<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 13 marzo 2020 n. 50</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezione prima penale.</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.– Nel merito, le questioni non sono fondate.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.1.– I dubbi di compatibilità costituzionale sollevati dalla Corte di cassazione muovono essenzialmente, in primo luogo, dall’assunto che la disposizione censurata conterrebbe una presunzione assoluta di pericolosità. È quindi richiamata, a sostegno dell’illegittimità costituzionale, la giurisprudenza di questa Corte che afferma l’irragionevolezza di una tale presunzione (nonché la violazione anche dell’art. 27, primo e terzo comma, Cost., nel caso di presunzioni operanti sul campo dell’esecuzione penale) tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Questo primo argomento non coglie tuttavia nel segno, in quanto solo in parte conferente alla disciplina censurata. La preclusione indicata dal rimettente si fonda bensì su una logica presuntiva (quella che tipicamente utilizza il titolo del reato commesso quale misuratore in astratto della pericolosità del condannato), ma trova fondamento concomitante in elementi che discendono dalla necessaria valutazione giudiziale del caso concreto. Il soggetto che patisce la preclusione, cioè l’impossibilità di accedere alla detenzione domiciliare, non è infatti individuato su base presuntiva assoluta, solo in ragione del titolo del reato commesso.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Innanzi tutto, quando la pena detentiva irrogata o applicata deve eseguirsi con trattamento intramurario, anche se la sua entità avrebbe in astratto consentito un provvedimento di sospensione condizionale (salvo si tratti, come nel caso di specie, di pena che costituisca il residuo di una sanzione eccedente i limiti fissati nell’art. 163 codice penale), ciò significa che non vi è stata una prognosi favorevole sui futuri comportamenti dell’interessato, oppure che si è in presenza di precedenti ostativi e, dunque, di una recidiva.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Inoltre, e soprattutto, il soggetto cui l’accesso alla detenzione domiciliare è precluso dalla disposizione censurata sconta un presupposto negativo implicito nella disciplina in questione, e cioè il fatto di non trovarsi neppure nelle condizioni utili per essere affidato in prova ai servizi sociali ai sensi dell’art. 47 ordin. penit. Una situazione, quest’ultima, che non dipende dall’entità delle soglie di pena (quelle compatibili con l’affidamento sono più elevate di quelle indicate all’art. 47-ter ordin. penit.), ma necessariamente consegue (come nel caso di specie) alla valutazione giudiziale, effettuata in concreto, che ha concluso per l’impossibilità di contenere il rischio della commissione di nuovi reati, anche ricorrendo alle puntuali e tipiche prescrizioni della misura dell’affidamento.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In definitiva, il soggetto interessato dalla preclusione censurata non è solo l’autore di un determinato reato ma, in ciascun caso concreto, è persona dalla pericolosità non contenibile attraverso i presìdi tipici della misura di cui all’art. 47 ordin. penit.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.2.– Il secondo argomento al quale il giudice a quo ricorre per sostenere la fondatezza delle questioni sollevate consiste in una asserita contraddittorietà della disciplina censurata, tenuto conto del tessuto normativo in cui si inserisce.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Da un lato infatti la legge (ed in particolare l’art. 4-bis, comma 2, ordin. penit.), per i reati di cui alla cosiddetta “seconda fascia”, consente al condannato, quando manchino elementi che indicano l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, di accedere ai permessi premio, al lavoro esterno, alla semilibertà, alla liberazione anticipata, oltreché alla stessa misura extramuraria dell’affidamento in prova. Dall’altro lato, alla stessa persona, condannata per gli stessi reati, il periodo finale del comma 1-bis dell’art. 47-ter ordin. penit. impedisce comunque di accedere alla detenzione domiciliare.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il rimettente reputa che tale contraddizione andrebbe eliminata, nel senso che l’assenza di elementi dimostrativi del collegamento con il crimine organizzato dovrebbe consentire l’accesso alla detenzione domiciliare nella stessa misura in cui consente l’applicazione delle altre misure ricordate.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Neppure questo argomento è, tuttavia, risolutivo. La simmetria ricercata dal giudice a quo non è infatti indispensabile al fine di garantire la ragionevolezza (o, meglio, la non irragionevolezza) della disciplina in considerazione. La preclusione censurata è parte di una trama generale che valorizza le peculiarità delle varie forme di esecuzione della pena, e al tempo stesso traccia percorsi alternativi che instradano i singoli casi anche in base alle loro caratteristiche concrete.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ben vero, in altre parole, che anche un soggetto scarsamente pericoloso nonostante il titolo del reato commesso incontra la preclusione qui in esame. Tuttavia, lo stesso soggetto può accedere a misure diverse e per certi versi perfino più favorevoli della detenzione domiciliare, e, se ciò non accade, la ragione risiede pur sempre nella erroneità della premessa, cioè nella constatazione che ricorrono invece, nel suo caso, elementi concretamente sintomatici di un’apprezzabile pericolosità (sia pure nell’ottica restrittiva dell’art. 4-bis ordin. penit.).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>A ben vedere, presunta in assoluto non è la pericolosità del soggetto, ma l’inefficacia rieducativa e preventiva di una particolare misura.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nel suo complesso, in definitiva, la disciplina censurata non risulta insensibile alle opportunità di risocializzazione che sempre, in ciascuno dei casi condotti all’attenzione del giudice competente, possono essere collegate alle misure in discussione.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.3.– La Corte di cassazione non solo argomenta l’irragionevolezza di una disciplina che, riguardo alle pene concernenti reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit., non parifica le condizioni di accesso alla detenzione domiciliare a quelle utili per l’ammissione ad altri benefici penitenziari. L’assunto ulteriore del rimettente è che – semmai – la detenzione domiciliare dovrebbe essere applicabile con maggiore larghezza rispetto all’affidamento in prova, poiché presenterebbe un effetto di restrizione più intenso della misura non detentiva, e potrebbe quindi fronteggiare situazioni di pericolosità più marcata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Anche questo argomento non coglie nel segno. Questa Corte ha già valutato negativamente casi nei quali, nella materia penitenziaria, il «punto centrale dell’argomentazione del giudice a quo [era] costituito dalla individuazione di una sorta di rapporto di continenza» tra misure con diversi presupposti di accesso, «con la conseguenza che sarebbe irragionevole consentire allo stesso soggetto l’accesso al regime più favorevole e precludere, invece, la concessione del beneficio meno favorevole, da ritenersi incluso, come parte minore, nel primo» (sentenza n. 338 del 2008, riferita ad una pretesa assimilazione tra affidamento in prova e semilibertà).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Tra le varie misure previste dalla legge sull’ordinamento penitenziario e dal codice penale – ferma restando la necessità di distinguerle secondo il criterio fondamentale dell’esecuzione interna od esterna al carcere (sentenza n. 32 del 2020) – non può essere infatti costruita una sorta di graduatoria, che le classifichi secondo una scala ascendente di severità, muovendo, in particolare, da quelle che presenterebbero minore analogia con la reclusione intramuraria, fino a quelle che con quest’ultima dovrebbero in tesi esibire più forti analogie. In realtà, le misure in questione mirano al contenimento del rischio di recidiva anche, ed anzi soprattutto, mediante una progressione del percorso trattamentale finalizzato alla risocializzazione del condannato e, quindi, al suo reinserimento nella società. In altre parole, non ha fondamento la pretesa di riscontrare corrispondenza assoluta tra livello di pericolosità del condannato stesso (misurato, oltretutto, secondo criteri largamente presuntivi) e maggiore o minore “somiglianza” delle singole misure al contenimento estremo, assicurato dalla detenzione in carcere (senza permessi, senza lavoro esterno, eccetera).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Laddove si tratti di confrontare misure che si eseguono, tutte, completamente al di fuori dell’ambiente carcerario, l’aspettativa di comportamenti corretti da parte del condannato è in gran parte legata al suo stesso autocontrollo. Nondimeno, ogni istituto presenta caratteristiche complesse, segnate da un particolare equilibrio tra strumenti di sorveglianza e controllo (cui si collega l’efficacia deterrente delle “sanzioni” previste per il caso della violazione degli obblighi tipici di ciascuna misura) ed effetto risocializzante delle prescrizioni imposte e del trattamento curato dagli organi preposti alla fase esecutiva. Il dosaggio variabile tra limitazioni della libertà personale e attività mirate al reinserimento del condannato, sotto la supervisione degli uffici di esecuzione penale, consente in altre parole un certo adeguamento della fase esecutiva della pena alle esigenze del caso concreto.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ben vero che la considerazione della detenzione domiciliare quale misura priva di funzionalità risocializzante è recessiva, alla luce delle modifiche via via introdotte dal legislatore e della riflessione condotta in proposito dalla giurisprudenza e dalla comunità degli studiosi: giacché si tratta, comunque, di una forma di esecuzione della pena (sentenza n. 350 del 2003), che può arricchirsi di prescrizioni non necessariamente strumentali alle sole e basilari esigenze di vita dell’interessato (il finalismo delle prescrizioni in chiave di risocializzazione è stato valorizzato anche dalla giurisprudenza di legittimità: da ultimo, Corte di cassazione, sezione prima penale, 5 giugno 2018, n. 56703).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nondimeno, e di converso, l’affidamento in prova implica la possibilità di prescrizioni tanto stringenti da risolvere la misura, a sua volta, in uno strumento di limitazione anche marcata della libertà personale (con obblighi sanzionati di non uscire in orari determinati, con divieto di frequentazione di luoghi e persone), e nel contempo valorizza al massimo grado l’affidamento ai servizi sociali, quale supporto per un percorso di riabilitazione puntualmente guidato e sostenuto, e dunque, almeno in potenza, particolarmente efficace. L’osservanza del programma è favorita tra l’altro dalla prospettiva di una revoca per l’elusione di una qualsiasi parte significativa delle prescrizioni, e non solo per l’abbandono del domicilio fuori dai casi consentiti.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Insomma, specialmente grazie alla duttilità consentita dalla relativa disciplina, la misura dell’affidamento può efficacemente fronteggiare la pericolosità segnalata dalla qualità del reato commesso, anche quando si tratti di fattispecie compresa negli elenchi dell’art. 4-bis ordin. penit. E se, come avviene nel caso che ha dato origine alle presenti questioni, si è stimato o può stimarsi che neppure prescrizioni particolarmente severe varrebbero a conseguire risocializzazione e, nel contempo, prevenzione, se ne può concludere che la preclusione dell’accesso ad una misura ancora meno articolabile, come la detenzione domiciliare, non presenta connotati di irragionevolezza e non viola il principio di finalizzazione rieducativa della pena.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.4.– È certo configurabile un diverso assetto dei presupposti per l’accesso alla detenzione domiciliare “ordinaria”, nel quadro di un eventuale complessivo riordino delle discipline per l’accesso ai benefici penitenziari.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Con legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), il Parlamento aveva in effetti delegato il Governo ad adottare decreti legislativi di riforma della materia, sollecitando tra l’altro la «revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse […]» (art. 1, comma 85, lettera b). Il conseguente schema di decreto legislativo, trasmesso alle Camere il 15 gennaio 2018, prevedeva in particolare – all’art. 15, comma 1, numero 4) – incisive modifiche dell’art. 47-ter, comma 1-bis, ordin. penit., così da elevare la soglia di pena suscettibile di esecuzione in sede domiciliare e soprattutto, per quanto qui interessa, da eliminare il regime di accesso particolare in relazione ai reati elencati nell’art. 4-bis ordin. penit.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Non attuata, per questa parte, la delega, l’equilibrio che attualmente caratterizza la disciplina censurata costituisce comunque espressione di discrezionalità, opinabile sul piano delle scelte di politica penitenziaria, ma non in contrasto con il principio costituzionale di finalizzazione rieducativa della pena (art. 27, primo e terzo comma, Cost.), e non irragionevole al punto da integrare una lesione ex art. 3 Cost.</em></p>