Cassazione civile, sez. II, ordinanza 18 ottobre 2024, n. 27042
PRINCIPIO DI DIRITTO
Deve essere data continuità al principio secondo il quale nel contratto d’opera intellettuale, qualora il committente non abbia chiesto la risoluzione del contratto per inadempimento, ma solo il risarcimento dei danni, il professionista mantiene il diritto al corrispettivo per la prestazione eseguita, in quanto la domanda risarcitoria non presuppone lo scioglimento del contratto e le ragioni del committente trovano in essa adeguata tutela.
- Con il primo motivo, rubricato “violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 1243 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n.3 c.p.c.”, il ricorrente lamenta che sia stata rigettata la domanda del direttore dei lavori ponendo a fondamento deduzioni che non erano state svolte dalla società committente COGEMI – che aveva sostenuto la responsabilità del direttore dei lavori solo per i vizi -, così incorrendo nel vizio di ultrapetizione. Evidenzia che sia in primo che in secondo grado la società committente aveva chiesto di accertare la responsabilità professionale del direttore dei lavori unitamente a quella dell’impresa appaltatrice e di condannarlo al risarcimento del danno; lamenta che la Corte d’Appello abbia rigettato la domanda di pagamento dei compensi del professionista applicando una compensazione tra crediti non oggetto di domanda di parte, per di più con riferimento a credito relativo a responsabilità professionale non quantificato e non quantificabile, con riguardo a una domanda di risarcimento dei danni che è stata rigettata. Quindi evidenzia che, una volta ritenuta infondata la domanda di risarcimento del danno in assenza di prova dei danni subiti a causa dell’operato dell’arch. A.A., non poteva essere compensata la responsabilità professionale con la sua ragione di credito.
- Con il secondo motivo, rubricato “violazione e falsa applicazione degli artt. 1460 c.c. e 2236 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.”, la ricorrente evidenzia che l’unica responsabilità posta dalla Corte d’Appello a carico del direttore dei lavori è stata quella relativa alla costruzione delle opere abusive e perciò sostiene che erroneamente la Corte abbia accolto l’eccezione di inadempimento sollevata dalla committente; ciò in quanto solo l’irrealizzabilità dell’opera avrebbe dato luogo a inadempimento dell’incarico tale da abilitare la committente a rifiutare di corrispondere il compenso, mentre l’esistenza di vizi dell’opera non escludevano il diritto del professionista al compenso per l’opera prestata, non trattandosi di vizi tali da implicare l’inutilizzabilità dell’opera non risultando neppure che la committente avesse chiesto la risoluzione del contratto. Quindi il ricorrente rileva l’inesistenza di qualsiasi vizio imputabile al direttore dei lavori, nonché il fatto che la committente era consapevole dell’esecuzione di opere abusive, in quanto le aveva essa stessa commissionate.
- Con il terzo motivo, rubricato “violazione e/o errata applicazione delle norme di cui agli artt. 2225 c.c., 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n.3 c.p.c.”, il ricorrente evidenzia che la sentenza impugnata ha accertato che l’architetto A.A. è stato direttore dei lavori e ha svolto una serie di attività, elencate nella sentenza stessa; aggiunge che erroneamente la sentenza ha dichiarato che il compenso era stato calcolato soltanto sulla scorta di un fac simile parcella, perché nell’allegato 10 al fascicolo di primo grado era stato depositato anche il modello esplicativo di calcolo sulla base dell’art. 16 della tariffa professionale; rileva che la committente non aveva neppure sollevato contestazioni sul valore dell’appalto al quale parametrare il compenso ed evidenzia che, in ogni caso, la domanda non avrebbe potuto essere rigettata, dovendosi determinare il compenso ai sensi degli artt. 1709 e 2225 cod. civ., anche senza necessità di specifica richiesta. Aggiunge che la stessa sentenza, in modo incoerente e illogico, ha dato atto delle modalità di calcolo del compenso per la direzione dei lavori, sulla base di percentuale tra 0,75% e 5% del costo complessivo delle opere di ristrutturazione, pagate per Euro 160.000,00.
- I motivi di ricorso, esaminati unitariamente stante la stretta connessione, sono fondati nei termini di seguito esposti. In primo luogo si esclude che la sentenza impugnata, nell’individuare i profili di responsabilità del direttore dei lavori, abbia violato l’art. 112 cod. proc. civ., in quanto fin dall’atto di citazione per chiamata in causa di primo grado, come risulta dalla sentenza impugnata, la società committente aveva individuato la responsabilità del direttore dei lavori per la mancata vigilanza sull’operato dell’appaltatrice. Quindi la sentenza impugnata ha individuato le condotte in cui si è concretata tale mancata vigilanza e i relativi effetti, rimanendo nell’ambito della prospettazione della committente; infatti, la sentenza ha dichiarato che l’arch. A.A. aveva il dovere di vigilare sulla corretta esecuzione del progetto ed era responsabile sia per il compimento di opere abusive sia per il mancato completamento dei lavori, la cui forzata interruzione aveva causato i vizi accertati in fase di accertamento tecnico preventivo. Invece, sono fondate le doglianze del ricorrente in ordine all’erronea applicazione dell’eccezione di inadempimento da parte della sentenza impugnata, con conseguente assorbimento delle deduzioni in ordine all’inesistenza dei presupposti per la compensazione. Deve essere data continuità al principio secondo il quale nel contratto d’opera intellettuale, qualora il committente non abbia chiesto la risoluzione del contratto per inadempimento, ma solo il risarcimento dei danni, il professionista mantiene il diritto al corrispettivo per la prestazione eseguita, in quanto la domanda risarcitoria non presuppone lo scioglimento del contratto e le ragioni del committente trovano in essa adeguata tutela (Cass. Sez. 2 24 – 3 – 2014 n. 6886 Rv. 630230 – 01, Cass. Sez. 2 6 – 12 – 2017 n. 29218 Rv. 646538 – 01, in materia di compenso del direttore dei lavori). Come si legge in Cass. 29218/2017, laddove l’opera sia affetta da vizi e difformità che non ne comportano la radicale inutilizzabilità, il committente non ne pretenda l’eliminazione diretta da parte dell’esecutore dell’opera e chieda il risarcimento del danno per l’inesatto adempimento, così come questi vizi non escludono il diritto dell’appaltatore al corrispettivo (Cass. Sez. 2 17 – 4 – 2012 n. 6009 Rv. 621959 – 01), così non escludono neppure il diritto al compenso in capo al progettista e al direttore dei lavori per l’opera professionale prestata. L’eccezione di inadempimento e x art. 1460 cod. civ. postula la proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti, in relazione all’oggettiva gravità degli stessi, avuto riguardo all’intero equilibrio del contratto da valutarsi secondo buona fede; quindi se l’opera è stata comunque eseguita, seppure con difetti che non ne escludono l’utilità, il committente ha diritto al risarcimento del danno, ma non può rifiutare il pagamento del compenso al professionista. La considerazione che nella fattispecie la domanda di risarcimento del danno nei confronti del professionista è stata rigettata sulla base dell’assunto della mancanza di prova sull’entità dei danni non consente di individuare diverso principio, ma conferma che la Corte d’Appello ha erroneamente escluso il diritto del professionista al compenso per l’attività effettivamente svolta; ciò perché la pronuncia si è risolta nell’escludere l’obbligazione di pagamento del compenso professionale in capo al committente, il quale comunque aveva ottenuto il risultato dell’opera eseguita dal direttore dei lavori, senza accertare che i vizi dell’opera ascrivibili al professionista – e perciò i danni patiti dalla committente per l’inadempimento del professionista – fossero di entità tale da estinguere per compensazione il credito del professionista. Del resto, non hanno rilievo le deduzioni della controricorrente in ordine all’inapplicabilità alla fattispecie dei principi posti da Cass. 29218/2017 e Cass. 6886/2014 per la mancanza nella fattispecie di contratto tra le parti: a fronte del rigetto del motivo di appello proposto da COGEMI Spa sostenendo che tra la società e il professionista non era stato concluso alcun contratto, l’esistenza tra le parti di contratto d’opera professionale è oggetto di accertamento passato in giudicato. Sono altresì fondate le deduzioni del ricorrente con riguardo alla violazione dell’art. 2225 cod. civ. commessa dalla sentenza impugnata laddove non ha provveduto alla determinazione del compenso spettante al professionista per l’opera prestata. I rilievi svolti nella sentenza in ordine alle modalità di quantificazione dell’importo richiesto, in ordine al fatto che era stato richiesto il compenso anche per attività non eseguite, in ordine al fatto che il compenso richiesto risultava eccessivo in relazione alle attività effettivamente eseguite e in ordine alla corresponsabilità del direttore dei lavori nella causazione dei vizi non consentivano il rigetto della domanda, ma imponevano di determinare il compenso sulla base di tutti gli elementi emersi in causa, sulla base della quantità e qualità delle prestazioni eseguite e considerando il risultato utile conseguito dal committente anche in relazione ai profili di colpa ascrivibili al professionista. Infatti, è acquisito anche il principio secondo il quale, in tema di compenso per l’attività svolta dal professionista il giudice, indipendentemente dalla specifica richiesta del medesimo, pure a fronte di risultanze processuali carenti sul quantum e pure in mancanza di tariffe professionali e di usi, non può rigettare la domanda di pagamento del compenso, ma deve determinare il compenso ai sensi degli artt. 1709 e 2225 cod. civ. con criterio equitativo ispirato alla proporzionalità del corrispettivo con la natura, quantità e qualità delle prestazioni eseguite e con il risultato conseguito dal committente (Cass. Sez. 2 24 – 4 – 2018 n. 10057 Rv. 648317 – 01, Cass. Sez. 2 31 – 3 – 2014 n. 7510 Rv. 630722 – 01, Cass. Sez. 18 – 9 – 1995 n. 9829 Rv. 494057 – 01).
- Ne consegue che, nei limiti di accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione, che deciderà facendo applicazione dei principi esposti e attenendosi a quanto sopra ritenuto, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.