<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 31 marzo 2021 n. 56</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 01, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), limitatamente alle parole «né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale.</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.– Le questioni sollevate in via principale dal giudice rimettente sono fondate.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.1.– La disposizione censurata stabilisce in via generale che la pena della reclusione – indipendentemente dalla sua durata, complessiva o residua – «può» essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando il condannato abbia compiuto i settant’anni di età.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Essa detta, dunque, una disciplina più favorevole per il condannato ultrasettantenne rispetto a quella fissata dal successivo comma 1, lettera d), dello stesso art. 47-ter ordin. penit., che consente parimenti l’espiazione della pena della reclusione nella forma della detenzione domiciliare al condannato che abbia compiuto i sessant’anni, alla duplice condizione – però – che si tratti di pena, anche residua, non superiore a quattro anni, e che il condannato sia «inabile anche parzialmente».</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il venir meno di queste condizioni per il condannato ultrasettantenne trova agevole spiegazione in riferimento alla duplice ratio della misura prevista dal comma 01.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Da un lato, come rilevato dalla dottrina, il legislatore presume qui la diminuzione della pericolosità sociale del condannato che abbia raggiunto i settant’anni, e la possibilità del suo contenimento mediante l’obbligo di permanenza nel domicilio, accompagnato dalle prescrizioni del giudice e dai dovuti controlli.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Dall’altro, e forse soprattutto, il legislatore muove dall’ulteriore presunzione che il carico di sofferenza associato alla permanenza in carcere cresca con l’avanzare dell’età, e con il conseguente sempre maggiore bisogno, da parte del condannato, di cura e assistenza personalizzate, che difficilmente gli possono essere assicurate in un contesto intramurario, caratterizzato dalla forzata convivenza con un gran numero di altri detenuti di ogni età. Sicché la misura alternativa all’esame, più che all’obiettivo della rieducazione del condannato, appare qui ispirata al principio di umanità della pena, sancito peraltro dallo stesso art. 27, terzo comma, Cost.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nella medesima logica si colloca d’altronde la parallela disposizione dettata, in materia di misure cautelari, dall’art. 275, comma 4, secondo periodo, del codice di procedura penale, a tenore del quale la custodia cautelare in carcere non può essere disposta, nei confronti di chi abbia compiuto settant’anni, salvo che sussistano «esigenze cautelari di eccezionale rilevanza»; imponendosi in ogni altro caso il ricorso alla misura meno gravosa degli arresti domiciliari, anche in presenza di esigenze cautelari che avrebbero consentito, nei confronti di una persona più giovane, il ricorso alla misura carceraria.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.2.– Così come accade in materia di custodia cautelare, il favor espresso dal legislatore per l’esecuzione domiciliare della pena nei confronti dei condannati ultrasettantenni non è, peraltro, incondizionato.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il comma 01 vieta, infatti, la concessione della misura a tre categorie di persone. Anzitutto, a chi sia stato condannato per uno tra i principali delitti contro la libertà sessuale, ovvero per uno dei delitti menzionati dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. o dall’art. 4-bis ordin. penit.; in secondo luogo, a chi sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza; e, infine, a chi sia stato condannato in passato con l’aggravante della recidiva di cui all’art. 99 del codice penale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In presenza di una di tali cause ostative, il legislatore ritiene evidentemente che venga meno la prima delle presunzioni poc’anzi evidenziate: quella, cioè, di attenuata pericolosità del condannato. Nonostante l’età avanzata, la tipologia del reato commesso ovvero la peculiare storia criminale del reo dimostrerebbero – senza possibilità di prova contraria da parte del condannato – una sua persistente pericolosità sociale non neutralizzabile con la mera detenzione domiciliare; ciò che renderebbe senza alternative l’esecuzione intramuraria.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Proprio sulla contro-presunzione assoluta di persistente pericolosità del condannato, derivante dalla mera applicazione nei suoi confronti dell’aggravante della recidiva, si appuntano i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal giudice a quo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.3.– In proposito, conviene subito rilevare che la disposizione censurata è l’unica, nell’intero corpus dell’ordinamento penitenziario, a far discendere conseguenze radicalmente preclusive di una misura alternativa a carico di chi sia stato condannato in passato con l’aggravante della recidiva, in una qualunque delle sue forme disciplinate dall’art. 99 cod. pen.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In talune circoscritte ipotesi, l’ordinamento penitenziario prevede, a carico dei soli condannati ai quali sia stata applicata la recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., condizioni più gravose per l’accesso ai benefici penitenziari (art. 30-quater ordin. penit.), ovvero il divieto di concedere una seconda volta le misure alternative dell’affidamento in prova, della detenzione domiciliare (nelle sue diverse forme) e della semilibertà (art. 58-quater ordin. penit.). Altre disposizioni – introdotte, come quella censurata, dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), e che rendevano più gravose, a carico dei soli condannati ai quali fosse stata applicata la recidiva reiterata, le condizioni di accesso anche a talune misure alternative – sono state successivamente abrogate dal decreto-legge 1° luglio 2013, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 94 (è il caso del previgente comma 1.1 dell’art. 47-ter ordin. penit. e del previgente art. 50-bis ordin. penit.).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La menzionata disposizione di cui all’art. 58-quater ordin. penit. mostra in modo particolarmente evidente l’anomalia del meccanismo preclusivo qui all’esame: mentre soltanto la recidiva reiterata osta a una seconda concessione di una misura alternativa (e dunque anche alla concessione di tutte le ipotesi di detenzione domiciliare diverse da quella in esame), qui già la recidiva semplice di cui all’art. 99, primo comma, cod. pen. osta in radice alla detenzione domiciliare; e ciò proprio nei confronti di una categoria di detenuti – quelli ultrasettantenni – rispetto ai quali la vita carceraria risulta, in via generale, particolarmente gravosa.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.4.– L’Avvocatura generale dello Stato assume che il singolare automatismo preclusivo previsto in parte qua dalla disposizione censurata non riposerebbe, in realtà, su di una presunzione assoluta, ma si fonderebbe piuttosto su una valutazione individualizzata, compiuta dal giudice di cognizione nel momento in cui ha ritenuto la sussistenza della recidiva nella sentenza di condanna; valutazione che, secondo l’ormai costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità e di questa stessa Corte, presuppone tanto un giudizio di maggiore gravità del fatto di reato, connesso alla maggiore colpevolezza di chi decide di compiere la condotta criminosa nonostante l’ammonimento rappresentato dalla precedente condanna nei propri confronti, quanto un giudizio di maggiore pericolosità del condannato, dimostrata dalla sua accentuata propensione a violare la legge penale (ex multis, sentenze n. 73 del 2020 e n. 185 del 2015; Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 maggio-5 ottobre 2010, n. 35738). Il fatto, dunque, che il giudice della cognizione abbia ritenuto applicabile la recidiva – quanto meno ai fini del suo bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti ai sensi dell’art. 69 cod. pen. – sarebbe indicativo, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, di una condizione di maggiore pericolosità del condannato giudizialmente accertata nel caso concreto, che il legislatore non irragionevolmente avrebbe valorizzato per negare a tale categoria di condannati l’accesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Questa Corte, tuttavia, non è persuasa da tale argomento.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La valutazione individualizzata sul surplus di pericolosità soggettiva – valutazione che, pure, il giudice di merito deve indubbiamente compiere allorché decide se ritenere o meno la sussistenza della recidiva contestata all’imputato – non è infatti né attuale, né specifica rispetto alla sussistenza delle ragioni che potrebbero deporre in favore della esecuzione della pena sub specie di detenzione domiciliare.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In effetti, la disposizione censurata condiziona l’accesso alla detenzione domiciliare al presupposto che il soggetto non sia «mai» stato condannato con l’aggravante di cui all’art. 99 cod. pen., senza precisare – dunque – se l’aggravante debba essere stata applicata nella stessa sentenza di condanna attualmente in esecuzione, ovvero in altra sentenza già pronunciata nei suoi confronti in qualsiasi momento del passato. Una tale sentenza potrebbe essere stata pronunciata in un passato assai remoto; e il giudice della condanna della pena attualmente in esecuzione ben potrebbe avere escluso l’applicazione della recidiva, proprio in considerazione del carattere risalente dei precedenti reati commessi dal condannato, e dunque della loro irrilevanza ai fini di quel giudizio di accentuata pericolosità e colpevolezza che condiziona la stessa applicabilità dell’aggravante.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ma anche nell’ipotesi in cui sia proprio la sentenza in esecuzione ad avere applicato la recidiva, il giudizio di maggiore pericolosità sociale ad essa sotteso è formulato dal giudice della cognizione unicamente ai fini della determinazione del quantum di pena da infliggere al condannato, per effetto dell’applicazione degli inasprimenti di pena previsti dall’art. 99 cod. pen., ovvero del suo bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti. Da tale giudizio la disposizione censurata fa però discendere una conseguenza automatica in relazione alla differente questione – che rimane del tutto estranea all’orizzonte valutativo del giudice della cognizione – se il condannato debba essere ammesso a scontare la propria pena in regime di detenzione domiciliare anziché all’interno del carcere, alla luce di tutti i fattori normalmente considerati dal giudice di sorveglianza al quale il condannato richieda la misura alternativa in parola. Fattori, questi ultimi, tra i quali non potrebbero non essere considerati i cambiamenti avvenuti nella persona del reo, e l’eventuale percorso rieducativo in ipotesi già intrapreso, nel lungo periodo che normalmente separa il tempus della commissione del reato ritenuto aggravato dalla recidiva – tempus con riferimento al quale il giudice di cognizione aveva formulato la propria valutazione di accentuata pericolosità sociale del reo – e quello del passaggio in giudicato della relativa sentenza di condanna, nonché nell’eventuale periodo di esecuzione da lui scontato nel frattempo in carcere. Come questa Corte ha già avuto modo di rilevare, «[m]entre la recidiva rinviene nel fatto di reato il suo termine di riferimento, la condotta susseguente si proietta nel futuro e può segnare una radicale discontinuità negli atteggiamenti della persona e nei suoi rapporti sociali» (sentenza n. 183 del 2011); radicale discontinuità di cui il giudice di sorveglianza deve essere in condizione di tenere conto, nella valutazione se l’esecuzione intramuraria sia comunque necessaria anche nei confronti di un condannato di età avanzata, o se gli scopi della pena possano essere soddisfatti anche mediante un trattamento meno afflittivo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Né l’età avanzata del condannato, né la conseguente sofferenza addizionale connessa alla permanenza in carcere, spiegano d’altra parte alcun ruolo nel giudizio che sta alla base della decisione del giudice della cognizione se ritenere sussistente la circostanza aggravante della recidiva; mentre tali considerazioni svolgerebbero ovviamente un ruolo di primo piano nel bilanciamento che la magistratura di sorveglianza dovrebbe svolgere a fronte di un’istanza di detenzione domiciliare, ove il suo esame non le fosse precluso dalla disposizione censurata.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’individualizzazione del giudizio di pericolosità sociale del condannato, su cui insiste l’Avvocatura generale dello Stato, si rivela così soltanto apparente. La disposizione censurata, in realtà, fa discendere in modo automatico un effetto preclusivo della detenzione domiciliare da un giudizio svolto tempo prima dal giudice della cognizione, avente un oggetto affatto diverso da quello relativo alla concreta meritevolezza del condannato ad essere ammesso alla misura alternativa in parola, sulla base delle circostanze sussistenti al momento dell’esecuzione della pena.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Da ciò discende l’intrinseca irragionevolezza della disposizione censurata, anche in rapporto ai principi di rieducazione e umanità della pena, in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte che considera contrarie agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. le preclusioni assolute all’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione (ex plurimis, sentenze n. 253 del 2019, n. 149 del 2018, n. 291 del 2010, n. 189 del 2010).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.5.– Tale conclusione non è smentita dalla recente sentenza n. 50 del 2020, che – in relazione alla peculiare ipotesi di detenzione domiciliare cosiddetta “generica” di cui all’art. 47-ter, comma 1-bis, ordin. penit., fruibile da tutti coloro che debbano scontare non più di due anni, anche quale residuo di maggior pena – ha ritenuto legittima la preclusione all’accesso alla misura a carico dei condannati per taluno dei delitti di cui all’art. 4-bis ordin penit., quando non ricorrano i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Questa Corte ha infatti sottolineato come in tale ipotesi la preclusione trovi «fondamento concomitante in elementi che discendono dalla necessaria valutazione giudiziale del caso concreto», compiuta dalla stessa magistratura di sorveglianza in sede di esame dell’istanza del condannato, che deve per l’appunto essere stato ritenuto in concreto non meritevole di essere ammesso alla più favorevole misura dell’affidamento in prova al servizio sociale. In quel caso la valutazione, posta in essere nella fase esecutiva della pena, è – dunque – attuale e contestualizzata rispetto alla possibile concessione di misure alternative, a differenza di quanto accade rispetto alla preclusione oggetto della disposizione all’esame nel presente giudizio.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>2.6.– In conclusione, deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata limitatamente all’inciso «né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’articolo 99 del codice penale», restando così assorbita la questione formulata in via subordinata dal rimettente.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il venir meno di tale inciso comporta la riespansione degli ordinari poteri discrezionali della magistratura di sorveglianza, chiamata a valutare se il condannato sia meritevole di essere ammesso alla detenzione domiciliare (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 8 febbraio-6 marzo 2012, n. 8712; sentenza 18 giugno-10 luglio 2008, n. 28555), tenuto conto anche della sua eventuale residua pericolosità sociale, da apprezzarsi in concreto sulla base di tutte le circostanze risultanti al momento della decisione sull’istanza relativa.</em></p> <p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>Emilio Barile La Raia</em></strong></p>