Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 12 novembre 2021, n. 33848
PRINCIPIO DI DIRITTO
La mancata rimessione di una questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 TFUE, in linea con la giurisprudenza della Corte medesima, è legittima qualora non sussista un reale dubbio interpretativo di carattere giuridico, da risolvere con riguardo alla normativa comunitaria e sovranazionale, tale da imporre la rimessione della questione interpretativa di cui trattasi. Ovviamente, l’inoppugnabile chiarezza della normativa Europea deve essere oggetto di pertinente motivazione da parte del giudice nazionale.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
- Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 111 Cost., comma 8, e all’art. 362 c.p.c., comma 1, eccesso di potere giurisdizionale per violazione del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, artt. 4 e 7 (Codice del processo amministrativo).
Sostiene la società ricorrente che soltanto con il D.L. n. 148 del 2017, art. 19 quinquiesdecies, sarebbe stato attribuito all’AGCOM, in caso di accertata violazione dell’obbligo di fatturazione, il potere di adottare misure restitutorie o indennitarie, mentre prima della citata norma non vi era alcuna disposizione che consentisse all’Autorità di impartire agli operatori telefonici un ordine come quello di cui alle delibere n. 497/17 e 115/18. Il Consiglio di Stato avrebbe erroneamente preteso di ricondurre la legittimità dei provvedimenti dell’Autorità alla L. n. 481 del 1995, ipotizzando che l’Autorità abbia fatto ricorso ad un potere conformativo e non sanzionatorio. In realtà, rileva la ricorrente, le autorità di regolazione “sono abilitate a prevedere meccanismi di indennizzo”, ma questi devono essere previsti ex ante, nell’an e nel quantum, da disposizioni di carattere generale. Nella specie, invece, nella sentenza impugnata il Consiglio di Stato si sarebbe arrogato un potere normativo, posto che soltanto con l’entrata in vigore del D.L. n. 148 del 2017, art. 19 quinquiesdecies, i provvedimenti emanati dall’Autorità hanno trovato un fondamento legislativo.
Oltre a ciò, la censura lamenta anche eccesso di potere consistente nell’essersi il Consiglio di Stato pronunciato su materie rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario, avallando l’imposizione dell’obbligo di storno da parte dell’AGCOM a carico delle società telefoniche. Il meccanismo di storno, come delineato dalle tre delibere n. 497/17, n. 115/18 e n. 269/18, si porrebbe “al di fuori della dimensione para-giurisdizionale, muovendo dalla dimensione sanzionatoria e poi approdando su quella conformativa-prescrittiva”; per cui la sentenza impugnata avrebbe avallato la linea dell’Autorità nel senso di “integrare una sorta di public enforcement di asserite pretese restitutorie dei consumatori”.
La doglianza auspica, inoltre, un ampliamento del sindacato delle Sezioni Unite sulle pronunce del Consiglio di Stato, perchè l’impossibilità di verificare la correttezza dell’uso della giurisdizione da parte del giudice amministrativo contrasterebbe “con il principio costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale“.
1.1. Il motivo contiene due diverse censure, che devono essere esaminate separatamente.
1.2. La prima censura, precisa la Corte, prospetta un eccesso di potere giurisdizionale c.d. da sconfinamento, perchè ipotizza che il Consiglio di Stato, nel ricostruire il complesso evolversi della normativa rilevante, si sarebbe, in sostanza, sostituito al legislatore, ritenendo già esistente in capo all’AGCOM un potere sanzionatorio e conformativo che sarebbe stato istituito soltanto con una norma di legge ad hoc, entrata in vigore successivamente all’emanazione delle delibere dell’Autorità oggetto dei ricorsi giurisdizionali proposti dalla società Wind.
1.3. Tale censura non è fondata.
E’ opportuno ricordare, osserva la Corte, che la giurisprudenza di queste Sezioni Unite, sollecitata in più occasioni a pronunciarsi in argomento, ha affermato che l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata al legislatore è configurabile solo allorché il giudice speciale abbia applicato non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete, e non invece quando si sia limitato al compito interpretativo che gli è proprio; e ciò anche se tale attività ermeneutica abbia dato luogo ad un provvedimento abnorme o anomalo ovvero abbia comportato uno stravolgimento delle norme di riferimento, atteso che in questi casi può profilarsi, eventualmente, un error in iudicando, ma non una violazione dei limiti esterni della giurisdizione (sentenze 25 marzo 2019, n. 8311, 4 dicembre 2020, n. 27770, 7 luglio 2021, n. 19244, nonchè la recentissima ordinanza 3 novembre 2021, n. 31311, pubblicata successivamente alla decisione del presente ricorso ma deliberata in data 28 settembre 2021).
La citata giurisprudenza, pertanto, ha chiarito che il controllo del limite esterno della giurisdizione, che l’art. 111 Cost., comma 8, affida alla Corte di cassazione, non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errores in iudicando o errores in procedendo (ordinanza 10 maggio 2019, n. 12586); e che l’ammissibilità del sindacato da parte di queste Sezioni Unite non è in rapporto con la gravità o intensità del presunto errore di interpretazione, il quale rimane confinato entro i limiti interni della giurisdizione amministrativa, anche perché l’interpretazione delle norme costituisce il proprium distintivo dell’attività giurisdizionale.
Il Consiglio di Stato, tenendo a mente questi insegnamenti, è rimasto nel perimetro dell’attività di interpretazione che gli appartiene, senza compiere lo sconfinamento che la società ricorrente lamenta.
La sentenza impugnata, come si è detto, ha ricostruito il sistema sanzionatorio che fa da sfondo normativo alle delibere emesse dall’AGCOM nella vicenda in esame, prendendo le mosse dalla normativa generale di cui alla L. n. 481 del 1995, della quale ha richiamato, in particolare, l’art. 2, comma 12, lett. d), e h), nonchè il comma 20, lett. d), e il comma 37. In base a tale premessa, il Consiglio di Stato ha ricondotto l’attività dell’AGCOM all’esercizio di un potere conformativo e non sanzionatorio, riconoscendo che la possibilità di concedere un indennizzo ai consumatori si fondava su di un rimedio generale già previsto dalla citata legge. Rispetto alla legislazione di cui alla L. n. 481 del 1995, sulle Autorità di regolazione, il D.L. n. 148 del 2017, art. 19 quinquiesdecies, introdotto dalla legge di conversione n. 172 del 2017, ha rappresentato, nell’interpretazione del Consiglio di Stato, null’altro che “una norma che definisce erga omnes e, soprattutto, al di fuori della lite in esame, il sistema di fatturazione per tutti i servizi di TLC”. Per cui l’intervento del legislatore non avrebbe fatto altro che “completare quello che l’atto di regolazione aveva già stabilito”.
Tale ricostruzione, soggiunge la Corte, si adatta chiaramente anche alla contestata misura dello “storno” prevista dall’AGCOM nelle delibere in esame, che il Consiglio di Stato ha in modo palese ricondotto, nel quadro normativo anteriore all’entrata in vigore del citato art. 19 quinquiesdecies, alla disposizione della L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 20, lett. d).
Come si vede da questi rapidi richiami, il Giudice amministrativo di appello è rimasto nel perimetro di un’attività interpretativa volta alla fissazione dei limiti stabiliti dalla legge ai poteri dell’AGCOM, senza che trovi fondamento l’ipotizzato eccesso di potere da sconfinamento.
1.4. La seconda censura di cui al motivo in esame lamenta, invece, un diverso profilo di eccesso di potere giurisdizionale, consistente nell’essersi il Consiglio di Stato asseritamente pronunciato su materie rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario (c.d. difetto relativo di giurisdizione).
Tale doglianza è fondata sull’affermazione, più volte ribadita, per cui la decisione del Consiglio di Stato sarebbe intervenuta “su temi che attengono a rapporti interprivatistici e, quindi, di competenza del giudice ordinario, esorbitando dalla giurisdizione del giudice amministrativo”.
Rileva il Collegio che questa doglianza è priva di fondamento.
Anche volendo lasciare in disparte la circostanza per cui è stata la stessa odierna società ricorrente a rivolgersi al giudice amministrativo senza operare distinzioni di sorta, è comunque decisivo il rilievo che la spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo deriva dal fatto che le misure conformative e ripristinatorie emesse dall’AGCOM rappresentano esplicazione di un potere ad essa conferito dalla legge. Nel caso in esame, cioè, siamo nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo riconosciuta dall’art. 133, comma 1, lett. l), c.p.a., che ricomprende tutti i provvedimenti, “compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti ai rapporti di impiego privatizzati”, delle Autorità di regolazione istituite ai sensi della citata L. n. 481 del 1995, fra le quali rientra L’AGCOM. Non può sostenersi, pertanto, che il Consiglio di Stato si sia ingerito in un rapporto di natura privatistica, perchè la natura privatistica contraddistingue il rapporto che lega il singolo utente con la società erogatrice del servizio telefonico (nel caso, la Wind); ma ciò che viene in evidenza, ai fini dell’attribuzione della giurisdizione, è invece la riconducibilità della causa odierna all’esercizio del potere di regolazione riconosciuto all’Autorità, rispetto al quale le misure conformative disposte non sono altro che una conseguenza derivante in automatico.
Da tali argomenti deriva la conclusione che il Consiglio di Stato non si è, nel caso in esame, pronunciato in un ambito devoluto alla giurisdizione del giudice ordinario.
- Con il secondo motivo di ricorso, prosegue la Corte, si lamenta eccesso di potere giurisdizionale per violazione dei medesimi parametri di cui al motivo precedente, sotto altri punti di vista.
Secondo una prima censura, la società ricorrente afferma che il Consiglio di Stato avrebbe alterato “il regolamento e l’equilibrio contrattuale dei rapporti di cui trattasi”, andando in questo modo a configurare un “fatto costitutivo di nuove prestazioni patrimoniali”. La sentenza impugnata, rigettando i ricorsi contro i provvedimenti dell’AGCOM, avrebbe determinato una prestazione patrimoniale imposta, per di più sine causa, a carico della società ricorrente, ipotizzando la sussistenza di un diritto al reintegro, in capo ai clienti consumatori, che avrebbe potuto, semmai, essere riconosciuto soltanto dal giudice ordinario (come la sentenza stessa finisce per l’ammettere).
Nella seconda parte della censura la società Wind lamenta che il Consiglio di Stato, non raccogliendo la sollecitazione da essa avanzata, abbia rifiutato di rimettere alla Corte di giustizia UE la decisione delle questioni pregiudiziali prospettate. Dopo aver ribadito quanto detto a proposito del carattere asseritamente indebito dello storno posto a carico della società telefonica, la ricorrente ricorda di aver sollecitato il Consiglio di Stato a rimettere alla Corte Europea due questioni di interpretazione, relative all’ipotizzato contrasto delle delibere dell’AGCOM con la normativa Europea nella parte in cui esse hanno posto un obbligo di restituzione che si sostanzia in una prestazione patrimoniale imposta.
Il Giudice amministrativo, sostiene la ricorrente, non avrebbe risposto sul punto, senza motivare sulle ragioni del mancato sollevamento delle questioni e sottraendo, in tal modo, la parte al suo giudice naturale.
2.1. Il motivo è privo di fondamento.
2.2. Per quanto concerne la prima parte dello stesso incentrato, come si è detto, sulla prospettata ingerenza del giudice amministrativo in un terreno di appartenenza del giudice ordinario le Sezioni Unite rilevano trattarsi di una censura in larga misura ripetitiva di quella già esaminata a proposito del primo motivo. La società ricorrente lamenta che la causa avrebbe ad oggetto il “diritto del somministrato ad una restituzione o reintegro a fronte di un (supposto) indebito vantaggio trattenuto dal somministrante in sede di esecuzione del rapporto: aspetti questi che, ove esistenti – quod non – avrebbero dovuto essere azionati dalla parte interessata dinanzi alla giurisdizione ordinaria”.
Non resta, quindi, osserva la Corte, che ribadire quanto si è già detto a proposito dell’evidente prevalenza, rispetto alla controversia di carattere privatistico, dell’esercizio da parte dell’AGCOM dei poteri ad essa conferiti dalla legge; elemento che consente di ricondurre la causa alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
2.3. Diversa è, invece, la seconda censura prospettata nel motivo in esame, nel quale la doglianza va ad intrecciarsi col delicato problema della possibilità di riconoscere un eccesso di potere giurisdizionale dei giudici speciali in relazione ai rapporti tra l’ordinamento interno e l’ordinamento Eurounitario, con conseguenti ricadute sull’obbligo (o facoltà) di rimessione di questioni interpretative alla Corte di giustizia dell’Unione Europea (art. 267 TFUE).
Giova ricordare, innanzitutto, che la giurisprudenza di queste Sezioni Unite ha da tempo stabilito che in materia di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato, il controllo del limite esterno della giurisdizione, che l’art. 111 Cost., comma 8, affida alla Corte di cassazione, non include il sindacato sulle scelte ermeneutiche del giudice amministrativo, suscettibili di comportare errores in iudicando o in procedendo per contrasto con il diritto dell’Unione Europea, salva l’ipotesi, estrema, in cui l’errore si sia tradotto in un’interpretazione delle norme Europee di riferimento in contrasto con quelle fornite dalla Corte di giustizia dell’Unione.
In particolare, è stata ritenuta affetta da vizio di difetto di giurisdizione, e per questa ragione cassata, la sentenza del Consiglio di Stato che, in sede di decisione su ricorso per cassazione, è risultata fondata su di un’interpretazione delle norme incidente nel senso di negare alla parte l’accesso alla tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo; accesso che, invece, era stato affermato con l’interpretazione della pertinente disposizione comunitaria elaborata dalla Corte di giustizia (in tal senso la sentenza 6 febbraio 2015, n. 2242, sostanzialmente seguita dalle sentenze 17 gennaio 2017, n. 953, 18 dicembre 2017, n. 30301, nonché dalle ordinanze 30 ottobre 2020, n. 24107, 28 luglio 2021, n. 21641, e dalla citata ordinanza n. 31311 del 2021).
A tale conclusione, precisa la Corte, la citata giurisprudenza è giunta, tra le altre, sulla base delle seguenti fondamentali affermazioni: 1) il giudice nazionale è egli stesso interprete del diritto dell’Unione Europea, cooperando direttamente all’obiettivo di un’attuazione coerente e uniforme del medesimo; 2) con la rimessione della questione pregiudiziale di interpretazione alla Corte di giustizia il giudice nazionale non si spoglia del proprio potere giurisdizionale, posto che la Corte Europea non è mai il giudice del caso concreto, ma è soltanto il dominus dell’interpretazione del diritto dell’Unione; 3) la decisione circa la necessità o l’opportunità della rimessione è affidata al giudice nazionale, sotto la sua personale responsabilità, per cui anche la scelta di non sottoporre la questione di interpretazione è comunque indice di un esercizio in concreto del potere giurisdizionale.
La Corte lussemburghese, da parte sua, già da molti anni, proprio allo scopo di promuovere il principio dell’interpretazione adeguatrice e di evitare il proliferare delle rimessioni superflue, ha stabilito che il giudice, anche di ultima istanza, non è tenuto al rinvio pregiudiziale se la questione non è pertinente, ovvero se la norma comunitaria è stata già interpretata da essa Corte di giustizia in modo vincolante per tutti, oppure se non sussiste alcun dubbio effettivo di interpretazione, nel senso che il diritto comunitario è inoppugnabilmente chiaro (sentenza 6 ottobre 1982, Ci/fit, C-283/81, più volte confermata in seguito, anche da parte della recentissima sentenza 6 ottobre 2021, Consorzio Italian Management, in causa C561/19).
E’ noto, peraltro, che queste Sezioni Unite, con l’ordinanza 18 settembre 2020, n. 19598, hanno rimesso alla Corte di giustizia tre diverse questioni pregiudiziali di interpretazione con le quali, ai limitati fini che qui rilevano, hanno chiesto di pronunciarsi sulla compatibilità con il diritto dell’Unione Europea dell’inutilizzabilità del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., avverso le sentenze del Consiglio di Stato che non abbiano correttamente applicato il diritto dell’Unione, in quanto in conflitto con la giurisprudenza della Corte di giustizia o in quanto abbiano senza alcuna motivazione omesso di effettuare il rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 del TFUE, pur non vertendosi in uno dei casi già sopra indicati dalla sentenza Clifit.
Il che significa, in altri termini, che la mancata rimessione alla Corte di giustizia può, anche se nei ristretti limiti ora indicati, tradursi in un eccesso di potere giurisdizionale sindacabile in questa sede di legittimità; affermazione che è pienamente in linea con la precedente giurisprudenza suindicata e che questo Collegio condivide. Ed è appena il caso di ricordare che, nel mentre la presente motivazione viene redatta, la decisione della Corte di giustizia dell’Unione Europea non è ancora intervenuta.
2.4. Il quadro che si è adesso sommariamente tratteggiato serve a comprendere la censura di cui al secondo motivo di ricorso, nel quale la società Wind ricorda di avere chiesto al Consiglio di Stato di rimettere alla Corte di Lussemburgo due diverse questioni pregiudiziali di interpretazione, e lamenta che il giudice di appello non avrebbe spiegato le ragioni della mancata rimessione, sottraendo la parte al suo “giudice naturale”.
Rilevano le Sezioni Unite che tale censura non trova alcuna corrispondenza nel caso concreto, per le ragioni che seguono.
Innanzitutto, occorre rilevare come non risponda al vero che il Consiglio di Stato non abbia motivato sul punto. La sentenza impugnata, infatti, ha affermato che “il potere di regolazione-dissuasione dell’Autorità, a favore del contraente debole, non dimostra criticità o aperto contrasto col diritto UE”, specie in un caso, come appunto quello in esame, nel quale il comportamento della società Wind è stato ritenuto in palese contrasto col principio di trasparenza che deve regolare i rapporti tra gli operatori telefonici e i clienti singoli. Richiamando il collegamento trasversale della materia in esame con i principi comunitari in tema di concorrenza, il giudice amministrativo ha avuto cura di supportare la sua motivazione citando i “doveri di trasparenza degli operatori di mercato” di cui alla sentenza 2 giugno 2016 della Corte di giustizia (in causa C-410/14). E sulla base di questa ricostruzione ha escluso l’esistenza di “un reale dubbio interpretativo di carattere giuridico, da risolvere con riguardo alla normativa comunitaria e sovranazionale” tale da imporre la rimessione della questione interpretativa. La motivazione circa la mancata rimessione, dunque, si fonda sulla chiarezza della normativa Europea, affermata in modo del tutto plausibile.
Tale valutazione, naturalmente, deve essere letta alla luce della articolata motivazione della sentenza qui impugnata, nella quale il giudice amministrativo ha posto in luce con chiarezza le ragioni per le quali ha considerato il comportamento della società Wind censurabile dal punto di vista della correttezza e della trasparenza nei confronti dei clienti (v. sul punto gli artt. 46 e 70 del Codice delle comunicazioni elettroniche, di cui al D.Lgs. n. 259 del 2003).
Non può essere trascurato, del resto, che le questioni di interpretazione poste dalla ricorrente e riportate nel ricorso, oltre a non evidenziare alcun contrasto della decisione in esame con uno specifico diverso orientamento della Corte di giustizia Europea, appaiono del tutto generiche e modulate, per lo più, sulla presunta natura di prestazione imposta che deriverebbe dai provvedimenti dell’AGCOM. Mentre è palese che, nell’assunto del Consiglio di Stato, non di prestazione imposta si tratta, quanto invece di restituzione ai clienti di quanto agli stessi arbitrariamente sottratto.
- Il ricorso, pertanto, è rigettato.
A tale esito segue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
Sussistono inoltre le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.