<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza n. 4 dicembre 2019 n.253</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti; va dichiarata, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>1.– Con ordinanza del 20 dicembre 2018 (r.o. n. 59 del 2019), la Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il giudice rimettente ritiene, in primo luogo, che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. violi l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza. Esso conterrebbe, infatti, una «preclusione assoluta» di accesso ai benefici penitenziari, e in particolare al permesso premio, per il condannato – non collaborante con la giustizia – per reati cosiddetti di “contesto mafioso”, che non presuppongono l’affiliazione ad una associazione mafiosa. Tale preclusione impedirebbe al magistrato di sorveglianza qualunque valutazione in concreto sulla pericolosità del condannato, determinando in limine l’inammissibilità di ogni richiesta di quest’ultimo di accedere ai benefici penitenziari.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La Corte di cassazione opera un richiamo alla giurisprudenza di questa Corte sugli “automatismi” nell’applicazione delle misure cautelari personali, secondo la quale la presunzione di pericolosità, che impone l’applicazione della misura custodiale in carcere, trova giustificazione – sulla base di dati d’esperienza generalizzati, riassumibili nella formula dell’id quod plerumque accidit – solo per l’affiliato all’associazione mafiosa, ma la stessa giustificazione non trova in relazione ai condannati per reati che tale affiliazione non presuppongono.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Trasponendo questa giurisprudenza alla fase dell’esecuzione della pena, ritiene, appunto, irragionevole la «preclusione assoluta» contenuta nella disposizione censurata, poiché essa non consentirebbe di distinguere tra gli affiliati a un’organizzazione mafiosa, da una parte, e, dall’altra, gli autori di delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dalla stessa norma.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. non si baserebbe, per questo aspetto, su dati d’esperienza generalizzati, riassumibili nella formula dell’id quod plerumque accidit, e perciò impedirebbe incongruamente al magistrato di sorveglianza di svolgere una valutazione in concreto sulla pericolosità del condannato che richiede il permesso premio.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In secondo luogo, il rimettente ritiene violato l’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto la disposizione censurata frustrerebbe, impedendo in radice al condannato l’accesso ai benefici penitenziari, gli obiettivi di risocializzazione evocati dal parametro costituzionale in questione, anche in virtù dei principi della progressività trattamentale e della flessibilità della pena (sono evocate, in particolare, le sentenze n. 149 del 2018, n. 76 del 2017 e n. 239 del 2014 di questa Corte).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Infine – premesse considerazioni critiche sul rilievo attribuito dalla disposizione censurata alla scelta di collaborare con la giustizia quale «prova legale esclusiva di ravvedimento», e soprattutto dell’assenza di pericolosità sociale del condannato – il giudice a quo ritiene che i dubbi di legittimità costituzionale sollevati aumentino «sol che si considerino le peculiarità del permesso premio ex art. 30-ter Ord. Pen.», finalizzato alla cura di interessi affettivi, culturali e di lavoro, la concessione del quale è legata a valutazioni del tutto specifiche.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.– Con ordinanza del 28 maggio 2019 (r.o. n. 135 del 2019), il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha a sua volta sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. «nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo per delitti commessi al fine di agevolare l’attività dell’associazione a delinquere ex art. 416 bis cod. pen. della quale sia stato partecipe, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Chiamato a decidere il reclamo di un detenuto condannato alla pena dell’ergastolo per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e per vari delitti di “contesto mafioso”, al quale il magistrato di sorveglianza aveva negato la concessione di un permesso premio in assenza di collaborazione con la giustizia, il rimettente dubita che l’obbligo di collaborare con la giustizia per poter accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario (e, in particolare, ai permessi premio) sia compatibile con gli artt. 3 e 27 Cost., a prescindere dal tipo di reato commesso dal detenuto.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Trovandosi al cospetto di un condannato, oltre che per reati di “contesto mafioso”, anche per il delitto di associazione mafiosa, il giudice a quo segue un percorso argomentativo diverso da quello dell’ordinanza illustrata in precedenza.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ritiene infatti il Tribunale di sorveglianza di Perugia che, anche nel caso dell’associato ex art. 416-bis cod. pen., nella peculiare fase dell’esecuzione penale, la preclusione assoluta alla concessione di un beneficio penitenziario, in assenza di una condotta collaborativa, collida con i principi costituzionali deducibili dagli artt. 3 e 27 Cost., poiché impedirebbe il vaglio di elementi che, in concreto, potrebbero condurre ugualmente a un giudizio, individualizzato e attualizzato, di cessata pericolosità sociale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Osserva che non si comprende per quale motivo sia precluso al giudice di sorveglianza, chiamato a verificare l’evoluzione del detenuto, di verificare, in concreto, «le ragioni che hanno indotto l’interessato a non collaborare, cioè a mantenere il silenzio», evocato non quale mero atteggiamento, ma nel suo significato di diritto inviolabile a non accusare sé stessi (è richiamata l’ordinanza n. 117 del 2019 di questa Corte).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Analogamente all’ordinanza della Corte di cassazione, il rimettente evidenzia inoltre come la finalità rieducativa della pena sarebbe vanificata dall’impossibilità di ottenere permessi premio, i quali costituiscono «uno strumento fondamentale per consentire al condannato di progredire nel senso di responsabilità e di capacità di gestirsi nella legalità, e al magistrato di sorveglianza di vagliare i progressi trattamentali compiuti e la capacità di reinserirsi, per quanto brevemente, nel tessuto sociale» (sono richiamate le sentenze n. 149 del 2018 e n. 403 del 1997 di questa Corte). I permessi premio, ricorda il rimettente, consentono anche «l’esercizio pieno di diritti», tra i quali «il mantenimento o il ristabilimento, dopo anche lungo tempo, delle relazioni con la famiglia».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il Tribunale di sorveglianza di Perugia sottolinea, quindi, con ulteriore richiamo alla sentenza n. 149 del 2018, che la disposizione colliderebbe con l’art. 27 Cost. anche perché l’impossibilità di ottenere un qualsiasi beneficio premiale in assenza di collaborazione costituirebbe un disincentivo alla stessa partecipazione del condannato al percorso rieducativo connesso al trattamento penitenziario, con evidente mortificazione degli obiettivi che la norma costituzionale si pone.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Infine – anche su questo aspetto distinguendosi dall’ordinanza della Corte di cassazione – il rimettente sottolinea la peculiarità dell’esecuzione penale rispetto alla fase cautelare: mentre quest’ultima potrebbe infatti tollerare qualche presunzione, la prima, sviluppandosi lungo un arco temporale più esteso, richiederebbe una valutazione costante dell’evoluzione personologica del condannato, che tenga conto del trascorrere del tempo e della distanza dal reato commesso.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>3.– Sebbene presentino profili di parziale differenziazione nei percorsi argomentativi, le due ordinanze di rimessione censurano la stessa disposizione ed evocano i medesimi parametri costituzionali. I relativi giudizi vanno perciò riuniti, per essere decisi con un’unica pronuncia.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>4.– In via preliminare, va confermata l’ordinanza dibattimentale allegata alla presente sentenza, che ha dichiarato inammissibili tutti gli interventi spiegati da soggetti diversi dalle parti dei giudizi principali.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>5.– Sempre in via preliminare, devono essere correttamente definiti il thema decidendum e i termini delle questioni di legittimità costituzionale portate all’attenzione di questa Corte dalle ordinanze di rimessione illustrate.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>5.1.– In primo luogo, nel giudizio r.o. n. 59 del 2019, la parte S. C. ha prospettato, nell’atto di costituzione, anche la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Trattasi, però, di censura che il collegio rimettente non ha inteso proporre nell’atto di promovimento. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, non possono essere presi in considerazione ulteriori profili di illegittimità costituzionale dedotti dalle parti oltre i limiti dell’ordinanza di rimessione; e ciò, sia che siano stati eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il thema decidendum, una volta che le parti si siano costituite nel giudizio incidentale di costituzionalità (ex multis, da ultimo, sentenze n. 226, n. 206, n. 141, n. 96 e n. 78 del 2019).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Di tale censura questa Corte non deve perciò occuparsi.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>5.2.– In secondo luogo, le questioni di legittimità costituzionale sollevate non riguardano la legittimità costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo, sulla cui compatibilità con la CEDU si è, di recente, soffermata la Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 13 giugno 2019, Viola contro Italia.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Questo sarebbe stato l’oggetto delle presenti questioni se le ordinanze di rimessione avessero censurato – oltre che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – anche la previsione contenuta nell’art. 2, comma 2, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, che, richiamando l’art. 176 cod. pen., non consente di concedere la liberazione condizionale al condannato all’ergastolo che non collabora con la giustizia e che abbia già scontato ventisei anni effettivi di carcere, così trasformando la pena perpetua de iure in una pena perpetua anche de facto.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Le questioni di legittimità costituzionale ora in esame attengono, invece, non alla condizione di chi ha subito una condanna a una determinata pena, bensì a quella di colui che ha subito condanna (all’ergastolo, in entrambi i giudizi a quibus) per reati cosiddetti ostativi, in specie i delitti di associazione di tipo mafioso ai sensi dell’art. 416-bis cod. pen., e quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Infatti, è portato all’attenzione di questa Corte l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., ai sensi del quale la condanna per i delitti che esso elenca – si tratti di condanna a pena perpetua oppure a pena temporanea – impedisce l’accesso ai benefici penitenziari, e in special modo al permesso premio, in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit. (secondo cui l’utile collaborazione, anche dopo la condanna, consiste nell’essersi adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero nell’aiutare concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>I giudici a quibus, per parte loro, hanno “costruito” le questioni di legittimità costituzionale modellandole sulle fattispecie portate alla loro attenzione, nelle quali la richiesta di accesso al permesso premio riguardava due condannati alla pena dell’ergastolo, per i delitti prima specificati. Ma questa Corte non deve risolvere tali specifici giudizi, bensì pronunciarsi sulla disposizione di legge censurata, decidendo questioni di legittimità costituzionale rilevanti in quei giudizi.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Tali questioni riguardano perciò l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in quanto recante una disciplina da applicarsi a tutti i condannati, a pena perpetua o temporanea, per i reati di partecipazione ad associazione mafiosa e di “contesto mafioso”. Per tutti costoro, infatti, la disposizione censurata dai rimettenti richiede la collaborazione con la giustizia quale condizione per l’accesso alla valutazione, in concreto, circa la concedibilità dei benefici penitenziari.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>5.3.– Infine, nei processi a quibus si fa questione della sola possibilità di concessione, ai detenuti, di un permesso premio, non di altri benefici.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Coerentemente con tale circostanza, i dispositivi di entrambe le ordinanze di rimessione precisano che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. è censurato nella sola parte in cui esclude che i condannati per i reati descritti, che non collaborano con la giustizia, possano essere ammessi alla fruizione dello specifico beneficio di cui all’art. 30-ter ordin. penit.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Del resto, non solo i rimettenti, come si diceva, limitano le proprie censure alla impossibilità – determinata dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – di accedere al permesso premio, ad esclusione, perciò, di qualunque riferimento agli altri benefici penitenziari; ma è lo stesso art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. ad elencare distintamente i benefici che non possono essere concessi ai detenuti per determinati reati (nonché agli internati, la cui posizione non è in discussione nel presente giudizio) che non collaborano con la giustizia: sicché unicamente del permesso premio si fa qui questione.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>5.4.– Entrambe le ordinanze, alla luce degli artt. 3 e 27 Cost., censurano l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in quanto introduce una presunzione assoluta di mancata rescissione dei legami con la criminalità organizzata a carico del condannato – per i reati precisati – che non collabori con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Proprio in virtù di tale presunzione, assoluta in quanto non superabile se non dalla collaborazione stessa, la disposizione attualmente vigente fa sì che le richieste di un tale detenuto di accedere allo specifico beneficio del permesso premio debbano dichiararsi in limine inammissibili, senza poter essere oggetto di un vaglio in concreto da parte del magistrato di sorveglianza (in disparte i casi di collaborazione impossibile o irrilevante).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Se tutto ciò sia conforme ai parametri costituzionali evocati è, in definitiva, il thema decidendum posto dalle presenti questioni di legittimità costituzionale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>6.– Ancora in via preliminare, deve essere vagliata l’eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza prospettata dall’Avvocatura generale dello Stato con specifico riferimento al giudizio instaurato dall’ordinanza (r.o. n. 135 del 2019) del Tribunale di sorveglianza di Perugia.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Lamenta, in particolare, l’Avvocatura dello Stato che il rimettente non avrebbe indicato le specifiche ragioni che motivano la scelta del detenuto di non collaborare con la giustizia.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il giudice a quo, in effetti, pur dando atto che la condotta collaborativa costituisce manifestazione del distacco del detenuto dal gruppo criminale di riferimento, ritiene che non possa per ciò solo dirsi che tale condotta «sia davvero l’unica “prova legale esclusiva di ravvedimento”, perché sono plurime le ragioni che possono indurre un condannato a non collaborare». Tra queste ragioni enumera, trattandone in astratto e in via di mera ipotesi: «il rischio per la propria incolumità e per quella dei propri congiunti, il rifiuto morale di rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di persone a lui legate da vincoli affettivi o amicali, o il ripudio di una collaborazione che rischi di apparire strumentale alla concessione di un beneficio».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’Avvocatura lamenta proprio il carattere ipotetico e astratto di tali ragioni, sottolineando come il reclamante nel giudizio a quo non abbia mai addotto alcuna di queste motivazioni per giustificare la propria mancata collaborazione. Dal che deriverebbe, appunto, il difetto di rilevanza delle questioni sollevate, poiché, anche nel caso di una pronuncia di accoglimento, una tale decisione non spiegherebbe effetti nel processo a quo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’eccezione non è fondata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Sostiene, invero, il rimettente che solo se questa Corte accogliesse le questioni – “smontando” il carattere assoluto della presunzione di pericolosità del detenuto che non collabora, e permettendo così che la prova dell’avvenuto distacco dal sodalizio criminale sia fornita altrimenti – il magistrato di sorveglianza, investito della richiesta di accesso al beneficio, potrebbe allora, in concreto, verificare le vere ragioni che hanno condotto il detenuto alla scelta di non collaborare.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Questa affermazione si pone, in effetti, nel solco della giurisprudenza costituzionale in tema di rilevanza, ove (ex plurimis, sentenze n. 20 del 2016, n. 46 e n. 5 del 2014, n. 294 del 2011) è ricorrente l’affermazione secondo cui, per l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale, è sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo, senza che rilevino gli effetti di una eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale per le parti in causa (da ultimo, sentenza n. 170 del 2019).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Del resto, anche nella prospettiva di un più diffuso accesso al sindacato di costituzionalità (messa in risalto, tra le pronunce più recenti, dalla sentenza n. 77 del 2018) e di una più efficace garanzia della conformità a Costituzione della legislazione (profilo valorizzato, da ultimo, nella sentenza n. 174 del 2019), il presupposto della rilevanza non si identifica con l’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare a seguito della decisione (sentenza n. 20 del 2018).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Soprattutto, con specifico riferimento alle presenti questioni, va considerato che, secondo la disposizione censurata, il giudice è chiamato a fare applicazione di una disciplina che predetermina l’esito del processo, nel senso dell’inammissibilità della richiesta di accesso al beneficio del permesso premio da parte del condannato non collaborante. Invece, nell’ipotesi di accoglimento delle sollevate questioni, il giudice a quo dovrebbe decidere secondo una diversa regola di giudizio, attingendola dalla disciplina di riferimento, privata della norma in ipotesi dichiarata incostituzionale. E quand’anche l’esito del giudizio a quo sia il medesimo – la non concessione del permesso premio – la pronuncia di questa Corte influirebbe di certo sul percorso argomentativo che il rimettente dovrebbe a questo punto seguire per decidere sulla richiesta del detenuto (tra le molte, sentenza n. 28 del 2010, nonché, con riferimento alle questioni relative alle cosiddette norme penali di favore, sentenze n. 394 del 2006, n. 161 del 2004 e n. 148 del 1983).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>7.– Venendo al merito, questa Corte ritiene opportuno scrutinare in primo luogo le questioni sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, in quanto, riferendosi alla posizione del condannato sia per partecipazione all’associazione di cui all’art. 416-bis cod. pen., sia per reati di “contesto mafioso”, la decisione su di esse potrebbe assorbire quelle sollevate dalla Corte di cassazione esclusivamente in riferimento al condannato per questi ultimi delitti.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Le questioni sono fondate, nei termini di seguito precisati.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>7.1.– «Sono fin troppo note le ragioni di politica criminale che indussero il legislatore dapprima ad introdurre e poi a modificare, secondo una linea di progressivo inasprimento, l’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354» (sentenza n. 68 del 1995), riversando così tali ragioni all’interno dell’ordinamento penitenziario e dell’esecuzione della pena.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nella prima versione – introdotta dall’art. 1 del d.l. n. 152 del 1991, come convertito – l’art. 4-bis ordin. penit. prevedeva due distinte “fasce” di condannati, a seconda della riconducibilità, più o meno diretta, dei titoli di reato a fatti di criminalità organizzata o eversiva.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Per i reati “di prima fascia” – comprendenti l’associazione di tipo mafioso, i relativi “delitti-satellite”, il sequestro di persona a scopo di estorsione e l’associazione finalizzata al narcotraffico – l’accesso a taluni benefici previsti dall’ordinamento penitenziario era possibile, alla stregua di un parametro probatorio particolarmente elevato, solo se fossero stati acquisiti «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Per i reati “di seconda fascia” (omicidio, rapina ed estorsione aggravate, nonché produzione e traffico di ingenti quantità di stupefacenti: «delitti, questi, per i quali le connessioni con la criminalità organizzata erano, nella valutazione del legislatore, meramente eventuali», come affermato nella sentenza n. 149 del 2018) si richiedeva – in termini inversi, dal punto di vista probatorio – l’insussistenza di elementi tali da far ritenere attuali detti collegamenti.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Accanto a questa distinzione di fondo, singole previsioni stabilivano, quale ulteriore requisito per l’ammissione a specifici benefici (tra i quali il permesso premio), che i condannati avessero espiato un periodo minimo di pena più elevato dell’ordinario, a meno che non si trattasse di persone che avevano collaborato con la giustizia, secondo la nuova previsione dell’art. 58-ter ordin. penit., che lo stesso d.l. n. 152 del 1991, come convertito, aveva introdotto nella legge penitenziaria del 1975.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In questa prima fase, dunque, il trattamento di maggior rigore per i condannati per reati di criminalità organizzata veniva realizzato su due piani, fra loro complementari. Come spiega la sentenza n. 68 del 1995: da un lato «si stabiliva, quale presupposto generale per l’applicabilità di alcuni istituti di favore, la necessità di accertare (alla stregua di una graduazione probatoria differenziata a seconda delle “fasce” di condannati) l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva; dall’altro, si postulava, attraverso l’introduzione o l’innalzamento dei livelli minimi di pena già espiata, un requisito specifico per l’ammissione ai singoli benefici, fondato sulla necessità di verificare per un tempo più adeguato l’effettivo percorso di risocializzazione di quanti si fossero macchiati di delitti iscrivibili nell’area della criminalità organizzata o eversiva. Requisito, a sua volta, dal quale il legislatore riteneva di poter prescindere in tutti i casi in cui fosse lo stesso condannato ad offrire prova dell’intervenuto distacco dal circuito criminale attraverso la propria condotta collaborativa».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Subito dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, si produce un evidente mutamento di prospettiva, nettamente ispirato «a finalità di prevenzione generale e di tutela della sicurezza collettiva» (sentenza n. 306 del 1993).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, apporta decisive modifiche all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975. Per quel che più direttamente ora interessa, nei confronti dei condannati per i reati appartenenti alla prima “fascia”, si stabilisce che l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, ad eccezione della liberazione anticipata, possono essere concessi solo nei casi di collaborazione con la giustizia (fatte salve alcune ipotesi per le quali i benefici sono applicabili anche se la collaborazione offerta risulti oggettivamente impossibile o irrilevante e sempre che sussistano, in questi casi, elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Restano sullo sfondo i diversi parametri probatori, alla cui stregua condurre l’accertamento circa la permanenza, nel condannato che aspira ai benefici penitenziari, di legami con la criminalità organizzata; e acquisisce invece risalto esclusivo una condotta, quella della collaborazione con la giustizia, assunta come la sola idonea a dimostrare, per facta concludentia, l’intervenuta rescissione di quei collegamenti. Ancora la sentenza n. 68 del 1995: si passa «da un sistema fondato su di un regime di prova rafforzata per accertare l’inesistenza di una condizione negativa (assenza dei collegamenti con la criminalità organizzata), ad un modello che introduce una preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto attraverso una condotta qualificata (la collaborazione)».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Come mette in luce la sentenza n. 239 del 2014, la nuova disciplina poggia insomma sulla presunzione legislativa che la commissione di determinati delitti dimostri l’appartenenza dell’autore alla criminalità organizzata, o il suo collegamento con la stessa, e costituisca, quindi, un indice di pericolosità sociale incompatibile con l’ammissione del condannato ai benefici penitenziari extramurari. La scelta di collaborare con la giustizia viene correlativamente assunta come la sola idonea a rimuovere l’ostacolo alla concessione dei benefici indicati, in ragione della sua valenza “rescissoria” del legame con il sodalizio criminale. Si coniuga a ciò – assumendo, in fatto, un rilievo preminente – l’obiettivo di incentivare, per ragioni investigative e di politica criminale generale, la collaborazione con la giustizia dei soggetti appartenenti o “contigui” ad associazioni criminose, che appare come strumento essenziale per la lotta alla criminalità organizzata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Per converso, la mancata collaborazione con la giustizia fonda la presunzione assoluta che i collegamenti con l’organizzazione criminale siano mantenuti ed attuali, ricavandosene la permanente pericolosità del condannato, con conseguente inaccessibilità ai benefici penitenziari normalmente disponibili agli altri detenuti.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Infine, recependo le indicazioni di questa Corte (sentenze n. 68 del 1995, n. 357 del 1994 e n. 306 del 1993), il comma 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit. estende la possibilità di accesso ai benefici ai casi in cui un’utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile, per la limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso accertata nella sentenza di condanna, ovvero impossibile, per l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con la sentenza irrevocabile; nonché ai casi in cui la collaborazione offerta dal condannato si riveli «oggettivamente irrilevante», sempre che, in questa evenienza, sia stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6), 114 o 116 cod. pen. In tutte le ipotesi dianzi indicate occorre, peraltro, che «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>7.2.– La presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, così introdotta nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. è assoluta, nel senso che non può essere superata da altro se non dalla collaborazione stessa. Quest’ultima, per i condannati per i delitti ricordati, è l’unico elemento che può consentire l’accesso ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario. È così introdotto un trattamento distinto rispetto a quello che vale per tutti gli altri detenuti.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In questi specifici termini deve essere precisata la precedente giurisprudenza di questa Corte, che ha sostenuto non potersi qualificare questa disciplina come «“costrizione” alla delazione», poiché spetta al detenuto adottare o meno quel comportamento (sentenza n. 39 del 1994).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>A ben guardare, l’inaccessibilità ai benefici penitenziari, per il detenuto che non collabora, non è un vero automatismo, poiché è lo stesso detenuto, scegliendo di collaborare, a poter spezzare la consequenzialità della disposizione censurata. L’inaccessibilità ai benefici penitenziari è insomma una preclusione che non discende automaticamente dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. «ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni di farlo» (sentenza n. 135 del 2003).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Purtuttavia, la presunzione della mancata rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata, che incombe sul detenuto non collaborante, è assoluta, perché non può essere superata da altro, se non dalla collaborazione stessa. E, come si chiarirà, è proprio questo carattere assoluto a risultare in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>7.3.– Nella sentenza n. 306 del 1993, che questa Corte pronunciò a breve distanza dall’entrata in vigore della disciplina introdotta dal d.l. n. 306 del 1992, come convertito, si riconosce che il requisito della collaborazione, quale condizione per l’accesso ai benefici penitenziari, «è essenzialmente espressione di una scelta di politica criminale», adottata per finalità di prevenzione generale e di sicurezza collettiva.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Sottolineando che la scelta legislativa costituiva risposta alla necessità di contrastare una criminalità organizzata «aggressiva e diffusa», la sentenza non condivide la tesi, sostenuta nella relazione alla legge di conversione del d.l. n. 306 del 1992, secondo cui la decisione di collaborare è la sola ad esprimere con certezza la «volontà di emenda» del condannato, sicché essa assumerebbe una valenza anche “penitenziaria”, non estranea al principio della funzione rieducativa della pena («è solo la scelta collaborativa ad esprimere con certezza quella volontà di emenda che l’intero ordinamento penale deve tendere a realizzare»: così la relazione presentata in Senato in sede di conversione del d.l. n. 306 del 1992 – atto n. 328).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Su questo profilo, la sentenza sottolineò che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. non può essere presentato sotto le vesti di una disposizione di natura “penitenziaria”, giacché la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario (la mancata collaborazione) non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento o “emenda”, secondo una lettura “correzionalistica” della rieducazione: «non può non convenirsi con i giudici a quibus quando sostengono che la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Sono argomenti, questi ultimi, considerati, sia pur con riferimento a un diverso beneficio, dalla Corte EDU nella già ricordata sentenza Viola, nelle parti espressamente dedicate alla collaborazione con la giustizia, ove viene sottoposta a critica una disposizione che assume iuris et de iure la permanenza di collegamenti con associazioni criminali del non collaborante ed eleva aprioristicamente la collaborazione al rango di sintomo eloquente di abbandono della scelta di vita originaria, quando in realtà essa potrebbe essere dovuta a molte altre ragioni, non sempre commendevoli.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Quel che più conta, la sentenza n. 306 del 1993 – pur dichiarando, tra l’altro, non fondate le questioni allora sollevate sull’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit, in relazione all’art. 27, terzo comma, Cost. – osservò che inibire l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i quali non collaborino con la giustizia, comporta una «rilevante compressione» della finalità rieducativa della pena: «la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di “tipi d’autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» in caso di mancata collaborazione.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>8.– Queste ultime valutazioni vanno sviluppate, e conducono oggi all’accoglimento delle questioni sollevate, nei termini che ora si chiariranno.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Non è la presunzione in sé stessa a risultare costituzionalmente illegittima. Non è infatti irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, purché si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Mentre una disciplina improntata al carattere relativo della presunzione si mantiene entro i limiti di una scelta legislativa costituzionalmente compatibile con gli obbiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena, non regge, invece, il confronto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. – agli specifici e limitati fini della fattispecie in questione – una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ciò sotto tre profili, distinti ma complementari.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In un primo senso, perché all’assolutezza della presunzione sono sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In un secondo senso, perché tale assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In un terzo senso, perché l’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere invece contraddetta, a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>8.1.– Dal primo punto di vista, il congegno normativo inserito nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dal d.l. n. 306 del 1992, come convertito, è espressione di una trasparente opzione di politica investigativa e criminale. In quanto tale, essa immette nel percorso carcerario del condannato – attraverso il decisivo rilievo attribuito alla collaborazione con la giustizia anche dopo la condanna – elementi estranei ai caratteri tipici dell’esecuzione della pena.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La disposizione in esame, infatti, prefigura una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Per i condannati per i reati elencati nella disposizione censurata, infatti, è costruita una disciplina speciale (sentenza n. 239 del 2014), ben diversa da quella prevista per la generalità degli altri detenuti.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Essi possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario solo qualora collaborino con la giustizia, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit. Se tale collaborazione non assicurino, ai benefici in questione non potranno accedere mai, neppure dopo aver scontato le frazioni di pena richieste quale ordinario presupposto per l’ammissione a ciascun singolo beneficio (previste per il permesso premio dall’art 30-ter, comma 4, ordin. penit.). E se invece collaborino secondo le modalità contemplate dal citato art. 58-ter, a tali benefici potranno accedere senza dover previamente scontare la frazione di pena ordinariamente prevista, in forza della soluzione interpretativa già individuata, sia da questa Corte (sentenze n. 174 del 2018 e n. 504 del 1995), sia dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 3 febbraio 2016, n. 37578 e 12 luglio 2006, n. 30434).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La disciplina in esame, quindi, a seconda della scelta compiuta dal soggetto, aggrava il trattamento carcerario del condannato non collaborante rispetto a quello previsto per i detenuti per reati non ostativi, oppure, al contrario, lo agevola, giacché, in presenza di collaborazione, introduce a favore del detenuto elementi premiali rispetto alla disciplina ordinaria.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ma, alla stregua dei principi di ragionevolezza, di proporzionalità della pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, un conto è l’attribuzione di valenza premiale al comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti una collaborazione utile ed efficace, ben altro è l’inflizione di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante, presunto iuris et de iure quale persona radicata nel crimine organizzato e perciò socialmente pericolosa.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il valore “premiale” della collaborazione – che rende immediatamente accessibili tutti i benefici, senza necessità di raggiungere le soglie di pena previste ordinariamente – si giustifica sia considerando che essa è ragionevole indice del presumibile abbandono dell’originario sodalizio criminale, sia in virtù della determinante utilità che ha mostrato sul piano del contrasto alle organizzazioni mafiose.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Del resto, nel più ampio contesto del comportamento intramurale, la collaborazione assume rilievo, oltre che come dimostrazione della rottura con il circuito criminale, anche ai fini della complessiva valutazione dell’iter rieducativo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Invece, alla luce degli artt. 3 e 27 Cost., l’assenza di collaborazione con la giustizia dopo la condanna non può tradursi in un aggravamento delle modalità di esecuzione della pena, in conseguenza del fatto che il detenuto esercita la facoltà di non prestare partecipazione attiva a una finalità di politica criminale e investigativa dello Stato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Come configurata dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., la mancata collaborazione infligge ulteriori conseguenze negative, che non hanno diretta connessione con il reato commesso, ma derivano unicamente, appunto, dal rifiuto del detenuto di prestare la collaborazione in parola, nella sostanza aggravando le condizioni di esecuzione della pena già inflittagli al termine del processo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In disparte ogni considerazione – su cui insiste il rimettente – circa il rilievo del diritto al silenzio nella fase di esecuzione della pena (la giurisprudenza costituzionale ha affermato che esso è corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa riconosciuto dall’art. 24 Cost. e «si esplica in ogni procedimento secondo le regole proprie di questo»: sentenza n. 165 del 2008; ordinanze n. 282 del 2008 e n. 33 del 2002), questa Corte non può esimersi dal rilevare che l’attuale formulazione dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., anche in nome di prevalenti esigenze di carattere investigativo e di politica criminale, opera una deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., che certo l’ordinamento penitenziario non può disconoscere ad alcun detenuto.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Garantita nel processo nella forma di vero e proprio diritto, espressione del principio nemo tenetur se detegere, la libertà di non collaborare, in fase d’esecuzione, si trasforma infatti – quale condizione per consentire al detenuto il possibile accesso all’ordinario regime dei benefici penitenziari – in un gravoso onere di collaborazione che non solo richiede la denuncia a carico di terzi (carceratus tenetur alios detegere), ma rischia altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ciò non risulta conforme agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>8.2.– In secondo luogo, contrasta con l’art. 27, terzo comma, Cost. la circostanza che la richiesta di ottenere il permesso premio debba essere in limine dichiarata inammissibile, senza che al magistrato di sorveglianza sia consentita una valutazione in concreto della condizione del detenuto.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il permesso premio, almeno per le pene medio-lunghe, rappresenta un peculiare istituto del complessivo programma di trattamento. Esso consente «al detenuto, a fini rieducativi, i primi spazi di libertà» (sentenza n. 188 del 1990), mostrando perciò una «funzione “pedagogico-propulsiva”» (sentenza n. 504 del 1995, poi sentenze n. 445 del 1997 e n. 257 del 2006), e permette l’osservazione da parte degli operatori penitenziari degli effetti sul condannato del temporaneo ritorno in libertà (sentenza n. 227 del 1995).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La giurisprudenza di questa Corte (in particolare sentenza n. 149 del 2018) ha del resto indicato come criterio costituzionalmente vincolante quello che richiede una valutazione individualizzata e caso per caso nella materia dei benefici penitenziari (in proposito anche sentenza n. 436 del 1999), sottolineando che essa è particolarmente importante al cospetto di presunzioni di maggiore pericolosità legate al titolo del reato commesso (sentenza n. 90 del 2017). Ove non sia consentito il ricorso a criteri individualizzanti, l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo (sentenza n. 257 del 2006), in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena (sentenza n. 255 del 2006).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La presunzione assoluta in esame impedisce proprio tale verifica secondo criteri individualizzanti, non consentendo nemmeno – come sottolinea il Tribunale di sorveglianza di Perugia – di valutare le ragioni che hanno indotto il detenuto a mantenere il silenzio.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In definitiva, l’inammissibilità in limine della richiesta del permesso premio può arrestare sul nascere il percorso risocializzante, frustrando la stessa volontà del detenuto di progredire su quella strada.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ciò non è consentito dall’art. 27, terzo comma, Cost.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>8.3.– In terzo luogo, la giurisprudenza di questa Corte sottolinea che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit» (sentenza n. 268 del 2016; in precedenza, sentenze n. 185 del 2015, n. 232, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 291, n. 265, n. 139 del 2010, n. 41 del 1999 e n. 139 del 1982).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In particolare, l’irragionevolezza di una presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia possibile formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nel presente caso, la generalizzazione che fonda la presunzione assoluta consiste in ciò: se il condannato per il delitto di associazione mafiosa e/o per delitti di “contesto mafioso” non collabora con la giustizia, la mancata collaborazione è indice (non superabile se non dalla collaborazione stessa) della circostanza per cui egli non ha spezzato i legami che lo tengono avvinto all’organizzazione criminale di riferimento.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Sono ben note le ragioni di una tale generalizzazione. L’appartenenza ad una associazione di stampo mafioso implica un’adesione stabile ad un sodalizio criminoso, di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo (in materia cautelare, sentenze n. 48 del 2015, n. 213 del 2013, n. 57 del 2013, n. 164 e n. 231 del 2011; ordinanza n. 136 del 2017).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Tali ragioni sono di notevolissima importanza e non si sono affatto affievolite in progresso di tempo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nonostante ciò, nella fase cautelare, in presenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., la presunzione di sussistenza di esigenze cautelari è relativa, perché può essere vinta dall’acquisizione di elementi dai quali risulti che tali esigenze non sussistono (art. 275, comma 3, cod. proc. pen.).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Se tali esigenze tuttavia sussistono, esse si presumono – con presunzione questa volta iuris et de iure – non fronteggiabili con misure diverse dalla custodia in carcere (sentenza n. 265 del 2010, ordinanza n. 136 del 2017), non solo per le peculiari connotazioni del sodalizio criminale, ma anche perché la valutazione è svolta quasi nell’immediatezza del fatto o, comunque, in un momento non lontano dalla sua supposta commissione.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nella fase di esecuzione della pena, assume invece ruolo centrale il trascorrere del tempo, che può comportare trasformazioni rilevanti, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere, ed è questa situazione che induce a riconoscere carattere relativo alla presunzione di pericolosità posta a base del divieto di concessione del permesso premio.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>È certo possibile che il vincolo associativo permanga inalterato anche a distanza di tempo, per le ricordate caratteristiche del sodalizio criminale in questione, finché il soggetto non compia una scelta di radicale distacco, quale quella che – in particolare, ma non esclusivamente, secondo la ratio stessa di questa pronuncia – è espressa dalla collaborazione con la giustizia. Peraltro, per i casi di dimostrati persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, l’ordinamento penitenziario appresta l’apposito regime di cui all’art. 41-bis, che non è ovviamente qui in discussione e la cui applicazione ai singoli detenuti presuppone proprio l’attualità dei loro collegamenti con organizzazioni criminali (sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ma, in disparte simili vicende, il decorso del tempo della esecuzione della pena esige una valutazione in concreto, che consideri l’evoluzione della personalità del detenuto. Ciò in forza dell’art. 27 Cost., che in sede di esecuzione è parametro costituzionale di riferimento (a differenza di quanto accade in sede cautelare: ordinanza n. 532 del 2002).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Inoltre, una valutazione individualizzata e attualizzata non può che estendersi al contesto esterno al carcere, nel quale si prospetti la possibilità di un, sia pur breve e momentaneo, reinserimento dello stesso detenuto, potendosi ipotizzare che l’associazione criminale di originario riferimento, ad esempio, non esista più, perché interamente sgominata o per naturale estinzione.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Con assorbimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione (miranti a distinguere tra la posizione dell’affiliato e quella del condannato per reati di “contesto mafioso”), ne deriva perciò, in lesione dell’art. 3 Cost., l’irragionevolezza – nonché, anche sotto questo profilo, il contrasto con la funzione rieducativa della pena – di una presunzione assoluta di pericolosità sociale che, a prescindere da qualsiasi valutazione in concreto, presupponga l’immutabilità, sia della personalità del condannato, sia del contesto esterno di riferimento.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>9.– Nel caso di specie, però, trattandosi del reato di affiliazione a una associazione mafiosa (e dei reati a questa collegati), caratterizzato dalle specifiche connotazioni criminologiche prima descritte, la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – da parte di tutte le autorità coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza – deve rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ciò giustifica che la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, pur non più assoluta, sia superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione, ma soprattutto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Quali siano questi elementi, è la stessa evoluzione del medesimo art. 4-bis ordin. penit. a mostrare con evidenza.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Come si è già detto (supra, punto 7.1 del Considerato in diritto), prima dell’introduzione del decisivo requisito della collaborazione con la giustizia, l’art. 1 del d.l. n. 152 del 1991, come convertito, già stabiliva, per i reati della “prima fascia” (comprendenti l’associazione di tipo mafioso, i relativi “delitti-satellite”, il sequestro di persona a scopo di estorsione e l’associazione finalizzata al narcotraffico), che l’accesso a taluni benefici previsti dall’ordinamento penitenziario fosse possibile alla stregua di un parametro probatorio particolarmente elevato, cioè solo se fossero stati acquisiti «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Era quindi disegnato, per questi reati, un sistema fondato su di «un regime di prova rafforzata per accertare l’inesistenza di una condizione negativa» (sentenza n. 68 del 1995).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Di un tale regime, anche la versione attualmente vigente dell’art. 4-bis, ordin. penit. mantiene traccia testuale, al comma 1-bis. Infatti, come pure si è detto (supra, punto 7.1 del Considerato in diritto), tale comma estende la possibilità di accesso ai benefici penitenziari ai casi in cui un’utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile, impossibile od «oggettivamente irrilevante», sempre che, in questa evenienza, sia stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6), 114 o 116 cod. pen. Ma, ancora, per tutte le ipotesi appena indicate occorre che «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’acquisizione di simili elementi appartiene, come si vede, alla stessa logica cui è improntato l’art. 4-bis ordin. penit. e consente alla magistratura di sorveglianza, attraverso un efficace collegamento con tutte le autorità competenti in materia, di svolgere d’ufficio una seria verifica non solo sulla condotta carceraria del condannato nel corso dell’espiazione della pena, ma altresì sul contesto sociale esterno in cui il detenuto sarebbe autorizzato a rientrare, sia pure temporaneamente ed episodicamente (ordinanza n. 271 del 1992).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In particolare, l’art. 4-bis, comma 2, ordin. penit., prevede che, ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1 (perciò, anche del permesso premio), la magistratura di sorveglianza decide non solo sulla base delle relazioni della pertinente autorità penitenziaria ma, altresì, delle dettagliate informazioni acquisite per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>È fondamentale aggiungere che, ai sensi del comma 3-bis del medesimo art. 4-bis, tutti i benefici in questione, compreso il permesso premio, «non possono essere concessi» (ferma restando l’autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza: ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 5 dicembre 2016, n. 51878) quando il Procuratore nazionale antimafia (oggi anche antiterrorismo) o il Procuratore distrettuale comunica, d’iniziativa o su segnalazione del competente comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In tale contesto, l’acquisizione di stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata (a partire da quelli di natura economico-patrimoniale) non solo è criterio già rinvenibile nell’ordinamento (sentenze n. 40 del 2019 e n. 222 del 2018) – nel caso di specie, nella stessa disposizione di cui è questione di legittimità costituzionale (sentenza n. 236 del 2016) – ma è soprattutto criterio costituzionalmente necessario (sentenza n. 242 del 2019) per sostituire in parte qua la presunzione assoluta caducata, alla stregua dell’esigenza di prevenzione della «commissione di nuovi reati» (sentenze n. 211 del 2018 e n. 177 del 2009) sottesa ad ogni previsione di limiti all’ottenimento di benefici penitenziari (sentenza n. 174 del 2018).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’acquisizione in parola è, d’altra parte, fattore imprescindibile, ma non sufficiente.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il regime probatorio rafforzato, qui richiesto, deve altresì estendersi all’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali. Si tratta, del resto, di aspetto logicamente collegato al precedente, del quale condivide il carattere necessario alla luce della Costituzione, al fine di evitare che il già richiamato interesse alla prevenzione della commissione di nuovi reati, tutelato dallo stesso art. 4-bis ordin. penit., finisca per essere vanificato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Di entrambi tali elementi – esclusione sia dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata che del pericolo di un loro rispristino – grava sullo stesso condannato che richiede il beneficio l’onere di fare specifica allegazione (come stabilisce la costante giurisprudenza di legittimità maturata sul comma 1-bis dell’art. 4-bis, ordin. penit., in tema di collaborazione impossibile o inesigibile: ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 13 agosto 2019, n. 36057, 8 luglio 2019, n. 29869 e 12 ottobre 2017, n. 47044).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La magistratura di sorveglianza deciderà, sia sulla base di tali elementi, sia delle specifiche informazioni necessariamente ricevute in materia dalle autorità competenti, prima ricordate; con la precisazione che – fermo restando l’essenziale rilievo della dettagliata e motivata segnalazione del Procuratore nazionale antimafia o del Procuratore distrettuale (art. 4-bis, comma 3-bis, ordin penit.) – se le informazioni pervenute dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica depongono in senso negativo, incombe sullo stesso detenuto non il solo onere di allegazione degli elementi a favore, ma anche quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno (in tal senso, già Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 12 maggio 1992, n. 1639).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>10.– Va pertanto dichiarata, per violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. nella parte in cui non prevede che – ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen., e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste – possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>11.– Con la presente sentenza, in relazione ai reati indicati, è perciò sottratta all’applicazione del meccanismo “ostativo” previsto dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. la disciplina relativa alla concessione del beneficio del permesso premio, di cui all’art. 30-ter del medesimo ordin. penit.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ciò è conforme al perimetro delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici a quibus, nonché alla connotazione peculiare del permesso premio, che lo distingue dagli altri benefici pure elencati nella disposizione censurata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>12.– Come si è chiarito, le due ordinanze di rimessione hanno portato all’attenzione di questa Corte i reati di criminalità organizzata di stampo mafioso, cioè quelli che hanno costituito parte del nucleo originario della previsione censurata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ma, come pure si è accennato (supra, punto 7.1 del Considerato in diritto), l’assetto delineato dai provvedimenti dei primi anni Novanta del secolo scorso è stato progressivamente modificato, nel tempo, da una serie di riforme, che, da un lato, hanno mutato l’architettura complessiva dell’art. 4-bis ordin. penit. e, dall’altro, ne hanno ampliato progressivamente l’ambito di operatività, con l’innesto di numerose altre fattispecie criminose nella lista dei reati “ostativi”.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In virtù di varie scelte di politica criminale, non sempre tra loro coordinate, accomunate da finalità di prevenzione generale e da una volontà di inasprimento del trattamento penitenziario, in risposta ai diversi fenomeni criminali di volta in volta emergenti, l’art. 4-bis ordin. penit. ha così progressivamente allargato i propri confini, finendo per contenere, attualmente, una disciplina speciale relativa, ormai, a un «complesso, eterogeneo e stratificato elenco di reati» (sentenze n. 188 del 2019, n. 32 del 2016, n. 239 del 2014). E il comma 1 della disposizione, in particolare, presume l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata dei condannati per questo ampio elenco di reati, disegnando per tutti costoro un particolare regime carcerario, che non consente in radice l’accesso ai benefici penitenziari in assenza di collaborazione con la giustizia.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Peraltro, nella disposizione in esame, accanto ai reati tipicamente espressivi di forme di criminalità organizzata, compaiono ora, tra gli altri, anche reati che non hanno necessariamente a che fare con tale criminalità, ovvero che hanno natura mono-soggettiva: infatti, nel comma 1 dell’art. 4-bis, figurano i reati di prostituzione minorile e pornografia minorile, di violenza sessuale di gruppo (art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori», convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38), di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7, recante «Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione», convertito, con modificazioni, nella legge 17 aprile 2015, n. 43) e, da ultimo, anche quasi tutti i reati contro la pubblica amministrazione (legge 9 gennaio 2019, n. 3, recante «Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici»).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In questo contesto, l’intervento parzialmente ablatorio realizzato sui reati di criminalità organizzata di matrice mafiosa deve riflettersi sulle condizioni predisposte dal primo comma della norma censurata, in vista dell’accesso al permesso premio dei condannati per tutti gli altri reati di cui all’elenco.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Se così non fosse, deriverebbe dalla presente sentenza la creazione di una paradossale disparità, a tutto danno dei detenuti per reati rispetto ai quali possono essere privi di giustificazione sia il requisito (ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari) di una collaborazione con la giustizia, sia la dimostrazione dell’assenza di legami con un, inesistente, sodalizio criminale di originaria appartenenza.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ed anzi, la mancata estensione a tutti i reati previsti dal primo comma dell’art. 4-bis, ordin. penit. dell’intervento compiuto dalla presente sentenza sui reati di associazione mafiosa e di “contesto mafioso” finirebbe per compromettere la stessa coerenza intrinseca dell’intera disciplina di risulta.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In definitiva, i profili di illegittimità costituzionale relativi al carattere assoluto della presunzione attingono tanto la disciplina, in questa sede censurata, applicabile ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen., e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, quanto l’identica disciplina dettata dallo stesso art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. per i detenuti per gli altri delitti in esso contemplati.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Visto l’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), va perciò dichiarata in via consequenziale l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.</em></p>