Corte di Cassazione, Sez. III Civile, sentenza 29 marzo 2022 n. 10136
MASSIMA
Il conduttore di un immobile ad uso non abitativo, ove sia decaduto dal diritto di esercitare il riscatto, di cui all’art. 38 della legge 27 luglio 1978 n. 392, può domandare sia al venditore che al compratore il risarcimento del danno patito, a titolo di responsabilità extracontrattuale, per effetto della decadenza, a condizione però che ne dimostri la rispettiva malafede, consistita nell’intento di tenerlo all’oscuro dell’avvenuto trasferimento; ciò in quanto, altrimenti, la possibilità del riscatto concessa al conduttore non consente, in mancanza della dimostrazione di un intento fraudolento diretto a impedirne l’esercizio, di riconoscere un nesso di causalità tra l’inadempimento dell’obbligo di denuntiatio ed il pregiudizio dell’interesse del conduttore all’acquisto dell’immobile.
Il silenzio serbato dai locatori, successivamente alla già operata vendita, a fronte della manifestazione espressa dell’interesse del conduttore ad acquisire l’immobile, non viola alcun obbligo giuridico. Ciò in quanto l’unico obbligo imposto al locatore che intenda trasferire a titolo oneroso l’immobile locato è, a termini dell’art. 38 della legge 27 luglio 1978, n. 392, quello di «darne comunicazione al conduttore con atto notificato a mezzo di ufficiale giudiziario» (c.d. denuntiatio). Si tratta, secondo consolidata interpretazione, di un obbligo legale di interpello, vincolato nella forma e nel contenuto, diretto a mettere il conduttore nella condizione di esercitare il diritto di prelazione, ove ne sussistano i presupposti. Esso però si colloca anteriormente alla vendita, la quale, se effettuata in favore di terzi senza essere preceduta dal detto interpello, segna, di quell’obbligo, il definitivo inadempimento. La sanzione di tale inadempimento è, nel sistema della legge, (solo) il diritto di riscatto, da esercitare nelle forme e nei termini previsti dall’art. 39 l. cit.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con il proprio controricorso la Fondazione Ecclesiastica Istituto Marchesi Teresa, Gerino e Lippo Gerini, eccepisce preliminarmente il difetto di contraddittorio nel presente giudizio di legittimità per non essere stati in esso evocati i figli di Niccolò Gaetani, ossia Olimpia Gaetani Dell’Aquila D’Aragona e Filippo Gaetani Dell’Aquila D’Aragona, la cui qualità di coeredi del predetto documenta con la produzione di stralcio della dichiarazione di successione.
Per le considerazioni appresso esposte, che — come si dirà — devono condurre al rigetto del ricorso, si rivela nondimeno ultroneo, per il principio di ragionevole durata del processo, ordinare l’altrimenti necessaria integrazione del contraddittorio.
Secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, invero, il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 cod. proc. civ.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a produrre i suoi effetti.
Ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione prima facie infondato o inammissibile, appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (v. Cass. Sez. U. 22/03/2010, n. 6826; Cass. 21/05/2018, n. 12515; 10/05/2018, n. 11287; 17/06/2013, n. 15106).
- Con la memoria depositata in vista dell’adunanza del 25 settembre 2020 il difensore di parte ricorrente segnala la sopravvenuta morte, in data 2 marzo 2020, del proprio assistito.
Al riguardo occorre ribadire che nel giudizio di cassazione, dominato dall’impulso d’ufficio, non trova applicazione l’istituto della interruzione del processo per uno degli eventi previsti dagli artt. 299 e ss. cod. proc. civ., sicché, una volta instaurato il contraddittorio con la notifica del ricorso, la morte del ricorrente non determina l’interruzione del processo (v. ex multis Cass. Sez. U. 21/06/2007, n. 14385; 31/10/2011, n. 22624; 03/12/2015, n. 24635).
- Con il primo motivo il ricorrente deduce, con riferimento all’art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ., «violazione dell’art. 112 c.p.c.; nullità della sentenza e del procedimento, per omessa pronunzia in relazione alla cessazione della materia del contendere, per non avere la Corte d’Appello considerato le pattuizioni contenute nell’accordo transattivo intervenuto tra le parti nelle more del giudizio di secondo grado».
Premette che: — nelle more del giudizio di appello, egli aveva «raggiunto e sottoscritto» con la Civini Gestioni Immobiliari S.r.l. un’intesa, in virtù della quale il bene oggetto del contenzioso sarebbe stato trasferito dalla società al Basile a fronte del pagamento di euro 150.000 con contestuale azzeramento di ogni debito pregresso; — tale accordo prevedeva testualmente l’impegno della Civini a cedere il bene al Basile che prometteva di acquistarlo entro tre anni dalla data di rilascio del permesso di costruire da parte del Comune di Fiumicino; — la clausola finale di tale scrittura (trascritta testualmente in ricorso) così disponeva: «le parti rinunciano reciprocamente fra loro a tutti i debiti e crediti derivanti dal contenzioso in atto e la causa in appello (proc. n. 873/11 R.G.) si intenderà transatta e abbandonata con compensazione di spese»; — l’accordo non è mai stato revocato e non prevedeva alcuna scadenza, visto che la condizione del rilascio del permesso di costruire da parte del Comune di Fiumicino non si era avverata.
Ciò premesso, richiama l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, ove nel giudizio sia intervenuta una transazione o altro fatto che determini la cessazione della materia del contendere, la relativa statuizione non comporta una decisione nel merito della causa e si risolve nella dichiarazione di inammissibilità, essendo venuto meno l’interesse alla definizione del giudizio e, quindi, ad una pronuncia sul merito dell’impugnazione; ciò in quanto nel caso di accordo transattivo, il nuovo assetto pattizio si sostituisce alla regolamentazione data nella sentenza impugnata, che resta travolta e caducata e, pertanto, inidonea a passare in giudicato.
Deduce, quindi, che la corte di merito è incorsa nella violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere omesso di dichiarare cessata la materia del contendere.
- Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., violazione degli artt. 38 e 39 legge 27 luglio 1978, n. 392 e degli artt. 1175, 2043 e 2697 cod. civ., in relazione al confermato rigetto della subordinata domanda risarcitoria.
Lamenta che erroneamente la corte territoriale ha ritenuto che il locatore o il terzo non avessero posto in essere condotte tali da indurre in errore il conduttore circa l’avvenuta vendita del bene.
Sostiene che proprio la lettera inviata ai locatori il 1° giugno 2001 (e da questi ricevuta l’11 giugno) per comunicare la propria intenzione di esercitare il diritto di prelazione a fronte della ventilata vendita dell’immobile, avrebbe dovuto considerarsi prova univoca della condotta fraudolenta tenuta ai suoi danni. Ciò in quanto, mentre egli non poteva essere certo del fatto che i locatori avrebbero effettivamente alienato il bene, i locatori, viceversa, alla luce della su menzionata lettera, dovevano essere certi del fatto che il diritto di riscatto del conduttore sarebbe stato esercitato.
Egli, dunque, poteva ritenersi «tranquillo e al riparo da ogni dubbio» circa il fatto che i locatori, in caso di alienazione, lo avrebbero reso edotto in modo da consentirgli di esercitare il diritto di riscatto. Né vi erano elementi per paventare un comportamento fraudolento da parte dei locatori e tale da indurlo, nonostante l’invio della lettera, ad accertarsi presso la Conservatoria dei RR.II. di una eventuale vendita a terzi del bene, attesi gli ottimi rapporti con la parte locatrice.
Prova ulteriore dell’intento doloso avrebbe poi dovuto trarsi dal fatto che la comunicazione dell’avvenuta vendita alla Civini Gestioni Immobiliari S.r.l. gli era stata data ad un anno di distanza da questa, nella lettera del 24 giugno 2002 con la quale essi restituivano il canone annuale loro versato.
Rileva che solo un intento fraudolento poteva spiegare il fatto che i locatori avevano atteso un anno dalla vendita e il pagamento del canone annuale di locazione, prima di comunicare l’avvenuta vendita.
- Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ., violazione dell’art. 132, comma secondo, num. 4, cod. proc. civ., per manifesta illogicità della motivazione.
È manifestamente irrazionale, secondo lui, sostenere che la conoscenza dell’intenzione dei locatori di vendere il terreno avrebbe dovuto indurlo ad effettuare le opportune verifiche presso l’ufficio dei registi immobiliari, anziché ravvisare nella mancata risposta alla sua lettera del 1° giugno 2001 motivo per ritenere giustificata la convinzione che i locatori non avessero intenzione di vendere e conseguentemente la sua inerzia rispetto a tale verifica.
- Il primo motivo è inammissibile e, comunque, manifestamente infondato.
6.1. È anzitutto evidente l’aspecificità della doglianza, in violazione del requisito di cui all’art. 366 n. 4 cod. proc. civ. là dove deduce la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., senza minimamente confrontarsi con la sentenza che invece, sulla questione, si è pronunciata, pure ampiamente motivando.
La sentenza impugnata, invero: a) evidenzia anzitutto che si trattava (come del resto riferito, s’è visto, anche in ricorso, a pag. 22) non di un regolamento negoziale già efficace e operante ma di una «lettera d’intenti», con la quale la predetta società si impegnava a vendere al Basile l’immobile per cui è causa e quest’ultimo si impegnava ad acquistarlo al prezzo di € 150.000, rinunciando entrambe «reciprocamente fra di loro a tutti i debiti e crediti, derivanti dal contenzioso in atto» e convenendosi inoltre che «la causa in appello (proc. N. 873/11) si intenderà transatta e abbandonata, con compensazione delle spese»; b) rileva, inoltre, che alla prima udienza di comparizione le parti non comparirono e la causa venne rinviata ai sensi dell’art. 348 cod. proc. civ.; che, invece, alle successive udienze comparirono chiedendo dei semplici rinvii al fine di perfezionare l’accordo di bonario componimento e lo stesso ancora fecero alla successiva udienza del 15 giugno 2017, nonostante fossero state preavvertite che trattavasi di un ultimo rinvio; c) rimarca infine che «allo stato … considerato che l’appellante e la Civini Gestioni Immobiliari -nonostante i numerosi rinvii d’ udienza, richiesti ed ottenuti- non sono riuscite a raggiungere un definitivo accordo e a transigere bonariamente la vertenza, la stessa deve essere decisa nel merito …, dovendosi ritenere superati, anche perché non ottemperati, gli accordi intervenuti con la scrittura privata, senza data, depositata dalla Civini», esplicitamente concludendo che «conseguentemente, non può essere dichiarata cessata la materia del contendere».
6.2. Quand’anche si volesse intendere il motivo per come è argomentato a pag. 30, cioè come imputante alla corte romana non di non avere pronunciato ma di avere pronunciato male, risulta parimenti inammissibile perché ignora la motivazione della sentenza stessa e, dunque, è inidoneo ad integrare motivo di ricorso in tal senso, al di là della sua intestazione.
La censura, infatti, anche in tale prospettiva, non si confronta con la decisione impugnata e così postula un accertamento fattuale (quello del perfezionamento tra le parti di un nuovo assetto di interessi idoneo a regolare e definire ogni aspetto della controversia) opposto a quello contenuto in sentenza (che ha invece escluso che tanto potesse affermarsi).
Emerge, infatti, da quanto sopra esposto, un accertamento fattuale ben diverso e contrastante con quello postulato in ricorso: non di una reciproca e già definitiva rinuncia al contenzioso in atto si trattava (come si suppone, sostanzialmente, in ricorso), ma di un mero impegno a rinunciare in dipendenza della programmata compravendita dell’immobile, impegno che però non essendo stato concretamente attuato, non poteva di per sé dimostrare l’abbandono né il sostanziale superamento delle pregresse ragioni del contendere.
6.3. È questo un accertamento fattuale che, oltre a non essere stato in sé fatto segno di specifica censura, si appalesa congruamente motivato, anche in relazione alla inequivoca condotta processuale delle parti, apparendo al riguardo del resto agevole osservare che, se si fosse trattato di regolamento efficace e operativo, sarebbe bastato al Basile darne attuazione con la rinuncia all’appello, al tempo stesso integrante esecuzione e prova univoca dell’esistenza di un sopravvenuto regolamento negoziale idoneo a sovrapporsi e ad estinguere la lite in atto.
6.4. A tal riguardo non può anzi non rilevarsi che nelle conclusioni del Basile, quali riprodotte in sentenza, non si chiese la cessazione della materia del contendere, dal che possono ricavarsi due considerazioni, strettamente connesse e di rilievo dirimente: — il ricorrente stesso non riteneva che la materia del contendere fosse cessata e, dunque, essendo stato vittorioso al riguardo, avendolo la sentenza escluso, è escluso che egli possa lamentarsi di un punto che lo ha visto, secondo le conclusioni, vittorioso; — ma va anche escluso che la stessa Corte romana – al di là di quanto rilevato in sentenza – potesse, mancando l’accordo delle parti, tanto più non aderendovi nemmeno l’altra appellata, far luogo alla dichiarazione di cessata materia del contendere; semmai, se avesse ritenuto, al di là di tale accordo, che il documento integrasse un negozio produttivo di effetti sulle domande proposte, rendendole infondate, avrebbe dovuto far luogo ad una decisione di rigetto.
- Il secondo motivo è infondato.
7.1. Secondo pacifico orientamento, rammentato anche in ricorso, il conduttore di un immobile ad uso non abitativo, ove sia decaduto dal diritto di esercitare il riscatto di cui all’art. 38 della legge 27 luglio 1978 n. 392, può domandare sia al venditore che al compratore il risarcimento del danno patito, a titolo di responsabilità extracontrattuale, per effetto della decadenza, a condizione però che ne dimostri la rispettiva malafede, consistita nell’intento di tenerlo all’oscuro dell’avvenuto trasferimento; ciò in quanto, altrimenti, la possibilità del riscatto concessa al conduttore non consente, in mancanza della dimostrazione di un intento fraudolento diretto a impedirne l’esercizio, di riconoscere un nesso di causalità tra l’inadempimento dell’obbligo di denuntiatio ed il pregiudizio dell’interesse del conduttore all’acquisto dell’immobile (v. ex multis Cass. 30/08/2013, n. 19968; 03/07/2008, n. 18233; 21/05/2001, n. 6891; 02/04/1997, n. 2872; 26/05/1992, n. 6293; 16/05/1991, n. 5519).
7.2. È stato anche rilevato che la relativa valutazione costituisce un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito (v. Cass. n. 18233 del 2008, cit.).
Converrà al riguardo, però, precisare che l’insindacabilità attiene alla ricognizione della fattispecie concreta (censurabile come tale solo sul piano della motivazione e nei limiti dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ.), non anche alla sua qualificazione giuridica: riguarda cioè la ricognizione degli elementi di fatto posti a base della valutazione di sussistenza o meno del presupposto della dedotta responsabilità risarcitoria, non anche l’attività di sussunzione del fatto, così come accertato, nella fattispecie astratta che, secondo il ricordato principio, fonda la responsabilità risarcitoria del locatore.
7.3. Nel caso di specie, la corte territoriale ha giustificato il convincimento espresso circa l’impossibilità di correlare il mancato esercizio di tempestivo riscatto ad una condotta dei locatori volta a tenere il conduttore all’oscuro dell’avvenuta alienazione, con il rilievo della insufficienza dei dati fattuali accertati a dimostrare, oltre all’indubbia inosservanza dell’onere di denuntiatio incombente sul locatore (ma di per sé, come detto, pacificamente insufficiente a fondare anche un obbligo risarcitorio nei confronti del conduttore), anche un intento fraudolento diretto a impedire l’esercizio del diritto di riscatto.
7.4. Il ricorrente contesta tale valutazione, insistendo, di contro, nell’attribuire rilievo alla lettera inviata ai locatori il 1° giugno 2001 per comunicare la propria intenzione di esercitare il diritto di prelazione (lettera però ricevuta dai destinatari l’11 giugno, successivamente alla vendita) ed alla mancata risposta ad essa da parte dei locatori.
Egli argomenta dalla combinazione di tali due condotte — una positiva (o, se si vuole, commissiva), da parte del conduttore: l’invio della lettera; l’altra negativa (o, nella prospettiva della ricorrente, omissiva) da parte dei locatori: la mancata risposta a quella lettera, che facesse presente la già intervenuta vendita — nel senso che da esse potesse e dovesse trarsi: sia, da un lato, la malafede dei locatori che hanno omesso di palesare l’intervenuta vendita ben sapendo della volontà chiaramente espressa dal conduttore di far valere il proprio diritto di prelazione e, quindi, anche, ben potendo presumere la sua intenzione di riscattare l’immobile; sia, dall’altro, l’idoneità di tale condotta dei locatori a giustificare il convincimento del conduttore che essa dipendesse dalla non ancora maturata volontà di vendere l’immobile.
7.5. La censura non pone una quaestio facti, ma una quaestio iuris.
Pacifica essendo l’esattezza della ricognizione fattuale operata in sentenza quel che si prospetta è solo la falsa applicazione del principio richiamato sotto il profilo dell’erronea sussunzione giuridica di un fatto in sé incontroverso (v. Cass. 31/05/2018, n. 13747; 23/08/2018, n. 20975).
7.6. Tale prospettazione censoria è però priva di fondamento.
Conviene al riguardo muovere dal rilievo che il silenzio serbato dai locatori, successivamente alla già operata vendita, a fronte della manifestazione espressa dell’interesse del conduttore ad acquisire l’immobile, non viola alcun obbligo giuridico.
L’unico obbligo imposto al locatore che intenda trasferire a titolo oneroso l’immobile locato è, a termini dell’art. 38 legge 27 luglio 1978, n. 392, quello di «darne comunicazione al conduttore con atto notificato a mezzo di ufficiale giudiziario» (c.d. denuntiatio).
Si tratta, secondo consolidata interpretazione, di un obbligo legale di interpello, vincolato nella forma e nel contenuto, diretto a mettere il conduttore nella condizione di esercitare il diritto di prelazione, ove ne sussistano i presupposti (Cass. Sez. U. 04/12/1989, n. 5359).
Esso però si colloca, evidentemente, anteriormente alla vendita, la quale, se effettuata in favore di terzi senza essere preceduta dal detto interpello, segna, di quell’obbligo, il definitivo inadempimento. La sanzione di tale inadempimento è, nel sistema della legge, (solo) il diritto di riscatto, da esercitare nelle forme e nei termini previsti dall’art. 39 l. cit. (sei mesi dalla trascrizione del contratto); reazione tipica ed altresì unica, nel senso che non è sostituibile con una sanzione diversa: in caso di vendita a terzi, al conduttore pretermesso è data la possibilità di riscattare l’immobile, «non esiste, invece, un ‘rimedio attuativo’ dell’obbligo di preferire che, in difetto dell’osservanza delle prescrizioni dell’art. 38 I. n. 392/1978, consenta al conduttore un trasferimento diretto, senza dover attendere il momento “sanzionatorio” dell’esercizio del riscatto» (così Cass. 26/10/2017, n. 25415).
Una volta, dunque, che si verifichi il mancato interpello e la vendita a terzi, la fattispecie trasmigra nell’orbita del possibile riscatto e, dunque, della disciplina dettata dall’art. 39 l. cit., la quale non prevede, né tanto meno sanziona, un nuovo ulteriore obbligo in capo al venditore (ex locatore) di comunicare al conduttore (non più ovviamente l’intenzione di vendere ma) la già avvenuta vendita.
7.7. Del che del resto ben si comprende la ratio.
Il favor conductoris si risolve, per chiara scelta legislativa, solo nella previsione a vantaggio del conduttore di un diritto di prelazione e del succedaneo diritto di riscatto.
La disciplina di quest’ultimo configura un meccanismo di tutela che, nell’affidare allo stesso conduttore l’iniziativa e nel sottoporla anche a ristretti limiti temporali, tiene conto evidentemente dell’esistenza del contrastante interesse del terzo acquirente e del venditore, ex locatore, alla stabilità degli effetti del negozio concluso (di per sé pienamente valido ed efficace): interesse questo che, in tal modo e per ciò stesso, è bensì considerato in posizione recessiva (e perciò destinato a soccombere al riscatto, alla stregua di una sanzione del comportamento inadempiente prima tenuto dal locatore) ma pur sempre meritevole di tutela, realizzata, per l’appunto, attraverso la previsione di limiti temporali entro i quali quella sanzione può determinarsi; ciò in una prospettiva, dunque, non di assoluta prevalenza di un interesse sull’altro, ma di equo bilanciamento.
Si rammenti, in proposito, che con sentenza n. 228 dell’8 maggio 1990 la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 39, primo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392, sollevata, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui fa decorrere il termine di decadenza di sei mesi per l’esercizio del diritto di riscatto dalla data di trascrizione del contratto di compravendita, per l’asserita riduzione delle possibilità del conduttore di tutelare il proprio diritto e per irrazionalità della scelta dell’indicato dies a quo.
Tale decisione del giudice delle leggi si è fondata sul rilievo che «far decorrere il termine semestrale di decadenza del diritto di riscatto dalla effettiva conoscenza del conduttore dell’avvenuta compravendita a lui non denunziata o, se denunziata, con indicazione di prezzo maggiorato che lo ha distolto dall’esercitare il diritto di prelazione, significherebbe spingere il favor conductoris fino a creare incertezza e intralcio al traffico commerciale degli immobili, restando il terzo acquirente permanentemente esposto per un tempo indeterminato all’esercizio del diritto di riscatto del conduttore.
«Imporre d’altra parte al terzo acquirente un onere di comunicazione verso il conduttore a supplenza della mancata denuntiatio del locatore-venditore postulerebbe un vizio del trasferimento qualora esso non fosse adempiuto. Si tratta, come ognun vede, di operazioni di ricostruzione della norma che richiedono ponderazione di interessi sociali riservata al legislatore».
7.8. Se ne ricava, dunque, che l’esercizio del diritto di riscatto è affidato esclusivamente ad una iniziativa del conduttore, senza la previsione di alcun onere fattivo di cooperazione del venditore (ex locatore) o dell’acquirente, e ciò anche nel momento dell’acquisizione della conoscenza dell’avvenuta vendita, presumendosi che ad ottenere la stessa sia sufficiente (oltre che necessaria) la sola trascrizione del contratto e, dunque, la loro libera consultazione da parte dello stesso conduttore, per tal motivo essendo ritenuta legittima anche la sua designazione quale dies a quo del termine semestrale di decadenza del diritto medesimo.
7.8. Ciò premesso, appare altresì evidente — tornando al caso in esame — che la ricezione, successivamente alla vendita, della lettera del conduttore nulla aggiunge o toglie al quadro giuridico delineato.
Così come, se fosse stata ricevuta prima, essa nulla aggiungeva all’obbligo, già ex lege gravante sul locatore, della denuntiatio (tanto meno essa di per sé valendo a costituire l’effetto di un positivo esercizio del diritto di prelazione), allo stesso modo la sua ricezione successivamente alla vendita non vale a costituire, in mancanza di alcuna previsione di legge, un obbligo giuridico in capo all’ex locatore-venditore (né tanto meno in capo all’acquirente) di informare il mittente della già avvenuta vendita.
Rispetto alla descritta ratio ispiratrice della disciplina speciale, non v’è ragione di ritenere che l’interesse del venditore e del terzo alla stabilità degli effetti del negozio, a tale disciplina sotteso nei termini detti, e il meccanismo prescelto per il loro bilanciamento, abbiano a subire una diversa considerazione e modulazione solo perché, con detta lettera, è divenuto espresso quel che quella disciplina già comunque considerava implicito: ossia l’interesse del conduttore a far valere il diritto di prelazione e, dunque, anche presumibilmente ad esercitare il succedaneo diritto di riscatto.
7.9. Tali premesse non possono non riverberarsi anche sul vaglio che si richiede di compiere circa la valenza che, nella diversa prospettiva extracontrattuale, a tale comportamento (ossia alla mancata risposta alla lettera del conduttore) si ipotizza debba attribuirsi come diretto e idoneo a impedire l’esercizio del diritto di riscatto.
Il descritto meccanismo implica che l’inadempimento del locatore all’obbligo legale della denuntiatio e poi l’inerzia, il silenzio o in genere la mancata cooperazione ai fini del succedaneo esercizio del diritto di riscatto non possano, di regola, considerarsi fonte di alcun obbligo risarcitorio nei confronti del conduttore il cui (eventuale) interesse all’acquisto, con diritto di prelazione, dell’immobile locato rimanga inattuato.
Ciò in ragione del fatto che il meccanismo di attuazione di tale interesse, rimesso e affidato, come detto, esclusivamente all’iniziativa ed alla diligenza dello stesso conduttore, è ritenuto di per sé pienamente idoneo e sufficiente a tal fine, discendendone, per converso, che l’inattuazione di quell’interesse deve di regola ritenersi causalmente imputabile allo stesso conduttore, inerte o negligente nell’attivare quelle iniziative che gli consentirebbero — nonostante il silenzio, l’inerzia o la mancata cooperazione dell’ex locatore — di realizzare ugualmente e pienamente il suo interesse.
È per tal motivo che, come s’è detto, la giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che una responsabilità risarcitoria del venditore (ex locatore) può configurarsi, a titolo extracontrattuale, solo a condizione che a quel nesso di causa se ne sovrapponga un altro, da dimostrarsi ovviamente dal conduttore, tale per cui l’inattuazione dell’interesse del conduttore possa considerarsi evento ricollegabile alla condotta preordinata a provocare l’evento medesimo, che, comportando un danno ingiusto, ha impedito l’esercizio di un diritto.
7.10. Il principio richiamato richiede dunque un quid pluris, un comportamento cioè diverso e più articolato del semplice silenzio; un contegno cioè che magari ricomprenda il silenzio o l’inerzia del locatore, ma che tuttavia sia anche in grado di attribuire ad essi, in ragione di altre circostanze, artificiosamente create, un significato diverso e univoco da quello meramente neutro che di per sé quelli hanno: un significato in grado di infondere oggettivamente e univocamente nel conduttore il convincimento che quella vendita non sia stata operata e comunque a indurlo a non attivarsi per effettuare le opportune visure.
7.11. Nel caso di specie, la mancata risposta alla lettera del giugno 2001 avrebbe potuto, dunque, in tale prospettiva, essere portatrice di valore indiziario se, in ipotesi, nei mesi successivi, vi fossero state occasioni d’incontro tra conduttore ed ex locatori idonee a rappresentare — sia pure implicitamente, ma in modo univoco — l’apparente persistenza di qualità e rapporti identici a quelli anteriori alla vendita: ad es. se i venditori avessero continuato a riceversi canoni o altri oneri legati al rapporto locativo senza nulla dire (come ad es. nel caso considerato da Cass. n. 19968 del 2013, cit.).
Tanto non risulta affermato però neppure dal ricorrente, avendo anzi egli evidenziato che l’occasione nella quale i locatori ebbero a comunicargli l’intervenuta vendita a distanza di un anno dalla stessa fu quella del pagamento del canone «annuale», ovvero, è da intendere, del primo successivo alla vendita. Non si fa neppure menzione di altre precedenti occasioni di incontro o interlocuzione con i locatori.
7.13. Non è, invece, condivisibile nella descritta prospettiva l’argomento secondo cui l’invio della predetta lettera del 1° giugno 2001 ai locatori autorizzava il conduttore ad avere certezza che la mancata risposta equivalesse a mancata concretizzazione dell’intenzione di vendita. Tale deduzione si appalesa del tutto generica, non è fondata su alcuna massima di esperienza o regola causale che possa giustificare una siffatta implicazione dalla mera mancata risposta; lo stesso ricorrente per corroborarla evoca gli ottimi rapporti tra le parti, i quali però costituiscono circostanza di fatto solo affermata ma mancante di alcun riscontro in quanto accertato in sentenza o in quanto comunque sottoposto a dibattito processuale (per cogliere il quale, comunque, sarebbe stata necessaria una denuncia, rispettosa dei connessi oneri di specificità, di omesso esame ex art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ.: denuncia nella specie mancante).
Ad essa, quantomeno, è opponibile come altrettanto astrattamente valida l’implicazione che, in senso esattamente contrario, ne trae invece la corte d’appello: quella cioè che, proprio il silenzio serbato alla lettera, avrebbe potuto e dovuto consigliare il conduttore a compulsare i RR.II. per avere, in quel modo, certo e inconfutabile riscontro del fatto che quella intenzione di vendere, di cui lui stesso afferma di avere avuto notizia e che lo avevano spinto a inviare quella lettera, avesse, oppure no, avuto seguito.
- Il terzo motivo è inammissibile.
Una nullità della sentenza per mancanza di motivazione, ai sensi dell’art. 132, comma secondo, n. 4, cod. proc. civ. (error in procedendo denunciabile con ricorso per cassazione ex art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ.,) può ammettersi solo in quattro casi: — quando la motivazione manchi del tutto finanche «sotto l’aspetto materiale e grafico»; — quando contenga un «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili»; — quando sia «perplessa ed obiettivamente incomprensibile»; — quando, infine, sia puramente apparente.
Si tratta di acquisizioni risalenti nella giurisprudenza di legittimità, significativamente ribadite nella esegesi del nuovo testo dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134.
Di tale riformulazione si è detto, infatti, come noto, che deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come «riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione», e che «pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione» (Cass. Sez. U. 07/04/2014, n. 8053).
Nella specie non è ravvisabile alcuna di tali ipotesi limite.
A ben vedere nemmeno la prospettazione della censura la delinea, quel che viene denunciato essendo, infatti, non l’incomprensibilità della motivazione ma la sua capacità persuasiva o logicità rispetto alle premesse: in altre parole l’insufficienza della motivazione che però non configura più vizio cassatorio.
È appena il caso comunque di soggiungere che, alla luce delle considerazioni sopra esposte, la sentenza resiste ampiamente a tale pur inammissibile censura.
- Il ricorso deve essere pertanto rigettato. Rimane conseguentemente assorbito l’esame del ricorso incidentale condizionato — che avrebbe peraltro dovuto dichiararsi inammissibile in quanto mirato solo a riproporre domanda di manleva nei confronti della società acquirente: domanda che era rimasta assorbita nei gradi di merito e che pertanto, lungi dal poter giustificare l’impugnazione, in mancanza di soccombenza, avrebbe dovuto essere riproposta, in caso di accoglimento del ricorso principale, davanti al giudice del rinvio (v. Cass. 13/07/2018, n. 18648; n. 22095 del 22/09/2017; n. 4472 del 07/03/2016; n. 574 del 15/01/2016; n. 6572 del 03/12/1988; n. 767 del 09/02/1982; n. 1980 del 07/04/1981).
- Avuto, tuttavia, riguardo ai profili di novità, e rilevanza nomofilattica, della questione trattata, si ravvisano i presupposti per l’integrale compensazione delle spese tra le parti.
- Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.