Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 23 febbraio 2023 n. 5657
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il giudizio di “immeritevolezza” di cui all’art. 1322, secondo comma, c.c. va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà.
La clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica ed una valuta straniera; b) l’importo mensile del canone resti nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte; non è un patto immeritevole ex art. 1322 c.c., né costituisce uno “strumento finanziario derivato” implicito, e la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del d. lgs. 58/98.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso.
Col primo motivo la ACS dichiara di voler denunciare sia il vizio di violazione di legge ex articolo 360, n. 3, c.p.c. (con riferimento agli articoli 1362, 1363, 1366, 1367, 1371 c.c.; 1 d. lgs. 58/98), sia quello di nullità processuale ex articolo 360, n. 4, c.p.c., sia quello di omesso esame di un fatto decisivo, ex articolo 360, n. 5, c.p.c. Al di là di tali indicazioni, non del tutto coerenti rispetto al contenuto oggettivo del ricorso, l’illustrazione del motivo contiene in realtà due censure.
1.1. Con una prima censura (pp. 10-14 del ricorso) la società ricorrente sostiene che la Corte d’appello avrebbe malamente interpretato il contratto. L’errore sarebbe consistito nel non apprezzare adeguatamente la comune volontà delle parti, che fu quella di stipulare un normale contratto di leasing in valuta estera. Che fosse intenzione delle parti stipulare un contratto in valuta estera si sarebbe dovuto desumere, ad avviso della ricorrente, dalla valutazione complessiva delle clausole contrattuali e dalla condotta delle parti anche nella fase precedente la stipula. Se la Corte d’appello avesse tenuto conto del fatto che il contratto fu stipulato in valuta estera, avrebbe dovuto trarre la conclusione che le clausole di indicizzazione del canone non solo non erano affatto atipiche, ma costituivano normali clausole diffuse nella prassi bancaria in tutti i rapporti finanziari accesi in divisa estera, quando il debitore sia un soggetto residente in un paese dell’ “area Euro”. La contestata clausola, pertanto, non aveva altro effetto che consentire al debitore di restituire in euro un finanziamento concessogli in altra valuta.
1.2. Con una seconda censura (p. 15-17) la società ricorrente sostiene che la Corte d’appello, oltre a male interpretare il contratto, lo avrebbe anche malamente qualificato. Deduce la ricorrente che la clausola di doppia indicizzazione prevista dal contratto non possedeva alcuna delle caratteristiche tipiche degli strumenti finanziari derivati: non l’astrazione, non l’autonomia, non l’esistenza d’un capitale puramente nozionale, non la previsione del valore da assegnare ai reciproci flussi finanziari nel caso di cessazione degli effetti del contratto (e cioè il c.d. “mark to market”).
1.3. Ambedue le censure sono inammissibili per difetto di rilevanza, in quanto non coerenti rispetto alla ratio decidendi sottesa dalla sentenza impugnata. La Corte d’appello infatti ha rigettato il gravame non perché – come aveva invece ritenuto il Tribunale – le parti avessero stipulato un contratto di swap non preceduto da adeguata informazione. Lo ha rigettato sul presupposto che il contratto stipulato dalle parti fosse immeritevole di tutela ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, c.c.. Rispetto a tale ratio decidendi non vengono dunque in rilievo né questioni di interpretazione, né questioni di qualificazione.
1.3.1. Non vengono in rilievo questioni di interpretazione, dal momento che il contenuto oggettivo del contratto e il significato da attribuire al testo delle previsioni contrattuali non è stato mai in discussione tra le parti. Queste avevano ben chiaro quali fossero gli obblighi nascenti dal contratto: semplicemente, controvertevano sulla validità dei patti che quegli obblighi avevano generato.
1.3.2. Nemmeno vengono in rilievo, nella motivazione della sentenza impugnata, questioni di qualificazione del contratto. La Corte d’appello, infatti, ha accolto l’opposizione a decreto ingiuntivo non già sul presupposto che la banca concedente avesse violato gli obblighi di informazione precontrattuale previsti dalla legge nel caso di vendita di strumenti finanziari derivati (così la sentenza, p. 18), ma perché ha ritenuto il patto di “rischio cambio” immeritevole di tutela in quanto “aleatorio, speculativo e incoerente rispetto alle effettive necessità di un contratto di leasing” (p. 17). La qualificazione del contratto come “una sorta di swap”, contenuta a p. 13 della sentenza impugnata, non ha dunque giocato alcun ruolo nell’iter argomentativo del giudice d’appello. E’ stata infatti la ritenuta immeritevolezza del patto di indicizzazione a determinare il giudice d’appello al rigetto del gravame, e non la violazione delle norme dettate dal d. lgs. 58/98 in tema di vendita di strumenti finanziari.
2. Il secondo motivo.
Col secondo motivo la società ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360, n. 3, c.p.c., la violazione dell’articolo 1322 c.c., nonché il vizio di omesso esame d’un fatto decisivo, ai sensi dell’articolo 360, n. 5, c.p.c. Deduce la ricorrente che il contratto da essa stipulato con la RPS non presentava alcuno dei presupposti che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, debbono ricorrere per poter qualificare un contratto come “immeritevole”, ex articolo 1322, secondo comma, c.c..
La clausola di indicizzazione contenuta nel contratto, infatti: -) non attribuiva alcun vantaggio ingiusto e sproporzionato ad una parte soltanto, e senza contropartita: il contratto prevedeva che il canone potesse sia aumentare, sia diminuire, in modo speculare; -) non poneva alcuna delle parti in una posizione di “soggezione” rispetto all’altra; -) non costringeva alcuna delle parti alla violazione di doveri di solidarietà sociale costituzionalmente imposti.
L’illustrazione del motivo prosegue sostenendo che il richiamo del Tribunale al principio di correttezza fu ultroneo, dal momento che se un contratto è validamente stipulato, la scorrettezza di una delle parti può al massimo integrare gli estremi dell’inadempimento. Sicché, anche ad ammettere che la banca avesse preteso somme non dovute, l’unico rimedio possibile sarebbe stata la ripetizione dell’indebito, e non la statuizione di immeritevolezza del contratto.
Infine, la ricorrente osserva come la decisione della Corte d’appello abbia avuto per effetto quello di trasformare un contratto in cui la prestazione tra le parti era stata pattuita in valuta estera, in un contratto avente ad oggetto un debito pecuniario espresso in valuta nazionale. Ma se è la legge stessa a consentire la stipula di obbligazioni in valuta estera, ad avviso della ricorrente non v’è ragione per ritenere “immeritevole” la clausola che indicizzi l’obbligazione del debitore rinviando ad una valuta estera.
2.1. La censura di omesso esame del fatto decisivo non viene neanche illustrata ed è perciò inammissibile. La censura di violazione dell’articolo 1322, secondo comma, c.c., è fondata.
2.2. Questa Corte ha già stabilito che il giudizio di “meritevolezza” di cui all’art. 1322, comma secondo, c.c., non coincide col giudizio di liceità del contratto, del suo oggetto o della sua causa. Secondo la Relazione al Codice civile la meritevolezza è un giudizio che deve investire non il contratto in sé, ma il risultato con esso avuto di mira dalle parti, cioè lo scopo pratico o causa concreta che dir si voglia (ex aliis, Sez. U – , Sentenza n. 4222 del 17/02/2017; Sez. U, Sentenza n. 4223 del 17/02/2017; Sez. U, Sentenza n. 4224 del 17/02/2017; Sez. 3, Sentenza n. 10506 del 28/04/2017). Ed il risultato del contratto dovrà dirsi immeritevole solo quando sia contrario alla coscienza civile, all’economia, al buon costume od all’ordine pubblico (così la Relazione al Codice, § 603, II capoverso).
Questo principio, se pur anteriore alla promulgazione della Carta costituzionale, è stato da questa ripreso e consacrato negli artt. 2, secondo periodo; 4, secondo comma, e 41, secondo comma, cost.. Un contratto dunque non può dirsi “immeritevole” sol perché poco conveniente per una delle parti.
L’ordinamento garantisce il contraente il cui consenso sia stato stornato o prevaricato, non quello che, libero ed informato, abbia compiuto scelte contrattuali non pienamente satisfattive dei propri interessi economici. Affinché dunque un patto atipico possa dirsi “immeritevole”, ai sensi dell’art. 1322 c.c., è necessario accertare la contrarietà (non del patto, ma) del risultato cui esso mira con i princìpi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati.
Sono stati perciò ritenuti immeritevoli, ai sensi dell’art. 1322, comma secondo, c.c., contratti o patti contrattuali che, pur formalmente rispettosi della legge, avevano per scopo o per effetto di: (a) attribuire ad una delle parti un vantaggio ingiusto e sproporzionato, senza contropartita per l’altra (sentenze 22950/15; 19559/15); (b) porre una delle parti in una posizione di indeterminata soggezione rispetto all’altra (sentenze 4222/17; 3080/13; 12454/09; 1898/00; 9975/95); (c) costringere una delle parti a tenere condotte contrastanti coi superiori doveri di solidarietà costituzionalmente imposti (sentenza 14343/09).
2.3. Nel caso di specie la Corte d’appello ha reputato che la clausola di “rischio cambio” fosse “immeritevole” ex art. 1322 c.c. spendendo tre argomenti, e cioè: 1) il calcolo della variazione del saggio di interesse dovuto dall’utilizzatrice era “astruso e macchinoso”; 2) la clausola che disciplinava il “rischio cambio” era caratterizzata da aleatorietà e squilibrio, in quanto prevedeva una differente base di calcolo dell’indicizzazione, a seconda che l’euro si fosse apprezzato o deprezzato rispetto alla valuta di riferimento; 3) il c.t.u. aveva accertato che fin dalla stipula del contratto era prevedibile un costante apprezzamento del franco svizzero sull’euro.
Tutti e tre questi argomenti sono erronei in punto di diritto. Essi né singolarmente, né complessivamente, sono idonei a giustificare un giudizio di “immeritevolezza” ex art. 1322 c.c., alla luce dei princìpi stabiliti da questa Corte e sopra ricordati.
2.4. Il primo argomento è erroneo perché una clausola contrattuale “astrusa” od inintelligibile non rende il contratto nullo o “immeritevole” ex 1322 c.c.. Dinanzi a clausole contrattuali oscure il giudice deve ricorrere agli strumenti legali di ermeneutica (artt. 1362-1371 c.c.), e non ad un giudizio di immeritevolezza. La clausola oscura andrà dunque interpretata, in mancanza di altri criteri, almeno in modo che le si possa dare un senso (artt. 1371 c.c.), oppure contra proferentem (art. 1370 c.c.).
Quanto, poi, all’affermazione secondo cui una clausola “macchinosa” sarebbe di per sé immeritevole, essa non può essere condivisa per due ragioni.
2.4.1. La prima ragione è che, da un punto di vista epistemologico, non esistono concetti “facili” e concetti “difficili”. Esistono concetti noti e concetti ignoti: i primi sono comprensibili ed i secondi no, se non vengano spiegati. Una clausola contrattuale non può dirsi dunque mai “macchinosa” in senso assoluto. Può esserlo in senso relativo, ad es. se contenuta in un testo contrattuale predisposto unilateralmente e sottoposto a persona priva delle necessarie competenze per comprenderlo. Ma in quest’ultima ipotesi non si dirà che quel contratto è “immeritevole”: si dirà, piuttosto, che il contratto è annullabile poiché il consenso del contraente è stato dato per errore o carpito con dolo. Oppure si dirà che il proponente è tenuto al risarcimento del danno per non avere fornito alla controparte le necessarie informazioni precontrattuali, ove imposte dalla legge o dal dovere di buona fede.
Molti contratti contengono per necessità clausole assai articolate e complesse: ad esempio i contratti di handling aeroportuale, le assicurazioni dei rischi agricoli, il noleggio di piattaforme off-shore, il project financing di opere pubbliche, ma anche i contratti di massa come quelli di somministrazione di energia elettrica; ma non constano precedenti che abbiano dichiarate nulle tali clausole soltanto a causa della loro complessità.
L’equazione stabilita dalla Corte d’appello, per cui “macchinosità della clausola = immeritevolezza” è dunque erronea in punto di diritto.
2.4.2. La seconda ragione è che nel caso di specie la pretesa “macchinosità” consisteva in una banale moltiplicazione d’un rapporto per una differenza, come descritto supra, al § 3, lettera (d), della sezione “Fatti di causa”: una operazione dunque puramente aritmetica, e niente affatto “macchinosa”.
2.5. Il secondo argomento speso dalla sentenza impugnata per pervenire al giudizio di immeritevolezza della clausola (“la clausola è caratterizzata da aleatorietà e squilibrio”) è erroneo in punto di diritto sotto due profili.
2.5.1. In primo luogo, la sentenza impugnata mostra di confondere l’alea economica, insita in ogni contratto, con l’alea giuridica, che del contratto forma invece oggetto e ne è elemento essenziale: e cioè la susceptio periculi. E nel caso di specie causa del contratto era il trasferimento della proprietà di un immobile, non il trasferimento di un rischio dietro pagamento di un prezzo.
In ogni caso un contratto aleatorio non è, per ciò solo, immeritevole di tutela ex articolo 1322 c.c.. La vendita del raccolto futuro (emptio spei), l’assicurazione sulla vita a tempo determinato per il caso di morte, la rendita vitalizia sono tutti contratti aleatori: e se la legge ne consente la stipula, l’aleatorietà non può ritenersi di per sé una caratteristica tale da rendere “immeritevole” di giuridica esistenza il contratto. Né è inibito alle parti stipulare contratti aleatori atipici: questa Corte, infatti, ha già affermato la liceità e la meritevolezza di contratti alesatori non espressamente previsti dalla legge: ad esempio, in materia di c.d. vitalizio atipico (ex multis, Sez. 2, Sentenza n. 8209 del 22/04/2016; Sez. 3, Sentenza n. 2629 del 27/04/1982).
Neppure è vietato inserire elementi di aleatorietà in un contratto commutativo. Le parti d’un contratto infatti, nell’esercizio del loro potere di autonomia negoziale, ben possono prefigurarsi la possibilità di sopravvenienze che incidono o possono incidere sull’equilibrio delle prestazioni, ed assumerne, reciprocamente o unilateralmente, il rischio, modificando in tal modo lo schema tipico del contratto commutativo e rendendolo per tale aspetto aleatorio, con l’effetto di escludere, nel caso di verificazione di tali sopravvenienze, l’applicabilità dei meccanismi riequilibratorii previsti nell’ordinaria disciplina del contratto (art. 1467 e 1664 cod. civ.).
E l’assunzione del suddetto rischio, come già stabilito da questa Corte, può risultare anche per implicito dal regolamento convenzionale che le parti hanno dato al rapporto e dal modo in cui hanno strutturato le loro obbligazioni [Sez. 1, Sentenza n. 948 del 26/01/1993, Rv. 480454 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 17485 del 12/10/2012, Rv. 624088-01; Sez. 3, Ordinanza n. 8881 del 13/05/2020; Sez. 2, Sentenza n. 2622 del 4.2.2021 (in motivazione)].
2.5.2. La Corte d’appello ha poi ritenuto che la clausola di indicizzazione di cui si discorre sarebbe “immeritevole” perché le contrapposte obbligazioni delle parti erano “squilibrate”; e le ha ritenute squilibrate perché la misura della variazione del saggio degli interessi non era simmetrica: una pari variazione del rapporto di cambio tra il franco svizzero e l’euro avrebbe infatti comportato variazioni diverse del saggio di interessi, a seconda che la variazione fosse stata a favore del concedente o dell’utilizzatore.
La Corte d’appello, quindi, ha mostrato implicitamente – ma inequivocamente – di ritenere che: a) il concetto di “equilibrio delle prestazioni” di un contratto sinallagmatico consista in una paritaria e perfetta equipollenza tra le contrapposte obbligazioni; b) ogni minimo disallineamento tra questa perfetta parità possa essere sindacato dal giudice, amputando parti del contratto per ricondurlo all’equità. Ambedue queste affermazioni sono tuttavia erronee, per più ragioni.
2.5.3. La prima ragione è che il diritto dei contratti non è un egualitario letto di Procuste che imponga l’assoluta parità tra le parti quanto a condizioni, termini e vantaggi contrattuali. È bene ricordare che la libertà negoziale è principio cardine del nostro ordinamento e del diritto dei contratti. L’ordinamento garantisce in egual misura tanto la protezione contro gli abusi di posizioni dominanti, quanto il diritto di iniziativa economica. Se il soggetto abilitato all’esercizio del credito ha il dovere di rispettare le regole del gioco e comportarsi in buona fede, nondimeno ha anche il diritto di pianificare in piena libertà le proprie strategie imprenditoriali e commerciali, come già ripetutamente affermato da questa Corte (da ultimo, con ampiezza di motivazioni, Sez. 1, Sentenza n. 1184 del 21.1.2020; nello stesso senso, Sez. 3, Ordinanza n. 28022 del 14/10/2021).
Non è dunque lo iato tra prestazione e controprestazione che può rendere un contratto “immeritevole” di tutela ex art. 1322 c.c., se quella differenza sia stata in piena libertà ed autonomia compresa ed accettata.
La seconda ragione è che lo squilibrio delle prestazioni non può farsi coincidere la convenienza del contratto. Chi ha fatto un cattivo affare non può pretendere di sciogliersi dal contratto invocando “lo squilibrio delle prestazioni”. L’intervento del giudice sul contratto non può che essere limitato a casi eccezionali, pena la violazione del fondamentale principio di libertà negoziale (così, ex multis, Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 36740 del 25/11/2021, Rv. 663148 – 01).
La terza ragione è che lo squilibrio (economico) tra le prestazioni se è genetico legittima il ricorso alla rescissione per lesione; se è sopravvenuto legittima il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. L’esistenza di tali rimedi esclude dunque la necessità stessa di ricorrere a fantasiose invenzioni circa la “immeritevolezza” d’un contratto che preveda “prestazioni squilibrate”.
La quarta ragione è che, anche ad ammettere che il calcolo del conguaglio degli interessi, per come previsto dal contratto, fosse più vantaggioso per il concedente rispetto all’utilizzatore, questa circostanza non basta di per sé a rendere “immeritevole” ex art. 1322 c.c.. Si potrà discutere se questa clausola sia valida ex art. 1341 c.c.; oppure se sia frutto dell’approfittamento d’uno stato di bisogno; od ancora se non sia stata adeguatamente illustrata in sede precontrattuale: ma nel primo caso soccorrerà il rimedio della nullità; nel secondo quello della rescissione; nel terzo quello dell’annullamento del contratto per errore o del risarcimento del danno.
In conclusione, il giudizio di “immeritevolezza” di cui è menzione nell’art. 1322 c.c. non può mai trasformarsi in una magica porta di Ishtar attraverso la quale veicolare un inammissibile intervento del giudice sulla convenienza dell’affare.
2.5.4. La Corte d’appello ha altresì ritenuto che il contratto fosse squilibrato perché la clausola di “rischio cambio” prevedeva due differenti modalità di calcolo del conguaglio degli interessi, a seconda che il franco svizzero si apprezzasse o si deprezzasse rispetto all’euro. La differenza cui la Corte d’appello ha attribuito valore decisivo ai fini del rigetto della domanda proposta dalla ACS consisteva in ciò: che in caso di apprezzamento del franco sull’euro (e quindi di vantaggio per l’utilizzatore), la base di calcolo del conguaglio era rappresentata dall’importo della rata di leasing al netto dell’IVA; nel caso di deprezzamento del franco (e quindi di vantaggio per il concedente) la base di calcolo del conguaglio era rappresentata dall’importo della rata di leasing al netto dell’IVA.
La Corte d’appello, quindi, ha giudicato immeritevole un patto contrattuale limitandosi a registrare un dato puramente esteriore: la differenza della formula di calcolo del conguaglio degli interessi. Tuttavia, qualsiasi valutazione circa la validità o la meritevolezza di un patto contrattuale non potrebbe mai limitarsi all’esame del suo contenuto, senza apprezzarne gli effetti, e senza valutare se essi siano sorretti da una giusta causa. In questo modo la Corte d’appello ha violato il millenario principio per cui soltanto cum nulla subest causa, constare non potest obligatio.
E sebbene non spetti a questa Corte sindacare il merito della controversia, è doveroso rilevare che astrattamente la clausola ritenuta dalla Corte d’appello “immeritevole” avrebbe potuto avere varie giustificazioni. Se infatti il franco svizzero si fosse apprezzato rispetto all’euro, il concedente avrebbe ricevuto una prestazione (in euro) di valore nominale inferiore a quella che gli sarebbe spettata in valore reale, e tale riduzione avrebbe riguardato l’intero credito: sia la parte pagata dall’utilizzatore a titolo di rimborso del finanziamento, sia la parte pagata a titolo di imposta. Il concedente, dunque, in tal caso avrebbe ricevuto un corrispettivo inferiore a quello preventivato, e ciò avrebbe alterato il suo piano finanziario: e questa sarebbe potuta essere teoricamente una valida ragione per porre a base del calcolo del conguaglio anche l’IVA. Se invece il franco svizzero si fosse deprezzato rispetto all’euro, l’utilizzatore avrebbe versato (in euro) una prestazione in valore nominale superiore a quella che avrebbe dovuto versare in valore reale.
Ma degli importi versati dall’utilizzatore, però, il concedente doveva necessariamente stornarne un’aliquota a titolo di IVA, e di tale importo non sarebbe stato in potere del concedente pretenderne la restituzione dall’erario, per restituire l’eccedenza all’utilizzatore: e questa sarebbe potuta essere teoricamente una valida ragione per porre a base del calcolo del conguaglio anche l’IVA..
Tali considerazioni, svolte solo a mo’ d’esempio, corroborano la conclusione che il giudizio di “immeritevolezza” d’un contratto, ex art. 1322, secondo comma, c.c., non può essere formulato in astratto ed ex ante, limitandosi a considerare il solo contenuto oggettivo dei patti contrattuali, ma va compiuto in concreto ed ex post, ricercando – beninteso, iuxta alligata et probata partium – lo scopo perseguito dalle parti.
2.6. Infine, la Corte d’appello ha reputato “immeritevole” la clausola di cui si discorre, sul presupposto che il consulente d’ufficio aveva accertato che “fin dalla stipula del contratto era prevedibile un costante apprezzamento del franco svizzero sull’euro”. Ma l’eventualità che uno dei contraenti taccia alla controparte circostanze note circa lo sviluppo o la convenienza dell’affare potrebbe costituire una violazione dei doveri di correttezza e buona fede nella conclusione dei contratti, e dunque anche in questo caso i rimedi previsti dall’ordinamento possono essere l’annullamento del contratto per errore o il risarcimento del danno, ma non certo il giudizio di “immeritevolezza” del contratto.
2.7. In conclusione, la Corte d’appello ha formulato in iure un giudizio di “immeritevolezza” del contratto, ex art. 1322, comma secondo, c.c., dopo avere accertato in facto circostanze irrilevanti ai fini del suddetto giudizio (aleatorietà, difficoltà di interpretazione, asimmetria delle prestazioni). Ha dunque, in questo modo, falsamente applicato il suddetto art. 1322 c.c..
3. Le questioni poste dall’ordinanza di rimessione.
La ritenuta inammissibilità del primo motivo di ricorso consente a questo Collegio di pronunciarsi, nell’interesse della legge, sulla questione in esso dibattuta, e segnalata come contrastata, oltre che di particolare importanza, dall’ordinanza di rimessione. Questa Corte ha infatti già stabilito che l’art. 363, terzo comma, c.p.c. consente l’enunciazione del principio di diritto anche nel caso in cui un solo motivo del ricorso sia dichiarato inammissibile, se esso involga una questione di particolare importanza (così Sez. U – , Sentenza n. 16601 del 05/07/2017, § 5 delle “Ragioni della decisione”).
3.1. Con ordinanza 16.3.2022 n. 8603 la Terza Sezione civile di questa Corte ha: a) ravvisato l’esistenza d’un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, circa la validità delle clausole di indicizzazione degli interessi inserite in contratti di vario tipo (sia di leasing che di mutuo) stipulati in valuta estera e identiche a quella oggetto del presente giudizio, nonché circa la loro qualificabilità come “strumenti finanziari derivati”; b) ritenuto “non persuasiva” l’opinione, espressa da alcune decisioni di questa Corte, secondo cui le suddette clausole non costituirebbero uno strumento finanziario derivato; c) sottoposto a queste Sezioni Unite le questioni seguenti: c’) se clausole come quella oggetto del contendere siano una mera forma di indicizzazione oppure un “derivato implicito”, e quindi una scommessa con fine speculativo; c’’) se la clausola oggetto del contendere possa avere per effetto di snaturare la causa del contratto di leasing, trasformandolo in un contratto di altro tipo o in un contratto a causa mista; c’’’) se il relativo patto contrattuale “comporti violazione dell’obbligo di buona fede, per la mancanza di chiarezza ed informazione, conseguenti alla natura puramente speculativa della clausola”.
4. Sull’esistenza del contrasto.
Preliminarmente rileva il Collegio come non possa propriamente parlarsi dell’esistenza d’un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, sul tema della qualificazione e della validità di clausole che, come quella oggetto del presente giudizio, prevedano la variazione degli interessi dovuti dall’utilizzatore d’un bene concesso in leasing, in funzione delle oscillazioni d’un indice sia finanziario che monetario.
La validità di tali clausole, in fattispecie identica a quella oggi in esame, è già stata esaminata in diverse occasioni da questa Corte. In particolare, la questione è stata esaminata da Sez. 3, Sentenza n. 4659 del 22/02/2021, la quale ha escluso che le suddette clausole possano qualificarsi come “strumenti finanziari derivati impliciti”; e poi da Sez. 3, Ordinanza n. 26538 del 30.9.2021, la quale ha ritenuto erronea l’interpretazione del contratto con cui il giudice di merito aveva ritenuto “squilibrata”, in quanto favorevole ad una sola delle parti, la suddetta clausola. Gli altri due precedenti segnalati come contrastanti dall’ordinanza di rimessione (Cass. 16907/19 e Cass. 23655/21) in realtà non possono ritenersi tali. Quanto a Sez. 3, Sentenza n. 16907 del 30.6.2019, tale decisione si è limitata a dichiarare – correttamente – insindacabile in sede di legittimità il giudizio con cui il giudice di merito aveva ritenuto “indeterminabile” la misura degli interessi dovuti dall’utilizzatore in leasing al concedente. Tale decisione, dunque, non ha affrontato né la questione della natura della clausola, né quella della sua contrarietà a buona fede. Quanto, infine, a Sez. 3, Ordinanza n. 26538 del 30.9.2021, tale decisione non solo si è occupata di un problema ben diverso (se e quanto il giudice di merito, nel motivare il giudizio di indeterminatezza d’una clausola di indicizzazione, potesse discostarsi dalle valutazioni già compiute su quella clausola dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), ma per di più: -) aveva ad oggetto un contratto di mutuo e non di leasing; -) aveva ad oggetto un contratto stipulato con un consumatore e non tra imprese commerciali, come nel caso oggi in esame; -) aveva ad oggetto un contratto nel quale la clausola di indicizzazione prevedeva la variabilità non solo degli interessi, ma anche del capitale.
Non esiste, dunque, alcun sostanziale contrasto nella giurisprudenza di questa Corte.
5. Sulla distinzione tra “derivati impliciti” e clausole di indicizzazione.
Prima di stabilire se una clausola come quella oggetto del presente giudizio patto costituisca o meno uno “strumento finanziario derivato” reputa questa Corte doveroso premettere di non potere seguire le nimiae subtilitates con cui parte della dottrina ha proposto infinite distinzioni e sottodistinzioni in tema di strumenti finanziari derivati. Compito del giudice di legittimità è infatti assicurare “l’esatta interpretazione della legge”, e l’esatta interpretazione consiste nel sussumere le nuove fattispecie concrete, fino a quando sia possibile, in categorie giuridiche note, piuttosto che partorirne continuamente di nuove.
5.1. Una clausola inserita in un contratto di leasing, la quale faccia dipendere gli interessi dovuti dall’utilizzatore dalla variazione di un indice finanziario insieme ad un indice monetario, in un caso come quello di specie, non è uno strumento finanziario derivato, e tanto meno un “derivato implicito”.
5.2. Gli “strumenti finanziari derivati” sono accordi negoziali definiti dall’art. 1 d. lgs. 58/98. La clausola oggetto del presente giudizio non rientra in tale previsione né avendo riguardo al testo vigente all’epoca della conclusione del contratto di leasing di cui si discorre; né avendo riguardo al testo di esso oggi vigente; né facendo ricorso all’analogia legis.
5.3. La clausola di cui si discorre, innanzitutto, non è uno strumento finanziario derivato in base alla normativa vigente ratione temporis. Il contratto di cui si discorre è stato stipulato nel 2006 (così il controricorso, p. 3). A quella data la nozione di “strumenti finanziari derivati” era contenuta nell’art. 1, comma 3, d. lgs. 24.2.1998 n. 58 (nel testo modificato dal d. lgs. 17.1.2003 n. 6, ed anteriore alle modifiche di cui al d. lgs. 29.12.2006 n. 303). Tali erano considerati: -) i contratti “futures” su strumenti finanziari, su tassi di interesse, su valute, su merci e sui relativi indici, anche quando l’esecuzione avvenga attraverso il pagamento di differenziali in contanti; -) i contratti di scambio a pronti e a termine (swaps) su tassi di interesse, su valute, su merci nonché su indici azionari (equity swaps), anche quando l’esecuzione avvenga attraverso il pagamento di differenziali in contanti; -) i contratti a termine collegati a strumenti finanziari, a tassi d’interesse, a valute, a merci e ai relativi indici, anche quando l’esecuzione avvenga attraverso il pagamento di differenziali in contanti; -) i contratti di opzione per acquistare o vendere gli strumenti indicati nelle precedenti lettere e i relativi indici, nonché i contratti di opzione su valute, su tassi d’interesse, su merci e sui relativi indici, anche quando l’esecuzione avvenga attraverso il pagamento di differenziali in contanti; -) le combinazioni di contratti o di titoli indicati nelle precedenti lettere.
Nessuna di queste definizioni è idonea a ricomprendere la clausola oggetto del contendere.
5.4. La clausola in esame non costituirebbe comunque uno strumento finanziario neanche se la si volesse esaminare – per completezza ed astraendo dal caso concreto – alla luce della legislazione vigente. “Strumento finanziario derivato”, per la legge vigente, è solo l’operazione che rientra tra quelle definite come tali dal d. lgs. 58/98, e concordate nell’ambito delle operazioni previste dal suddetto testo unico. Questi “strumenti finanziari derivati” sono: -) o quelli previsti dall’Allegato I al d. lgs. 58/98, Sezione “C”, punti 4-10 [art. 1, comma 2 ter, lettera (a), d. lgs. 58/98]; -) o quelli individuati dal Ministro dell’economia con proprio decreto (art. 1, comma 2 bis, d. lgs. 58/98).
Tuttavia, nessuna delle previsioni contenute nelle suddette norme è tale da includere, senza residui, la clausola di “rischio cambio” concordata dalle parti del presente giudizio. E’ evidentemente da escludere la ricorrenza nel caso di specie d’una ipotesi di “derivati connessi a merci” (d. lgs. 58/98, Allegato I, Sezione C. nn. 5, 6 e 7); di “derivati per il trasferimento del rischio di credito” (Allegati I, cit., n. 8); di derivati connessi a “variabili climatiche, tariffe di trasporto, tassi di inflazione o altre statistiche economiche ufficiali” (Allegato I, cit., n. 10). Resterebbero dunque soltanto le ipotesi di cui ai nn. 4 e 9, e cioè: -) n. 4: Contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati («future»), «swap», accordi per scambi futuri di tassi di interesse e altri contratti derivati connessi a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, quote di emissione o altri strumenti finanziari derivati, indici finanziari o misure finanziarie che possono essere regolati con consegna fisica del sottostante o attraverso il pagamento di differenziali in contanti; -) n. 9: contratti finanziari differenziali.
Tuttavia, la clausola di cui si discorre non è sussumibile in alcuna di queste categorie, per la semplice ragione che attraverso essa le parti non hanno scambiato nulla; né hanno inteso trarre frutto da uno scambio di valori comunque determinati. Il contratto aveva infatti ad oggetto “la locazione finanziaria dell’immobile ivi catastalmente indicato” (così il controricorso, p. 3). Per effetto di esso la società concedente ha assunto l’obbligo di acquistare l’immobile, la società utilizzatrice quello di goderne e restituire le rate. Nessun “reciproco scambio di flussi di denaro” era previsto tra le parti, né fu interesse delle parti concludere quel contratto per lucrare sulle previste fluttuazioni valutarie, e tanto meno per coprire un rischio di credito.
5.5. Infine, la clausola di “rischio cambio” inserita nel contratto di leasing oggetto del presente giudizio non può qualificarsi “strumento finanziario derivato” nemmeno facendo ricorso all’analogia, per due ragioni: sia perché la sua causa – per quanto dedotto dalle parti – nulla ha in comune con quella degli “strumenti finanziari derivati” elencati dalla legge; sia perché è privo di alcuni elementi essenziali che accomunano la maggior parte degli strumenti finanziari derivati tipici.
5.5.1. Quanto al primo aspetto, s’è visto che l’art. 1 d. lgs. 58/98 accomuna nella definizione di “strumenti finanziari derivati” ipotesi molto diverse tra loro, raggruppabili però in quattro fenotipi principali: la compravendita (ad es., l’acquisto di futures); la copertura di rischi (ad es., i credit default swap); la concessione dietro corrispettivo di un diritto di opzione; lo scambio di pagamenti il cui importo è determinato rinviando a variabili differenti.
La clausola che àncora il saggio degli interessi dovuti dal debitore di un contratto di leasing ad un indice monetario non rientra in alcuna di queste categorie. La clausola suddetta, infatti, non costituiva una compravendita né un’opzione, e tanto meno aveva lo scopo di coprire un certo rischio o “scommettere” sull’andamento dei cambi. La clausola si limitava ad agganciare il debito dell’utilizzatore ad un valore monetario, e questa Corte ha già stabilito che rientrano nella categoria degli “strumenti finanziari collegati alla valuta” soltanto quelli per mezzo dei quali le parti intendono speculare sull’andamento del mercato delle valute, e non quelli che si limitano a determinare il valore d’una prestazione rinviando ad un indice monetario, comunque determinato (Sez. 1, Sentenza n. 19226 del 04/09/2009, in motivazione).
5.5.2. Quanto al secondo aspetto, gli elementi unificanti di quella indistinta nebulosa che va sotto il nome di “strumenti finanziari derivati” sono, per quanto in questa sede rileva, almeno tre, già individuati da queste Sezioni Unite con la sentenza n. 8770 del 12/05/2020, a p. 11, § 4.5 dei “Motivi della decisione”, ed in particolare: 1) oggetto del negozio deve essere la c.d. “differenzialità”, e cioè l’intento di trarre vantaggio dalla differenza di due valori variabili: ad essa le parti mirano; su essa fanno leva per il perseguimento dei rispettivi interessi; è essa che costituisce il cuore dell’operazione economica. Nel presente caso, invece, oggetto del negozio era indubitabilmente l’acquisto di un immobile, non la speculazione su un titolo; 2) uno strumento finanziario derivato presuppone l’esistenza di un “capitale nozionale”, cioè la somma di denaro astrattamente assunta quale base di calcolo dei reciproci flussi finanziari tra le parti: nel presente caso invece il capitale produttivo dei flussi finanziari era reale e realmente dovuto, e non già nozionale; 3) non era prevista nel contratto di leasing oggetto del contendere la possibilità – tipica dei derivati – di sciogliersi da esso avvalendosi dell’opzione “mark to market” (Cass. 8770/20, cit., § 4.7).
5.6. Non sono per contro condivisibili gli argomenti maggiormente enfatizzati da parte della dottrina per sostenere la tesi secondo cui clausole come quella qui in esame costituirebbero “strumenti finanziari derivati impliciti”.
5.6.1. In primo luogo, la nozione stessa di “derivato implicito” è concettualmente inservibile per quanti ritengono che frustra fit per plura, quod potest fieri per pauciora. Se per “derivato implicito” si intendesse un patto dotato di una sua autonomia causale, ma aggiunto od accessorio ad altro negozio, la categoria non merita dignità concettuale: ci troveremmo infatti di fronte ad un normale negozio con una sua causa ed un suo oggetto, che se pur collegato ad altro negozio resta sottoposto alla disciplina per esso prevista dalla legge. Lo spedizioniere-vettore, ad es., assume le obbligazioni scaturenti dal contratto di spedizione e da quello di trasporto, ed a nessuno verrebbe in mente di sostenere che ha stipulato un “trasporto implicito”. Se invece per “derivato implicito” si intendesse qualunque clausola contrattuale la quale abbia per effetto di subordinare le tipiche prestazioni dovute da una delle parti ad eventi futuri ed incerti, ovvero preveda che le contrapposte prestazioni di dare gravanti su ciascuna parte siano conguagliate per produrre un valore “differenziale”, tale nozione sarebbe giuridicamente inutile. Infatti una pattuizione parte di un più ampio contratto, e priva di autonomia causale rispetto al negozio cui accede, non è pensabile come negozio autonomo, né esplicito, né implicito. Così, ad esempio, se un appaltatore concedesse al committente una garanzia ex art. 1667 c.c. di quattro anni invece che di due, diremo che quell’appaltatore ha assunto un’obbligazione pattizia aggiuntiva, non diremo certo che le parti hanno stipulato una “fideiussione implicita”.
5.6.2. In secondo luogo la tesi – formulata in dottrina – secondo cui qualsiasi clausola che faccia dipendere l’an e il quantum di una prestazione pecuniaria da un parametro esterno variabile sarebbe una scommessa finanziaria è insostenibile: essa infatti adotta una nozione di così sconfinata latitudine, che vi rientrerebbero – ad esempio – la vendita del raccolto futuro (emptio spei); l’assicurazione con clausola di regolazione del premio; l’indicizzazione del corrispettivo negli appalti a misura; e sinanche la tariffa di somministrazione di acqua da parte del gestore del servizio idrico.
Anche questi princìpi sono stati già affermati da questa Corte, allorché ha stabilito che l’art. 1933, primo comma, c.c. non s’applica a quei contratti i quali, pur caratterizzati dall’alea, non sono riconducibili alla nozione di giuoco e di scommessa: e tra questi contratti rientrano quelli – proprio come nel caso di specie – in cui sia apposta una clausola di “rischio cambio”, per l’eventualità che il corso di conversione della valuta in cui è espresso il credito venga a mutare nella vigenza del contratto (Sez. 3, Sentenza n. 2288 del 06/02/2004, Rv. 569925 – 01).
5.6.3. Allo stesso modo, costituisce un puro artificio la tesi (anch’essa sostenuta in dottrina) secondo cui la previsione di un tasso minimo dovuto dal cliente, inserita in un contratto di finanziamento a tasso indicizzato, costituirebbe una “inconsapevole vendita da parte del cliente al finanziatore” di una option floor, e dunque un contratto derivato. Infatti la previsione per cui, anche nel caso di fluttuazione dell’indice di riferimento per la determinazione degli interessi, il debitore sia comunque tenuto al pagamento di un saggio di interessi minimo, non è che una clausola condizionale, in cui l’evento condizionante è la fluttuazione dell’indice di riferimento al di sotto di una certa soglia, e l’evento condizionato la misura del saggio: dunque un patto lecito e consentito dall’art. 1353 c.c..
5.6.4. Infine, la circostanza che le parti di un contratto decidano di regolare periodicamente i reciproci rapporti di dare ed avere mediante conguagli in denaro è una mera modalità di adempimento dell’obbligazione, ovviamente lecito (Sez. 3 – , Sentenza n. 921 del 17/01/2017), e di per sé inidonea a predicare l’esistenza d’uno strumento finanziario derivato. E’ da escludere, in particolare, che la sola pattuizione di regolazione periodica delle reciproche obbligazioni variabili di dare ed avere, possa bastare per sussumere il contratto nella nozione di “contratti finanziari differenziali” di cui alla Sezione “C”, n. (9), dell’Allegati I al d. lgs. 58/98. Accezioni così late della “differenzialità” finirebbero per assegnare a quest’ultima espressione un significato talmente ampio, da trasformarla in un concetto bon à tout faire, comprensivo – ad esempio – dei contratti di conto corrente bancario o delle assicurazioni con clausola di regolazione del premio.
5.7. La corretta qualificazione giuridica di clausole come quella oggetto del presente giudizio deve muovere dal rilievo che il contratto oggetto del contendere aveva ad oggetto una operazione reale (leasing); prevedeva che il valore del debito complessivo dell’utilizzatore fosse determinato in franchi svizzeri, e accordava all’utilizzatore la facoltà di pagare in euro. Il contratto di leasing ha ovviamente sempre una funzione (anche) di finanziamento, ed un finanziamento può legittimamente essere concesso in valuta nazionale od in valuta estera. Un finanziamento in valuta estera ha lo scopo di evitare i rischi connessi alla svalutazione della moneta nazionale (e cioè il rischio della svalutazione per il creditore, e il rischio della rivalutazione per il debitore). Un finanziamento in moneta estera può avvenire con due modalità: a) la prima modalità è prevedere che l’indebitamento venga direttamente denominato ed erogato nella valuta estera (ad es., il concedente acquista l’immobile in franchi, e lo dà in locazione finanziaria all’utilizzatore, che avrà facoltà di pagare in franchi o in euro, secondo la previsione dell’art. 1278 c.c.); b) la seconda modalità è esprimere sia la provvista erogata dal concedente, sia le rate dovute dall’utilizzatore in valuta domestica, ma agganciarne il valore al rapporto di cambio con una valuta estera. In questo modo si realizza indirettamente lo stesso risultato della pattuizione sub (a).
In conclusione, un finanziamento (non importa se in forma di mutuo o di leasing) il cui importo è parametrato ad un rapporto di cambio è un debito di valore e non di valuta. La clausola di cui si discorre dunque non è che una normale clausola-valore, attraverso la quale le parti individuano il criterio al quale commisurare la prestazione del debitore.
Pertanto: -) l’aleatorietà del contratto, lungi dal costituire un indice della presenza d’un “derivato implicito”, non è che un effetto naturale d’una altrettanto normale clausola-valore; -) la previsione che eventuali conguagli a favore dell’una o dell’altra parte fossero regolati a parte, e non incidessero sul valore della rata (che restava costante) non è che una modalità esecutiva delle reciproche obbligazioni, insuscettibile di riverberare effetti di sorta sulla qualificazione del contratto. Il titolo dell’obbligazione infatti non muta sol perché cambi il termine di adempimento. Del resto, il creditore ha facoltà di accettare un adempimento parziale (art. 1181 c.c.) o di rinunciare al termine stabilito a suo favore (art. 1185 c.c.), e ciò dimostra che la possibilità di regolare a parte alcune delle obbligazioni e non altre, oppure una aliquota dell’unica obbligazione, è un effetto normale dello statuto delle obbligazioni civili.
5.8. Resta solo da aggiungere che le considerazioni sin qui svolte non mutano per il fatto che il contratto oggetto del presente giudizio prevedeva una doppia indicizzazione, agganciando le variazioni del canone sia alle variazioni del tasso LIBOR, sia alle variazioni del rapporto di cambio franco/euro. Ed infatti: a) l’indicizzazione del canone al tasso LIBOR costituisce una normale clausola onnipresente nei finanziamenti a tasso variabile; essa è pacificamente lecita e non costituisce un derivato; b) l’indicizzazione del canone alle fluttuazioni del rapporto di cambio costituisce una clausola-valore, secondo quanto appena esposto; così inquadrata, anch’essa è pacificamente lecita e non costituisce un derivato.
Non è dunque sostenibile che dalla combinazione di due clausole, tutte e due lecite e non costituenti uno strumento finanziario derivato, possa sorgere un contratto illecito e che costituisca uno strumento finanziario derivato.
6. Se la clausola di rischio cambio snaturi la causa del contratto di leasing.
E’ ben vero che l’inserimento di elementi spurii in un contratto legalmente o socialmente tipico può determinarne la trasformazione in altro tipo. Per stabilire se un contratto, a causa di pattuizioni eterogenee rispetto allo schema tipico, abbia mutato causa e natura, questa Corte ha da tempo dettato tre criteri. Il primo criterio è che la qualificazione del contratto come “atipico” deve dipendere dai suoi effetti giuridici, non da quelli economici: anche la fideiussio indemnitatis può produrre gli effetti dell’accollo, ma non è un accollo. Il giudice pertanto per qualificare un contratto deve avere riguardo all’intento negoziale delle parti, non al risultato economico di esso, e tanto meno alla sua convenienza per una delle parti (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 10004 del 24/06/2003). Il secondo criterio è che un contratto non muta natura e causa, sol perché uno dei suoi elementi presenti un’occasionale difformità rispetto allo schema legale tipico. Un contratto può dirsi atipico solo quando il rapporto per come disciplinato dalle parti diventi “del tutto estraneo al tipo normativo, perché trae le proprie ragioni di essere dall’adeguamento degli strumenti giuridici alle mutevoli esigenze della vita sociale e dei rapporti economici” (così già Sez. 3, Sentenza n. 3645 del 07/11/1969; ma sostanzialmente nello stesso senso, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 116 del 14/01/1974; Sez. 3, Sentenza n. 982 del 28/01/2002; Sez. 1, Sentenza n. 11096 del 11/06/2004). Il terzo criterio, infine, è che le prestazioni atipiche poste a carico di una delle parti non mutano la causa tipica del contratto, se in questo permane la prevalenza degli elementi propri dello schema tipico (principio, anche questo, pacifico e risalente, a partire da Sez. 3, Sentenza n. 116 del 14/01/1974, Rv. 367676 – 01).
6.1. Se così è, ne segue che la previsione di maggiori o minori obblighi a carico di una delle parti, rispetto a quelli scaturenti dallo schema contrattuale tipico, non è di per sé sufficiente a concludere che quel contratto, mercé la pattuizione di quegli obblighi aggiuntivi, abbia mutato causa e natura.
Questo è il principio che emerge, inequivoco, dall’analisi della giurisprudenza di questa Corte, la quale – ad esempio – ha ritenuto che: -) il contratto di concessione del diritto d’uso (art. 1021 c.c.) non muta causa sol perché sia imposto un facere a carico del proprietario della cosa (Sez. 2, Sentenza n. 462 del 17/02/1955, Rv. 880375 – 01); -) il contratto di associazione tra professionisti (ex lege 1815/1939) non muta causa sol perché preveda la possibilità che il singolo associato sia escluso per delibera unanime degli altri (Sez. 1, Sentenza n. 4032 del 16/04/1991, Rv. 471679 – 01); -) il contratto di deposito di generi alimentari deperibili non muta causa (in contratto d’opera) sol perché siano imposti obblighi di manutenzione ed avviso a carico del depositario (Sez. 3, Sentenza n. 534 del 20/01/1997, Rv. 501858 – 01); -) il contratto di commissione non muta causa sol perché sia escluso il diritto del commissionario alla provvigione (Sez. 3, Sentenza n. 982 del 28/01/2002, Rv. 551881 – 01); -) la fideiussione non muta causa sol perché il fideiussore si obblighi a pagare “a prima richiesta” (Sez. U, Sentenza n. 412 del 12/01/2007, Rv. 594355 – 01); -) il contratto di mediazione non muta causa sol perché il soggetto intermediato si obblighi a pagare la provvigione per il solo fatto che il mediatore abbia svolto la sua attività, anche senza esito (Sez. 3, Sentenza n. 6171 del 13/03/2009, Rv. 607083 – 01); -) il contratto preliminare di vendita non muta causa sol perché preveda il pagamento anticipato del prezzo da parte del promissario acquirente (Sez. 1, Sentenza n. 4863 del 01/03/2010, Rv. 612335 – 01).
Questi pochi esempi, trascelti tra innumerevoli, dimostrano come per la giurisprudenza di questa Corte non basta rilevare la presenza di obblighi aggiuntivi rispetto allo schema contrattuale tipico, per concludere che il relativo contratto abbia mutato causa e sia divenuto atipico.
6.3. L’applicazione di questi princìpi alle clausole di “rischio cambio” come quelle oggetto del presente giudizio impone di concludere che esse non mutano né punto, né poco, la causa del contratto di leasing. La presenza della suddetta clausola infatti non consente di affermare che, mercé essa, scopo dell’utilizzatore non fu acquisire un immobile, ma fu investire del denaro per realizzare un lucro finanziario invece che commerciale. Allo stesso modo, la presenza della suddetta clausola non basta per sostenere che fosse volontà del concedente concludere il contratto al solo fine di speculare sul tasso di cambio. Del resto, una banale conferma della impensabilità che un leasing immobiliare indicizzato sia assimilabile ad un contratto di investimento finanziario la si ricava, sul piano della logica, da un’ovvia reductio ad absurdum: se un risparmiatore, volendo investire il proprio denaro, si vedesse consigliare dall’intermediario finanziario la stipula d’un contratto di leasing immobiliare indicizzato ad una valuta estera, difficilmente quell’intermediario eviterebbe un giudizio di responsabilità per violazione della regola di adeguatezza, o suitability rule che dir si voglia.
7. Se la previsione d’una clausola di rischio cambio sia contraria a buona fede.
L’ordinanza di rimessione sollecita infine queste Sezioni Unite (p. 9), a stabilire se la pattuizione della clausola di rischio cambio, più volte descritta, costituisca una violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte della società concedente, “per la mancanza di chiarezza e di informazione, conseguenti alla natura puramente speculativa della clausola”.
7.1. Premesso che tale questione non risulta essere stata dedotta in giudizio (né dalla società opponente, né dalla società opposta; né risulta essere stata rilevata ex officio dal Tribunale o dalla Corte d’appello), per completezza d’esame osservano queste Sezioni Unite che meritevolezza del contratto e rispetto dei doveri di buona fede sono questioni distinte e separate.
Un contratto invalido può essere eseguito in buona fede, così come uno valido può essere eseguito in mala fede. Il giudizio di meritevolezza serve a stabilire se il contratto possa produrre effetti; il giudizio sul rispetto della buona fede serve a stabilire molte cose: prima della stipula può servire a stabilire se il consenso di una delle parti sia stato carpito con dolo o dato per errore; dopo la stipula, può servire a stabilire come debba interpretarsi il contratto (art. 1366 c.c.); dopo l’adempimento, può servire a stabilire se questo sia stato inesatto (art. 1375 c.c.). Infine, il contratto immeritevole è improduttivo di effetti, il contratto eseguito senza buona fede fa sorgere il diritto alla risoluzione o al risarcimento del danno.
Alla luce di questi noti princìpi è agevole concludere che la sola pattuizione di una clausola di rischio cambio come quella oggetto del presente giudizio non può costituire, da sola, violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte di un intermediario creditizio o finanziario. In ogni caso anche l’eventuale violazione dei suddetti doveri di correttezza nella fase delle trattative, e di buona fede nell’esecuzione del contratto, non potrebbe condurre ad una dichiarazione di “immeritevolezza” del contratto. Quelle violazioni potrebbero condurre teoricamente solo all’annullamento del contratto per vizio del consenso (errore o dolo), oppure all’affermazione di una responsabilità precontrattuale, od ancora al risarcimento del danno. Tali princìpi, proprio con riferimento ad una clausola-valore inserita in un contratto di mutuo, sono stati condivisi anche da CGUE 20.9.2017, in causa C-186/16, Andriciuc vs. Banca Românească, secondo cui se il finanziatore, pur essendo a conoscenza o potendo conoscere eventuali future fluttuazioni del cambio a sfavore del mutuatario, non lo avverte di tale circostanza in sede precontrattuale, viola il dovere di buona fede e, se il contratto è stipulato con un consumatore, pattuisce una clausola che produce un significativo squilibrio tra le parti (è conforme CGUE 20.9.2018, in causa C-51/17, OTP Bank vs. Ilyés and Kiss).
8. La sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio alla Corte d’appello di Trieste, in differente composizione, la quale tornerà ad esaminare l’appello proposto dalla RPS applicando il seguente principio di diritto: “il giudizio di “immeritevolezza” di cui all’art. 1322, secondo comma, c.c. va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà”.
9. Va, infine, formulato nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c. il seguente principio di diritto: “La clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica ed una valuta straniera; b) l’importo mensile del canone resti nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte; non è un patto immeritevole ex art. 1322 c.c., né costituisce uno “strumento finanziario derivato” implicito, e la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del d. lgs. 58/98”.
10. Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.