<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza 22 giugno 2021, n. 24439</strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)</em></strong></p> <ol style="text-align: justify;"> <li><em> Le censure prospettate dalle ricorrenti parti civili, con riguardo alle carenze logico-motivazionali della sentenza impugnata, sono fondate.</em></li> </ol> <p style="text-align: justify;"><em>1.1. A tal proposito, infatti, il Supremo Collegio ha affermato che il ribaltamento in senso assolutorio del giudizio di condanna operato dal giudice di appello pur senza rinnovazione della istruzione dibattimentale è perfettamente in linea con la presunzione di innocenza, presidiata dai criteri di giudizio di cui all’art. 533 c.p.p..</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Questa Corte ha ormai da tempo chiarito che, quando le decisioni dei giudici di primo e di secondo grado siano concordanti, la motivazione della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un <strong>unico complesso corpo argomentativo</strong>, mentre nel caso in cui, per diversità di apprezzamenti, per l’apporto critico delle parti o per le nuove eventuali acquisizioni probatorie, il giudice di appello ritenga di pervenire a conclusioni diverse da quelle accolte dal giudice di primo grado, non può risolvere il problema della motivazione della sua decisione inserendo nella struttura argomentativa di quella di primo grado - genericamente richiamata - delle notazioni critiche di dissenso, in una sorta di ideale montaggio di valutazioni ed argomentazioni fra loro dissonanti, essendo invece necessario che egli riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal giudice di primo grado, consideri quello eventualmente sfuggito alla sua delibazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una <strong>nuova e compiuta struttura motivazionale</strong> che dia ragione delle difformi conclusioni (cfr. Sezioni Unite n. 6682 del 04/02/1992, Rv. 191229), in modo da fornire puntuali ed esaustive risposte alle censure dedotte con i motivi di appello (se specifici e pertinenti).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Tali principi, precisa la Corte, sono stati anche successivamente approfonditi, essendosi affermato che, in caso di totale riforma della decisione di primo grado, il giudice dell’appello ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (cfr. Sezioni Unite n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679), mettendo alla luce carenze e aporie di quella decisione sulla base di uno sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del decisum impugnato (cfr. sez. 2 n. 50643 del 18/11/2014, Rv. 261327), dando alla decisione, pertanto, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni (cfr. Sez. 6 n. 1253 del 28/11/2013 Ud. (dep. 14/01/2014), Rv. 258005; n. 46742 deiì08/10/2013, Rv.257332; Sez. 4 n. 35922 dell’11/07/2012, Rv. 254617).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il giudice d’appello, in caso di <strong>riforma, in senso assolutorio, della sentenza di condanna di primo grado</strong>, sulla base di una diversa valutazione del medesimo compendio probatorio, <strong>non è obbligato alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale</strong>, ma è tenuto a strutturare la motivazione della propria decisione in maniera rafforzata, dando puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte. (Cfr.Sez. 4, Sentenza n. 4222 del 20/12/2016 Ud. (dep. 30/01/2017) Rv. 268948; Nella fattispecie, la S.C., accogliendo il ricorso proposto dalle sole parti civili, ha annullato agli effetti civili la sentenza di assoluzione di secondo grado che, nel ribaltare la precedente decisione di condanna, aveva genericamente affermato l’esistenza di un ragionevole dubbio in merito agli addebiti di colpa degli imputati, senza approfondire adeguatamente la plausibilità tecnica della ricostruzione alternativa dei fatti, prospettata dalla difesa).</em></p> <ol style="text-align: justify;" start="2"> <li><em> La Corte distrettuale nella sentenza impugnata richiama, sebbene sinteticamente, le risultanze probatorie del giudizio di primo grado, sostanzialmente condividendole ed utilizzandole per rispondere al gravame avanzato dagli imputati, qualifica la condotta degli imputati in termini di negligenza, (colpa lieve per il V. ) ma ha poi esclude la incidenza eziologica nel determinazione del decesso della paziente senza un adeguato percorso logico motivazionale e senza soprattutto un’adeguata analisi del ruolo salvifico del comportamento alternativo corretto che sarebbe stato esigibile dagli imputati.</em></li> </ol> <p style="text-align: justify;"><em>Deve, infatti, osservarsi come la Corte di Appello abbia fondato la riforma della decisione di primo grado attribuendo <strong>in maniera apodittica</strong> (fol. 7) la qualificazione di colpa lieve, al comportamento omissivo tenuto al momento delle dimissioni dalla UO di medicina interna dell’Ospedale di (omissis) dal V. che omise di consegnare ai familiari la dovuta lettera di accompagnamento con il dettaglio della terapia farmacologica in corso, atteso che la paziente presentava una serie di necessità terapeutiche e assistenziali di pertinenza internistica e vascolare che dovevano esser comunicate non solo ai familiari e ma anche al successivo nosocomio di ricovero. Tale comportamento omissivo che costituì un antecedente causale della interruzione della somministrazione di eparina ossia del clexane 6000 che, secondo la ricostruzione in fatto concorde di entrambi i Giudici di merito, ha causato la morte della C. per intervenuta tromboembolia polmonare massiva presso il reparto di Psichiatria dell’Ospedale di […] (fol 19 e 24 sentenza di primo grado).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Quanto alla posizione del F., prosegue la Corte, la illogicità e la incoerenza della motivazione è ancora più manifesta in quanto pur affermandosi, secondo quanto accertato nella ricostruzione del primo giudice, che il complessivo quadro clinico della C. consigliava la profilassi eparinica per il rischio trombotico, e che il F. in sede di consulenza del 12.05.2012 omise di valutare il grave rischio limitandosi ad effettuare una consulenza reumatologica (fol 8), senza far riferimento alla presenza del CVC in vena femorale (fol 6), ha poi ritenuto non sufficientemente provata l’efficacia condizionante di tale grave comportamento omissivo nel determinismo della complicanza trombotica alla luce di ulteriori fattori causali che hanno accompagnato la condotta colposa del F. e che sono riconducibili ad altri soggetti del nosocomio tra cui il personale infermieristico del nosocomio (fol 9).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Le relative argomentazioni sono, tuttavia, sostenute da una <strong>ricostruzione del nesso di causalità carente di ogni valutazione controfattuale</strong>, che si sarebbe dovuta porre in correlazione al dato scientifico, che gli stessi Giudici di primo grado avevano riportato (pag.7), affermando quanto segue: la C. , giunta all’Ospedale di […], "è immobilizzata dimessa da un giorno da un reparto intensivo reduce da un episodio acuto di insufficienza respiratoria affetta da una grave forma di obesità portatrice di un catetere venoso in vena femorale dell’arto inferiore dx. La trombosi venosa che ha determinato la morte si è creata proprio nel tratto venoso traumatizzato dalla presenza del CVC e che tale complicanza trombotica era prevedibile e prevenibile e poteva essere evitata o comunque ridotta nei suoi effetti ove non fosse stata interrotta, per i comportamenti colposi posti in essere con sequenza causale, dagli imputati la terapia eparinica dalle dimissioni fino al 19 maggio quando è stata rispristinata a seguito della consulenza del dott. S. ".</em></p> <ol style="text-align: justify;" start="3"> <li><em> La pronuncia impugnata non risulta fondata, per altro verso, su una motivazione "rinforzata", avendo sul punto affermato in modo apodittico e non adeguatamente argomentato che l’efficacia realmente condizionante della condotta omissiva del Dr F. non può considerarsi sufficientemente provata non potendosi escludere che nonostante la precedente somministrazione della profilassi eparinica la complicanza trombotica sarebbe ugualmente insorta.</em></li> </ol> <p style="text-align: justify;"><em>Invero, osserva la Corte, nei <strong>reati omissivi impropri</strong>, la valutazione concernente la <strong>riferibilità causale</strong> dell’evento lesivo alla condotta omissiva che si attendeva dal soggetto agente, deve avvenire rispetto alla <strong>sequenza fenomenologica</strong> descritta nel capo di imputazione. Pertanto, nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose ascritte all’esercente la professione sanitaria, il ragionamento controfattuale deve essere sviluppato dal giudice di merito in riferimento alla <strong>specifica attivit</strong>à (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente od altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, <strong>con alto grado di credibilità razionale</strong>. In tema di <strong>colpa nell’attività medico-chirurgica</strong>, il meccanismo controfattuale, necessario per stabilire l’effettivo rilievo condizionante della condotta umana (nella specie: l’effetto salvifico delle cure omesse) deve fondare su affidabili informazioni scientifiche nonché sulle contingenze significative del caso concreto, dovendosi comprendere: a) qual è solitamente l’andamento della patologia in concreto accertata; b) qual è normalmente l’efficacia delle terapie; c) quali sono i fattori che solitamente influenzano il successo degli sforzi terapeutici.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Infine in tema di <strong>successione di posizioni di garanzia</strong>, quando l’obbligo di impedire l’evento connesso ad una situazione di pericolo grava su più persone obbligate ad intervenire in tempi diversi, l’accertamento del nesso causale rispetto all’evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascun titolare della posizione di garanzia, stabilendo cosa sarebbe accaduto nel caso in cui la condotta dovuta da ciascuno dei garanti fosse stata tenuta, anche verificando se la situazione di pericolo non si fosse modificata per effetto del tempo trascorso o di un comportamento dei successivi garanti.</em></p> <ol style="text-align: justify;" start="4"> <li><em> L’ordine di considerazioni sviluppate nei paragrafi che precedono inducono a rilevare che la motivazione posta a fondamento della sentenza impugnata risulta inficiata dalle denunciate aporie di ordine logico, che hanno pure determinato, rispetto al principio di diritto sopra affermato, una </em><strong>inappropriata applicazione del disposto di cui all’art. 40 cpv. c.p.</strong><em>. La Corte territoriale non ha applicato correttamente, in riferimento all’oggetto degli addebiti, il paradigma controfattuale che, secondo il diritto vivente, presiede all’accertamento della riferibilità materiale dell’evento, nei reati omissivi impropri.</em></li> </ol> <p style="text-align: justify;"><em>È poi appena il caso di osservare che la giurisprudenza di questa Corte risulta consolidata nel rilevare che, in tema di omicidio colposo, sussiste il nesso di causalità tra l’omessa adozione da parte del medico di idonee misure atte a rallentare il decorso della patologia, colposamente non diagnosticata, ed il decesso del paziente, quando risulta accertato, secondo il <strong>principio di controfattualità</strong>, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minore intensità lesiva (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 18573 del 14/02/2013, dep. 24/04/2013, Rv. 256338).</em></p> <ol style="text-align: justify;" start="5"> <li><em> Conclusivamente, la sentenza deve essere annullata agli effetti civili dandosi luogo con rinvio al giudice civile competente in grado di appello, ai sensi dell’art. 622 c.p.p. (Sez. U, n. 40109 del 18/07/2013, Sciortino, Rv. 25608701 e SU n. 22065 del 28.01.2021, Cremonini); a detto giudice, inoltre, deve essere demandato il complessivo regolamento delle spese tra le parti private anche per il presente giudizio di legittimità.</em></li> </ol> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p> <p style="text-align: justify;"><em> </em></p>