ex actis che al momento dell’inizio dell’esecuzione forzata (23.6.2006, secondo quanto riferito dalla stessa ricorrente a p. 2 del ricorso) il termine di prescrizione del credito originariamente vantato dalla Banca (…)(…) era ancora sospeso, e dunque nessuna prescrizione poté maturare in quell’arco di tempo.
Pertanto, corretto o meno che fosse il giudizio della Corte d’appello circa l’inammissibilità del motivo d’appello concernente la questione della prescrizione, in ogni caso la suddetta questione, se esaminata, non avrebbe potuto sortire effetti sull’esito del giudizio di opposizione all’esecuzione.
- Col quinto motivo la ricorrente censura la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto che il cessionario di un credito può giovarsi della sentenza di accoglimento dell’azione revocatoria di cui all’art. 2901 c.c., pronunciata su domanda proposta dal cedente ovviamente prima della cessione.
Nella illustrazione del motivo la ricorrente sostiene che altro è il diritto oggetto del giudizio revocatorio (e cioè il “diritto all’inefficacia dell’atto”); altro invece è il diritto di credito a garanzia del quale viene proposta l’azione revocatoria.
Ne trae la conclusione che la cessione del credito non trasferisce dal cedente al cessionario il “diritto all’inefficacia dell’atto”.
5.1. Il motivo è infondato.
In primo luogo, è infondato in quanto – come puntualmente rilevato dal Procuratore Generale – la Corte d’appello ha ritenuto, con accertamento di fatto non censurato e comunque non censurabile in questa sede, che la cessione del credito dalla Banca Popolare alla M. ebbe ad oggetto anche i diritti scaturenti dal vittorioso esperimento dell’azione revocatoria.
In secondo luogo, è infondato in quanto la sentenza di accoglimento dell’azione revocatoria giova al cessionario del creditore ope legis.
Stabilisce infatti l’art. 2902 c.c., che il creditore, per effetto dell’accoglimento della domanda di revocazione d’un atto dispositivo, “può promuovere l’azione esecutiva” nei confronti dell’avente causa del debitore.
Se dunque il credito tutelato con l’azione revocatoria si trasferisce per effetto di cessione, anche il cessionario acquista ipso iure il diritto di “promuovere l’azione esecutiva”, che non sarebbe concepibile scisso dal credito ceduto.
Questa ovvia conclusione è confermata da varie considerazioni di tipo sistematico:
- a) l’ 1263 c.c., prevede che per effetto della cessione si trasferiscono i “privilegi”, senza distinzione. La cessione, dunque, trasferisce anche i privilegi scaturenti dalla causa del credito. Se dunque la cessione trasferisce i privilegi scaturenti dalle condizioni personali delle parti, a fortiori si dovrà ammettere che per effetto di essa si trasferiscano gli effetti dell’azione revocatoria, che ha in comune coi privilegi lo scopo di garanzia del credito, ed insieme a quelli è sussunta dal legislatore nel Titolo III del Libro VI del codice civile;
- b) tra i crediti privilegiati rientrano le spese di giustizia per atti conservativi (2755 c.c.), ed i privilegi come già detto si trasferiscono per effetto di cessione del credito. La revocatoria è un’azione intesa a conservare al creditore la garanzia patrimoniale. Se dunque si negasse che il cessionario d’un credito benefici degli effetti dell’azione revocatoria proposta dal cedente, si perverrebbe al seguente paradosso: il credito ceduto conserverebbe privilegio per le spese dell’azione revocatoria, ma non beneficerebbe degli effetti dell’azione revocatoria. E l’evidente reductio ad absurdum svela l’erroneità della premessa;
- c) il cessionario d’un credito si giova del pignoramento eseguito dal cedente. Il pignoramento è un vincolo preordinato all’esecuzione, ed evita la dispersione della garanzia patrimoniale. Anche la revocatoria, però, ha la funzione di evitare la dispersione della garanzia patrimoniale: sicché sarebbe contrario al canone ermeneutico dell’interpretazione sistematica ritenere che il cessionario benefici degli effetti del pignoramento, ma non di quelli dell’azione revocatoria;
- d) l’azione revocatoria ha lo scopo di conservare la garanzia patrimoniale del creditore, ed il cessionario di un credito non è men creditore di quanto lo fosse il cedente;
- e) l’interpretazione propugnata dalla ricorrente avrebbe l’effetto di vanificare l’attività processuale svolta dal creditore cedente;
- f) un atto in frode del creditore non cessa di essere tale sol perché il credito circoli e latere creditoris.
5.2. I principi sin qui esposti, sia pure in diversa fattispecie, sono stati già ammessi da questa Corte, allorché affermò che il cessionario di un credito è legittimato non solo a proporre l’azione revocatoria, ma anche ad intervenire nel giudizio promosso dal cedente, in quanto “portatore di interesse attuale e concreto ad un risultato utile e giuridicamente rilevante” (Sez. 3 -, Ordinanza n. 6130 del 14/03/2018).
5.3. Non pertinente, o non condivisibile – per quanto si dirà – è invece la giurisprudenza invocata dalla ricorrente a sostegno del motivo di ricorso qui in esame.
5.4. La ricorrente ha invocato, in primis, i principi affermati da Sez. 1, Sentenza n. 25660 del 04/12/2014.
In quel caso un curatore fallimentare aveva proposto l’azione revocatoria fallimentare di un pagamento, ricevuto da una banca in esecuzione di un ordine di pagamento emesso dal giudice dell’esecuzione all’esito dell’espropriazione immobiliare.
La banca convenuta, al momento della citazione in giudizio, aveva già ceduto il credito oggetto di revocatoria, ma nel costituirsi nulla eccepì a tal riguardo.
Rimasta soccombente, la banca propose appello dichiarando di agire non in proprio, ma “nella qualità di rappresentante del cessionario”: e la Corte d’appello dichiarò inammissibile il gravame sul presupposto che il dichiarare solo in appello di stare in giudizio per conto di qualcun altro costituiva un inammissibile mutamento dei presupposti del thema decidendum, non consentito dall’art. 345 c.p.c..
La sentenza venne appellata dalla banca, la quale sostenne che nelle more del giudizio era tornata ad essere creditrice, per effetto di cessione, del credito impugnato con la revocatoria, e pertanto le si doveva consentire di proporre l’appello.
Questa Corte, con la sentenza invocata dalla ricorrente (25660/14), rigettò il ricorso affermando che “nell’azione revocatoria fallimentare il diritto controverso è il diritto all’inefficacia dell’atto, nel caso il pagamento, e non già il diritto di credito oggetto della cessione”.
Questa affermazione, letta alla luce della fattispecie concreta, ha con evidenza un significato totalmente diverso da quello che la ricorrente intende attribuirle, estrapolandola dal contesto.
In quel caso, infatti:
- a) non si discuteva della legittimazione a proporre l’azione pauliana o a beneficiare dei suoi effetti, ma della legittimazione a resistere alla suddetta azione, ed opporvisi con l’appello;
- b) a circolare per effetto di cessione in quel caso – al contrario del caso oggi in esame – non fu il credito garantito dalla revocatoria, ma il credito (il cui adempimento era stato) impugnato con la revocatoria;
- c) in quel caso non si trattava di stabilire se la revocatoria accolta produca effetto rispetto al cessionario del credito, ma se un soggetto estraneo all’atto revocando potesse impugnare la sentenza di accoglimento dell’azione revocatoria, sostenendo per la prima volta in appello di essere divenuto, per effetto di cessione, titolare del credito oggetto di revocazione, e non già titolare del credito che si intese conservare con l’azione pauliana.
5.5. La ricorrente ha altresì invocato il decisum di Sez. 3, Ordinanza n. 29637 del 12.12.2017.
Questa decisione aveva ad oggetto l’ammissibilità dell’intervento del cessionario nel giudizio proposto dal cedente: ed a tale quesito la Corte diede risposta negativa, richiamando pressoché alla lettera e senza ulteriori approfondimenti il decisum di Cass. 25660/14.
Ma poiché, per quanto detto, quest’ultima decisione non si occupava e non poteva occuparsi del problema della estensibilità degli effetti dell’azione revocatoria, appare evidente che al decisum di Cass. 29637/17 non è possibile dare in questa sede continuità.
- Il ricorso va dunque rigettato in applicazione del seguente principio di diritto:
“il cessionario di un credito beneficia ope legis, in conseguenza della cessione, degli effetti dell’azione pauliana vittoriosamente esperita dal cedente”.
- Non è luogo a provvedere sulle spese, non essendovi stata difesa delle parti intimate.
Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).