Cass. civ., sez. III, ordinanza, 14 settembre 2021, n. 24704
PRINCIPIO DI DIRITTO
La Terza Sezione civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite in ordine alla risoluzione del contrasto formatosi, in tema di concessione di suolo pubblico da parte degli enti pubblici ai privati, in ordine al se l’applicazione di una clausola penale per l’inadempimento o il ritardo, che acceda al titolo autoritativo, possa fondarsi sulla mera adesione unilaterale ad un regolamento o debba essere trasfusa in un atto sottoscritto dal concessionario.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 1, art. 23 Cost., artt. 25 e 26 C.d.S. e artt. 65, 66 e 67 del suo regolamento di attuazione, nonché del T.U. 1934, art. 106 e del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 274, L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 1-bis e della L. 20 marzo 1865, n. 2248, All. E, nonché degli artt. 1362 e 1363 c.c. e segg., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3″. La società ricorrente sostiene che le penalità di cui il comune ha richiesto il pagamento sarebbero da qualificare come sanzioni amministrative; come tali sarebbero illegittime, in quanto stabilite da un regolamento comunale senza la necessaria base di una prescrizione normativa. Con il secondo motivo si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1364,1370 e 1371 c.c. e/o dell’art. 26 del Regolamento Cavi del Comune di Roma approvato con Delib. n. 56 del 2002, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3: la “penale” era prevista soltanto per il ritardo nell’esecuzione dei lavori, non già per il ritardo nella formale comunicazione di loro ultimazione”. La società ricorrente deduce che, anche a ritenere le penalità richieste dal comune come di natura negoziale, esse comunque non sarebbero dovute, in quanto previste per il solo ritardo nella ultimazione dei lavori, mentre nella specie i lavori erano stati tempestivamente ultimati e solo l’invio della formale comunicazione e documentazione di ultimazione dei lavori stessi era avvenuto in ritardo. Con il terzo motivo si denunzia “Violazione dell’art. 39 CPA, artt. 112,324 c.p.c. e art. 2909 c.c.: nullità della sentenza per contrarietà a precedente giudicato amministrativo tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4; omesso rilievo del giudicato e di nullità negoziale derivata e/o consequenziale, in relazione agli artt. 360 c.p.c., nn. 3 e 4″. La società ricorrente deduce che sussisterebbe un giudicato amministrativo tra le parti sulla illegittima applicazione, nella specie, dell’art. 26 del Regolamento Cavi comunale e, anzi, sulla illegittimità dello stesso art. 26 (sentenza del T.A.R. del Lazio n. 2238 del 6 marzo 2012). Con il quarto motivo si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., comma 2, e/o dell’art. 28 e dell’art. 26-bis del Regolamento Cavi del Comune di Roma del 2005, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3″. La società ricorrente sostiene: che il Regolamento Cavi del comune di Roma del 2002 sarebbe stato oggetto di modificazioni nel 2005, anche con riguardo alle penalità oggetto della presente controversia; che le innovazioni sarebbero applicabili alle situazioni pregresse, come già dedotto nel giudizio di appello; che, anche a voler ritenere dovute le penalità, avrebbe dovuto quanto meno essere rideterminato il loro importo in base alle nuove disposizioni del 2005. Con il quinto motivo si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 1384 c.c. e nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4: le somme pretese per penali dovevano almeno essere ricondotte ad equità dal giudice”. La società ricorrente deduce che le penalità irrogate, se intese come penali di natura contrattuale, come tali inquadrabili nell’ambito dell’art. 1382 c.c., avrebbero quanto meno dovuto essere ricondotte dal giudice ad equità, come richiesto in grado di appello, anche considerando che l’area oggetto di controversia era stata di fatto tempestivamente riconsegnata e riaperta al pubblico.
- In via pregiudiziale, la Corte formula le seguenti osservazioni, sulla base delle quali ritiene di dover disporre la trasmissione del ricorso al Primo Presidente perché valuti l’opportunità di una eventuale sua assegnazione alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2. Oggetto della presente controversia è la contestazione di un semplice invito al pagamento di somme, formulato direttamente dal Comune di Roma, ente creditore, nei confronti della società debitrice (…) S.p.A. (già (…) S.p.A.), con riguardo alle penalità per la tardiva riconsegna di un’area pubblica di cui a quest’ultima era stata concessa l’occupazione temporanea. Sebbene sia stato originariamente proposto dalla società attrice ricorso nelle forme dell’opposizione di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 22, la domanda pare doversi qualificare come mera azione di accertamento negativo, in mancanza di un procedimento amministrativo volto all’irrogazione di una vera e propria sanzione ai sensi della richiamata L. n. 689 del 1981; essa, d’altra parte, certamente non può qualificarsi come opposizione esecutiva, non risultando minacciata l’esecuzione forzata e non essendo d’altronde neanche in discussione l’esistenza di un eventuale titolo esecutivo. Le penalità in contestazione sono previste dall’art. 26 del Regolamento Cavi del Comune di Roma, approvato con Delib. 17 maggio 2002, n. 56, reso oggetto di espressa accettazione, per iscritto, da parte della concessionaria in occasione della richiesta della concessione. Si discute se si tratti di sanzioni amministrative, come sostiene la ricorrente (assumendone la conseguente illegittimità, per la mancanza di una previsione normativa che ne legittimasse la previsione e l’irrogazione da parte dell’ente locale) o di una clausola penale negoziale oggetto di convenzione accessoria e integrativa rispetto al rapporto pubblico di concessione di occupazione di area pubblica, come affermato dalla corte di appello nella decisione impugnata. Si discute altresì della validità di una siffatta convezione negoziale, nonché delle modalità e dei termini della sua concreta applicazione nella fattispecie.
- Tutte le questioni oggetto del ricorso sono state già affrontate di recente da questa Corte, in diversi precedenti aventi ad oggetto fattispecie analoghe, anzi in buona parte sostanzialmente identiche, quanto meno nei loro termini sostanziali, nonché in relazione alle parti in causa. Tra le decisioni pubblicate sino alla data dell’udienza, vengono certamente in rilievo le seguenti: Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 15146 del 11/06/2018; Sez. 3, Ordinanza n. 15754 del 15/06/2018; Sez. 1, Ordinanza n. 25380 del 09/10/2019; Sez. 1, Ordinanza n. 25849 del 14/10/2019; Sez. 1, Sentenza n. 10738 del 05/06/2020; Sez. 1, Ordinanza n. 18904 del 11/09/2020. Tali decisioni giungono peraltro a soluzioni difformi e contrastanti, non solo in relazione all’esito finale delle identiche domande proposte dalla società concessionaria (in alcuni casi accolte ed in altri rigettate), ma altresì – e pur nella peculiarità delle singole vicende processuali – con riguardo all’inquadramento sistematico della fattispecie ed alla individuazione dei principi di diritto applicabili, come del resto condivisibilmente fatto rilevare dalla stessa Procura Generale, nelle conclusioni formulate per iscritto in vista dell’udienza pubblica.
- Va precisato che, in tutte le decisioni richiamate, è costante l’affermazione secondo la quale deve escludersi che Roma Capitale abbia titolo per pretendere le penalità previste dal Regolamento comunale n. 56 del 2002 a titolo di sanzioni amministrative, non disponendo del potere di prevedere e irrogare siffatte sanzioni, sulla base della normativa allora vigente ed essendo esse comunque espressamente qualificate come penali negoziale dallo stesso regolamento. Le questioni su cui i precedenti si divaricano riguardano invece la configurabilità, nella specie, di una convenzione negoziale tra l’ente locale e la società concessionaria, accessoria e integrativa rispetto al rapporto pubblico di concessione di occupazione del suolo pubblico, che preveda delle penali di natura contrattuale (da inquadrare, dunque, nell’ambito dell’art. 1382 c.c.), nonché i requisiti di forma necessari per il valido perfezionamento e l’efficacia di una siffatta convenzione, oltre che la stessa possibilità del rilievo della eventuale mancanza di detti requisiti, da parte dei giudici di merito e/o in sede di legittimità.
- Nelle prime tra le decisioni richiamate (quelle pubblicate nel 2018 e nel 2019) hanno trovato conferma le pronunzie di merito che avevano sancito la sussistenza del credito dell’ente locale per le penali pretese, ritenute dovute sulla base di una valida convenzione integrativa del rapporto concessorio. Siffatta convenzione integrativa è stata ritenuta pienamente ammissibile nella situazione data, nonché, in concreto, validamente conclusa ed operante tra le parti, sulla base dell’adesione al regolamento comunale formulata dalla concessionaria con l’istanza di concessione, all’esito di approfondite valutazioni in diritto, anche di natura sistematica, espresse in modo particolarmente ampio e dettagliato nelle decisioni del 2019 (n. 25380/2019 e n. 25849/2019). La Corte, in particolare, afferma (tra l’altro) in tale sede che “la fonte della penale applicata alla ricorrente è stata ravvisata dalla sentenza impugnata nell’accordo delle parti, essendo stato rilevato che il Comune aveva espressamente condizionato il rilascio della concessione all’accettazione da parte dell’Acea delle clausole contenute nel regolamento, alle quali è stata pertanto riconosciuta efficacia negoziale, nonostante l’inquadramento delle stesse in un rapporto di tipo pubblicistico”, che “la disciplina di un rapporto derivante da un provvedimento di concessione può ben contenere un regolamento negoziale, fonte di diritti ed obblighi delle parti regolati esclusivamente dal diritto privato”, che “l’ammissibilità di siffatte pattuizioni nell’ambito di rapporti di tipo concessorio è ricollegabile alla natura complessa della fattispecie della concessione-contratto, con la quale la Pubblica Amministrazione, sia pure sulla base di un proprio provvedimento, attribuisce ad un soggetto privato la facoltà di svolgere un’attività che di regola si accompagna al trasferimento al concessionario di funzioni pubblicistiche, ma che in concreto può anche prescinderne”, che in tal caso “l’Amministrazione viene a trovarsi in una posizione particolare e privilegiata rispetto all’altra parte, in quanto dispone, oltre che dei pubblici poteri che derivano direttamente dalla necessità di assicurare il pubblico interesse in quel particolare settore al quale inerisce la concessione, anche dei diritti e delle facoltà che nascono comunemente dal contratto (cfr. Cass., Sez. III, 25/09/1998, n. 9594; 3/09/1998, n. 8768), tra i quali può essere previsto anche quello di esigere dalla controparte il pagamento di una penale in caso d’inadempimento degli obblighi posti a suo carico”…… “con la conseguenza che la penale svolge una duplice funzione, quella di sanzione per l’interesse pubblico violato e quella più squisitamente civilistica di determinazione preventiva e consensuale della misura del risarcimento del danno derivante dall’inadempimento o dal ritardo nell’adempimento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 3/12/2015, n. 5492)”, che “a ciò occorre aggiungere l’innegabile convenienza per l’Amministrazione dell’inserimento di una clausola penale nel regolamento del rapporto autorizzatorio, sia pure attraverso un rinvio recettizio all’art. 19 del Regolamento Scavi, in modo tale da tutelarsi contro l’inadempimento o il ritardo nell’adempimento delle condizioni imposte alla società autorizzata, nonché da liquidare anticipatamente il pregiudizio dallo stesso derivante, e ciò anche al fine di sopperire all’intervenuta abrogazione del R.D. n. 383 del 1934, art. 106, che, escludendo l’operatività delle sanzioni previste dal Regolamento, aveva lasciato privo di tutela l’interesse collettivo sotteso all’autorizzazione dell’attività di scavo”, per concludere che “non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha conferito rilievo per un verso al tenore letterale della norma regolamentare recepita nell’accordo, che attribuiva espressamente natura civilistica alle penali contemplate per il caso dell’inadempimento, prevedendone l’applicazione in aggiunta alle altre sanzioni, e per altro verso all’assetto complessivo degli interessi coinvolti nella fattispecie autorizzatoria, in tal modo pervenendo all’esclusione della riconducibilità della penale all’abrogato del R.D. n. 383 del 1934, art. 106, ed al conseguente rigetto della richiesta di disapplicazione formulata dalla ricorrente”. A conclusioni nella sostanza non dissimili giunge altra Sezione civile di questa Corte con sentenza del 2018 (n. 15754/2018). Nell’ordinanza n. 18146/2018 viene altresì esclusa in radice la possibilità per la società attrice di sollevare per la prima volta in sede di legittimità la questione relativa ad eventuali vizi relativi alla modalità ed alla forma con cui si sarebbe concluso l’accordo negoziale in relazione alla convenzione stessa (il che, ovviamente, implica anche l’esclusione della possibilità del rilievo di ufficio di siffatti vizi). La Corte afferma in proposito: “la questione, oggetto dell’esistenza e validità di un contratto inter partes – o meglio di una convenzione accessiva ai provvedimenti di concessione del suolo pubblico e di autorizzazione agli scavi – non ha costituito oggetto di diretto esame della sentenza impugnata, che, dopo aver rilevato la normale (frequentissima) stipulazione di siffatte convenzioni e riconosciuto al Comune la facoltà di predisporne in via unilaterale il futuro contenuto e la remunerazione mediante un canone mensile, della concessione di suolo pubblico, ha, tuttavia, fondato la sua tesi, contraria a quella della Società, sull’intervenuta sua accettazione dell’applicabilità della penale in caso di tardata riconsegna dell’area di cantiere, accettazione che era contenuta nell’istanza a sua firma. La natura privatistica di tale impegno è stata, poi, contrapposta all’affermata natura di prestazione patrimoniale imposta non in base ad atto normativo. Il tema secondo cui siffatto impegno non possa valere, in sé, quale atto d’obbligo unilaterale, ma debba invece, esser necessariamente racchiuso nell’ambito di un più ampio assetto negoziale impegnativo anche per l’Ente pubblico in relazione al quale va riferita la consolidata e condivisibile giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, in tema di forma essenziale dei contratti della P.A. – risulta inesplorato, e perciò nuovo…”.
- Nelle decisioni, rese dalla stessa Sezione civile, pubblicate nel 2020 (n. 10730/2020 n. 18904/2020), al contrario, le statuizioni di merito che avevano respinto la domanda di accertamento negativo della società concessionaria (statuizioni sostanzialmente analoghe a quelle confermate nei precedenti anteriori e a quelle impugnate con il presente ricorso, per quanto si evince dagli atti) sono state cassate, in un caso con rinvio, nell’altro addirittura con decisione nel merito di accoglimento della domanda di accertamento negativo della società concessionaria e conseguente dichiarazione di inesistenza del credito preteso dall’ente locale. Queste più recenti decisioni sono fondate sull’assunto in diritto per cui dovrebbe escludersi che “un obbligo negoziale avente ad oggetto la previsione di clausole penali possa trovare il proprio fondamento nella mera adesione unilaterale a clausole contenute in un regolamento e non trasfuse in un testo contrattuale”, con la conseguenza che “a fronte di uno specifico motivo che denuncia la nullità per violazione della necessaria forma scritta imposta dalla normativa sopra ricordata, deve prendersi atto che la correlazione allo specifico provvedimento concessorio del quale si discute impone di giungere alle conclusioni sopra ricordate”, vale a dire alla dichiarazione di nullità per difetto di forma dell’accordo, e ciò in quanto: “la soluzione adottata in concreto si discosta dai moduli negoziali espressamente individuati dal legislatore, con una scelta coerente con le regole generali in tema di contratti della p.a.“; “come anche di recente ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. Un. 9 agosto 2018, n. 20684), a proposito del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, artt. 16 e 17 (“Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato”), tali norme sono costantemente state interpretate nel senso della necessità della forma scritta – e per di più contestuale, ammettendosi la validità dello scambio di corrispondenza “secondo l’uso del commercio” ove le controparti siano “ditte commerciali” – per i contratti stipulati dallo Stato e dalle sue amministrazioni: tanto integrando una delle ipotesi richiamate dal n. 13 dell’art. 1350 c.c., per il quale “devono farsi per atto pubblico… sotto pena di nullità… gli altri atti specialmente indicati dalla legge””; “la necessità della forma scritta è costantemente ribadita dalla giurisprudenza di legittimità, quale espressione dei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione e garanzia del regolare svolgimento dell’attività amministrativa, visto che solo tale forma consente di identificare con precisione l’obbligazione assunta e l’effettivo contenuto negoziale dell’atto, rendendolo agevolmente controllabile (così Cass. 26 ottobre 2007, n. 22537) pure in punto di necessaria copertura finanziaria (sul principio, v. pure, più di recente: Cass. 28 giugno 2018, n. 17016)”. Viene altresì espressamente precisato che, in senso contrario, non potrebbe deporre neanche l’art. 27 C.d.S., comma 5, secondo il quale “i provvedimenti di concessione ed autorizzazione di cui al presente titolo, che sono rinnovabili alla loro scadenza, indicano le condizioni e le prescrizioni di carattere tecnico o amministrativo alle quali esse sono assoggettate”, in quanto “tali condizioni e prescrizioni hanno evidente natura autoritativa e non perdono tali caratteristiche – acquisendo quelle di clausole negoziali – per il sol fatto che ad esse il concessionario presta adesione”.
- Orbene, a giudizio del Collegio il contrasto sulla individuazione dei principi di diritto applicabili alla medesima fattispecie sostanziale, nelle decisioni richiamate, deve ritenersi evidente. La validità e l’efficacia di una convenzione negoziale accessoria e integrativa rispetto al rapporto di concessione che si perfezioni mediante l’adesione del concessionario, contenuta nella stessa istanza di concessione, al regolamento comunale che preveda le penalità la cui legittimità è in discussione, viene infatti espressamente affermata nelle prime decisioni (quelle del 2018 e del 2019), mentre viene negata altrettanto espressamente nelle ultime (quelle del 2020), sulla base del rilievo di vizi nelle modalità di formazione dell’accordo negoziale attinenti non solo alla necessità della mera forma scritta ma anche alla necessità dell’espressione del consenso in un testo del regolamento contrattuale che sia formato e approvato contestualmente dalla parte pubblica e da quella privata. D’altra parte, benché nel presente giudizio di legittimità la questione del difetto di forma dell’accordo integrativo del rapporto di concessione risulti espressamente sollevata dalla ricorrente solo con la memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., trattandosi di una questione di nullità, come tale rilevabile di ufficio anche in sede di legittimità (basti qui richiamare, in proposito, i principi espressi in Cass., Sez. U., Sentenza n. 26242 del 12/12/2014, Rv. 633509 – 01 e ss.), non pare potersi negare la sussistenza del contrasto anche in relazione a tale ultimo profilo. Il possibile rilievo del vizio di forma e della conseguente nullità negoziale, anche in presenza di uno specifico motivo di ricorso in proposito, è stato escluso nell’ordinanza n. 15146/2018 ed è stato, al contrario, ritenuto doveroso in quella della medesima Sezione del 2020, mentre esso, quanto meno, non è stato operato di ufficio nelle altre decisioni richiamate, pur risultando in tutti i casi sostanzialmente pacifiche (e identiche) le modalità e le forme in cui era avvenuta l’adesione della società concessionaria alle previsioni regolamentari aventi ad oggetto le penali contestate. Non può quindi che convenirsi con le conclusioni della Procura Generale, secondo la quale la sussistenza di decisioni difformi delle Sezioni semplici va riconosciuta, nella specie, al di là del tenore dei singoli ricorsi, in base al contenuto ed alle argomentazioni delle pronunzie, che giungono a conclusioni inconciliabili in relazione all’idoneità della mera adesione del concessionario alle condizioni indicate nel regolamento comunale a “trasferire l’applicazione delle penali sul piano convenzionale, nel quadro di una ricostruzione di sistema della figura della concessione-contratto anche alla stregua della L. n. 241 del 1990, art. 11” ovvero, al contrario, alla irrilevanza di detta adesione sotto tale profilo, quale “mera presa d’atto di una regolazione che rimane improntata alla schema autoritativo”. Altrettanto è a dirsi in relazione alle considerazioni della medesima Procura Generale sulla effettiva e concreta sussistenza di una difformità tra decisioni delle Sezioni semplici in ordine alla medesima questione che, benché possa apparire in qualche modo un “contrasto di tipo diacronico“, ha avuto luogo in un lasso di tempo molto breve e riguarda provvedimenti di Collegi con diversa composizione della medesima Sezione: l’indirizzo fatto proprio nelle decisioni più recenti non pare quindi potersi attribuire ad una condivisa rimeditazione della questione da parte della Sezione tabellarmente competente sui rapporti dei privati con la pubblica amministrazione, ma esprime effettivamente un contrasto attuale (anche) all’interno di quella Sezione, del quale appare inopportuna una composizione al di fuori della sede a tanto deputata, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2.
- In particolare, non pare possibile a questo Collegio semplicemente adeguarsi all’indirizzo espresso nelle decisioni più recenti della Prima Sezione civile. La tesi affermata in tali decisioni, della nullità per difetto di forma della convenzione integrativa del rapporto di concessione derivante dall’adesione del concessionario istante al regolamento comunale, risulta fondata essenzialmente, come già rilevato, sulla necessità dell’espressione del consenso in un testo contrattuale formato e approvato contestualmente dal privato interessato e dalla pubblica amministrazione, secondo quanto previsto dal R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, artt. 16 e 17 (“Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato”). In proposito, peraltro, esistono indicazioni normative e interpretative che andrebbero quanto meno prese in considerazione a sostegno dell’opposta tesi dell’idoneità di una siffatta adesione a perfezionare validamente la convenzione integrativa. In primo luogo, parrebbe infatti opportuno considerare che le penali in discussione nella fattispecie in esame sono previste da un regolamento comunale, vale a dire un atto amministrativo con valore ufficiale che, come tale, è ovviamente espresso in forma scritta ed è sottoscritto dagli organi competenti dell’ente locale. D’altra parte e’, altresì, pacifico tra le parti che le previsioni del Regolamento Cavi del Comune di Roma del 2002 sono state accettate con un atto scritto e sottoscritto dal legale rappresentante della società concessionaria, in occasione della richiesta di concessione di occupazione di area pubblica (con distinta, espressa e specifica accettazione per quelle di cui all’art. 26, che prevedono le penali per cui è causa e attribuiscono esplicitamente alle stesse valore negoziale). D’altra parte, il R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 17, sancisce espressamente che “i contratti a trattativa privata, oltre che in forma pubblica amministrativa nel modo indicato al precedente art. 16, possono anche stipularsi: per mezzo di scrittura privata firmata dall’offerente e dal funzionario rappresentante l’amministrazione; per mezzo di obbligazione stesa appiedi del capitolato; con atto separato di obbligazione sottoscritto da chi presenta l’offerta; per mezzo di corrispondenza, secondo l’uso del commercio, quando sono conclusi con ditte commerciali”. Pare difficile sostenere, in base ai rilievi che precedono, non solo che l’accordo negoziale integrativo del rapporto di concessione, nella specie, sia privo della forma scritta, secondo il significato che ordinariamente viene attribuito a tale requisito (cfr. in proposito, in generale: Cass., Sez. 1, Sentenza n. 6629 del 18/07/1997, Rv. 506139 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 23966 del 23/12/2004, Rv. 579137 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 3088 del 13/02/2007, Rv. 595607 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 5919 del 24/03/2016, Rv. 639060 – 01; con specifico riguardo ai contratti della pubblica amministrazione cfr., altresì: Sez. 1, Ordinanza n. 25631 del 27/10/2017, Rv. 647056 – 02), ma anche che la stipulazione sia avvenuta secondo moduli del tutto incompatibili e confliggenti con le espresse previsioni normative in materia. A maggior ragione, poi, i rilievi che precedono sembrano poter assumere rilievo, se si considera che si va ormai affermando nella giurisprudenza di questa Corte una nozione “funzionale” delle forme negoziali, che ha consentito addirittura di ritenere sussistente il requisito della forma scritta anche in totale mancanza della sottoscrizione di uno dei contraenti (e’ quanto risulta affermato, nelle decisioni più recenti, non solo con riguardo ai contratti quadro per gli investimenti finanziari ma anche in generale per i contratti bancari: cfr. in proposito: Cass., Sez. U., Sentenza n. 898 del 16/01/2018, Rv. 646965 01; Sez. 1, Ordinanza n. 14243 del 04/06/2018, Rv. 649119 – 01; Sez. 1, Ordinanza n. 14646 del 06/06/2018, Rv. 648942 01; Sez. 1, Ordinanza n. 16070 del 18/06/2018, Rv. 649476 01; Sez. 1, Ordinanza n. 22385 del 06/09/2019, Rv. 655289-03) D’altra parte, con riguardo alla possibilità di riconoscere natura negoziale alle previsioni del regolamento comunale accettate dal concessionario, nonostante la posizione di soggezione di quest’ultimo al potere amministrativo della pubblica amministrazione, la soluzione positiva espressa nelle decisioni del 2018 e del 2019 non risulta esplicitamente contraddetta da quelle del 2020, che si sono limitate a ravvisare un mero difetto di forma nella stipulazione. Sembra quindi quanto meno da esplorare una possibilità interpretativa che, da un lato, faccia leva sul presupposto della funzionalizzazione all’ordinato svolgimento dei rapporti contrattuali della pubblica amministrazione del requisito necessario della forma scritta (ed eventualmente anche della relativa contestualità) per gli accordi da questa conclusi con i privati e che, dall’altro lato, tenga conto che non è in discussione la possibilità (e, anzi, addirittura l’opportunità) di convenzioni negoziali integrative dei rapporti di concessione per l’adeguato regolamento delle relazioni tra ente pubblico concedente e privato concessionario, per concludere che il suddetto requisito formale possa ritenersi soddisfatto anche in caso di espressa adesione scritta del concessionario alle previsioni di un regolamento dell’ente locale riguardante penali di carattere negoziale, accessorie al rapporto concessorio, considerando tale modalità di stipulazione come non estranea alle previsioni di cui all’art. 17 della legge di contabilità di Stato, che prendono in considerazione anche le “obbligazioni stese appiedi del capitolato” ovvero derivanti da “atto separato di obbligazione sottoscritto da chi presenta l’offerta”. L’esistenza del rilevato contrasto impedisce peraltro di aderire in modo puro e semplice a tale conclusione, come pure, in linea generale, di prendere posizione al riguardo.
- In ogni caso, il Collegio ritiene che, anche a prescindere dalla sussistenza e dagli esatti termini del contrasto interpretativo di cui si è dato conto e, quindi, dalla possibilità di ritenere sussistenti i presupposti per una decisione del presente ricorso da parte delle Sezioni Unite di questa Corte ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, prima parte, presentando esso questioni diritto già decise in senso difforme dalle Sezioni semplici, deve ritenersi opportuna la decisione delle Sezioni Unite anche ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2, seconda parte, trattandosi comunque di questioni di massima di particolare importanza. In proposito, vanno ancora una volta richiamate e condivise le osservazioni della Procura Generale, nella parte in cui si evidenzia come, in effetti, le questioni di diritto che si presentano in relazione alle fattispecie relative ai rapporti tra ACEA e Roma Capitale interessano, sotto il profilo pratico, un contenzioso potenzialmente molto vasto, che riguarda un numero indeterminato di soggetti concessionari, in relazione alle più disparate tipologie di provvedimenti concessori, mentre, sotto il profilo sistematico, vengono in rilievo delicate questioni attinenti sia ai requisiti formali richiesti, in generale, per la conclusione di validi rapporti contrattuali di cui sia parte la pubblica amministrazione, sia all’individuazione, in particolare, delle condizioni sostanziali per la stipula di accordi integrativi dei rapporti autoritativi di concessione pubblica, sia ai precisi confini dell’area applicativa di tali accordi, e ciò tanto con riguardo alla disciplina generale di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 11, quanto con più specifico riferimento alle previsioni dell’art. 27 C.d.S. e dell’art. 67 del relativo Regolamento.
- In definitiva, gli atti vanno rimessi al Primo Presidente perché valuti l’opportunità di una eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 374 c.p.c., comma 2.