<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Corte costituzionale, sentenza 26 febbraio 2020 n.32</strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale; va dichiarata altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso; va infine dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Taranto.</em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><em>2.– In via preliminare, conviene brevemente ricapitolare il contesto normativo nel quale si inseriscono le censure dei rimettenti.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Come già rammentato, l’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, in questa sede censurato, inserisce nell’elenco dei delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. i delitti contro la pubblica amministrazione di cui agli artt. 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322 e 322-bis del codice penale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>2.1.– Per effetto di detto inserimento, tali delitti sono oggi soggetti, anzitutto, al medesimo regime “ostativo” rispetto alla concessione dei permessi premio, del lavoro all’esterno e delle misure alternative alla detenzione, esclusa la liberazione anticipata, che vige per i delitti cosiddetti “di prima fascia” elencati nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ciò significa che i benefici e le misure alternative in questione possono ora essere concessi ai condannati per la maggior parte dei delitti contro la pubblica amministrazione, di regola, soltanto nel caso in cui essi collaborino con la giustizia.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Tale collaborazione potrà avvenire, alternativamente, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., ovvero – in forza di un’ulteriore modifica del testo dell’art. 4-bis ordin. penit., operata dall’art. 1, comma 6, lettera a), della legge n. 3 del 2019 – ai sensi dell’art. 323-bis, secondo comma, cod. pen.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’art. 58-ter ordin. penit., a sua volta, descrive la condotta di collaborazione con la giustizia come quella di «coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’art. 323-bis, secondo comma, cod. pen. prevede invece una circostanza attenuante, applicabile a vari delitti contro la pubblica amministrazione, in favore di «chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite». Se il riconoscimento della circostanza attenuante è evidentemente circoscritto alle condotte collaborative poste in essere dall’imputato prima della sentenza irrevocabile di condanna, il richiamo a tale disposizione da parte dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., nel testo modificato dalla legge n. 3 del 2019, sta probabilmente a significare che la collaborazione richiesta al condannato per i reati contro la pubblica amministrazione può in concreto esplicarsi – anche dopo la condanna – nelle forme indicate dallo stesso art. 323-bis, secondo comma, cod. pen., ove – a differenza di quanto accade nell’art. 58-ter ordin. penit. – è fatta esplicita menzione dell’attività rivolta ad assicurare il «sequestro delle somme o altre utilità trasferite».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In difetto di collaborazione, il condannato per i delitti contro la pubblica amministrazione menzionati dalla disposizione censurata – così come qualsiasi altro condannato per i delitti contemplati dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – potrà accedere ai benefici e alle misure alternative alla detenzione diverse dalla liberazione anticipata soltanto:</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>– allorché ricorrano le condizioni di cui all’art. 4-bis, comma 1-bis, ordin. penit., e cioè «purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, nonché nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall’articolo 62, numero 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall’ articolo 114 ovvero dall’articolo 116, secondo comma, del codice penale»; ovvero</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>– limitatamente alla concessione dei permessi premio, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti, secondo quanto stabilito dalla sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>2.2.– La sottoposizione dei condannati per delitti contro la pubblica amministrazione al regime dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. comporta poi una serie di effetti stabiliti da altre norme dell’ordinamento penitenziario che rinviano allo stesso art. 4-bis, e in particolare:</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>– una preclusione assoluta – non superabile neppure in presenza di collaborazione o di condizioni equiparate – rispetto alla concessione delle misure alternative della detenzione domiciliare “ordinaria” per ultrasettantenni (art. 47-ter, comma 01, ordin. penit.) e della detenzione domiciliare cosiddetta “generica” (art. 47-ter, comma 1-bis, ordin. penit.);</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>– l’allungamento dei tempi di espiazione di pena necessari per l’accesso al lavoro all’esterno (art. 21, comma 1, ordin. penit.), ai permessi premio (art. 30-ter ordin. penit.) e alla semilibertà (art. 50, comma 2, ordin. penit.);</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>– un regime più rigoroso relativo alla revoca dei benefici penitenziari già concessi, ai sensi dell’art. 58-quater, comma 5, ordin. penit.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>2.3.– L’inserimento dei delitti contro la pubblica amministrazione indicati dalla disposizione censurata nell’elenco di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. comporta un identico regime preclusivo rispetto alla liberazione condizionale, la quale – in forza dell’art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203 – può essere concessa ai condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. alla condizione che ricorrano i presupposti ivi indicati.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>2.4.– Infine, le ordinanze di rimessione sollevate dai giudici dell’esecuzione concernono l’ulteriore effetto riflesso dell’inserimento dei delitti contro la pubblica amministrazione nell’elenco dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., stabilito dall’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. e consistente nel divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Se infatti, in linea generale, in caso di condanna a pena detentiva non superiore a quattro anni, anche se costituente residuo di maggior pena, il pubblico ministero è tenuto a sospendere l’ordine di esecuzione contestualmente emesso nei confronti del condannato che si trovi in stato di libertà o agli arresti domiciliari, sì da consentirgli di presentare istanza al tribunale di sorveglianza competente – nei trenta giorni successivi – per la concessione di una misura alternativa alla detenzione (art. 656, commi 5 – come modificato dalla sentenza n. 41 del 2018 di questa Corte – e 10, cod. proc. pen.), il comma 9, lettera a), del medesimo art. 656 cod. proc. pen. preclude invece al pubblico ministero di sospendere l’ordine di esecuzione relativo alle condanne per una serie di delitti, tra i cui quelli di cui all’art. 4-bis ordin. penit.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ne consegue il necessario ingresso in carcere, nelle more del procedimento di sorveglianza, di chi sia condannato a pena detentiva non sospesa per la maggior parte dei delitti contro la pubblica amministrazione, nonostante l’entità della pena da scontare possa consentire al condannato di essere ammesso a una misura alternativa alla detenzione sin dall’inizio dell’esecuzione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>2.5.– La disposizione censurata nulla prevede in merito alla sua efficacia nel tempo.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In forza delle indicazioni provenienti dal diritto vivente, di cui meglio si dirà più innanzi (infra, 4.1.), tutte le ordinanze di rimessione assumono tuttavia che – nel silenzio del legislatore – tali modifiche siano immediatamente applicabili anche a coloro che sono stati condannati per fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019: ciò che costituisce, per l’appunto, l’oggetto essenziale delle censure che questa Corte è chiamata ora a decidere.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.– In relazione all’ammissibilità delle questioni prospettate, deve osservarsi quanto segue.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.1.– Nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito il difetto di rilevanza delle questioni sollevate, poiché, anche facendo applicazione del principio tempus regit actum, il Tribunale di sorveglianza avrebbe ben potuto esaminare l’istanza del condannato A. B. di affidamento in prova al servizio sociale in base alla disciplina previgente.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’eccezione deve ritenersi proposta anche nei giudizi iscritti ai numeri 193, 194 e 220 del r.o. 2019, poiché, nei rispettivi atti di intervento, l’Avvocatura generale dello Stato ha dichiarato di richiamare integralmente le eccezioni svolte nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.1.1.– In riferimento alle ordinanze iscritte ai numeri 114 e 220 del r.o. 2019, va rilevato che, nei procedimenti a quibus, l’ordine di esecuzione della pena è stato emesso – e contestualmente sospeso, ai sensi rispettivamente dei commi 5 e 10 dell’art. 656 cod. proc. pen. – anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019; così come prima della vigenza di quest’ultima sono state proposte da ciascun condannato le istanze di concessione di misure alternative alla detenzione. In entrambi i giudizi a quibus, però, l’udienza per la decisione sull’istanza del condannato si è svolta successivamente all’entrata in vigore della predetta legge.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In proposito, occorre osservare che il più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, formatosi proprio sulla base delle questioni di diritto intertemporale suscitate dalla legge n. 3 del 2019, è effettivamente nel senso dell’applicabilità della disciplina previgente ogniqualvolta l’istanza di concessione di misure alternative alla detenzione sia stata presentata anteriormente alla data di entrata in vigore della legge medesima (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 giugno 2019, n. 25212; sentenza 28 novembre 2019, n. 48499; sentenza 17 gennaio 2020, n. 1799).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Tuttavia, tenendo conto anche della circostanza che la giurisprudenza appena citata è in gran parte successiva alle ordinanze di rimessione, deve ritenersi non implausibile la motivazione dei rimettenti circa la rilevanza delle questioni, che muoveva dal diverso presupposto interpretativo che il discrimen temporale per l’applicazione della disciplina sopravvenuta fosse rappresentato dalla data di delibazione dell’istanza da parte del tribunale di sorveglianza.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Tanto basta per disattendere l’eccezione sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, «non potendosi procedere, in questa sede, ad un sindacato (diverso dal controllo esterno) sul giudizio di rilevanza, espresso dall’ordinanza di rimessione in modo non implausibile (v. per tutte, sentenza n. 286 del 1997) e con motivazione tutt’altro che carente (v. ordinanza n. 62 del 1997)» (sentenza n. 179 del 1999; nello stesso senso, ordinanze n. 104 del 2019 e n. 47 del 2016).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.1.2.– L’eccezione deve poi ritenersi all’evidenza infondata con riferimento ai giudizi iscritti ai numeri 193 e 194 del r.o. 2019, introdotti da giudici dell’esecuzione in seguito all’opposizione contro altrettanti ordini di esecuzione della pena, emessi successivamente all’entrata in vigore della disposizione censurata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.2.– Sempre nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, in quanto miranti a conseguire un intervento manipolativo della Corte, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata. L’eccezione deve intendersi proposta anche nei giudizi iscritti ai numeri 193, 194 e 220 del r.o. 2019, stante il rinvio operato negli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri alle eccezioni già svolte nel giudizio iscritto al n. 114 del r.o. 2019.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’eccezione non è fondata, per l’assorbente ragione che i rimettenti sollecitano un intervento additivo della Corte, volto a ricondurre le modificazioni recate all’art. 4-bis ordin. penit. dalla disposizione censurata nell’alveo della garanzia di irretroattività di cui, in particolare, all’art. 25, secondo comma, Cost.; soluzione alla quale conseguirebbe – univocamente, dato il tenore letterale del precetto costituzionale – l’inapplicabilità di tali modificazioni ai condannati per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge che le ha introdotte.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.3.– Nei giudizi iscritti ai numeri 115, 118 e 119 del r.o. 2019 – originati da incidenti di esecuzione volti a conseguire la declaratoria di illegittimità di ordini di esecuzione emessi e non sospesi – l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per erronea individuazione della norma censurata. I rimettenti avrebbero infatti denunciato l’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 (che inserisce i delitti contro la pubblica amministrazione nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.) e non, invece, l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. (che stabilisce il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione in relazione alle condanne per i reati di cui all’art. 4-bis stesso).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’eccezione non è fondata. Dal tenore complessivo delle ordinanze di rimessione risulta infatti evidente che l’intenzione dei giudici dell’esecuzione rimettenti è quella di censurare, per l’appunto, l’effetto prodottosi sul meccanismo preclusivo di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. in conseguenza dall’ampliamento del catalogo di cui all’art. 4-bis ordin. penit.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>D’altra parte, questa Corte ha già avuto modo di osservare che «il comma 9 [dell’art. 656 cod. proc. pen], alla lettera a), prevede che la sospensione dell’esecuzione non possa essere disposta “nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni”, sicché, per effetto del rinvio in essa contenuto, la norma processuale recepisce automaticamente le variazioni del catalogo dei delitti indicati nello stesso art. 4-bis (Corte di cassazione, Sezioni unite penali, sentenza n. 24561 del 2006)», e che «l’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. disciplina unicamente l’attività del pubblico ministero, vincolandone il contenuto in funzione della presunzione di pericolosità che concerne i condannati per i delitti compresi nel catalogo appena citato» (ordinanza n. 166 del 2010).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Può allora ritenersi che, così come la sospensione dell’ordine di esecuzione, di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., è istituto di natura «servente» rispetto alla richiesta di misure alternative alla detenzione (sentenza n. 41 del 2018), allo stesso modo il divieto di sospensione, di cui al comma 9, lettera a), della medesima disposizione è condizionato dalla presunzione di pericolosità correlata all’inserimento di un determinato reato nel catalogo di cui all’art. 4-bis ordin. penit. I giudici rimettenti sono pertanto chiamati a fare direttamente applicazione anche di quest’ultima disposizione, così come integrata dall’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, contro cui correttamente essi rivolgono le proprie censure.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.4.– Nei giudizi iscritti ai numeri 157, 160, 161, 193, 194 e 220 del r.o. 2019, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per mancato esperimento di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nemmeno questa eccezione è fondata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>I giudici a quibus hanno argomentato che, secondo il diritto vivente, le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non avrebbero carattere di norme penali sostanziali e sarebbero pertanto soggette al principio tempus regit actum: con conseguente loro applicazione anche a fatti di reato antecedenti alla loro entrata in vigore.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Come meglio si vedrà più innanzi, in effetti, la giurisprudenza di legittimità è allo stato univocamente orientata in questo senso (infra, 4.1.2.).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Alla luce dunque del diritto vivente, la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, che attragga nell’alveo dell’art. 25, secondo comma, Cost. le modificazioni all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., introdotte dalla disposizione censurata, è stata esplorata e consapevolmente scartata dai rimettenti: il che basta ai fini dell’ammissibilità della questione (sentenza n. 189 del 2019).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.5.– Nei giudizi iscritti ai numeri 193, 194 e 220 del r.o. 2019, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per mancata individuazione di una norma oggetto della questione di legittimità costituzionale, asserendo che i rimettenti avrebbero censurato «un mancato intervento del legislatore».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nemmeno tale eccezione può essere accolta.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>I giudici a quibus, infatti, individuano puntualmente la disposizione censurata, che ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., invocando su di essa un intervento additivo di questa Corte, mirante a delimitarne l’ambito temporale di applicazione ai fatti di reato successivi alla sua entrata in vigore.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.6.– Nei giudizi iscritti ai numeri 114, 115, 118, 119, 193, 194 e 210 del r.o. 2019, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni relative alla dedotta lesione del divieto di retroattività della legge penale sfavorevole (art. 25, secondo comma, Cost.) e del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), sul rilievo che analoghe censure sarebbero già state respinte da questa Corte nella sentenza 273 del 2001 e nelle ordinanze n. 108 del 2004 e n. 280 del 2001.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’eccezione non può evidentemente essere accolta, atteso che – anche ad ammettere che vi sia perfetta coincidenza tra le questioni ora sollevate e altre già decise in passato – nulla vieta a questa Corte di riconsiderare i propri stessi orientamenti interpretativi.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>3.7.– Sia pure in assenza di alcuna specifica eccezione da parte dell’Avvocatura generale dello Stato, con riferimento al giudizio iscritto al n. 210 del r.o. 2019 – ove il rimettente denuncia l’illegittimità costituzionale dell’immediata applicazione delle modificazioni recate all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dalla disposizione censurata, sotto il profilo della sopravvenuta impossibilità di concedere il beneficio del permesso premio agli autori dei delitti di cui agli artt. 317 e 319 cod. pen. che non collaborino la giustizia – va osservato che non elide la rilevanza delle questioni ivi prospettate l’intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale, operata dalla citata sentenza n. 253 del 2019, dell’art. 4-bis, comma 1, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nel caso di specie, il rimettente rappresenta infatti di dover fare applicazione dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in conseguenza dell’inclusione, con effetto immediato, dei reati ascritti al condannato M.P. D.G. nel catalogo contemplato da detta disposizione; laddove, a fronte dell’eventuale accoglimento delle questioni sollevate, egli dovrebbe valutare la concessione del permesso premio sulla base dei soli requisiti previsti dall’art. 30-ter ordin. penit. È pertanto evidente che sarebbe radicalmente diverso il percorso argomentativo che il giudice a quo dovrebbe seguire nel vagliare l’istanza del condannato in caso di applicazione della disciplina risultante dal censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, o, viceversa, di quella previgente.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Di qui la persistente rilevanza delle questioni prospettate.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.– Nel merito, le questioni prospettate dalle ordinanze di rimessione iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 160, 161, 193, 194 e 220 del r.o. 2019 sono fondate con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il diritto vivente ritiene, invero, che le norme disciplinanti l’esecuzione della pena siano in radice sottratte al divieto di applicazione retroattiva che discende dal principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (infra, 4.1.).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Plurime e convergenti ragioni inducono, tuttavia, a dubitare della persistente compatibilità di tale diritto vivente con i principi costituzionali (infra, 4.2.).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In esito a una complessiva rimeditazione della tematica, occorre in effetti concludere nel senso che, di regola, le <strong>pene detentive</strong> devono essere eseguite <strong>in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione</strong>, salvo però che tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una <strong>trasformazione della natura della pena</strong> e della sua <strong>incidenza sulla libertà personale</strong>. In questa ipotesi, l’applicazione retroattiva di una tale legge è incompatibile con l’art. 25, secondo comma, Cost. (infra, 4.3.).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La disposizione in questa sede censurata comporta, per una serie di reati contro la pubblica amministrazione, una trasformazione della natura delle pene previste al momento del reato e della loro incidenza sulla libertà personale del condannato, quanto agli effetti spiegati dalla stessa disposizione in relazione alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena. Conseguentemente, l’applicazione della disposizione censurata ai condannati <strong>per fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore</strong>, quanto agli effetti appena menzionati, viola il divieto di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (infra, 4.4.).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Stante il silenzio del legislatore sul regime intertemporale delle modifiche in esame, il rimedio appropriato, in risposta alle questioni sollevate dai rimettenti, è la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata così come risultante dal diritto vivente (infra, 4.5.).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.1.– Tutte le ordinanze di rimessione muovono dal comune presupposto che, secondo il diritto vivente, le <strong>modifiche in peius della disciplina dell’esecuzione della pena</strong> in radice non sarebbero soggette al principio di irretroattività della legge penale, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.1.1.– Un attento esame della giurisprudenza costituzionale in materia – peraltro tutta piuttosto risalente – restituisce, in verità, un quadro ricco di sfumature.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Questa Corte è stata chiamata quasi trent’anni or sono a misurarsi con la legittimità costituzionale della retroattività di simili modifiche in peius, in relazione agli effetti retroattivi prodotti, all’indomani della strage di Capaci, dall’art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356. Tale decreto-legge aveva, con riferimento ai condannati per delitti di criminalità organizzata e terrorismo, per la prima volta subordinato la concessione dei benefici penitenziari e della generalità delle misure alternative alla detenzione al presupposto della collaborazione con la giustizia, contestualmente prevedendo la revoca di tali benefici e misure, pur già concessi, nei confronti dei condannati che non avessero collaborato ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Per tutti gli anni Novanta, questa Corte non ha risolto il quesito ora all’esame, giungendo comunque a dichiarazioni di <strong>parziale illegittimità costituzionale</strong> delle disposizioni di volta in volta censurate sulla base di parametri diversi dall’art. 25, secondo comma, Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nell’antesignana sentenza n. 306 del 1993, questa Corte – investita di plurime questioni aventi a oggetto la legittimità costituzionale della revoca di misure alternative già concesse – ritenne non sufficientemente motivata la rilevanza delle questioni relative alla compatibilità dell’effetto retroattivo previsto dall’art. 15, comma 2, del d.l. n. 306 del 1992 con il principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., pur riconoscendo che tale profilo avrebbe potuto «meritare una seria riflessione». Questa Corte giudicò invece incompatibile con l’art. 27, primo e terzo comma, Cost. la previsione della revoca delle misure già concesse, anche quando non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali del condannato con la criminalità organizzata; e ciò in ragione dell’aspettativa, legittimamente nutrita dai condannati che avevano già ottenuto la semilibertà, a «veder riconosciuto l’esito positivo del percorso di risocializzazione già compiuto», aspettativa ormai trasformatasi «nel diritto ad espiare la pena con modalità idonee a favorire il completamento di tale processo».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nella successiva sentenza n. 504 del 1995 questa Corte dichiarò illegittimo l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal citato art. 15 del d.l. n. 306 del 1992, nella parte in cui precludeva la concessione di ulteriori permessi premio ai condannati per delitti “ostativi” che non avessero collaborato con la giustizia, anche quando essi ne avessero già fruito in precedenza e non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. La ragione dell’illegittimità fu, anche in questa occasione, ravvisata nel contrasto della disciplina censurata con gli artt. 3 e 27 Cost., in considerazione dell’irragionevolezza e incompatibilità con la funzione rieducativa della pena di una disciplina che comportava una sorta di “regressione incolpevole del trattamento” connesso al beneficio penitenziario in questione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Analoga ratio è stata posta a fondamento delle sentenze n. 445 del 1997 e n. 137 del 1999, con le quali l’art. 4-bis ordin. penit. fu dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevedeva che – rispettivamente – la semilibertà e i permessi premio potessero essere concessi nei confronti dei condannati che, prima della data di entrata in vigore dell’art. 15, comma 1, del d.l. n. 306 del 1992, avessero raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto, e per i quali non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Principio, quest’ultimo, che sarà in seguito applicato da questa Corte anche con riferimento alle modifiche in peius introdotte, per i condannati recidivi reiterati, dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione) (sentenze n. 79 del 2007 e n. 257 del 2006).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In altre occasioni, questa Corte è pervenuta invece a dichiarazioni di non fondatezza delle questioni poste dall’entrata in vigore del medesimo art. 15 del d.l. n. 306 del 1992, prospettate sotto lo specifico profilo dell’art. 25, secondo comma, Cost., senza affermare, in maniera generale, l’estraneità di tutte le modifiche in peius della disciplina in materia di esecuzione della pena al raggio di garanzia offerto dal principio di legalità della pena.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nel caso deciso con la sentenza n. 273 del 2001, in particolare, questa Corte era stata nuovamente sollecitata a chiarire se «il principio di irretroattività della legge penale sia circoscritto alle norme che creano nuovi reati, o modificano in peius gli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice, nonché la specie e la durata delle sanzioni edittali, ovvero vada riferito – come rit[eneva] il giudice a quo – anche alle norme che disciplinano le modalità di espiazione della pena detentiva». Il giudice rimettente aveva sollevato questione di legittimità costituzionale relativa alla disciplina che precludeva l’accesso alla liberazione condizionale ai condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., commessi prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 306 del 1992, i quali non avessero collaborato con la giustizia. Come anticipato, questa Corte non ha dato una risposta generale al quesito, osservando che le disposizioni censurate, nell’esigere la collaborazione con la giustizia quale condizione di accesso alla liberazione condizionale, non avevano modificato gli elementi costitutivi di tale istituto, e segnatamente il requisito dell’avere tenuto il condannato un comportamento tale da farne ritenere sicuro il ravvedimento. La disciplina censurata si sarebbe piuttosto limitata a introdurre un criterio legale di valutazione del requisito, rappresentato appunto dalla collaborazione processuale; senza, dunque, modificare in senso deteriore per il condannato la disciplina sostanziale della liberazione condizionale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La medesima argomentazione compare poi nelle due ordinanze n. 108 del 2004 e n. 280 del 2001, con le quali sono state parimenti rigettate due questioni relative agli effetti intertemporali di modifiche apportate all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.1.2.– Il quadro della giurisprudenza della Corte di cassazione è invece assai netto nel senso della non riconducibilità all’alveo dell’art. 25, secondo comma, Cost. delle norme sull’esecuzione della pena, e conseguentemente nel senso della pacifica applicabilità di modifiche normative di segno peggiorativo anche ai condannati che abbiano commesso il reato prima dell’entrata in vigore delle modifiche stesse.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il tradizionale principio secondo cui le disposizioni in parola <strong>non hanno carattere di norme sostanziali</strong> e soggiacciono pertanto, in assenza di specifica disciplina transitoria, al principio tempus regit actum è stato affermato, in particolare, nel 2006 (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 luglio 2006, n. 24561), ed è poi stato sempre confermato dalla giurisprudenza successiva (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 18 settembre 2006, n. 30792; sezione prima penale, sentenza 15 luglio 2008, n. 29155; sezione prima penale, sentenza 9 dicembre 2009, n. 46924; sezione seconda penale, sentenza 22 febbraio 2012, n. 6910; sezione prima penale, sentenza 12 marzo 2013, n. 11580; sezione prima penale, sentenza 18 dicembre 2014, n. 52578; sezione prima penale, sentenza 9 settembre 2016, n. 37578).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.1.3.– All’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, il diritto vivente è stato invero rimesso in discussione da alcune pronunce di merito, che hanno ritenuto inapplicabile la disposizione censurata ai fatti di reato pregressi, dal momento che ad essa si sarebbe dovuta riconoscere natura “sostanzialmente penale”, secondo i noti criteri Engel elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con conseguente sua soggezione al divieto di retroattività sfavorevole di cui agli artt. 25, secondo comma, Cost. e 7 CEDU (Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Como, ordinanza 8 marzo 2019; Corte di appello di Reggio Calabria, sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019; Corte di appello di Napoli, sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La Corte di cassazione ha, tuttavia, sinora unanimemente ribadito – salvo che in un solo caso di cui si dirà tra breve (infra, 4.2.2.) – il precedente orientamento espresso dalle Sezioni unite, concludendo nel senso che le modificazioni apportate all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. sono applicabili <strong>anche ai fatti di reato pregressi</strong> in virtù del <strong>principio tempus regit actum</strong> (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 6 giugno 2019, n. 25212; 26 settembre 2019, n. 39609; 28 novembre 2019, n. 48499; 17 gennaio 2020, n. 1799; nonché ordinanza 18 luglio 2019, n. 31853, che proprio sulla base di questo presupposto interpretativo ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale di cui all’ordinanza iscritta al n. 141 del r.o. 2019, che questa Corte esaminerà in un distinto giudizio).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.2.– Come anticipato, plurime e convergenti ragioni inducono a dubitare della persistente compatibilità di tale diritto vivente con i principi costituzionali.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.2.1.– In primo luogo, non è senza significato che, in alcune occasioni almeno, lo stesso legislatore abbia ritenuto di limitare espressamente l’applicabilità di norme incidenti sul regime di esecuzione della pena soltanto alle <strong>condanne pronunciate per fatti posteriori all’entrata in vigore</strong> delle norme medesime.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ciò è avvenuto, anzitutto, proprio con il d.l. n. 152 del 1991, cui si deve l’introduzione dell’art. 4-bis ordin. penit., nella sua originaria versione. L’art. 4, comma 1, di tale decreto-legge prevedeva, infatti, che le disposizioni che innalzavano, per i condannati per i reati di cui alla nuova disposizione, i periodi minimi di espiazione di pena per l’accesso ai benefici penitenziari fossero applicabili solo in relazione ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore del decreto-legge stesso.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Analogo accorgimento non fu poi adottato con il d.l. n. 306 del 1992, al quale si deve l’introduzione nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. del meccanismo preclusivo imperniato sulla mancanza di collaborazione: meccanismo la cui immediata operatività anche rispetto ai condannati per fatti pregressi fu, in effetti, all’origine delle varie questioni di legittimità costituzionale poc’anzi ricordate (supra, 4.1.1.), decise da questa Corte sulla base del principio di non regressione incolpevole del trattamento penitenziario, dedotto in particolare dall’art. 27, terzo comma, Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ma, ancora nel 2002, il legislatore – nell’aggiungere all’elenco di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. i delitti posti in essere per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico, nonché i delitti di cui agli artt. 600, 601 e 602 cod. pen. – ebbe cura di escludere l’applicabilità della modifica normativa ai condannati per tali titoli delittuosi che avessero commesso il fatto anteriormente alla sua entrata in vigore (art. 4 della legge 23 dicembre 2002, n. 279, recante «Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario»).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.2.2.– Come è accaduto in talune più recenti occasioni, la legge n. 3 del 2019 non prevede invece alcuna disposizione transitoria che ne escluda l’applicabilità ai condannati per fatti pregressi.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Proprio tale silenzio del legislatore del 2019 ha provocato un diffuso disagio nella giurisprudenza di merito riguardo alla sostenibilità costituzionale e convenzionale della conclusione, imposta dal diritto vivente, nel senso della sua applicazione anche ai condannati per fatti pregressi. Ciò si è manifestato sia nelle pronunce di merito, di cui si è poc’anzi dato conto (supra, 4.1.3.), che hanno direttamente adottato una soluzione difforme; sia nel grande numero di ordinanze che hanno sollevato, nell’arco di un brevissimo lasso temporale, le questioni di legittimità costituzionale ora in discussione, con le quali si sollecita in sostanza questa Corte a dichiarare costituzionalmente illegittimo quel diritto vivente.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nella stessa giurisprudenza di legittimità non mancano, d’altronde, segnali indicativi del medesimo disagio.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Una sentenza della sezione sesta penale della Corte di cassazione, in particolare, ha prospettato dubbi di legittimità costituzionale della mancata previsione di una disciplina transitoria da parte della disposizione in questa sede censurata, pur ritenendo di non poter sollevare la relativa questione per difetto di rilevanza nel caso di specie. La Corte di cassazione ha osservato, in proposito, che l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità circa il carattere processuale delle norme dell’ordinamento penitenziario andrebbe oggi rimeditato, anche alla luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte EDU, sì da garantire l’effettiva prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie: «l’avere il legislatore cambiato in itinere le “carte in tavola” senza prevedere alcuna norma transitoria» presenterebbe «tratti di dubbia conformità con l’art. 7 CEDU e, quindi, con l’art. 117 Cost., là dove si traduce […] nel passaggio – “a sorpresa” e dunque non prevedibile – da una sanzione patteggiata “senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione» (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 14 marzo 2019, n. 12541).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.2.3.– Tutte le ordinanze di rimessione valorizzano, in effetti, i recenti sviluppi della giurisprudenza della Corte EDU sull’estensione della garanzia dell’art. 7 CEDU, con riferimento almeno a talune modifiche in peius del regime dell’esecuzione delle pene; recenti sviluppi che l’ordinamento italiano non può del resto ignorare.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Al riguardo, va premesso che, sino a poco più di un decennio fa, la Corte di Strasburgo aveva sostenuto una tesi sovrapponibile a quella della giurisprudenza italiana, negando in particolare che le modifiche alla disciplina dell’esecuzione della pena chiamassero in causa la garanzia dell’art. 7 CEDU (Corte EDU, sentenza 29 novembre 2005, Uttley contro Regno Unito; nello stesso senso, Commissione dei diritti dell’uomo, decisione 3 marzo 1986, Hogben contro Regno Unito).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Una prima, significativa correzione di rotta risale al 2008, in relazione a un caso in cui il ricorrente aveva commesso il reato in un’epoca in cui la pena dell’ergastolo, in forza dell’allora vigente normativa penitenziaria nazionale, consentiva l’accesso del condannato alla liberazione condizionale, in caso di buona condotta, dopo vent’anni di detenzione. In seguito alla modifica di tale normativa, la prospettiva di una liberazione condizionale era sostanzialmente venuta meno, con conseguente trasformazione dell’ergastolo in una detenzione, effettivamente, a vita. La Corte EDU ha giudicato qui insussistente l’allegata violazione del divieto di retroattività delle pene, sottolineando che il novum normativo non aveva modificato la pena – l’ergastolo – inflitta sulla base della legge vigente al momento del fatto; nondimeno ha ritenuto violato l’art. 7 CEDU, censurando l’insufficiente chiarezza della legge penale al momento del fatto, e dunque l’imprevedibilità delle conseguenze sanzionatorie connesse alla violazione del precetto (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 12 febbraio 2008, Kafkaris contro Cipro).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ma la pronuncia più significativa della Corte EDU – invocata non a caso da tutte le ordinanze di rimessione – è, in questo contesto, la sentenza della Grande Camera Del Rio Prada contro Spagna, decisa nel 2013. La Grande Camera – sia pure con riferimento a un caso non sovrapponibile a quelli dai quali le odierne questioni sono originate – ha ribadito che, in linea di principio, le modifiche alle norme sull’esecuzione della pena non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva di cui all’art. 7 CEDU, eccezion fatta – però – per quelle che determinino una «ridefinizione o modificazione della portata applicativa della “pena” imposta dal giudice». Altrimenti, ha osservato la Corte, «gli Stati resterebbero liberi – ad esempio modificando la legge o reinterpretando i regolamenti esistenti – di adottare misure che retroattivamente ridefiniscano la portata della pena imposta, in senso sfavorevole per l’interessato. Ove il divieto di retroattività non operasse in tali ipotesi – conclude la Corte – l’art. 7 CEDU verrebbe privato di ogni effetto utile per i condannati, nei cui confronti la portata delle pene inflitte potrebbe essere liberamente inasprita successivamente alla commissione del fatto (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna, paragrafo 89).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.2.4.– Le conclusioni cui è recentemente pervenuta la Corte EDU trovano significative conferme nella giurisprudenza di altre corti e nella legislazione di altri Paesi.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Secondo la Corte Suprema degli Stati Uniti, il generale divieto di “ex post facto laws” sancito dalla Costituzione americana si applica anche alle modifiche delle norme in materia di esecuzione della pena che producano l’effetto pratico di prolungare la detenzione del condannato, modificando il quantum della pena e operando così come una legge retroattiva sfavorevole, in quanto tale non applicabile al condannato (Weaver v. Graham, 450 U.S. 24, 33 (1981); Lynce v. Mathis, 519 U.S. 433 (1997). Nel senso, peraltro, che la garanzia dell’irretroattività opera solo allorché il ricorrente sia in grado di dimostrare che la modifica legislativa sopravvenuta crei un “sufficiente rischio” di incrementare la durata della sua detenzione rispetto alla disciplina vigente al momento della commissione del fatto, California Department of Corrections v. Morales, 514 U.S. 499 (1995); Garner v. Jones, 529 U.S. 244 (2000)).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Principi analoghi sono riconosciuti nell’ordinamento francese, quanto meno a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 112-2 del codice penale. Tale norma dispone in via generale l’immediata applicabilità, in vista della repressione anche dei reati commessi anteriormente alla loro entrata in vigore, delle leggi modificatrici del diritto processuale penale e della prescrizione del reato o della pena, nonché delle leggi relative al «regime di esecuzione e dell’applicazione delle pene»: eccezion fatta però, in riferimento a queste ultime, per «quelle che abbiano l’effetto di rendere più severe le pene inflitte con la sentenza di condanna», le quali sono espressamente dichiarate «applicabili soltanto alle condanne pronunciate per fatti commessi posteriormente alla loro entrata in vigore».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.2.5.– Alcune ordinanze di rimessione (in particolare, quelle iscritte ai numeri 160 e 161 del r.o. 2019) e, soprattutto, le difese delle parti private hanno infine posto l’accento – come già la citata sentenza della Corte di cassazione n. 12541 del 2019 – sugli effetti distorsivi prodotti sulle scelte difensive degli imputati dal mutamento, nel corso delle indagini e poi del processo, del quadro normativo sull’esecuzione della pena; con il conseguente profilarsi, altresì, di possibili lesioni dell’art. 24 Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Un tale rilievo è, in verità, di intuitiva evidenza. L’imputato, ad esempio, può determinarsi a rinunciare al proprio “diritto di difendersi provando” e concordare invece con il pubblico ministero una pena contenuta entro una misura che lo candidi sin da subito a ottenere una misura alternativa alla detenzione, confidando comunque nella garanzia di non dover “passare per il carcere” grazie al meccanismo sospensivo di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen.; ovvero decidere, all’opposto, di affrontare il dibattimento, confidando nella prospettiva che la pena che gli verrà inflitta, anche in caso di condanna, non comporterà verosimilmente il suo ingresso in carcere, per effetto di una misura alternativa che egli abbia una ragionevole aspettativa di ottenere in base alla normativa in vigore al momento del fatto.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Una modifica in peius, con effetto retroattivo sui processi in corso, della normativa in materia penitenziaria, è suscettibile di frustrare le (legittime) aspettative poste a fondamento di tali scelte difensive, esponendo l’imputato a conseguenze sanzionatorie affatto impreviste e imprevedibili al momento dell’esercizio di una scelta processuale, i cui effetti sono però irrevocabili (per analoghi rilievi, si vedano anche la già citate sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, Weaver v. Graham, 32, e Lynce v. Mathis, 445, nonché Corte Suprema del Canada, R. v. K.R.J., [2016] 1 SCR 906, 926, paragrafo 25, in un caso che concerneva l’applicazione retroattiva di misure interdittive aggiuntive alla pena detentiva a carico di chi fosse stato condannato per abusi sessuali).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.3.– Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, questa Corte ritiene necessario procedere a una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., in relazione alla disciplina dell’esecuzione della pena.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.3.1.– Come è noto, dall’art. 25, secondo comma, Cost. discende pacificamente tanto il divieto di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante, quanto il divieto di applicare retroattivamente una legge che preveda una pena più severa per un fatto già in precedenza incriminato (da ultimo, sentenza n. 223 del 2018); divieto, quest’ultimo, che trova esplicita menzione nell’art. 7, paragrafo 1, secondo periodo, CEDU, nell’art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché nell’art. 49, paragrafo 1, seconda proposizione, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La ratio di tale divieto è almeno duplice.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Per un verso, il divieto in parola mira a garantire al destinatario della norma una ragionevole prevedibilità delle conseguenze cui si esporrà trasgredendo il precetto penale. E ciò sia per garantirgli – in linea generale – la «certezza di libere scelte d’azione» (sentenza n. 364 del 1988); sia per consentirgli poi – nell’ipotesi in cui sia instaurato un procedimento penale a suo carico – di compiere scelte difensive, con l’assistenza del proprio avvocato, sulla base di ragionevoli ipotesi circa i concreti scenari sanzionatori a cui potrebbe andare incontro in caso di condanna (supra, 4.2.5.).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ma una seconda ratio, altrettanto cruciale, non può essere trascurata. Come già acutamente colse una celebre decisione della Corte Suprema statunitense a qualche anno appena di distanza dalla proclamazione del divieto di “ex post facto laws” nella Costituzione federale, il divieto in parola erige un bastione a garanzia dell’individuo contro possibili abusi da parte del potere legislativo, da sempre tentato di stabilire o aggravare ex post pene per fatti già compiuti. Quel divieto – scriveva nel 1798 la Corte Suprema – deriva con ogni probabilità dalla consapevolezza dei padri costituenti che il Parlamento della Gran Bretagna aveva spesso rivendicato, e in concreto utilizzato, il potere di stabilire, a carico di chi avesse già compiuto determinate condotte ritenute di particolare gravità per la salus rei publicae, pene che non erano previste al momento del fatto, o che erano più gravi di quelle sino ad allora stabilite. Ma quelle leggi, osservava la Corte, in realtà «erano sentenze in forma di legge»: null’altro, cioè, che «l’esercizio di potere giudiziario» da parte di un Parlamento animato, in realtà, da intenti vendicativi contro i propri avversari (Corte Suprema degli Stati Uniti, Calder v. Bull, 3 U.S. 386, 389 (1798)).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il divieto di applicazione retroattiva di pene non previste al momento del fatto, o anche solo più gravi di quelle allora previste, opera in definitiva come uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico che stanno al cuore stesso del concetto di “stato di diritto”. Un concetto, quest’ultimo, che evoca immediatamente la soggezione dello stesso potere a una “legge” pensata per regolare casi futuri, e destinata a fornire a tutti un trasparente avvertimento sulle conseguenze che la sua trasgressione potrà comportare.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.3.2.– Occorre allora verificare se e in che misura tali fondamentali rationes debbano essere estese anche alle norme che, lasciando inalterati tipologia e quantum delle pene previste per il reato, ne modifichino tuttavia le modalità esecutive.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Al riguardo, non v’è dubbio che vi siano ragioni assai solide a fondamento della soluzione, sinora consacrata dal diritto vivente, secondo la quale le pene devono essere eseguite – di regola – in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione, e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In primo luogo, dal momento che l’esecuzione delle pene detentive è un fenomeno che si dipana diacronicamente, spesso anche a notevole distanza dal fatto di reato, non può non riconoscersi che nel tempo inevitabilmente muta il contesto, fattuale e normativo, nel quale l’amministrazione penitenziaria si trova a operare. Da ciò deriva la necessità di fisiologici assestamenti della disciplina normativa, chiamata a reagire continuamente a tali mutamenti. Ove il regime di esecuzione delle pene detentive dovesse restare cristallizzato alla disciplina vigente al momento del fatto, ad esempio, non potrebbero essere applicate a chi avesse commesso un omicidio negli anni Ottanta o Novanta le restrizioni all’uso dei telefoni cellulari o di internet oggi previste dall’ordinamento penitenziario.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In secondo luogo, le (fisiologicamente mutevoli) regole trattamentali sono basate esse stesse su complessi bilanciamenti tra i delicati interessi in gioco – ex multis: la tutela dei diritti fondamentali dei condannati, ma anche il controllo della residua pericolosità criminale del detenuto all’interno e all’esterno del carcere, in un quadro di limitatezza complessiva delle risorse a disposizione –; bilanciamenti i cui esiti mal si prestano a essere ricondotti alla logica binaria della soluzione “più favorevole” o “più sfavorevole” per il singolo condannato, con la quale è però costretto ad operare il divieto di applicazione retroattiva della legge penale. Si pensi a una eventuale riduzione delle “ore d’aria”, a fronte però di maggiori opportunità di lavoro extramurario.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ma soprattutto, un rigido e generale divieto di applicazione retroattiva di qualsiasi modifica della disciplina relativa all’esecuzione della pena o delle misure alternative alla detenzione che dovesse essere ritenuta in concreto deteriore per il condannato finirebbe per creare, all’interno del medesimo istituto penitenziario, una pluralità di regimi esecutivi paralleli, ciascuno legato alla data del commesso reato. Ciò che creerebbe non solo gravi difficoltà di gestione per l’amministrazione, ma anche differenze di trattamento tra i detenuti; con tutte le intuibili conseguenze sul piano del mantenimento dell’ordine all’interno degli istituti, che è esso pure condizione essenziale per un efficace dispiegarsi della funzione rieducativa della pena.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.3.3.– La regola appena enunciata deve, però, soffrire un’eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In tal caso, infatti, la successione normativa determina, a ogni effetto pratico, l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto: con conseguente piena operatività delle rationes, poc’anzi rammentate, che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva delle leggi che aggravano il trattamento sanzionatorio previsto per il reato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ciò si verifica, paradigmaticamente, allorché al momento del fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita “fuori” dal carcere, la quale – per effetto di una modifica normativa sopravvenuta al fatto – divenga una pena che, pur non mutando formalmente il proprio nomen iuris, va eseguita di norma “dentro” il carcere. Tra il “fuori” e il “dentro” la differenza è radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa. La pena da scontare diventa qui un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto; con conseguente inammissibilità di un’applicazione retroattiva di una tale modifica normativa, al metro dell’art. 25, secondo comma, Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>E ciò vale anche laddove la differenza tra il “fuori” e il “dentro” si apprezzi in esito a valutazioni prognostiche relative, rispettivamente, al tipo di pena che era ragionevole attendersi al momento della commissione del fatto, sulla base della legislazione allora vigente, e quella che è invece ragionevole attendersi sulla base del mutato quadro normativo. Proprio la giurisprudenza statunitense cui si è fatto poc’anzi riferimento (supra, 4.2.4.) mostra non a caso come – ai fini della verifica del carattere deteriore della modifica normativa sulla concreta vicenda esecutiva – non possa prescindersi da una valutazione prognostica circa la creazione, da parte della legge sopravvenuta, di un serio rischio che il condannato possa essere assoggettato a un trattamento più severo di quello che era ragionevolmente prevedibile al momento del fatto, in termini di minore probabilità di accesso a modalità extramurarie di esecuzione della sanzione (come il parole negli Stati Uniti, o le misure alternative alla detenzione nell’ordinamento italiano).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.4.– Occorre a questo punto verificare in che misura gli esiti della complessiva rimeditazione sin qui compiuta incidano sulle questioni di legittimità costituzionale ora all’esame.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La disposizione censurata inserisce la maggior parte dei reati contro la pubblica amministrazione nell’elenco previsto dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., determinando con ciò le conseguenze deteriori sulla complessiva vicenda esecutiva a carico dei condannati per tali reati, che si sono a tempo debito illustrate (supra, 2.).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>V’è dunque da stabilire se e in che misura tali conseguenze deteriori possano essere legittimamente applicate – al metro dei principi appena enunciati – a chi sia stato condannato per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della disposizione medesima.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.4.1.– Questa Corte ritiene che l’art. 25, secondo comma, Cost. non si opponga a un’applicazione retroattiva delle modifiche derivanti dalla disposizione censurata alla disciplina dei meri benefici penitenziari, e in particolare dei permessi premio e del lavoro all’esterno.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Per quanto, infatti, non possa disconoscersi il significativo impatto di questi benefici sul grado di concreta afflittività della pena per il singolo condannato, non pare a questa Corte che modifiche normative che si limitino a rendere più gravose le condizioni di accesso ai benefici medesimi determinino una trasformazione della natura della pena da eseguire, rispetto a quella comminata al momento del fatto e inflitta, sì da chiamare in causa la garanzia costituzionale in parola.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il condannato che fruisca di un permesso premio, o che sia ammesso al lavoro all’esterno del carcere, continua in effetti a scontare una pena che resta connotata da una fondamentale dimensione “intramuraria”. Egli resta in linea di principio “dentro” il carcere, continuando a soggiacere alla dettagliata disciplina che caratterizza l’istituzione penitenziaria, e che coinvolge pressoché ogni aspetto della vita del detenuto.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>D’altra parte, proprio perché i condannati ammessi periodicamente a godere di permessi premio e/o a svolgere lavoro all’esterno ai sensi dell’art. 21 ordin. penit. restano detenuti che scontano la pena detentiva loro inflitta dal giudice della cognizione, non può non valere nei loro confronti l’esigenza, già segnalata (supra, 4.3.2.), di evitare disparità di trattamento, all’interno del medesimo istituto penitenziario, dipendenti soltanto dal tempo del commesso reato: disparità che sarebbero di assai problematica gestione da parte dell’amministrazione penitenziaria, e che verrebbero come tali difficilmente accettate dalla generalità dei detenuti.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.4.2. – La conclusione opposta si impone, invece, in relazione agli effetti prodotti dalla disposizione censurata sul regime di accesso alle misure alternative alla detenzione disciplinate dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, e in particolare all’affidamento in prova al servizio sociale, alla detenzione domiciliare nelle sue varie forme e alla semilibertà.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Si tratta di «misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena […] e che per ciò stesso modificano il grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto» (sentenza n. 349 del 1993), finendo anzi per costituire delle vere e proprie “pene” alternative alla detenzione (ordinanza n. 327 del 1989) disposte dal tribunale di sorveglianza, e caratterizzate non solo da una portata limitativa della libertà personale del condannato assai più contenuta, ma anche da un’accentuata vocazione rieducativa, che si esplica in forme del tutto diverse rispetto a quella che pure connota la pena detentiva.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ciò è stato anche di recente ribadito da questa Corte con riferimento sia all’affidamento in prova al servizio sociale per i condannati adulti, definito quale «strumento di espiazione della pena, alternativo rispetto alla detenzione: uno strumento, certo, meno afflittivo rispetto al carcere, ma egualmente connotato in senso sanzionatorio rispetto al reato commesso, tanto che l’esito positivo dell’affidamento in prova estingue la pena detentiva e ogni altro effetto penale (art. 47, comma 12, ordin. penit.)» (sentenza n. 68 del 2019); sia alla detenzione domiciliare, che costituisce anch’essa «“non una misura alternativa alla pena”, ma una pena “alternativa alla detenzione”», caratterizzata da prescrizioni meramente «limitative della libertà, sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza e con l’intervento del servizio sociale» (sentenza n. 99 del 2019, con richiamo alla già citata ordinanza n. 327 del 1989).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Tali considerazioni valgono anche rispetto alla semilibertà, ove l’obbligo di trascorrere una parte della giornata – e quanto meno le ore notturne – all’interno dell’istituto penitenziario (ma, di regola, in sezioni autonome: art. 48, comma 2, ordin. penit.) si accompagna al godimento di spazi di libertà assai significativi, al di fuori della fitta rete di prescrizioni che normalmente corredano la concessione di meri benefici extramurari.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.4.3.– La medesima conclusione si impone – in forza del rinvio “mobile” (sentenza n. 39 del 1994) di cui all’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991 – per ciò che concerne la liberazione condizionale: istituto disciplinato dagli artt. 176 e 177 cod. pen., ma funzionalmente analogo alle misure alternative alla detenzione, essendo anch’esso finalizzato a consentire il graduale reinserimento del condannato nella società, attraverso la concessione di uno sconto di pena a chi abbia, durante il percorso penitenziario, «tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La subordinazione anche della liberazione condizionale alla collaborazione processuale o alle condizioni equiparate comporta per il condannato per delitti contro la pubblica amministrazione l’evidente rischio di un significativo prolungamento del periodo da trascorrere in carcere, rispetto alle prospettive che gli si presentavano sulla base della legge vigente al momento del fatto; con conseguente incompatibilità con l’art. 25, secondo comma, Cost. dell’applicazione retroattiva della preclusione di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. anche rispetto alla liberazione condizionale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.4.4.– Identica conclusione va tratta, infine, quanto all’effetto riflesso spiegato dalla disposizione censurata in relazione al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>A tale conclusione non è di ostacolo la collocazione di tale ultima disposizione nel codice di procedura penale, da cui la giurisprudenza sinora unanime (per tutte, Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza n. 24561 del 2006) ha dedotto la sua sottoposizione al generale principio tempus regit actum.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Infatti, la collocazione topografica di una disposizione non può mai essere considerata decisiva ai fini dell’individuazione dello statuto costituzionale di garanzia ad essa applicabile. In plurime occasioni, la giurisprudenza costituzionale ha, d’altronde, già esteso le garanzie discendenti dall’art. 25, secondo comma, Cost. a norme non qualificate formalmente come penali dal legislatore (sentenze n. 63 del 2019, n. 223 del 2018, n. 68 del 2017 e n. 196 del 2010; ordinanza n. 117 del 2019).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Tale principio non può non valere anche rispetto alle norme collocate nel codice di procedura penale, allorché incidano direttamente sulla qualità e quantità della pena in concreto applicabile al condannato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Non v’è dubbio che l’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. – nel vietare la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena in una serie di ipotesi, tra cui quella, che qui viene in considerazione, relativa alla condanna per un reato di cui all’art. 4-bis, ordin. penit. – produce l’effetto di determinare l’inizio dell’esecuzione della pena stessa in regime detentivo, in attesa della decisione da parte del tribunale di sorveglianza sull’eventuale istanza di ammissione a una misura alternativa; e dunque comporta che una parte almeno della pena sia effettivamente scontata in carcere, anziché con le modalità extramurarie che erano consentite – per l’intera durata della pena inflitta – sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Tanto basta per riconoscere alla disposizione in questione un effetto di trasformazione della pena inflitta, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto; con conseguente sua inapplicabilità, ai sensi dell’art. 25, secondo comma, Cost. alle condanne per reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della novella legislativa, che ne ha indirettamente modificato l’ambito applicativo, tramite l’inserimento di numerosi reati contro la pubblica amministrazione nell’elenco di cui all’art. 4-bis ordin. penit.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.4.5.– Per le ragioni già anticipate (supra, 4.3.4.), non varrebbe a inficiare le conclusioni appena raggiunte l’obiezione secondo cui la prospettiva – per il condannato – di vedersi applicare una misura alternativa, sulla base della legge in vigore al momento del fatto, sarebbe stata meramente ipotetica ed eventuale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La valutazione circa il carattere deteriore della disciplina sopravvenuta non può, infatti, che essere condotta secondo criteri di rilevante probabilità: e ciò con riferimento tanto ai benefici accessibili per il condannato sulla base della disciplina previgente, quanto alle conseguenze deteriori che derivano dall’entrata in vigore della nuova disciplina.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Sotto il primo profilo, è evidente che – in linea generale, e salve le peculiarità di ogni singolo caso – nei confronti dei condannati per reati contro la pubblica amministrazione sussisteva una rilevante probabilità, sulla base della disciplina previgente, di accedere a misure alternative alla pena detentiva, laddove i relativi limiti di pena ancora da scontare o i rispettivi requisiti anagrafici (per ciò che concerne la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 01, ordin. penit.) lo permettessero. Un tale assunto è, se non altro, dimostrato dallo stesso elevato numero delle ordinanze di rimessione, che argomentano la rilevanza delle questioni proprio muovendo da un giudizio di meritevolezza rispetto al beneficio del singolo condannato sulla base della previgente disciplina.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Sotto il secondo profilo, non può negarsi, per converso, che la normativa sopravvenuta – oltre a precludere in via assoluta l’accesso a taluni benefici, come la detenzione domiciliare per i condannati ultrasettantenni (ciò che basterebbe, invero, a dimostrarne per tabulas il carattere necessariamente deteriore) – rende significativamente meno probabile la concessione degli stessi, anche in considerazione delle incertezze, ancora non affrontate dalla giurisprudenza, sulla precisa estensione dell’obbligo collaborativo in capo ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione e, segnatamente, se esso debba intendersi come limitato al singolo fatto di reato per il quale è stata pronunciata condanna, ovvero se si estenda a tutti i reati ad esso in qualche modo connessi, e dei quali l’autorità giudiziaria ritenga che il condannato sia comunque a conoscenza.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.5.– Come già evidenziato, il censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, così come scritto dal legislatore, nulla prevede in relazione alla sua applicazione nel tempo, né dispone la sua applicazione alle condanne per reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge. In contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost. – sotto i profili denunciati dalle ordinanze di rimessione in questa sede esaminate – è la norma risultante dal diritto vivente, a tenore della quale le modifiche introdotte con la disposizione censurata sarebbero applicabili anche retroattivamente.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Al fine di porre rimedio a tale violazione, non può però accogliersi la richiesta, formulata in udienza dall’Avvocatura generale dello Stato, di una sentenza interpretativa di rigetto, che dichiari non fondate le questioni “nei sensi di cui in motivazione”. L’indubbia esistenza di un diritto vivente in senso contrario (supra, 4.1.) – diritto vivente dal quale muovono, del resto, le stesse ordinanze di rimessione – esclude la praticabilità di una simile opzione, e impone a questa Corte di pronunciare una sentenza di accoglimento delle questioni prospettate (ex plurimis, sentenza n. 299 del 2005).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Conseguentemente, va dichiarata l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 cod. pen. e della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena prevista dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Restano assorbiti i profili di ammissibilità e di merito di tutte le ulteriori censure prospettate in riferimento ad altri parametri costituzionali.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.– Come già chiarito (supra, 4.4.1.), questa Corte non ritiene, invece, che l’art. 25, secondo comma, Cost. vieti l’applicazione retroattiva di modifiche normative che incidano in senso deteriore per il condannato quanto alla disciplina di meri benefici penitenziari, come – segnatamente – i permessi premio e il lavoro all’esterno.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ciò non significa, peraltro, che al legislatore sia consentito disconoscere il percorso rieducativo effettivamente compiuto dal condannato che abbia già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio. Ciò si porrebbe in contrasto – se non con l’art. 25, secondo comma, Cost. – con il principio di eguaglianza e di finalismo rieducativo della pena (artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.), secondo i principi sviluppati dalla giurisprudenza di questa Corte sin dagli anni Novanta del secolo scorso (supra, 4.1.1.).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Un simile vulnus si è in effetti verificato nel caso oggetto del procedimento a quo cui si riferisce l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Potenza, iscritta al n. 210 del r.o. 2019 (Ritenuto in fatto, 10.), relativa alla vicenda di un condannato che sta espiando la propria pena detentiva, e che – secondo quanto esposto dal rimettente – alla data di entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 aveva già maturato, in base alla disciplina previgente, i requisiti per la concessione del permesso premio.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Negare, a chi si trovi nella posizione di quel condannato, la concessione del beneficio equivarrebbe a disconoscere la funzione pedagogico-propulsiva del permesso premio (sentenza n. 253 del 2019), quale strumento idoneo a consentirne un suo iniziale reinserimento nella società, in vista dell’eventuale concessione di misure alternative alla detenzione, in assenza di gravi comportamenti che dimostrino la non meritevolezza del beneficio nel caso concreto (sentenza n. 504 del 1995; nello stesso senso, sentenze n. 137 del 1999 e n. 445 del 1997).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati per uno dei reati ivi elencati che, prima dell’entrata in vigore della legge medesima, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio stesso, restando assorbiti i profili di ammissibilità e di merito di tutte le ulteriori censure proposte dal rimettente.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>6.– L’accoglimento delle questioni prospettate dalle ordinanze iscritte ai numeri 114, 115, 118, 119, 160, 161, 193, 194 e 220 del r.o. 2019 in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost. rende infine priva di oggetto – e per tale ragione inammissibile – la questione di legittimità costituzionale iscritta al n. 157 del r.o. 2019, avente identico petitum, sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Taranto in riferimento al solo art. 3 Cost.</em></p>