Corte di Cassazione, III Sezione Civile, sentenza 13 ottobre 2022, n. 29932
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE (sintesi massimata)
- Il ricorso va accolto, nei limiti di seguito indicati.
7.1. Il primo motivo è inammissibile, sebbene per ragioni diverse da quelle eccepite dalla controricorrente (e condivise dal Procuratore Generale presso questa Corte).
7.1.1. Va respinta, infatti, l’eccezione di giudicato interno, formulata da B. sul rilievo che lo Z. – che aveva eccepito già in primo grado l’avvenuta “mutatio libelli” – avrebbe dovuto esperire, al riguardo, appello incidentale.
Invero, in materia di impugnazioni, “la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, non ha l’onere di proporre, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, appello incidentale per richiamare in discussione le eccezioni o le questioni superate o assorbite, difettando di interesse al riguardo, ma è soltanto tenuta a riproporle espressamente, in modo tale da manifestare la volontà di chiederne il riesame, al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo ai sensi dell’art. 346 cod. proc. civ.” (da ultimo, Cass. Sez. 1, ord. 23 settembre 2021, n. 25840, Rv. 662488-01).
Si tratta di affermazione, del resto, conforme a quanto ritenuto dalle Sezioni Unite di questa Corte persino con riferimento all’eccezione di merito, giacché solo qualora essa “sia stata respinta in primo grado, in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed inequivocamente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione del gravame incidentale, non essendone, altrimenti, possibile il rilievo officioso ex art. 345, comma 2, cod. proc. civ. (per il giudicato interno formatosi ai sensi dell’art. 329, comma 2, cod. proc. civ.)” (Cass. Sez. Un., sent. 12 maggio 2017, n. 11799, Rv. 644305-01).
Orbene, osserva la Corte, nel caso che occupa, con riferimento al motivo di opposizione volto a far valere la sussistenza della clausola compromissoria, il giudice di prime cure si è limitato ad osservare – con affermazione, dunque, tranciante, che non sottendeva in alcun modo una valutazione “chiara ed inequivoca” della infondatezza dell’eccezione formulata dal creditore opposto, relativa alla “mutatio libelli” (ma che semmai appariva applicazione del principio della “ragione più liquida”) che “il precetto impugnato configura un atto preordinato all’esecuzione forzata, che in nessun caso può essere rimesso ad arbitri”.
Se tale era, dunque, il “decisum” del giudice di prime cure, il creditore opposto, per investire il giudice di appello dell’eccezione di “mutatio libelli”, poteva limitarsi, come fatto, alla mera riproposizione della stessa, ex art. 346 cod. proc. civ.
7.1.2. Ciò non toglie, tuttavia, che il primo motivo del presente ricorso sia, comunque, inammissibile.
Tale è, innanzitutto, l’esito della censura di violazione dell’art. 345 cod. proc. civ; difatti, se il tema della (non consentita) modificazione del motivo di opposizione, relativo alla clausola arbitrale, venne già posto all’attenzione del primo giudice, per ciò solo viene meno la possibilità di configurare la violazione del divieto di “nova” in appello, che presuppone, evidentemente, che una determinata questione venga introdotta, per la prima volta, innanzi al giudice di seconde cure.
D’altra parte, precisa la Corte, anche la censura di violazione degli artt. 163, comma 1, n. 4), e 183, comma 5, cod. proc civ. risulta inammissibile, formulata com’è, ovvero con riferimento al fatto che la Corte territoriale avrebbe ritenuto “ammessa” dall’opposto l’identità del motivo (relativo alla clausola compromissoria) come formulato nell’atto di opposizione di B. e come precisato nella memoria ex art. 183 cod. proc. civ.
In disparte, infatti, il rilievo che nella sentenza oggi impugnata non vi è alcuna espressa affermazione che dia per “ammessa”, dal creditore opposto, l’assenza di “mutatio libelli”, deve, in ogni caso, rilevarsi che la censura in esame non rispetta il disposto di cui all’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ.
Invero, lo Z. non ha provveduto a riprodurre in ricorso gli stralci dei propri scritti defensionali, necessari a far constatare che tale “ammissione” non vi fu, ma che egli, anzi, ebbe a far rilevare come all’impostazione originaria di B. nel proprio atto di opposizione – relativa al difetto di competenza del Tribunale milanese, in favore del collegio arbitrale avesse fatto seguito l’eccezione di inefficacia, quale titolo esecutivo, del rogito notarile.
Tale carenza ricostruttiva, pertanto, impone di dare seguito all’affermazione secondo cui “sono inammissibili le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità” (Cass. Sez. Un., sent. 27 dicembre 2019, n. 34469, Rv. 656488-01).
7.2. Il secondo motivo è, invece, fondato.
7.2.1. Sul punto va, peraltro, premesso che il tema da esso posto non è – come pretenderebbe, invece, parte controricorrente – quello della possibilità di devolvere ad arbitri anche il giudizio di opposizione all’esecuzione (possibilità sulla quale si veda Cass. Sez. 3, ord. 30 marzo 2018, n. 7891, Rv. 648308-01, richiamata, dunque, impropriamente dalla sentenza oggi impugnata).
Per contro, la questione oggetto del motivo in esame attiene alla possibilità di ricollegare all’inserimento di una clausola arbitrale in un rogito notarile (atto la cui efficacia come titolo esecutivo dipende “dalla pubblica fede che il notaio vi attribuisce”; cfr. Cass. Sez. 3, sent. 19 luglio 2005, n. 15219, Rv. 583283-01; in senso conforme anche Cass. Sez. 3, sent. 19 settembre 2014, n. 19738, Rv. 632703-01), l’effetto non (solo) di devolvere agli arbitri ogni controversia – ivi compresa quella sull’opposizione all’esecuzione – relativa al suo contenuto, ma anche di privare il rogito della sua idoneità a fungere da titolo esecutivo, ex art. 474, comma 1, n. 3), cod. proc. civ.
Sotto questo profilo, deve osservarsi che per giustificare una simile conclusione non vale richiamarsi al principio dell’autonomia privata, configurando la clausola arbitrale suddetta come rinuncia all’esecuzione, o meglio come “pactum de non exequendo ad tempus”. Esso, infatti, distinguendosi dal “pactum de non petendo” (il quale di regola incide “direttamente sopra l’elemento oggettivo del rapporto obbligatorio preesistente, il contenuto del quale o viene arricchito mediante la apposizione alla prestazione dovuta di un termine che prima non esisteva, o viene modificato mediante lo spostamento in avanti del termine che in precedenza vi ineriva”), risulta “rivolto a non rendere esperibili le forme del processo esecutivo per la realizzazione del credito sino a quando la sentenza di condanna al pagamento di esso non sia passata in giudicato”, così realizzando l’intento delle parti – “di per sé meritevole di considerazione e non dispregiativo della funzione giurisdizionale” – di “non dover provvedere, a seconda delle vicende del processo di cognizione, ad una altalena di attribuzioni patrimoniali o di incombenti l’uno di segno opposto al precedente”, così soddisfacendo un interesse privato “che in quanto rivolto a realizzare una economia di giudizi ed un pragmatico contemperamento tra certezza di accertamento ed effettività di tutela della posizione di diritto dedotta in lite, risulta ispirato a valori non diversi da quelli perseguiti dall’ordinamento processuale positivo” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 agosto 1991, n. 8774, Rv. 473493-01).
Se tale è dunque, soggiunge la Corte, la funzione del “pactum de non exequendo ad tempus”, ovvero di operare “la subordinazione pattizia dell’esercizio dell’azione esecutiva alla formazione del giudicato” (cfr., nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. 8774 del 1991, cit.), occorre che essa risulti chiaramente delineata in una pattuizione contrattuale, non potendo ritenersi insita nel solo fatto che le parti – nel dare vita, per giunta, ad un atto che è idoneo a porsi come titolo esecutivo extragiudiziale – abbiano previsto la devoluzione ad arbitri di ogni controversia relativa a detta pattuizione.
Come ha, esattamente, osservato il Procuratore Generale presso questa Corte, dalla genericità della clausola compromissoria siffatta rinuncia all’esecutorietà del rogito notarile non emerge, donde la necessità dell’accoglimento del motivo.
- In conclusione, il ricorso va accolto quanto al suo secondo motivo e la sentenza impugnata cassata in relazione, rinviando alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese processuali, ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità.