Corte di Cassazione, Sez. V, ordinanza 11 novembre 2021, n. 33313
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente ha denunciato la violazione di norme di diritto (D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 6 e 22) e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, lamentando che la Commissione Tributaria Regionale ha omesso di rilevare come il decreto monitorio, con relativa clausola di provvisoria esecutività, avesse ad oggetto unicamente l’assegno e non anche la scrittura di ricognizione di debito.
- Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente ha dedotto la violazione di norme di diritto (D.P.R. n. 131 del 1986, art. 6), contestando che la Commissione Tributaria Regionale ha erroneamente ritenuto che la scrittura fosse soggetta a registrazione sebbene il documento fosse stato depositato nel procedimento monitorio unicamente a fini probatori.
- Con il terzo motivo di ricorso, il ricorrente ha prospettato la violazione del D.P.R. n. 131 del 1986 e della relativa Tariffa, deducendo che la scrittura di ricognizione di debito era priva di contenuto patrimoniale e non determinava l’insorgere di alcuna obbligazione nuova ed autonoma, sicché era improduttiva di effetti sostanziali, come invece affermato dalla Commissione Tributaria Regionale, con conseguente esenzione da tassazione in misura proporzionale.
- Con il quarto motivo di ricorso, il ricorrente ha rappresentato la violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17 bis e art. 36, n. 4 e si duole del fatto che la Commissione Tributaria Regionale ha omesso di pronunciarsi circa l’eccezione dell’appellato in merito all’illegittimità della richiesta dell’Agenzia delle entrate di sentir dichiarare “legittima la procedura seguita” pur precisando che era intervenuto l’annullamento parziale dell’atto impositivo con riduzione all’1% della tassazione, effettuato unicamente per evitare la controversia.
- Rileva prontamente la Corte che il ricorso solleva una questione di massima importanza circa la nozione di deposito in caso d’uso e l’obbligo di registrazione relativo ai documenti depositati nei procedimenti giudiziari, dovendo procedersi ad una preventiva analisi di sistema circa la ricostruzione normativa ed esegetica dell’istituto in esame.
- Ai sensi dell’art. 6 del D.P.R. n. 634 del 1972, “si ha caso d’uso quando un atto si deposita, per essere acquisito agli atti, presso le cancellerie giudiziarie nell’esplicazione di attività amministrative o presso le amministrazioni dello Stato o gli enti pubblici territoriali e i rispettivi organi di controllo, salvo che il deposito avvenga ai fini dell’adempimento di una obbligazione dell’amministrazione o dell’ente ovvero sia obbligatorio per legge o regolamento”.
- La norma in parola difetta di chiarezza, lasciando incertezze sull’ambito di applicazione e sugli elementi costitutivi dell’istituto, sicché la dottrina ha espresso opinioni diverse su tali elementi, rintracciati talora in criteri soggettivi, quali la volontarietà del deposito o lo scopo perseguito dal depositante, e talaltra in criteri oggettivi, quali la definitiva acquisizione del documento depositato, ed anche dalla giurisprudenza di legittimità non sono emerse soluzioni nette su tali questioni.
In particolare, una prima tesi dottrinale individua un elemento costitutivo del caso d’uso nel carattere della volontarietà della produzione dell’atto; il deposito, per essere considerato come caso d’uso soggetto ad imposta, presupporrebbe la volontarietà del comportamento di chi procede alla consegna del documento e andrebbe distinto dal diverso caso in cui la messa a disposizione del documento risulti mediata da un ordine o da un invito nei confronti del soggetto che ne ha la disponibilità, poiché, in quest’ultima ipotesi, quando cioè la sottoposizione dell’atto a deposito non è spontanea, ma frutto di una sollecitazione dell’Ufficio, si sarebbe al di fuori del campo di applicazione del caso d’uso.
Una seconda tesi dottrinale, per individuare il campo di applicazione del caso d’uso, evidenzia, quale possibile presupposto di carattere oggettivo dell’istituto, l’acquisizione definitiva del documento depositato presso l’Amministrazione finanziaria; pertanto, la circostanza che un documento sia stato depositato “per essere acquisito agli atti” (D.P.R. n. 131 del 1986, ex art. 6), lungi dal riferirsi a qualsivoglia ipotesi di esibizione del documento, dovrebbe comportare l’acquisizione o l’archiviazione definitiva dell’atto presso l’Ufficio, atteso che, diversamente, la mera esibizione di una scrittura destinata ad essere restituita al contribuente non concretizzerebbe il caso d’uso.
Un’ulteriore tesi dottrinale si fonda, infine, sullo scopo del deposito, ovvero sull’intenzione che da esso derivino effetti giuridici od operativi, in quanto non sarebbe sufficiente il mero deposito di un atto a configurare il caso d’uso, bensì occorrerebbe che tale deposito fosse finalizzato al perseguimento di determinati effetti di carattere sostanziale.
La dottrina, inoltre, dall’analisi comparata tra la precedente – R.D. 30 dicembre 1923, n. 3269, art. 2 – e l’attuale disciplina dell’istituto del caso d’uso – D.P.R. n. 634 del 1972, art. 6 il cui testo è stato in seguito riprodotto, in maniera quasi identica, dal D.P.R. n. 131 del 1986, attuale art. 6 -, che richiede, come si è visto, affinché ricorra il caso d’uso, che il deposito di un atto presso la cancelleria giudiziaria avvenga nell’esplicazione di attività amministrative, deduce che il Legislatore della Riforma tributaria abbia inteso ridurre in modo considerevole la portata della norma previgente, escludendo il caso d’uso ogniqualvolta il deposito di un atto avvenga nel quadro di un’attività giurisdizionale in senso stretto, da intendersi come procedimenti a carattere contenzioso; la ratio della norma, si sottolinea, sarebbe quella di evitare che l’imposizione fiscale possa rappresentare un ostacolo alla richiesta di giustizia, costringendo il contribuente che voglia instaurare un’azione giudiziaria, ma che non abbia la disponibilità economica per adempiere all’obbligazione tributaria, a rinunciare al proprio diritto di difesa, richiamando, peraltro, anche numerose Risoluzioni del Ministero delle Finanze che escludono costituisca “caso d’uso” l’allegazione di un documento a un atto giudiziario nell’ambito di un’attività processuale contenziosa.
- Dalle poche e generiche pronunce in argomento emesse dalla giurisprudenza di legittimità, non emergono riferimenti, chiari o impliciti, circa: 1) la ratio, che da più parti si intende sottesa al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 6 di sottoporre a tassazione unicamente il deposito degli atti che, nel consentire il conseguimento di effetti giuridici od operativi, producono vantaggi o utilità per il depositante, inteso, inoltre, come la parte contribuente, con esclusione del deposito degli atti che producano effetti giuridici utili per l’Amministrazione, ma non per il depositante; 2) la distinzione tra le varie attività giurisdizionali, nelle quali il deposito in giudizio dell’atto costituisca, o meno, caso d’uso.
- Ritiene, quindi, la Corte sia di particolare importanza chiarire la nozione di registrazione in caso d’uso, trattandosi di questione che presenta problemi applicativi di rilievo non trascurabile e che interessa un contenzioso potenzialmente molto vasto; in aggiunta alla suddetta questione, che potrebbe assumere valore assorbente, il Collegio rileva, comunque, l’esistenza di una diversità di indirizzi giurisprudenziali riguardo l’applicazione dell’imposta di registro al riconoscimento di debito.
- L’imposta di registro che riguarda il decreto ingiuntivo va distinta da quella cui è sottoposta la ricognizione di debito in base alla quale il decreto ingiuntivo è stato eventualmente emesso.
Il D.P.R. n. 131/1986 (art. 37) e la Tariffa ad esso allegata (art. 8, co. 1, lett. b) prevedono che i decreti ingiuntivi esecutivi sono soggetti ad imposta di registro proporzionale, nella misura del 3%, salvo conguaglio in base a successiva sentenza passata in giudicato, indipendentemente dal rapporto sottostante (cfr. Cass., 18 gennaio 2017, n. 1247; in precedenza, Cass., Sez. V, 17 settembre 2001, n. 11663; si vedano anche Cass., Sez. V, 20 giugno 2008, n. 16829, che, a prescindere dalla massima ufficiale, non si riferisce alla tassazione del decreto ingiuntivo, ma a quella della ricognizione di debito; Cass., Sez. V, 28 maggio 2007, n. 12432).
Al contrario, il riconoscimento di debito non è specificamente regolato né dalla vigente normativa fiscale né dal Testo unico sull’Imposta di Registro. Nel codice civile, l’art. 1988 prevede una disciplina unitaria alla “promessa di pagamento” ed alla “ricognizione di debito” prescrivendo che (entrambe) dispensano colui a favore del quale ognuna di esse è fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale, la cui esistenza si presume fino a prova contraria.
- L’assenza di indicazioni legislative ha determinato, dunque, l’insorgere di differenti orientamenti giurisprudenziali circa la corretta tassazione di tale fattispecie.
Un primo orientamento sostiene che non sempre nella ricognizione di debito risulta esplicitata la causa debendi mediante richiamo (implicito o esplicito) all’esistenza dell’atto costitutivo di un sottostante rapporto patrimoniale; da ciò deriva che la ricognizione di debito può assumere forma “titolata” o altrimenti “pura” e che non sempre, sulla base degli elementi desumibili dalla predetta ricognizione, tale atto costitutivo è individuabile al fine di verificare se per esso è stata o meno già versata l’imposta dovuta; pertanto, laddove dalla ricognizione non risulti l’esistenza dell’atto costitutivo di un rapporto patrimoniale sottostante, e sul presupposto che, se nel documento non c’è alcuna innovazione rispetto all’obbligazione contratta, la natura dello stesso – privo di contenuto patrimoniale – è una “dichiarazione di volontà”, ne consegue l’applicabilità alla ricognizione di debito dell’aliquota dell’1%, propria – ai sensi dell’art. 3, Tariffa, parte I – degli “atti di natura dichiarativa, relativi a beni o rapporti di qualsiasi natura…” e la registrazione dell’atto in “termine fisso” (cfr. Cass. n. 12432/2007; conf. Cass. nn. 16829/2008, 15190/2021, 8152/2021, 3379/2020, 1247/2017, 14480/2016, 11692/2016).
Un secondo orientamento (cfr. Cass. n. 24107/2014; conf. 17808/2017 in motiv.), non operando alcuna particolare distinzione, attribuisce alla ricognizione di debito un “contenuto patrimoniale”, al che, vista la mancanza di specifiche norme, dovrebbe conseguire l’applicazione dell’imposta di registro secondo la cd. “disciplina residuale” (art. 9 della parte I della Tariffa allegata al T.U.R.), ossia nella misura proporzionale del 3%, con la registrazione dell’atto sempre in “termine fisso”.
Un terzo orientamento (cfr. Cass. n. 3379/2020) assume una posizione parzialmente difforme dai precedenti, sostenendo che: “… la ricognizione di debito, quale scrittura privata non autenticata, pur non espressamente inserita né nella prima, né nella seconda parte della tariffa di cui al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, né necessariamente ricompresa nel disposto di cui all’art. 4, della parte seconda, che dispone la registrazione in caso d’uso delle “scritture private non autenticate” qualora non abbiano contenuto patrimoniale, è ugualmente soggetta a registrazione in forza del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 9, parte prima, che ha valore di previsione generale, trattandosi di atto avente per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale (Sez. 5, Sentenza n. 24107 del 12/11/2014). Invero, essendo un atto avente, in quanto tale, “natura dichiarativa” – cui è perciò applicabile l’aliquota dell’1% fissata per tale specie di atti dall’art. 3 della tariffa allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 -, non sempre rimanda, implicitamente o esplicitamente, all’esistenza dell’atto costitutivo di un sottostante rapporto patrimoniale; nè tale atto costitutivo, sulla base degli elementi desumibili dalla ricognizione stessa, è sempre individuabile al fine di verificare se per essa è stata o meno già versata l’imposta dovuta (Sez. 5, Sentenza n. 12432 del 28/05/2007)”;
In base ad un quarto orientamento affermato in altra, recente, pronuncia (cfr. Cass. nn. 17869/2021), la Corte ha assunto una posizione intermedia affermando che la ricognizione di debito, quale atto con cui il debitore dichiara di riconoscere l’esistenza di un debito (art. 1988 c.c.), può essere titolata o non titolata a seconda che contenga o non contenga il riferimento al rapporto fondamentale da cui il debito trae origine, ha natura “puramente dichiarativa” e, “in ragione di tale natura – e del contenuto indubbiamente patrimoniale che la sottrae all’ambito applicativo dell’art. 4 della tariffa, parte seconda, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986 … – è soggetta “ad imposta di registro con aliquota dell’1% fissata per tale specie di atti dall’art. 3 della tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131”, senza che quindi… possa trovare applicazione il residuale art. 9 della tariffa che prevede l’aliquota del 3% per la registrazione di “Atti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”.
La stessa Corte, infine, in altre pronunce (cfr. Cass. nn. 15268/2021, 81/2018) ha affermato il principio di diritto secondo cui la ricognizione di debito è una mera dichiarazione di “scienza” (e non di “volontà”), improduttiva di nuovi fatti giuridici, poiché, in base al dettato civilistico, dà solo evidenza dello status quo di rapporti contrattuali già in essere, “cristallizzandoli” a livello probatorio (fino a prova contraria). L’imposta di registro, secondo quest’ultimo orientamento, va pertanto applicata in misura fissa, essendo stato altresì evidenziato come la tesi della non applicabilità dell’imposta di registro in misura proporzionale trovi ulteriore conferma anche nel fatto che il R.D. n. 3269/1923 (poi sostituito dal D.P.R. n. 131 del 1968) citava espressamente la ricognizione del debito nella Tariffa ad esso allegata, previsione che, per contro, nella Tariffa allegata al D.P.R. n. 131 del 1986 non è stata ripresa, il che ben può essere interpretato quale intenzione del legislatore di voler escludere la ricognizione del debito da quelle assoggettabili a imposta di registro in misura proporzionale.
Si sostiene, in particolare, che la ricognizione di debito, al pari di tutti gli altri atti o negozi “ricognitivi”, si sostanzia in un atto con il quale viene affermata, da parte di chi lo pone in essere, la propria consapevolezza circa una data situazione giuridica non incerta (che è preesistente all’atto ricognitivo e che, perciò, da esso non viene innovata, e cioè non originata, modificata o estinta).
Se, come è stato sottolineato, la ricognizione di debito non ha l’effetto sostanziale di far sorgere il debito, neppure qualora lo stesso non fosse già preesistente (e, quindi, fosse riconosciuto per errore o per simularne l’esistenza), essa, dunque, si afferma nelle pronunce in questione, differisce rispetto agli atti o negozi “dichiarativi“, piuttosto che “accertativi“: i primi, infatti, riguardano le fattispecie nelle quali (come nella divisione) si ha per effetto della riconfigurazione operata dal negozio dichiarativo una modificazione della situazione giuridica preesistente, senza il prodursi di effetti obbligatori o reali; per converso, i secondi hanno per oggetto quelle fattispecie nelle quali si cancella l’incertezza di una data situazione oppure la si chiarisce, la si precisa, e la si sostituisce con una situazione acclarata.
- Sulla base delle suddette argomentazioni si perviene quindi ad escludere che si possa assimilare la ricognizione di debito ad un atto o negozio dichiarativo, mancando la “modificazione della situazione giuridica preesistente”, ed altrettanto assente nella ricognizione di debito si ritiene sia la presenza di un proprio “contenuto patrimoniale” in quanto quello in essa “indicato” è unicamente la prova processuale del risultato di prestazioni a contenuto patrimoniale “avutesi” in preesistenti rapporti giuridici mediante riconoscimento ex post degli effetti economici di quegli atti (cfr. Cass. n. 15268/2021).
- Sul presupposto che nella ricognizione di debito non interviene alcuna “modifica della situazione giuridica preesistente” e, conseguentemente, alcuna “prestazione a contenuto patrimoniale”, sulla base dell’orientamento da ultimo citato la ricognizione di debito deve essere perciò assoggettata a imposta di registro in misura fissa, il che peraltro rende anche irrilevante che, laddove l’operazione sottostante oggetto della ricognizione di debito fosse soggetta a IVA, l’atto sarebbe comunque da tassare in misura fissa in ossequio al principio di alternatività “IVA registro” di cui all’art. 40 T.U.R.
- Con riguardo alla registrazione, dalle suddette conclusioni conseguirebbe, inoltre, che se l’atto di ricognizione di debito è da collocare, come si è detto, nella categoria degli atti “non aventi ad oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale“, questi ultimi, non trovando disciplina in alcuna altra voce della Tariffa Parte Prima o della Tariffa Parte Seconda, avrebbero, con riguardo alla registrazione, il seguente regolamento: a) se si tratta di atti pubblici o di scritture private autenticate, vi è obbligo di registrazione in “termine fisso” (art. 11, comma 1, Tariffa Parte Prima); b) se si tratta di scritture private non autenticate, si procede a registrazione solo “in caso d’uso” (art. 4, comma 1, Tariffa Parte Seconda).
- Ancorché trattasi di difformità di indirizzi interpretativi espressi all’interno della sezione tributaria di questa Corte, considerata la sua estrema rilevanza giuridica e le diffuse conseguenze che la soluzione scelta produrrebbe sul piano pratico, nonchè l’ampio dibattito suscitato in dottrina sull’argomento, il Collegio ritiene opportuno rimettere anche la decisione di tale questione alle Sezioni Unite.