Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 28 gennaio 2021 n. 2061
PRINCIPI DI DIRITTO
- A) La legge n. 124 del 2017 (art. 1, commi 136-140) non ha effetti retroattivi e trova, quindi, applicazione per i contratti di leasing finanziario in cui i presupposti della risoluzione per l’inadempimento dell’utilizzatore (previsti dal comma 137) non si siano ancora verificati al momento della sua entrata in vigore; sicché, per i contratti risolti in precedenza e rispetto ai quali sia intervenuto il fallimento dell’utilizzatore soltanto successivamente alla risoluzione contrattuale, rimane valida la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, dovendo per quest’ultimo social-tipo negoziale applicarsi, in via analogica, la disciplina di cui all’art. 1526 c.c. e non quella dettata dall’art. 72-quater l.f., rispetto alla quale non possono ravvisarsi, nella specie, le condizioni per il ricorso all’analogia legis, né essendo altrimenti consentito giungere in via interpretativa ad una applicazione retroattiva della legge n. 124 del 2017.
- B) In base alla disciplina dettata dall’art. 1526 c.c., in caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente che aspiri a diventare creditore concorrente ha l’onere di formulare una completa domanda di insinuazione al passivo, ex art. 93 l.f., in seno alla quale, invocando ai fini del risarcimento del danno l’applicazione dell’eventuale clausola penale stipulata in suo favore, dovrà offrire al giudice delegato la possibilità di apprezzare se detta penale sia equa ovvero manifestamente eccessiva, a tal riguardo avendo l’onere di indicare la somma esattamente ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto di leasing, ovvero, in mancanza, di allegare alla sua domanda una stima attendibile del valore di mercato del bene medesimo al momento del deposito della stessa».
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- – Preliminarmente, va rigettata l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione per asserito difetto di interesse, ex art. 100 c.p.c., sollevata da parte controricorrente in ragione del fatto che il decreto impugnato si fonderebbe anche sulla ratio decidendi, non impugnata, della “esistenza di un credito compensabile” in favore della curatela che verrebbe a “paralizzare ogni ipotetica pretesa a contenuto patrimoniale della Unicredit Leasing S.p.A.”. Invero, è dirimente osservare che la postulata ratio decidendi – al di là della effettiva portata che essa esibisce in contrapposizione a quanto, invece, vorrebbe ascriverle parte controricorrente – è stata espressa dal giudice di merito soltanto ad abundantiam, dopo aver esaurito la propria potestas iudicandi con la declaratoria di inammissibilità, per essere caratterizzata da novità, della domanda di ammissione al passivo fallimentare di Unicredit Leasing S.p.A. per i crediti nascenti in base all’applicazione dell’art. 1526 c.c., così da non necessitare di alcuna impugnazione in questa sede (Cass., S.U., 20 febbraio 2007, n. 3840; Cass., 19 dicembre 2014, n. 27049; Cass., 20 agosto 2015, n. 17004).
1.1. – Va superata, del pari, l’eccezione di inammissibilità del ricorso dalla stessa parte controricorrente prospettata per insuperabile difetto di specificità dei motivi, ciò non trovando riscontro nello sviluppo argomentativo dell’atto di impugnazione, che si articola in modo sufficientemente idoneo a rispettare quanto prescritto dall’art. 366, primo comma, n. 4, c.p.c. 2. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt.1362, 1363, 1366 e 1456 c.c., per aver il Tribunale – equivocando sulla portata della clausola di cui all’art. 21 del contratto di leasing (rubricata “risoluzione anticipata ed effetti”), che richiamava la clausola di cui al precedente art. 20 (rubricata “decadenza dal beneficio del termine”) – erroneamente inteso la portata della lettera del 16 luglio 2014 indirizzata alla utilizzatrice, che era volta unicamente a conseguire la “restituzione dell’immobile e le somme corrispondenti allo scaduto e insoluto contrattuale” e, comunque, per aver erroneamente ritenuto che un contratto ormai giunto alla sua natura scadenza potesse risolversi di diritto ai sensi dell’art. 1456 c.c. (in forza della citata clausola di cui all’art. 21 del contratto), ciò essendo impedito, per l’appunto, dalla maturazione del termine di efficacia del contratto.
2.1. – Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
2.1.1. – E’ inammissibile, anzitutto, la censura che si duole dell’interpretazione del contratto di leasing, intercorso tra le parti, effettuata dal Tribunale con il decreto impugnato in questa sede. Il sindacato di legittimità non può vertere sul risultato interpretativo in sé – risultato che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito -, afferendo esso alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (tra le altre, Cass., 10 febbraio 2015, n. 2465).
Sicché, la denuncia in cassazione di un errore di diritto nell’interpretazione di una clausola contrattuale non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., essendo necessario specificare i canoni che in concreto assuma violati e, in particolare, il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, giacché le doglianze non possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, non dovendo quest’ultima essere l’unica astrattamente possibile, ma solo una delle plausibili interpretazioni; pertanto, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass., 28 novembre 2017, n. 28319).
Le censure di parte ricorrente sono, dunque, inammissibili poiché intendono accreditare una lettura della fattispecie negoziale in punto di facoltà di attivazione della clausola risolutiva espressa contenuta nell’art. 21 del contratto di leasing finanziario inter partes diversa da quella esplicitata, in modo non implausibile, dal giudice di merito, che detta clausola ha posto in correlazione (art. 1363 c.c.) con la situazione di inadempimento delle obbligazioni di pagamento dei canoni facenti capo alla società utilizzatrice, quale ipotesi comunque ricompresa tra le previsioni di altra clausola del medesimo Ric. 2018 n. 03763 sez. SU – ud. 01-12-2020 -6- contratto (di cui all’art. 20), attribuendo, altresì, rilievo al comportamento della stessa concedente, ossia quello di avvalersi proprio “della clausola risolutiva contenuta nel contratto di leasing”, come desunto dalla missiva del luglio 2014 (la cui portata – in questa sede, come già accaduto nel giudizio di opposizione di cui al decreto impugnato – è solo parzialmente posta in risalto dalla stessa società, ossia non facendo cenno alla parte in cui è esplicitata la volontà di risolvere il contratto).
2.1.2. – Il motivo è, invece, infondato quanto alla doglianza che predica, in termini assoluti e dogmatici, la non risolubilità per inadempimento, in forza di clausola risolutiva espressa, del contratto di leasing traslativo intercorso tra le parti in quanto contratto di durata già giunto alla sua naturale scadenza. In questi termini giova rammentare che, alla luce della giurisprudenza di questa Corte – seppur maturata in contesti e fattispecie diverse [mandato (Cass., 6 giugno 2018, n. 14623); locazione (Cass., 17 luglio 2008, n. 19695; Cass., 28 novembre 2008, n. 28416; Cass., 9 luglio 2009, n. 16110; Cass., 22 dicembre 2015, n. 25740; Cass., 20 dicembre 2019, n. 34158); appalto (Cass., 6 aprile 2011, n. 7878)] -, è possibile enucleare un principio più generale (la cui tenuta deve, comunque, essere testata nelle vicende singolari), per cui la cessazione di efficacia di un contratto, per lo spirare del termine di durata, non preclude, di per sé, la possibilità di far valere rimedi risolutori, azionabili per un inadempimento concretatosi anteriormente alla scadenza naturale del contratto medesimo.
E tanto non solo in ragione dell’alterità, nonché priorità degli effetti nel tempo, della risoluzione rispetto ad altra causa di cessazione del contratto, ma, altresì, in forza del potere di autonomia privata del contraente non inadempiente – che trova rispondenza anche nella consentita alternativa dei rimedi (adempimento e risoluzione) e nella prevalenza di quello risolutorio alla stregua di quanto disposto dai primi due commi dell’art. 1453 c.c. -, il quale, in ragione della cessazione fisiologica del termine di durata del contratto, sarebbe privato della possibilità di far valere l’inadempimento altrui.
Questo, peraltro, non elide quella verifica, caso per caso – della cui necessità dà conto l’ordinanza interlocutoria n. 5022 del 2020 -, dell’ammissibilità della domanda di risoluzione di un contratto di durata, per l’inadempimento delle relative obbligazioni, pur a fronte della cessazione del rapporto per altra causa, successiva all’inadempimento (segnatamente, per la intervenuta scadenza naturale), dovendo sussistere un concreto ed attuale interesse alla tutela azionata, che, di regola, non potrebbe darsi (come evidenzia la stessa ordinanza interlocutoria citata) ove, essendo la pretesa circoscritta all’adempimento dei corrispettivi insoluti o al risarcimento del danno, trovi immediato rilievo il regime dettato dall’art. 1458, primo comma, secondo periodo, c.c., per cui gli effetti della risoluzione non si estendono alle prestazioni già eseguite.
Ciò che, infatti, verrebbe a sterilizzare le conseguenze liberatorie e restitutorie che normalmente discendono dalla disciplina (caratterizzata dalla retroattività) della risoluzione in forza del comma primo, primo periodo del medesimo art. 1458 c.c., in tal modo rendendo non altrimenti utile una siffatta domanda giudiziale, perché dal suo eventuale accoglimento non potrebbe discendere alcun effetto che non si sia già prodotto (cessazione del rapporto) o che non sia conseguibile con la domanda di adempimento (della controprestazione non eseguita) e con la generale azione di danno ex art. 1218 c.c., in quanto autonomamente proponibile rispetto a quella risoluzione. Tuttavia, sotto il profilo degli effetti risolutori del leasing traslativo per cui è causa (gli unici ad essere ormai rilevanti all’esito dello scrutinio della censura che precede, sub § 2.1.1.), il perimetro della presente impugnazione non comprende l’alternativa anzidetta, ma ne esibisce una diversa, che è scolpita, da un lato, dall’applicazione, già effettuata dal giudice del merito, dell’art. 1526 c.c. al contratto inter partes (norma che prevede la restituzione, da parte del concedente, delle rate versate e la corresponsione, da parte dell’utilizzatore, di un equo compenso, oltre all’eventuale risarcimento del danno) e, dall’altro, dell’operatività, invocata dalla società concedente, ricorrente per cassazione, dell’art. 72-quater I.f. (che dà rilievo all’eventuale credito in favore del concedente risultante dalla differenza tra quanto ricavato dalla vendita o altra allocazione del bene e il credito contrattuale residuo) e, dunque, tra rimedi che si atteggiano, entrambi, in termini differenti e ulteriori rispetto a quelli (adempimento e risarcimento del danno ex art. 1218 c.c.) correlati alle conseguenze ordinariamente disposte dall’art. 1458 c.c. in ipotesi di contratto ad esecuzione periodica o continuata.
Ne consegue che, per dichiarare infondate le censure veicolate con il mezzo in esame, non occorre attendere l’esito dello scrutinio del terzo motivo di ricorso, incentrato proprio sul tema (oggetto del contrasto giurisprudenziale la cui risoluzione è stata rimessa a queste Sezioni Unite) dell’applicabilità, nel caso di specie, dell’art. 1526 c.c. ovvero dell’art. 72-quater I.f. 3. – Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt.1526 c.c. e 72-quater I.f., per aver il Tribunale erroneamente ritenuto applicabile, nella fattispecie, l’art. 1526 c.c., non venendo in rilievo un’ipotesi di risoluzione del contratto, bensì di sua cessazione per essere giunto a naturale scadenza; il che, del resto, avrebbe impedito anche l’applicazione dell’art. 72-quater I.f., che presuppone l’efficacia del contratto alla data di dichiarazione del fallimento.
Ad avviso della ricorrente, nel caso in esame, integrante un “tertium genus” rispetto alle ipotesi anzidette, avrebbe dovuto trovare applicazione la regolamentazione pattizia, che consentiva al concedente di ottenere, oltre la restituzione del bene, il pagamento dei canoni scaduti.
3.1. – Il motivo è inammissibile. Una volta, infatti, che vi è stata definitiva conferma, all’esito dello scrutinio del motivo che precede, della statuizione del decreto impugnato in punto di risoluzione del contratto di leasing, tra le parti intercorso, per attivazione della clausola risolutiva espressa, non può più avere ingresso la doglianza che muove dal diverso presupposto che detta risoluzione non abbia rilievo e si verta ancora in ipotesi di cessazione dell’efficacia del contratto medesimo per essere giunto alla sua naturale scadenza.
- – Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione della legge n. 124 del 2017. La società ricorrente sostiene che, a seguito della tipizzazione del contratto di leasing ad opera della legge n. 124 del 2017 (art. 1, commi 136-140) – all’esito di un percorso normativo iniziato proprio con l’introduzione, nel 2006, dell’art. 72-quater I.f., proseguito con l’art. 169-bis I.f. in tema di concordato preventivo dell’utilizzatore e con la legge n. 208 del 2015 in materia di locazione finanziaria di immobili adibiti ad uso abitativo -, sarebbe venuta meno la distinzione tra leasing traslativo e di godimento, essendo stata ascritta al contratto una disciplina unitaria, la quale, a differenza di quanto previsto dall’art. 1526 c.c., consente al concedente di pretendere dall’utilizzatore non già un equo compenso, ma di trattenere i canoni pagati, pretendere il pagamento di quelli scaduti e non pagati, ed esigere quelli ancora da scadere, più il prezzo di opzione.
Il superamento della tradizionale anzidetta distinzione comporterebbe che gli effetti della risoluzione di un contratto non soggetto, ratione temporis, alla legge n. 124 del 2017 dovranno trovare la propria disciplina di riferimento in quella dettata dall’art. 72-quater I.f., quale norma da applicare in via analogica in luogo del non più richiamabile, analogicamente, art. 1526 c.c.
4.1. – Il motivo, come detto, introduce il tema oggetto del contrasto di giurisprudenza rilevato dall’ordinanza interlocutoria n. 5022 del 2020 della Terza Sezione civile e rimesso all’esame di queste Sezioni Unite.
4.1.1. – La Sezione rimettente dà conto del diritto vivente formatosi sulla distinzione, in seno al contratto di leasing finanziario (o locazione finanziaria), tra leasing di godimento (in cui il rapporto ha essenzialmente una funzione di finanziamento a scopo, per l’appunto, di godimento e, quindi, con una previsione dei canoni su base eminentemente corrispettiva di tale scopo, essendo marginale ed accessoria la pattuizione relativa al trasferimento del bene alla scadenza dietro pagamento del prezzo d’opzione) e leasing traslativo (in cui il rapporto è indirizzato anche al trasferimento del bene, in ragione di un apprezzabile valore residuo di esso al momento della scadenza contrattuale, notevolmente superiore al prezzo d’opzione, mostrando i canoni anche la consistenza di corrispettivo del trasferimento medesimo) e della affermata diversità di regole applicabili all’una o all’altra fattispecie negoziale, avendo la giurisprudenza di questa Corte ribadito, per circa un trentennio, in modo affatto costante e coeso (a partire dalle coeve decisioni del 13 dicembre 1989, n. 5569, n. 5571, n. 5573 e n. 5574; con l’avallo poi della sentenza n. 65 del 7 gennaio 1993 di queste Sezioni Unite), che gli effetti della risoluzione per inadempimento del contratto di leasing traslativo sono regolati per analogia dall’art. 1526 c.c.
Orientamento, questo, che non è mutato anche a seguito dell’introduzione, ad opera del d.lgs. n. 5 del 2006, dell’art. 72-quater I.f., ascrivendosi la disciplina di tale norma non già al profilo della risoluzione del contratto di leasing, bensì del suo scioglimento quale conseguenza del fallimento dell’utilizzatore (tra le altre, Cass., 29 aprile 2015, n. 8687; Cass., 9 febbraio 2016, n. 2538). Invero, come ancora evidenzia l’ordinanza n. 5022 del 2020, la fermezza dell’indirizzo in esame si rinviene anche in epoca successiva all’entrata in vigore della legge n. 124 del 2017, la quale, ai commi da 136 a 140 dell’art. 1, “ha dettato una disciplina organica ed unitaria del leasing, superando la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo”, sebbene le decisioni in tal senso non prendano posizione sulla portata e sugli effetti di detta legge (Cass., 19 febbraio 2018, n. 3945; Cass., 18 giugno 2018, n. 15975; Cass., 12 febbraio 2019, n. 3965).
Un siffatto diritto vivente – come detto, costante e coeso per circa un trentennio – è stato invece contrastato da una serie di pronunce di questa Corte (a partire da Cass., 29 marzo 2019, n. 8980, seguita poi da: Cass., 20 agosto 2019, n. 18545; Cass., 30 settembre 2019, n. 24438; Cass., 28 ottobre 2019, n. 27545), inclini a valorizzare, in via interpretativa, proprio la novella legislativa del 2017, giungendo alla conclusione che, in ragione dell’innovazione del quadro normativo di riferimento (già inciso dal citato art. 72-quater I.f., ma anche da ulteriori settoriali interventi legislativi), l’art. 1526 c.c. non possa trovare applicazione nel caso di risoluzione per inadempimento dei contratti di leasing, traslativi o di godimento che siano, in quanto è stata superata, per l’appunto, la tradizionale distinzione, di origine pretoria, tra leasing traslativo e di godimento, quale figure ora accomunate in una regolamentazione unitaria e a vocazione generale anche quanto ai stabiliti effetti della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore.
Secondo tale più recente indirizzo, gli effetti delle novità normative si «riverberano … anche sui contratti cui esse non sarebbero applicabili ratione temporis: non già per effetto di una non consentita applicazione retroattiva, ma per effetto di una “interpretazione storico-evolutiva, secondo cui una determinata fattispecie negoziale (…) non può che essere valutata sulla base dell’ordinamento vigente, posto che l’attività ermeneutica non può dispiegarsi “ora per allora, ma all’attualità”»; e ciò sul presupposto che, sino al definitivo accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato, non si siano esauriti i relativi effetti.
Donde, il principio per cui le conseguenze della risoluzione dei contratti di leasing, antecedente al fallimento dell’utilizzatore e sottratti ratione temporis all’efficacia diretta della legge n. 124 del 2017, debbano essere disciplinate in via analogica dall’art. 72-quater I.f., che esibisce la medesima regolamentazione di quella poi fatta propria dalla novella più recente.
4.1.2. – I dubbi sulla tenuta di quest’ultimo orientamento sono dall’ordinanza interlocutoria della Terza Sezione compendiati in due distinti “quesiti”, che interrogano altrettante «questioni preliminari “di sistema”», come detto riassumibili nella possibilità, o meno, di predicare l’applicazione analogica (attraverso l’interpretazione “evolutiva”) di una norma sopravvenuta rispetto alla fattispecie concreta che dovrebbe disciplinare.
Nella specie, infatti, le norme che si pretenderebbero espressive di un principio generale (l’art. 72-quater I. fall. e l’art. 1, commi 136- 140, della I. n. 124 del 2017) sono entrate in vigore molto tempo dopo la risoluzione del contratto di leasing oggetto del presente giudizio (la legge del 2017 anche dopo la dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore); risoluzione avvenuta, come detto, in un quadro di “diritto vivente” consolidato nel senso della distinzione tra leasing traslativo e leasing di godimento, con conseguente applicabilità analogica dell’art. 1526 c.c. alla risoluzione del primo.
4.1.2.1. – Assume, pertanto, la Terza Sezione civile che la giurisprudenza, e massimamente quella di legittimità nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, concorre nella formazione della norma da applicare e, come tale, è tenuta a rispettare il principio (discendente dalla CEDU, ma recepito anche nell’ordinamento comunitario in forza dell’art. 6 TUE) della certezza del diritto, nei suoi tre corollari: “il principio di irretroattività delle norme; il principio di tutela del legittimo affidamento ed il principio di salvaguardia dei diritti quesiti”.
Trattasi, del resto, di principi condivisi da questa stessa Corte allorché, sia pure in materia processuale, ha affermato che il mutamento di un orientamento consolidato su una certa interpretazione delle norme di rito trova giustificazione solo quando quell’interpretazione sia “manifestamente arbitraria e pretestuosa (…) atteso che l’affidabilità, prevedibilità e uniformità dell’interpretazione delle norme processuali costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di giustizia del processo” (Cass., S.U., 6 novembre 2014, n. 23675).
Di qui, pertanto, il primo quesito di diritto posto dall’ordinanza interlocutoria: “se l’interpretazione dell’art. 1, commi 136-140, della legge 4.8.2017, n. 124, secondo cui tale norma imporrebbe di abbandonare (anche per i fatti avvenuti prima della sua entrata in vigore) il tradizionale orientamento che applica alla risoluzione del contratto di leasing traslativo l’art. 1526 c.c., sia coerente coi principi comunitari di certezza del diritto e tutela dell’affidamento“.
4.1.2.2. – Il secondo quesito (strettamente correlato al primo) involge la legittimità di un procedimento di applicazione analogica definita “diacronica”, “per effetto della quale la norma da applicare per analogia al caso concreto potrebbe anche non esistere al momento di realizzazione della fattispecie, purché esista al momento della decisione”. Procedimento che – ad avviso della sezione rimettente – “parrebbe di assai dubbia compatibilità coi principi già ricordati di certezza del diritto e tutela dell’affidamento”.
In ogni caso, anche a voler ritenere ammissibile tale peculiare tipo di analogia (che l’orientamento più recente definisce come “interpretazione storico- evolutiva”), l’ordinanza interlocutoria solleva il dubbio che l’art. 72- quater I.f. possa applicarsi alla fattispecie concreta all’esame della Corte, dal momento che a venire in rilievo in quest’ultima sono gli effetti di una risoluzione del contratto anteriore al fallimento, e non già gli effetti dello scioglimento del contratto, ad opera del curatore, in conseguenza del fallimento medesimo.
L’interrogativo che, quindi, pone l’ordinanza n. 5022 del 2020 è “se possa applicarsi in via analogica, anche solo per analogia iuris, una norma inesistente al momento in cui venne ad esistenza la fattispecie concreta non prevista dall’ordinamento; ed in caso affermativo se, con riferimento al caso di specie, tale norma da applicarsi in via analogica possa ravvisarsi nell’art. 72-quater I. fall.”.
4.2. – Ritengono queste Sezioni Unite che non possa darsi seguito all’orientamento giurisprudenziale più recente, inaugurato dalla sentenza n. 8980 del 2019, e che, dunque, debba assicurarsi continuità al diritto vivente di risalente formazione (ma, come detto, ribadito anche da pronunce successive a quella portatrice di overruling), che ha costantemente tratto dall’art. 1526 c.c. , in forza di interpretazione analogica, la disciplina atta a regolare gli effetti della risoluzione per inadempimento di contratto di leasing (traslativo) verificatasi prima dell’entrata in vigore della legge n. 124 del 2017 e del fallimento dell’utilizzatore resosi inadempiente.
Queste le ragioni che convincono di dover risolvere nei termini appena evidenziati l’ingeneratosi contrasto di giurisprudenza, conseguendone, quindi, l’infondatezza del motivo di ricorso in esame.
4.3. – Giova precisare sin d’ora, in termini più generali (o di sistema) che, ai fini dell’approdo nomofilattico che si ritiene di privilegiare, non è affatto in discussione la forza propulsiva dell’attività interpretativa rimessa al giudice, anche nella sua declinazione di ermeneutica c.d. evolutiva (o storico-evolutiva), affinché l’ordinamento giuridico risponda, in ogni momento, alle esigenze cangianti della realtà socio-economica di riferimento, nei confronti della quale l’interprete deve sempre tendere lo sguardo attento a cogliere l’emersione di nuove ed effettive esigenze meritevoli di tutela.
E l’anzidetto canone interpretativo – che si coordina con gli altri (letterale, teleologico, sistematico) per guidare lo svolgimento dell’interpretazione giuridica, così da costituire un complesso di criteri filtranti la “lettura” delle norme, le quali, in quanto modelli deontici di condotta, necessitano di trovare concreta attuazione e, quindi, di essere immerse nella realtà viva e mutevole dell’ordinamento – può ben esplicare la propria modalità operativa anche nutrendosi del diritto positivo di più recente conio, successivo, dunque, all’assetto regolatorio pertinente alla disciplina da interpretare, gettando su di essa un luce retrospettiva capace di disvelarne senso e orientamento anche differenti da quelli sino ad allora affermati, ove rispondenti alle predette esigenze.
Né l’interpretazione giuridica così dinamicamente modulata si rende disarmonica con il disegno legislativo degli ultimi tre lustri volto – attraverso le varie riforme del processo civile di legittimità (da cui le disposizioni, introdotte o novellate, degli artt. 360-bis, n. 1, 363, 374, terzo comma, e 384, primo comma, c.p.c.) – ad implementare lo spazio vitale della funzione nomofilattica della Corte di cassazione sempre più nell’ottica valoriale della certezza del diritto e della sicurezza giuridica, a presidio di un trattamento uniforme dei cittadini dinanzi al giudice, quale precipitato immediato del principio di eguaglianza, così da accreditare il “precedente” come regola “forte” di decisione di casi a venire e, dunque, elevandolo a criterio e misura della prevedibilità e calcolabilità riguardo alla decisione di controversie future.
Al “precedente”, infatti, è affidato quel grado di stabilità che il dinamismo propulsivo dell’ordinamento giuridico, alimentato dal mutamento dei fattori ambientali (socio-economici) regolati, rende, comunque, solo tendenziale e che l’evoluzione giurisprudenziale sa, per l’appunto, cogliere in un incessante riequilibrio delle condizioni atte a garantire tutela ai beni/interessi che, come detto, a buon ragione la reclamino in termini di effettività proprio attraverso lo jus dicere.
Tuttavia, non può l’attività di interpretazione delle norme, come tale, superare quei limiti che si impongono nel suo svolgimento e che danno la misura della distinzione di piani sui quali operano, rispettivamente, il legislatore e il giudice, tanto da non potersi collocare il “precedente” stesso, seppure proveniente dal giudice di vertice del plesso giurisdizionale (e, dunque, anche se integrativo del parametro legale: art. 360 bis, n. 1, c.p.c.), allo stesso livello della cogenza che esprime, per statuto, la fonte legale (cfr. anche Corte cost., sent. n. 230 del 2012), alla quale il giudice è (soltanto) soggetto (art. 101, secondo comma, Cost.).
Il legislatore, infatti, “introduce nell’ordinamento un quid novi che rende obbligatorio per tutti un precetto o una regola di comportamento”; il giudice, come detto, “applica al caso concreto la legge intesa secondo le comuni regole dell’ermeneutica (Corte cost. n. 155 del 1990) e in tal modo ne disvela il significato corretto, pur sempre insito nella stessa, in un dato momento storico, quale espressione di un determinato contesto sociale e culturale” (Cass., S.U., n. 4135/2019).
E’ in tal senso, pertanto, che la funzione assolta dalla giurisprudenza è di natura “dichiarativa”, giacché riferita ad una preesistente disposizione di legge, della quale è volta a riconoscere l’esistenza e l’effettiva portata, “con esclusione formale di un’efficacia direttamente creativa” (Cass., 25 febbraio 2011, n. 4687; Cass., S.U., 24 aprile 2004, n. 21095).
4.3.1. – Sicché, l’attività interpretativa giudiziale, sia pure a vocazione, per l’appunto, “evolutiva”, è segnata, anzitutto, dal limite di tolleranza ed elasticità dell’enunciato, ossia del significante testuale della disposizione che ha posto, previamente, il legislatore e dai cui plurimi significati possibili (e non oltre) muove necessariamente la dinamica dell’inveramento della norma nella concretezza dell’ordinamento ad opera della giurisprudenza stessa (Cass., S.U., 11 luglio 2011, n. 15144; Cass., S.U., 22 giugno 2018, n. 16957; Cass., S.U., 31 ottobre 2018, n. 27755).
Ciò consente di affermare, anzitutto, che, al fine di poter colmare l’eventuale lacuna che l’ordinamento esibisca rispetto alla disciplina di un caso concreto, il procedimento analogico (o interpretazione/integrazione analogica) esige (art. 12, secondo comma, delle “preleggi”) che la disposizione (analogia legis) o lo stesso “principio generale dell’ordinamento” (analogia iuris), che a quel caso forniranno la regula iuris in quanto si possa ravvisare la “eadem ratio” – ossia la medesima ragione giustificativa che legittima il ricorso al procedimento stesso, ciò implicando il riconoscimento a monte di un rapporto di similitudine fondato sulla comunanza di elementi (giuridici o fattuali), strutturali e/o funzionali, rilevanti – devono essere presenti all’interno dell’ordinamento (quali norme frutto dell’attività interpretativa svolta) nel momento in cui il si trova a doverli applicare, non potendo egli fare opera creativa nei termini appena evidenziati.
4.3.2. – Inoltre, non può l’interpretazione delle norme da parte del giudice “interferire sul terreno della vigenza della legge che è connessa alla sua entrata in vigore come dalla stessa predeterminata con regole generali (artt. 10, 11, 14 e 15 disp. sulla legge in generale) o specifiche vincolanti per l’interprete” (così la citata Cass., S.U., n. 4135/2019).
Ai fini del presente scrutinio viene in rilievo la regola dettata dal citato art. 11 delle “preleggi” (“la legge non dispone che per l’avvenire”), in forza della quale, ove non sia il legislatore stesso a disporre in via retroattiva – e ciò può avvenire espressamente (anche tramite norma di interpretazione autentica) ovvero implicitamente (la retroattività essendo anche desumibile, se inequivocabile, in via interpretativa dalla disposizione interessata) -, un tale potere non è esercitabile dal giudice, neppure per il tramite del procedimento analogico, essendo l’efficacia temporale della fonte disponibile solo per il legislatore e pure per esso in termini tali da non poterne fare uso arbitrario (tra le molte, Corte cost., sentenze n. 104 e n. 194 del 2018; Cass., S.U., 13 novembre 2019, n. 29459 e Cass., S.U., 7 maggio 2020, n. 8631).
L’efficacia retroattiva di una norma è, infatti, attributo eccezionale di essa, che deroga, per l’appunto, alla regola posta dal richiamato art. 11, la quale, sebbene non assistita da garanzia costituzionale (giacché a tale livello l’irretroattività della legge trova presidio immediato soltanto nella materia penale: art. 25 Cost.), fonda pur sempre un vincolo tendenziale nell’attività dello stesso legislatore, che non può debordare (Cass., S.U., n. 8631 del 2020, citata) da quei limiti (seppure non assoluti, ma bilanciabili con altri principi costituzionali) che il Giudice delle leggi ha inteso come “valori di civiltà giuridica”, tra cui, eminentemente, “il rispetto del principio di ragionevolezza”, “la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto”, “la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico”, “il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario” (tra le molte, sentenze n. 397 del 1994, n. 209 del 2010, n. 308 del 2013, n. 69 del 2014).
Limiti, o almeno alcuni dei quali (la certezza del diritto e la tutela dell’affidamento), che sono ritenuti cogenti (e non solo per legislatore, ma anche per il formante giurisprudenziale) pure in ambito di diritto sovranazionale, sia eurounitario (come, in particolar modo, messo in risalto dalla stessa ordinanza interlocutoria n. 5022 del 2020, che ha richiamato le sentenze della Corte di giustizia del 14 aprile 1970, in causa C-68/69; del 7 luglio 1976, in causa C-7/76; del 16 giugno 1998, in causa C-162/96), che convenzionale.
Ambito, quest’ultimo, nel quale, peraltro, si rende maggiormente aderente al thema decidendum la tutela somministrata, più che dall’art. 6 CEDU (giacché rilevante essenzialmente allorquando la legge retroattiva venga ad influenzare indebitamente controversie nelle quali è parte lo Stato o, comunque, ad alterare il principio di parità delle armi), dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa Convenzione, nella lata accezione che la stessa Corte EDU fornisce della protezione della proprietà (attraverso la nozione di “bene” inteso come diritto patrimoniale: tra le altre, Corte EDU, sentenza del 7 giugno 2012, Centro Europa s.r.l. c. Italia), per l’incidenza pregiudizievole della norma retroattiva sul legittimo affidamento di rilevanza economica che il privato possa aver maturato in virtù della (interpretazione giurisprudenziale, nella specie, della) legislazione previgente.
4.3.2.1. – Tuttavia, proprio in riferimento alla tutela del legittimo affidamento nella sicurezza giuridica e della certezza del diritto (che, nei termini sopra precisati, sono anche parte dello statuto del precedente nomofilattico), la garanzia costituzionale cessa con l’entrata in vigore della legge, non potendosi estendere sino a coprire modificazioni pro futuro dell’assetto normativo vigente. Ciò che, del resto, è affermazione di principio che si rinviene anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, che sovente ha ritenuto che il principio del legittimo affidamento “non può essere esteso fino a impedire, in generale, che una nuova disciplina si applichi agli effetti futuri di situazioni sorte sotto l’impero della disciplina anteriore” (sentenza 29 giugno 1999, in C-60/98; sentenza 3 settembre 2015, A2A, C-89/14; sentenza 26 maggio 2016, in C-260/14 e C-261/14).
Con l’avvento della nuova legge si pone, dunque, un problema di effetti intertemporali rispetto alla disciplina previgente, che, se non regolati quest’ultimi direttamente dal legislatore tramite disposizioni che modulano la transizione dalla vecchia disciplina alla nuova (e, dunque, intervengono sui profili di eventuale ultrattività della prima o retroattività della seconda), sono da risolversi in base alla teoria del c.d. “fatto compiuto”, che questa Corte da tempo risalente ha inteso seguire in modo costante (tra le altre, Cass., S.U., 12 dicembre 1967, n. 2926, Cass., 20 marzo 1969, n. 858, Cass., 11 luglio 1975, n. 2743, Cass., 29 aprile 1982, n. 2705; Cass., 28 aprile 1998, n. 4327, Cass., 28 settembre 2002, n. 14073, Cass., 3 luglio 2013, n. 16620, Cass., 2 agosto 2016, n. 16039, Cass., 13 ottobre 2016, n. 20680, Cass., 14 ottobre 2019, n. 25826, Cass., S.U., n. 29459 del 2019, citata).
La retroattività normativa, infatti, è da apprezzarsi come sussistente allorquando una disposizione di legge introduca, sulla base di una nuova qualificazione giuridica di fatti e rapporti già assoggettati all’imperio di una legge precedente, una nuova disciplina degli effetti che si sono già esauriti sotto la legge precedente, ovvero una nuova disciplina di tutti gli effetti di un rapporto posto in essere prima dell’entrata in vigore della nuova norma, senza distinzione tra effetti verificatisi anteriormente o posteriormente alla nuova disposizione, pur essendo possibile separare ontologicamente gli uni dagli altri e non sussistendo tra i medesimi un rapporto di inerenza o dipendenza.
Non è dato, invece, ravvisare la retroattività di una norma allorché essa disciplini status, situazioni e rapporti che, pur costituendo lato sensu effetti di un pregresso fatto generatore (previsti e considerati nel quadro di una diversa normazione), siano distinti ontologicamente e funzionalmente (indipendentemente dal loro collegamento con detto fatto generatore), in quanto suscettibili di una nuova regolamentazione mediante l’esercizio di poteri e facoltà non consumati sotto la precedente disciplina. E tanto si verifica mediante la sopravvenuta introduzione di nuovi presupposti, condizioni e facoltà per il riconoscimento di diritti e obblighi inerenti al pregresso fatto generatore, ovvero mediante la sopravvenuta soppressione o limitazione dei presupposti, condizioni e facoltà per il riconoscimento suddetto, se ancora non avvenuto definitivamente.
4.4. – Sulla scorta di tali più generali premesse occorre, quindi, considerare che, sino al momento dell’entrata in vigore della legge 4 agosto 2017, n. 124 (e, segnatamente, del suo art. 1, commi 136- 140), il leasing è rimasto sostanzialmente un contratto soltanto socialmente tipico, articolato in distinte forme e strutture dalla pratica commerciale, unificate dall’operazione di finanziamento volta a consentire ad un soggetto (il c.d. utilizzatore o lessee) il godimento di un bene (transitorio o finalizzato al definitivo acquisto del bene stesso) grazie all’apporto economico di un soggetto abilitato al credito (il c.d. concedente o lessor) il quale, con proprie risorse finanziarie, consente all’utilizzatore di soddisfare un interesse che, altrimenti, non avrebbe avuto la possibilità o l’utilità di realizzare, attraverso il pagamento di un canone che si compone, in parte, del costo del bene e, in parte, degli interessi dovuti al finanziatore per l’anticipazione del capitale (così Cass., S.U., 5 ottobre 2015, n. 19785).
In questo contesto, pertanto, è sorta e si è sviluppata la distinzione tra leasing traslativo e di godimento (come innanzi ricordata), che porta come conseguenza rilevante quella della diversificazione delle rispettive discipline in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore.
Nel leasing di godimento, la risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite, secondo quanto disposto dall’art. 1458 primo comma, secondo periodo, c.c., in tema di contratti ad esecuzione continuata e periodica, riscontrandosi piena sinallagmaticità tra le reciproche prestazioni, sicché, l’utilizzatore è tenuto a restituire il bene, mentre il concedente ha diritto a mantenere le rate riscosse, oltre al risarcimento del danno per l’inadempimento verificatosi.
Nel leasing traslativo, la risoluzione resta soggetta all’applicazione in via analogica delle disposizioni di cui all’art. 1526 c.c., con riguardo alla vendita con riserva della proprietà, per cui l’utilizzatore è obbligato alla restituzione del bene e il concedente alla restituzione delle rate riscosse, avendo, però, diritto ad un equo compenso per la concessione in godimento del bene e il suo deprezzamento d’uso, oltre al risarcimento del danno.
La ragione di questa distinzione nella disciplina degli effetti risolutori tra le due figure di leasing è quella di far fronte, nel caso di leasing traslativo, all’esigenza di porre un limite al dispiegarsi dell’autonomia privata là dove questa venga, sovente, a determinare arricchimenti ingiustificati del concedente, il quale, seguendo lo schema da lui predisposto, si troverebbe a conseguire (la restituzione del bene e l’acquisizione delle rate riscosse, oltre, eventualmente, il risarcimento del danno, ossia) più di quanto avrebbe avuto diritto di ottenere per il caso di regolare adempimento del contratto da parte dell’utilizzatore stesso (tra le molte, Cass., 4 luglio 1997, n. 6034).
Ed è questa l’esigenza che, del pari, costituisce la ragione giustificativa della complessiva disciplina recata dall’art. 1526 c.c. in tema di vendita con riserva di proprietà, come del resto si evince già dalla Relazione del Ministro Guardasigilli al codice civile del 1942, ivi declinandosi chiaramente l’intento di ovviare, nella fase patologica del rapporto, agli abusi della prassi commerciale nei confronti della posizione del compratore e, al tempo stesso, a fornire equilibrata tutela pure al venditore, attraverso la previsione dell’equo compenso e del risarcimento del danno, anche in quest’ultimo caso, però, avendo di mira, attraverso la previsione dell’istituto della riduzione della penale eccessiva, l’equità contrattuale e il contrasto ad ogni indebita locupletazione ingenerata dall’autonomia privata.
4.5. – La legge del 2017 è stata preceduta, comunque, da taluni interventi legislativi, ma di portata eminentemente settoriale, volti a regolare aspetti o modelli peculiari del leasing finanziario, come gli effetti dello scioglimento del contratto a seguito del fallimento dell’utilizzatore (art. 72-quater I.f., introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006 (dal 10 settembre 2021, art. 177 del d.lgs. n. 14 del 2019, recante “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155”) ovvero gli effetti dello scioglimento del medesimo contratto nell’ambito del concordato preventivo (art. 169 bis, quinto comma, I.f., come introdotto dal d.l. n. 83 del 2015, convertito, con modificazioni, nella legge n. 132 del 2015), nonché la disciplina di una specifica tipologia di leasing, quello di immobile da adibire ad abitazione principale (art. 1, commi 74-80, della legge n. 208 del 2015).
L’art. 1, commi 136-140, della legge n. 124 del 2017, superando, quindi, la logica della regolamentazione specifica e settoriale, ha fornito una tipizzazione legale del contratto di leasing finanziario in termini di fattispecie generale e unitaria (facendo convergere in un unico tipo il leasing di godimento e quello traslativo: segnatamente in tal senso il comma 136), mutuandone morfologia e funzione da un radicato substrato economico-sociale, così da plasmare in disciplina positiva l’esperienza lungamente maturata nel contesto regolatorio dell’autonomia privata, alimentato, costantemente, anche dall’attività ermeneutica della giurisprudenza.
La regolamentazione tipica si sofferma, anzitutto, sul profilo dell’inadempimento dell’utilizzatore, stabilendo (comma 137) che “(c)ostituisce grave inadempimento … il mancato pagamento di almeno sei canoni mensili o due canoni trimestrali anche non consecutivi o un importo equivalente per i leasing immobiliari, ovvero di quattro canoni mensili anche non consecutivi o un importo equivalente per gli altri contratti di locazione finanziaria”.
Le conseguenze dell’inadempimento dell’utilizzatore “ai sensi del comma 137”, in termini di risoluzione del contratto sono dettate dal comma 138, che (allineandosi, nella sostanza anche se con talune differenze, ai pregressi assetti regolatori specifici e settoriali), prevede che “il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotte la somma pari all’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, nonché le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita.
Resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente nei confronti dell’utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene è inferiore all’ammontare dell’importo dovuto dall’utilizzatore a norma del periodo precedente”.
Il successivo comma 139 regola una specifica procedura per la vendita o la riallocazione del bene concesso in godimento, nel rispetto dei valori di mercato e in base a “criteri di celerità, trasparenza e pubblicità adottando modalità tali da consentire l’individuazione del migliore offerente possibile, con obbligo di informazione dell’utilizzatore”. Infine, il comma 140 fa salva la disciplina settoriale, sia quella dettata dall’art. 72-quater L.f., sia quella del leasing immobiliare per abitazione principale, di cui alla legge n. 208 del 2015.
4.5.1. – La disciplina recata dalla legge n. 124 del 2017 non ha, però, carattere retroattivo, essendo essa priva degli indici che consentono di riconoscerle efficacia regolativa per il passato, non avendo in tal senso disposto lo stesso legislatore, né proponendosi la novella di operare una interpretazione autentica di un assetto legale precedente, in quanto essa interviene, in modo innovativo, a colmare una lacuna ordinamentale circa la disciplina del contratto di locazione finanziaria, cui soltanto il formante giurisprudenziale aveva posto rimedio attraverso l’integrazione analogica di cui si è già detto.
L’efficacia della legge del 2017 è, dunque, pro-futuro, senza che il legislatore si sia, però, preoccupato di dettare una disciplina intertemporale, avuto riguardo ai rapporti contrattuali in corso di svolgimento al momento della sua entrata in vigore. Disciplina che, pertanto, occorre individuare in forza del già ricordato principio (o teoria) del c.d. “fatto compiuto”, che, come detto, questa Corte ha enunciato come regolatore delle interferenze dello jus superveniens sui rapporti giuridici suscettibili di esservi incisi e, tra questi, quelli di durata, tra cui, per l’appunto, il contratto di leasing.
4.5.1.1. – Deve ritenersi che l’applicazione della nuova legge è consentita, nei confronti di contratto di leasing finanziario concluso antecedentemente alla sua entrata in vigore (e che sia sussumibile nella fattispecie delineata dal comma 136; là dove, di norma, tale riscontro è positivo, giacché detta fattispecie negoziale mutua morfologia e funzione del tipo dalla realtà socio-economica), allorché, ancora in corso di rapporto, non si siano ancora verificati i presupposti (legali o convenzionali) della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore: ossia non si sia verificato, prima dell’entrata in vigore di detta legge, il fatto generatore degli effetti giuridici derivanti dalla applicazione del diritto previgente.
La nuova regolamentazione (e, segnatamente, quella dettata dai commi 137 e 138) incide, sul piano funzionale, sullo svolgimento del rapporto negoziale, ma non anche, sul piano genetico, sulla fattispecie che lo origina (ossia, investe il contratto non come “fatto storico”, quanto come regolamento programmatico di interessi), disciplinandone il profilo patologico dell’inadempimento dell’obbligazione fondamentale gravante sull’utilizzatore, quella del pagamento dei canoni (c.d. inadempimento finanziario), tipizzando rigidamente la misura della gravità della condotta idonea a determinare la risoluzione del contratto di leasing e sottraendo al giudice quella valutazione che l’art. 1455 c.c., quale norma generale, declina in termini elastici.
Valutazione, quest’ultima, che, però, rimane necessaria (non solo per l’inadempimento che concerne il lato del concedente, ma anche) per inadempimenti dell’utilizzatore diversi da quello scolpito dal comma 137, riguardanti, ad esempio, il lato gestionale (utilizzo, manutenzione, conservazione, etc.) del bene concesso in leasing.
In altri termini, il “fatto compiuto” è, nella specie, quello che genera la responsabilità del debitore (l’utilizzatore) ai sensi dell’art.1218 c.c. e cioè l’inadempimento – quale evento attinente al rapporto – che è idoneo a legittimare, come effetto, la risoluzione del contratto; inadempimento che la legge n. 124 del 2017 tipizza (plasmandolo come presupposto settoriale) in guisa tale da determinare il discrimine tra il “prima” e il “dopo” ai fini dell’applicazione della novella.
E il comma 137 – al pari del successivo comma 138, che disciplina gli effetti della risoluzione contrattuale in modo indefettibilmente collegato (per dettato normativo) all’inadempimento declinato dal comma 137 – è norma imperativa, non avendo altrimenti ragione d’essere la tipizzazione ex lege della gravità dell’inadempimento (ancorata al mancato pagamento di un certo numero di canoni mensili o trimestrali) a fronte di possibili deroghe pattizie (del resto, quasi sempre presenti nella prassi commerciale), che attribuiscono al concedente il potere risolutivo per il mancato pagamento di un solo canone o, comunque, di inadempimenti di carattere finanziario ben meno gravi di quello contemplato dalla norma anzidetta.
Questo, peraltro, comporta l’inefficacia ex nunc della clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.), apposta a contratto di leasing in corso che non abbia ancora maturato i presupposti della risoluzione ai sensi del citato comma 137, ove calibrata in termini diversi e meno favorevoli per l’utilizzatore di quanto previsto dalla legge con norma imperativa per l’inadempimento di tipo finanziario.
La novella legislativa, dunque, viene a condizionare la stessa autonomia contrattuale delle parti nel senso di impedire alla clausola contraria alla sopravvenuta norma non derogabile (in pejus, in quanto stabilita a tutela dell’utilizzatore stesso) di operare dal momento di entrata in vigore di quest’ultima, ossia di giustificare effetti del regolamento contrattuale che non si siano già prodotti.
Né, del resto, la stessa clausola risolutiva espressa, in contrasto con lo jus superveniens a carattere imperativo, sarebbe, come tale, in grado di poter determinare quelle peculiari conseguenze della risoluzione disciplinate dal menzionato comma 138, in quanto queste, come detto, sono dalla legge correlate allo specifico fatto- inadempimento previsto dal comma 137.
4.6. – Non può, dunque, la legge n. 124 del 2017 trovare applicazione per il passato, ossia per i contratti di leasing finanziario in cui si siano già verificati, prima della sua entrata in vigore, presupposti della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore (essendo, quindi, stata proposta domanda giudiziale di risoluzione ex art. 1453 c.c. o avendo il concedente dichiarato di avvalersi della clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c.), con la conseguenza che gli effetti risolutori non potranno essere, per detti contratti, quelli disciplinati dal comma 138 dell’art. 1 della medesima legge (ai quali si correla, poi, il procedimento di vendita o riallocazione del bene regolato dal successivo comma 139).
4.6.1. – Né è predicabile l’esito – fatto proprio dall’orientamento giurisprudenziale inaugurato dalla citata Cass. n. 8980 del 2019 – di una applicazione analogica della disciplina dettata dall’art. 72-quater l.f., in caso di scioglimento di contratto di leasing ad opera del curatore nell’ambito di procedura fallimentare, siccome assunta in guisa di principio generale proprio alla luce, retrospettiva, della novella legislativa del 2017 e in forza del comune denominatore, tra le due fattispecie, rappresentato dalla attribuzione al concedente del diritto alla restituzione del bene concesso in godimento e all’utilizzatore o alla curatela del ricavato della vendita o di altra allocazione del bene medesimo, detratto l’ammontare del credito residuo (nella portata specificamente stabilita per ciascuna fattispecie interessata).
E’ jus receptum (tra le altre, Cass., 9 febbraio 2016, n. 2538, Cass., 13 febbraio 2017, n. 3750, Cass., 7 settembre 2017, n. 20890, Cass., 15 settembre 2017, n. 21476, Cass., 12 giugno 2018, n. 15202, Cass., 18 giugno 2018, n. 15975, Cass., 17 aprile 2019, n. 10733, Cass., 24 gennaio 2020, n. 1581) che l’art. 72-quater I.f., introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006 – sebbene quanto agli effetti da essa regolati ha superato la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, assumendo a proprio fondamento una disciplina unitaria del leasing improntata alla causa del contratto di finanziamento – è norma, di natura eccezionale, a valenza e portata endoconcorsuale, presupponendo lo scioglimento, per volontà del curatore e quale conseguenza del fallimento, del contratto ancora pendente a quel momento.
Sicché, la norma fallimentare mantiene salda la distinzione strutturale esistente tra la nozione di risoluzione contrattuale e quella di scioglimento del contratto, quale facoltà riconosciuta ad una pluralità di rapporti pendenti tra il contraente ed il fallito, tra i quali, per l’appunto, anche il leasing, che rientra nel novero dei contratti che – al momento dell’apertura del concorso – restano sospesi secondo la regola generale di cui all’art. 72, primo comma, I.f.
Del resto, proprio nell’ambito di detta distinzione, si apprezza la diversità di tutela somministrata dai due istituti, quello dello scioglimento contrattuale volto a riconoscere tendenzialmente solo una tutela restitutoria e non anche risarcitoria (secondo quanto si evince anche dal quarto comma dell’art. 72 I.f.), come invece accorda il rimedio generale della risoluzione per inadempimento, la cui azione potrà essere coltivata nei confronti della procedura ove promossa prima della dichiarazione di fallimento, dovendo il contraente far valere le conseguenti pretese restitutorie e di risarcimento del danno ai sensi degli artt. 92 e ss. l.f., come stabilito dal quinto comma del citato art. 72.
Ed è proprio in ragione di tutte le evidenze appena elencate che il “diritto vivente” ha escluso – in assenza di una eadem ratio e di simili elementi, strutturali e/o funzionali, rilevanti – che la disciplina dettata dall’art. 72-quater I.f. potesse trovare applicazione analogica in caso di contratto di leasing finanziario risolto, per inadempimento dell’utilizzatore, prima del fallimento di quest’ultimo, avendo invece rinvenuto la disposizione idonea a colmare la lacuna ordinamentale, in coerenza con i criteri di cui all’art. 12 delle preleggi, in quella generale codicistica dell’art. 1526 c.c., in ipotesi di leasing traslativo.
Ma tale giuridica configurazione dell’art. 72-quater l.f. non ha subito una trasmutazione con l’avvento della disciplina di cui all’art. 1, comma 136-140, della legge n. 124 del 2017, la quale, anzi, al citato comma 140 ha stabilito che “(r)estano ferme le previsioni di cui all’articolo 72-quater del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (…)”, con ciò ribadendo la specialità della norma fallimentare e la sua portata circoscritta all’ambito di specifica pertinenza.
L’assunto, quindi, che l’art. 72-quater l.f. possa costituire la disposizione applicabile analogicamente ad un contratto di leasing finanziario risolto prima dell’entrata in vigore dell’art. 1, commi 136- 140, della legge n. 124 del 2017 (ma pur sempre nella vigenza della stessa norma fallimentare, altrimenti si avrebbe, secondo quanto innanzi detto, una illegittima attivazione del procedimento analogico, in quanto fondata su disposizione non presente nell’ordinamento) trova sostegno – come, peraltro, diffusamente argomentato dal pubblico ministero con le proprie conclusioni scritte – non già in una interpretazione (storico) evolutiva delle norme implicate, bensì in una operazione disallineata rispetto ai criteri posti dall’art. 12 delle preleggi e avente carattere di dissimulata applicazione retroattiva della stessa legge n. 124 del 2017, quale esito che, stante l’efficacia pro futuro di essa, è inibito al formante giurisprudenziale per le ragioni dianzi esposte.
Per i contratti di leasing traslativo, che non siano soggetti, ratione temporis, alla regolamentazione della legge anzidetta, resta, dunque, valida la soluzione adottata dal diritto vivente di individuare, per analogia legis, nella disposizione dell’art. 1526 c.c. la disciplina della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, essendo comunque sorretta da una ratio giustificativa rispondente all’esigenza di dare equilibrato assetto alle posizioni delle parti di un contratto atipico, forgiato da una risalente prassi commerciale e al quale il formante giurisprudenziale ha fornito stabilità di assetto e certezza applicativa (fattori che quella stessa prassi richiede per un suo ordinato sviluppo), rimasto tale sino all’entrata in vigore della novella legislativa del 2017, che ha tipizzato legalmente (nei termini sopra precisati) la figura, unitaria, della locazione finanziaria.
4.7. – Né la giurisprudenza di questa Corte che, da circa un trentennio, ha rinvenuto nell’applicazione analogica dell’art. 1526 c.c. la norma parametro di regolamentazione del leasing traslativo, quale traducente il regolamento pattizio social-tipico, è rimasta sorda a talune critiche provenienti dalla dottrina e a certe sollecitazioni dei giudici di merito, rivolte, in particolare, a dare, per contro, significativo rilievo alla causa di finanziamento che sostanzia (effettivamente, anche se non in modo del tutto assorbente) l’operazione commerciale in esame e, con ciò, a vitalizzare la sintesi degli interessi delle parti in una causa concreta che quell’orientamento consolidato verrebbe a mortificare.
Nello stesso “diritto vivente” si coglie, infatti, la maturata consapevolezza di quale sia la declinazione di quella causa in concreto e, quindi, dell’interesse del concedente di ottenere, nel caso di risoluzione contrattuale per inadempimento dell’utilizzatore, “l’integrale restituzione della somma erogata a titolo di finanziamento, con gli interessi, il rimborso delle spese e gli utili dell’operazione; non quello di ottenere la restituzione dell’immobile, che normalmente non rientrava fra i beni di sua proprietà alla data della conclusione del contratto, né costituiva oggetto della sua attività commerciale” (Cass., 17 gennaio 2014, n. 888).
Di qui, anzitutto il rilievo per cui l’equo compenso, ai sensi del primo comma dell’art. 1526 c.c., comprende la remunerazione del godimento del bene, il deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo e il logoramento per l’uso, ma non include il risarcimento del danno spettante al concedente, che, pertanto, deve trovare specifica considerazione (Cass., 24 giugno 2002, n. 9162, Cass., 2 marzo 2007, n. 4969, Cass., 8 gennaio 2010, n. 73, Cass., 24 gennaio 2020, n. 1581) e, secondo la sua ordinaria configurazione di danno emergente e di lucro cessante (art. 1223 c.c., che impone che il danno patrimoniale sia integralmente ristorato, in applicazione del principio di indifferenza), tale da porre il concedente medesimo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto (Cass. n. 888 del 2014 – che, tra l’altro, evoca al riguardo, sebbene soltanto in guisa di utile supporto ermeneutico e non già come diritto positivo applicabile alla fattispecie, la Convenzione Unidroit sul leasing finanziario internazionale stipulata ad Ottawa il 28 maggio 1988 e ratificata dalla legge n. 259 del 1993 – e Cass. n. 15202 del 2018, citate).
4.7.1. – Il risarcimento del danno del concedente può, però, essere oggetto di determinazione anticipata attraverso una clausola penale ai sensi dell’art. 1382 c.c. e in questo senso si è, del resto, dispiegata l’autonomia privata nella costruzione, in base a modelli standardizzati, del social-tipo “contratto di leasing”, come risulta dalla stessa casistica oggetto di cognizione giudiziale, anche da parte di questa Corte di legittimità.
In tale contesto, quindi, si è fatta applicazione del secondo comma dell’art. 1526 c.c. e del principio, già contemplato dall’art.1384 c.c. (di cui la prima disposizione è un portato specifico), della riduzione equitativa, ad opera del giudice, della penale che, sebbene comunque lecita, si palesi manifestamente eccessiva, così da ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela e riequilibrando, quindi, la posizione delle parti, avendo pur sempre riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento integrale (Cass., S.U., 13 settembre 2005, n. 18128).
Ecco, dunque, che la complessiva operazione – originatasi in seno all’autonomia privata e sussunta, attraverso l’analogia, nell’art.1526 c.c. – trova la sua compiuta regolamentazione attraverso la peculiare rilevanza che viene ad assumere il comma secondo dello stesso art. 1526 c.c., ossia la norma che disciplina la clausola penale (c.d. clausola di confisca) e, quindi, il risarcimento del danno spettante in base ad essa al concedente in ipotesi di risoluzione del contratto di leasing traslativo per inadempimento dell’utilizzatore.
Ed è attraverso lo spettro filtrante di detta disposizione che la giurisprudenza di questa Corte ha potuto selezionare quali delle clausole standardizzate dall’autonomia privata fosse o meno meritevole di tutela alla luce della ratio di evitare indebite locupletazioni in capo al concedente e rispondente, quindi, ad un equilibrato assetto delle posizioni delle parti contrattuali. Pertanto, si è ritenuto manifestamente eccessiva la penale che, mantenendo in capo al concedente la proprietà del bene, gli consente di acquisire i canoni maturati fino al momento della risoluzione, ciò comportando un indebito vantaggio derivante dal cumulo della somma dei canoni e del residuo valore del bene (tra le molte, Cass., 27 settembre 2011, n. 19732, nonché la citata Cass. n. 1581 del 2020).
E’ stata, invece, reputata coerente con la previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 1526 c.c. la penale inserita nel contratto di leasing traslativo prevedente l’acquisizione dei canoni riscossi con detrazione, dalle somme dovute al concedente, dell’importo ricavato dalla futura vendita del bene restituito (tra le altre, le citate Cass. n. 15202 del 2018 e Cass. n. 1581 del 2020, nonché Cass., 28 agosto 2019, n. 21762 e Cass., 8 ottobre 2019, n. 25031).
Trattasi, dunque, di patto che, quale espressione di una razionalità propria della realtà socio-economica, ha trovato origine e sviluppo nell’ambito dell’autonomia privata, il cui regolamento è stato, per un verso, assunto dal legislatore a parametro di una disciplina dapprima solo settoriale e specifica (tra cui quella dettata dall’art. 72-quater I.f.) e poi, da un dato momento in avanti, generale (con la legge n. 124 del 2017) e, per altro verso, dalla giurisprudenza a metro di rispondenza alla ratio della disciplina applicata analogicamente al contratto di leasing traslativo.
4.7.2. – In tale prospettiva va allora considerato che, ove la vendita o altra allocazione sul mercato del bene concesso in leasing non avvenga, non vi può essere (come precisato da Cass. n. 15202 del 2018, citata) “in concreto una locupletazione che eluda il limite … ai vantaggi perseguiti e legittimamente conseguibili dal concedente in forza del contratto”.
Per cui resta fermo il diritto dell’utilizzatore “di ripetere l’eventuale maggior valore che dalla vendita del bene (a prezzo di mercato)” ricavi il concedente, “rispetto alle utilità che [quest’ultimo] … avrebbe tratto dal contratto qualora finalizzato con il riscatto del bene” (quale tutela già settorialmente tipizzata legalmente, come detto, dallo stesso art. 72-quater I.f.).
Con l’ulteriore puntualizzazione che, nel caso in cui la clausola penale non faccia riferimento ad una collocazione del bene a prezzi di mercato, essa “dovrà esser letta negli stessi termini alla luce del parametro della buona fede contrattuale, ex art. 1375 c.c.” (così ancora Cass. n. 15202 del 2018). Se, invece, il contratto preveda una clausola penale manifestamente eccessiva (acquisizione dei canoni riscossi e mantenimento della proprietà del bene: c.d. clausola di confisca), essa, ai sensi dell’art. 1526, secondo comma, c.c. andrà ridotta dal giudice, anche d’ufficio (ove, naturalmente, la penale stessa sia stata fatta oggetto di domanda ovvero dedotta in giudizio come eccezione – in senso stretto – nel rispetto delle preclusioni di rito: Cass., 12 settembre 2014, n. 19272), nell’esercizio del potere correttivo della volontà delle parti contrattuali affidatogli dalla legge, al fine di ristabilire in via equitativa un congruo contemperamento degli interessi contrapposti (Cass., S.U., n. 18128 del 2005, citata) e, quindi, nella specie dovendo operare una valutazione comparativa tra il vantaggio che la penale inserita nel contratto di leasing traslativo assicura al contraente adempiente e il margine di guadagno che il medesimo si riprometteva legittimamente di trarre dalla regolare esecuzione del contratto (tra le altre, Cass. n. 4969 del 2007, citata, e Cass., 21 agosto 2018, n. 20840).
A tal riguardo, tenuto conto delle circostanze concrete del caso oggetto di sua cognizione, occorrerà che il giudice privilegi la soluzione innanzi evidenziata, e, quindi, ferma restando l’irripetibilità dei canoni già riscossi, provveda ad una stima del bene ai valori di mercato al momento della restituzione dello stesso (se il bene non sia stato venduto o altrimenti allocato e, dunque, in tale evenienza costituendosi a parametro i valori rispettivamente conseguiti) e, quindi, detragga il valore stimato dalle somme dovute al concedente, con eventuale residuo da attribuire – in fattispecie (come quella in esame) di fallimento dell’utilizzatore successivo alla intervenuta risoluzione contrattuale – alla curatela.
In siffatto contesto, il concedente che aspiri a diventare creditore concorrente ha l’onere di formulare una domanda di insinuazione al passivo, ex art. 93 I.f., in seno alla quale, invocando l’applicazione dell’eventuale clausola penale stipulata in suo favore, offra al giudice delegato la possibilità di apprezzare se detta penale sia equa ovvero manifestamente eccessiva; e per consentire siffatta valutazione da parte del giudice delegato, è chiaro onere dell’istante quello di indicare la somma esattamente ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto di leasing, ovvero, in mancanza, di allegare alla sua domanda una stima attendibile del valore di mercato del bene medesimo al momento del deposito della stessa.
4.8. – Il motivo di ricorso in esame è, dunque, infondato e, alla luce delle argomentazioni che precedono, vanno enunciati i seguenti principi di diritto:
«A) La legge n. 124 del 2017 (art. 1, commi 136-140) non ha effetti retroattivi e trova, quindi, applicazione per i contratti di leasing finanziario in cui i presupposti della risoluzione per l’inadempimento dell’utilizzatore (previsti dal comma 137) non si siano ancora verificati al momento della sua entrata in vigore; sicché, per i contratti risolti in precedenza e rispetto ai quali sia intervenuto il fallimento dell’utilizzatore soltanto successivamente alla risoluzione contrattuale, rimane valida la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, dovendo per quest’ultimo social-tipo negoziale applicarsi, in via analogica, la disciplina di cui all’art. 1526 c.c. e non quella dettata dall’art. 72-quater I.f., rispetto alla quale non possono ravvisarsi, nella specie, le condizioni per il ricorso all’analogia legis, né essendo altrimenti consentito giungere in via interpretativa ad una applicazione retroattiva della legge n. 124 del 2017.
- B) In base alla disciplina dettata dall’art. 1526 c.c., in caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente che aspiri a diventare creditore concorrente ha l’onere di formulare una completa domanda di insinuazione al passivo, ex art. 93 I.f., in seno alla quale, invocando ai fini del risarcimento del danno l’applicazione dell’eventuale clausola penale stipulata in suo favore, dovrà offrire al giudice delegato la possibilità di apprezzare se detta penale sia equa ovvero manifestamente eccessiva, a tal riguardo avendo l’onere di indicare la somma esattamente ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto di leasing, ovvero, in mancanza, di allegare alla sua domanda una stima attendibile del valore di mercato del bene medesimo al momento del deposito della stessa».