Corte Costituzionale, sentenza 21 ottobre 2021 n. 197
Vanno dichiarate non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, commi 2 e 2-quater, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), in riferimento agli artt. 3, 25, 27 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, sollevate dalla Corte di cassazione, sezione prima penale.
Va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, commi 2 e 2-quater, ordin. penit., come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), della legge n. 94 del 2009, in riferimento all’art. 111 Cost., sollevata dalla Corte di cassazione, sezione prima penale.
Va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, commi 2 e 2-quater, ordin. penit., come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), della legge n. 94 del 2009, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98, sollevata dalla Corte di cassazione, sezione prima penale.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
2.– Le sollevate questioni di legittimità costituzionale, in disparte gli esiti di inammissibilità relativi a due specifiche censure, risultano non fondate, nei sensi di cui alla motivazione che segue.
3.– Tutte tali questioni si basano, in effetti, su un preciso e comune presupposto interpretativo: la sospensione delle normali regole di trattamento, prevista dall’art. 41-bis ordin. penit., può riguardare, oltre che i detenuti in esecuzione di pena, anche gli internati per l’esecuzione di una misura di sicurezza. Più esattamente ancora, il giudice a quo presuppone che gli internati, una volta sottoposti al regime sospensivo, debbano essere necessariamente assoggettati a tutte le misure predisposte dall’art. 41-bis, comma 2-quater, lettere dalla a) alla f).
L’applicabilità agli internati della sospensione delle ordinarie regole trattamentali viene affermata, dal giudice rimettente, sulla base di una plausibile lettura della legislazione vigente. In tal senso depone, innanzitutto, già la disposizione introduttiva della relativa disciplina, cioè il comma 2 dell’art. 41-bis ordin. penit., ai sensi del quale il Ministro della giustizia ha la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei «detenuti o internati» per taluno dei delitti di contesto mafioso previsti dal primo periodo del comma 1 dell’art. 4-bis ordin. penit. (o per le analoghe fattispecie citate nello stesso art. 41-bis), l’applicazione delle regole di trattamento penitenziario che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza.
È bensì vero che il medesimo riferimento agli internati manca nel comma 2-bis, relativo alla procedura di applicazione della misura, ma il dato non è decisivo, in quanto la disposizione contiene un generico rinvio al profilo criminale e alla posizione rivestita da un «soggetto» in seno ad una organizzazione delinquenziale.
Del resto, il successivo comma 2-ter (poi abrogato ad opera dell’art. 2, comma 25, lettera e, della legge n. 94 del 2009, relativo alla revoca del decreto ministeriale e alla procedura di sindacato giudiziale sul relativo provvedimento, menzionava, espressamente e disgiuntamente, le istanze del detenuto e dell’internato. Quel che più conta, anche il vigente comma 2-quinquies attribuisce testualmente anche all’internato il diritto di reclamo contro il provvedimento applicativo del regime differenziale, mentre il comma 2-septies regola in modo specifico la partecipazione dello stesso internato all’udienza camerale.
L’assoggettamento al regime differenziale degli internati in misura di sicurezza detentiva (nel caso in esame: casa di lavoro) comporta indubbiamente, a loro carico, tutte le connesse restrizioni nell’accesso alle misure alternative alla detenzione e, soprattutto, agli specifici benefici propri della condizione di internato. Si tratta, del resto, di preclusioni che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. collega alla particolare natura dei reati commessi, e proprio da questi stessi reati dipende – sia per i condannati a pena detentiva, sia per gli internati in esecuzione di una misura di sicurezza detentiva – l’applicabilità dell’art. 41-bis del medesimo ordinamento.
Da questo punto di vista, l’internato assoggettato a regime differenziale, così come il detenuto nella medesima condizione, non può essere ammesso a fruire della semilibertà, mentre resta per lo stesso internato indifferente la perdurante applicabilità della liberazione anticipata, beneficio nei suoi confronti non applicabile a prescindere dalla sottoposizione al regime speciale.
Allo stesso modo, nonostante l’Avvocatura dello Stato adombri la tesi contraria, all’internato soggetto al regime di cui all’art. 41-bis ordin. penit. non risultano applicabili le licenze sperimentali disciplinate dall’art. 53 del medesimo ordinamento, anche per la vistosa incompatibilità logico-pratica tra la condizione di quasi completa libertà tipica della licenza e le restrizioni dei movimenti e dei contatti imposte dal comma 2-quater del medesimo art. 41-bis.
4.– Acquisito che il regime differenziale ben può riguardare anche gli internati, si tratta ancora di verificare, tuttavia, se il provvedimento ministeriale di cui al comma 2 dell’art. 41-bis ordin. penit. debba inevitabilmente presentare identità di contenuto e di effetti, tanto se adottato nei confronti di detenuti in esecuzione di pena, quanto se invece applicato agli internati.
In tale verifica è guida essenziale il penultimo periodo del comma 2 dell’art. 41-bis ordin. penit., a tenore del quale la sospensione delle regole ordinarie di trattamento penitenziario comporta «le restrizioni necessarie» per il soddisfacimento delle ricordate esigenze di ordine e sicurezza e per impedire collegamenti con le associazioni criminali.
Il riferimento testuale alla “necessità” delle restrizioni evoca criteri di proporzionalità e congruità nella identificazione delle misure, poiché suggerisce che esse siano quelle (e solo quelle) che tali si evidenzino nella situazione considerata, in relazione alla specifica condizione del soggetto. Ben vero che la modifica intervenuta sul comma 2-quater – per mezzo della citata legge n. 94 del 2009 – implica ormai contenuti inderogabili del decreto ministeriale che – in riferimento ai detenuti – applica, in ciascun singolo caso, il regime differenziale, prevedendo l’introduzione “obbligatoria” di tutte le misure indicate al medesimo comma 2-quater dell’art. 41-bis ordin. penit. Nondimeno, è significativo che il legislatore della novella ricordata, pur essendo intervenuto anche sul comma 2 (lettere b e c dell’art. 2, comma 25, della legge di riforma), non ha modificato il riferimento al principio della “necessità” della restrizione imposta all’interessato, e dunque ai conseguenti criteri di proporzionalità e congruità nella identificazione, in concreto, delle misure.
Conserva quindi pieno significato la giurisprudenza costituzionale che ha interpretato la disciplina qui censurata bilanciando le esigenze di prevenzione speciale, che essa persegue, con l’indispensabile finalizzazione rieducativa delle pene e delle stesse misure di sicurezza. Secondo criteri di proporzionalità e congruità, il legislatore, l’autorità amministrativa e la stessa autorità giudiziaria, nell’ambito delle rispettive competenze, devono quindi verificare se, in ogni caso concreto, le restrizioni imposte a norma dell’art. 41-bis ordin. penit. siano legittimate da una duplice e determinante condizione: da un lato, come è ovvio, la necessità effettiva ed attuale d’un regime differenziale per l’interessato; dall’altro, la miglior scelta possibile, quanto alle modalità esecutive, al fine di favorire l’attuazione di un efficace programma individuale di recupero.
Già negli anni immediatamente successivi alle prime previsioni di trattamento differenziale, ragionando della sua applicazione nei confronti dei condannati a pene detentive sulla base della disciplina allora vigente, questa Corte aveva chiarito che, permanendo in capo a tali soggetti un diritto alla libertà personale (sentenza n. 349 del 1993), le determinazioni ministeriali dovevano considerarsi soggette al sindacato del giudice ordinario (sentenza n. 410 del 1993), non solo con riferimento all’esistenza dei presupposti legittimanti, ma anche con riguardo al corretto esercizio della discrezionalità, tanto nella scelta delle misure, quanto nella loro congruenza rispetto alle esigenze del caso concreto: un sindacato, quindi, sui limiti “esterni” ed “interni” al potere di imposizione del trattamento differenziale (così, in particolare, la sentenza n. 351 del 1996).
Nella sentenza n. 376 del 1997, era stato ulteriormente sottolineato come le restrizioni apportate riguardo all’ordinario regime di carcerazione dovessero essere congrue rispetto alle specifiche finalità di ordine e sicurezza nel caso concreto, secondo una valutazione pienamente sindacabile dall’autorità giudiziaria, mentre restavano (e restano) comunque vietate misure restrittive concretanti un trattamento contrario al senso di umanità, o tali da vanificare del tutto la finalità rieducativa della pena: quindi, in particolare, l’applicazione del regime differenziato non può precludere la partecipazione della persona reclusa alle varie attività di valenza risocializzante, «le quali semmai dovranno essere organizzate, per i detenuti soggetti a tale regime, con modalità idonee ad impedire quei contatti e quei collegamenti i cui rischi il provvedimento ministeriale tende ad evitare. L’applicazione dell’art. 41-bis non può dunque equivalere […] a riconoscere una categoria di detenuti che “sfuggono, di fatto, a qualunque tentativo di risocializzazione”».
Soprattutto – si era aggiunto nella sentenza appena citata – doveva (e deve) essere escluso che il decreto ministeriale ex art. 41-bis ordin. penit. neutralizzi il contenuto precettivo del precedente art. 13, che obbliga alla individualizzazione del trattamento di ciascun detenuto o internato. Nel testo originario della norma, ed ancor più secondo il testo novellato mediante il decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 123, recante «Riforma dell’ordinamento penitenziario, in attuazione delle deleghe di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), d), i), l), m), o), r), t) e u) della legge 23 giugno 2017, n. 103», sono del resto rese obbligatorie attività fondamentali ai fini del reinserimento sociale dell’interessato, tra le quali l’osservazione scientifica della personalità (da cominciare all’ingresso in istituto e da proseguire per tutta la durata della restrizione) e la predisposizione di un programma individualizzato di rieducazione, da monitorare attraverso una raccolta sistematica di documenti e informazioni.
Ben vero – come già accennato – che queste (ed altre analoghe) prese di posizione della giurisprudenza costituzionale miravano a contenere l’ampia discrezionalità (sia ministeriale, sia dell’amministrazione penitenziaria) allora consentita nella scelta delle misure finalizzate a contenere la pericolosità individuale dei detenuti, e quindi a limitare, nella massima misura possibile, le interferenze di tali misure con i programmi di rieducazione. E ben vero, come pure accennato, che il quadro è sensibilmente mutato a far tempo dall’entrata in vigore della ricordata legge n. 94 del 2009, che ha previsto l’introduzione generalizzata e “obbligatoria” delle rigorose limitazioni alle relazioni interne ed esterne al carcere indicate al comma 2-quater dell’art. 41-bis ordin. penit. (restrizione qualitativa e quantitativa dei colloqui, sorveglianza dei medesimi, gruppi ristretti di socialità, ridottissima incidenza percentuale del tempo da trascorrere all’esterno, visti di censura sulla corrispondenza, eccetera). A tali limitazioni, prima della legge n. 94 del 2009, il comma 2-quater si riferiva stabilendo che il decreto ministeriale «può comportare» la loro applicazione; nel testo vigente si legge, invece, che il provvedimento ministeriale «prevede» dette limitazioni. Un intervento che, per unanime ammissione degli interpreti, ha sottratto le misure alla discrezionalità dell’amministrazione.
Nondimeno, la valenza dei principi già affermati da questa Corte resta pienamente attuale. Tanto questo è vero che più volte, anche di recente, è stata valutata l’effettiva funzionalità di alcune fra le restrizioni elencate al comma 2-quater rispetto all’obiettivo della prevenzione di contatti tra l’interessato e determinate organizzazioni criminali. Si è ribadito, in particolare, che «in base all’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit., è possibile sospendere solo l’applicazione di regole e istituti dell’ordinamento penitenziario che risultino in concreto contrasto con le richiamate esigenze di ordine e sicurezza» e si è negata la legittimità di «misure che, a causa del loro contenuto, non siano riconducibili a quelle concrete esigenze, poiché si tratterebbe in tal caso di misure palesemente incongrue o inidonee rispetto alle finalità del provvedimento che assegna il detenuto al regime differenziato».
In base a queste considerazioni è intervenuta, con la sentenza n. 97 del 2020, una dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale della norma in esame, nella parte in cui non limitava il divieto di scambiare oggetti a detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità. Un provvedimento analogo, mutatis mutandis, era stato preso con la sentenza n. 186 del 2018, relativamente al divieto di cuocere cibi, posto dall’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit.
I principi costituzionali di riferimento, soprattutto gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., condizionano, dunque, la stessa previsione in astratto di misure restrittive “obbligatorie” per il soggetto raggiunto da un decreto ministeriale ex art. 41-bis, comma 2, ordin. penit.: tali misure devono perseguire gli obiettivi di ordine pubblico stabiliti dal legislatore, ma al tempo stesso il trattamento restrittivo – si tratti di esecuzione della pena o di internamento per misura di sicurezza – deve conservare una concreta efficacia rieducativa.
Ciò vuol dire che, in assenza delle condizioni indicate, può essere posta in dubbio ed eventualmente negata (come già avvenuto) la compatibilità costituzionale di singole prescrizioni. Ma vuol dire che anche l’interpretazione da operarsi su tali prescrizioni deve essere orientata verso soluzioni che ne garantiscano la miglior compatibilità con i precetti costituzionali di riferimento nella materia in esame.
5.– Nella medesima direzione non può considerarsi secondaria, per la risoluzione delle odierne questioni di legittimità costituzionale, la circostanza che proprio il nuovo testo dell’art. 41-bis, comma 2-quater, ordin. penit. non contenga, se non in due occasioni, alcun esplicito riferimento agli internati quali destinatari necessari delle varie misure elencate nelle lettere dalla a) alla f).
In questa disposizione, infatti, gli internati vengono menzionati solo incidentalmente e non come persone assoggettabili alle restrizioni. In un primo caso, essi sono citati come soggetti “passivi” di una regola contenitiva sicuramente indirizzata ai detenuti in esecuzione di pena (lettera a, volta a impedire che questi ultimi entrino in contatto con appartenenti alla propria organizzazione, o ad organizzazioni alleate, anche quando si tratti di persone ristrette in esecuzione di una misura di sicurezza); nel secondo caso, compaiono in un mero riferimento riassuntivo al divieto di comporre le rappresentanze «dei detenuti e degli internati» (lettera d).
Resta quindi significativo, già sul piano testuale, che la disposizione qui in esame si apra con un esclusivo riferimento a «i detenuti», a differenza di quanto accade per il comma 2 e per le disposizioni successive al comma 2-quater (dal nuovo comma 2-quater.1 fino al comma 2-septies), tutte caratterizzate dalla citazione espressa ed affiancata di detenuti ed internati.
Anche sulla base di tale rilievo, ben può ritenersi che gli internati, pur soggetti in generale al regime differenziato, non devono necessariamente essere sottoposti a tutte le restrizioni elencate nel comma 2-quater (la medesima lettura è avanzata anche dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, in un proprio Rapporto tematico del 7 gennaio 2019).
Inoltre, con valenza sistematica decisiva, la necessità che la legge consenta margini discrezionali più ampi nella selezione delle misure restrittive da applicarsi agli internati – in quanto assegnati a una casa di lavoro o ad una colonia agricola – risulta dalle già ricordate direttive di cui al comma 2 dell’art. 41-bis ordin. penit., che si riferiscono alle (sole) restrizioni effettivamente necessarie, in concreto, per il soddisfacimento delle esigenze di ordine e sicurezza pubblica, in un contesto che preservi la funzionalità risocializzante del trattamento restrittivo in questione.
In conformità agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., deve essere perciò prescelta un’interpretazione della disciplina censurata che consenta l’applicazione delle sole restrizioni proporzionate e congrue alla condizione del soggetto cui il regime differenziale di volta in volta si riferisce. Così, trattandosi di un internato assegnato ad una casa di lavoro, le restrizioni derivanti dalla sua soggezione all’art. 41-bis ordin. penit. devono adattarsi, nei limiti del possibile, alla necessità di organizzare un programma di lavoro, e, a sua volta, l’organizzazione del lavoro deve adattarsi alle restrizioni (quelle necessarie) della socialità e della possibilità di movimento nella struttura. Ad esempio, devono essere identificate attività professionali compatibili con gli effettivi spazi di socialità e mobilità a disposizione degli internati soggetti al regime differenziale, modulando opportunamente l’applicazione a costoro della «limitazione della permanenza all’aperto» disposta dalla lettera f) del comma 2-quater del citato art. 41-bis.
In definitiva, secondo l’interpretazione qui affermata, gli internati in regime differenziale restano esclusi dall’accesso alla semilibertà ed alle licenze sperimentali, non potendo uscire dalla struttura in cui sono collocati, ma, quanto alla socialità ed ai movimenti intra moenia, deve essere loro garantita la possibilità di lavorare.
6.– Venuta meno la premessa interpretativa che la Corte di cassazione ha posto a fondamento delle proprie censure, ne consegue la non fondatezza del primo gruppo di questioni sollevate.
6.1. – Ad un tale giudizio si perviene facilmente, in primo luogo, quanto alla prospettata violazione dell’art. 3 Cost.
A causa della comune sottoposizione al regime differenziale di detenuti e internati, il rimettente lamenta l’indebita equiparazione, quanto a regime esecutivo e a contenuto trattamentale, di due misure, pena e misura di sicurezza, che devono restare in effetti distinte.
L’interpretazione qui accolta della disciplina censurata smentisce l’assunto. Senza negare che il regime differenziale si renda applicabile a detenuti e internati, le modalità restrittive di esecuzione della misura di sicurezza devono risultare congrue e proporzionate alla natura di questa, e perciò differenziarsi, rispetto al trattamento dei condannati nel medesimo regime, quanto serve a garantire la specifica condizione degli internati in casa di lavoro (o in colonia agricola), pur restando necessario che la garanzia di svolgimento di un’attività lavorativa non vanifichi le speciali cautele imposte, nei casi in esame, dall’elevata pericolosità degli interessati.
7.– Dall’interpretazione qui accolta deriva altresì la non fondatezza della censura incentrata sull’asserita lesione dell’art. 27, terzo comma, Cost.
7.1.– Secondo la Corte rimettente, la soggezione dell’internato al regime di cui all’art. 41-bis ordin. penit. vanificherebbe la specifica vocazione risocializzatrice della misura di sicurezza, ed in particolare della casa di lavoro, con la conseguenza che, non potendosi mai conseguire l’obiettivo di rieducazione, la stessa misura finirebbe col trasformarsi in una “pena” di durata potenzialmente infinita.
Sulla base della lettura in questa sede proposta della disciplina censurata, invece, il regime differenziale può e deve modellarsi sulla fisionomia particolare della misura di sicurezza in discussione: si impone cioè – tanto sul piano della interpretazione, quanto su quello della concreta articolazione delle restrizioni imposte al singolo internato – lo sfruttamento di ogni spazio di manovra al fine di garantire allo stesso internato la possibilità effettiva di svolgere una attività lavorativa, in vista dell’obiettivo della risocializzazione.
Questa Corte, con la già citata sentenza n. 376 del 1997, ha affrontato una questione per qualche verso analoga a quella ora in esame, relativa all’applicabilità dell’istituto della liberazione anticipata in favore dei condannati in regime differenziale di trattamento. Anche in quel caso era stato prospettato un preteso paradosso del regime speciale: esso in astratto concede, anche ai detenuti ex art. 41-bis ordin. penit., la possibilità di valersi del beneficio in questione, ma in concreto parrebbe negarla, posto che la liberazione anticipata dev’essere accordata sulla base della positiva risposta dell’interessato a un’offerta trattamentale, che però, proprio a causa del regime in parola, farebbe completamente difetto.
Nel ribadire che l’applicazione dell’art. 41-bis ordin. penit. non comporta la eliminazione di qualsiasi programma di trattamento, e neppure l’esclusione da qualunque concepibile attività rieducativa, la sentenza richiamata ha chiarito che, nella valutazione del percorso rieducativo, dovrà tenersi conto anche della qualità e quantità delle occasioni effettivamente messe a disposizione dell’interessato: «il giudizio sulla partecipazione all’opera di rieducazione non può che essere formulato sulla base della risposta alle opportunità di risocializzazione concretamente offerte al detenuto nel corso del trattamento, poche o tante che siano […] non potendosi richiedere la partecipazione a un’opera rieducativa che non venga di fatto intrapresa, né far gravare sul detenuto le conseguenze della mancata offerta, in concreto, di strumenti di risocializzazione».
Mutatis mutandis, i medesimi principi devono essere riaffermati nel presente caso, quanto agli effetti dell’offerta trattamentale sulla pericolosità sociale dell’internato e alla valutazione che su di essa deve essere svolta dal magistrato di sorveglianza.
Insieme alla interpretazione qui accolta della disciplina censurata, tali principi conducono verso un giudizio di non fondatezza della censura ora in esame.
8.– Sottolineando l’asserita spirale fra diniego del trattamento risocializzante e persistenza della pericolosità sociale, il giudice a quo lamenta la concorrente violazione degli artt. 3 e 25 Cost., dello stesso art. 27 Cost., dell’art. 117, primo comma, Cost. (in relazione all’art. 7 CEDU), nonché dell’art. 111 Cost.
Da una parte, l’assenza di occasioni rieducative, dovuta alla soggezione al regime differenziale, impedirebbe all’internato di maturare e dimostrare significativi progressi nel trattamento; dall’altra, la carenza di elementi utili ad una concreta revisione del giudizio di pericolosità condurrebbe alla proroga necessitata della misura di sicurezza, e dunque ad una rottura della relazione che dovrebbe invece sussistere tra durata della restrizione e gravità del fatto commesso, nei suoi profili oggettivi e soggettivi.
Non per tutte le censure indicate, invero, è offerta una motivazione compiuta, e per alcune – sicuramente per la lamentata lesione del principio del «giusto processo» ex art. 111 Cost. quale fondamento per la legittima inflizione di una “pena” – il ragionamento del rimettente si arresta sulla soglia dell’ammissibilità (ex multis, sentenze n. 154, n. 123 e n. 87 del 2021).
Quanto alle censure valutabili nel merito, le asserite lesioni al principio di legalità, per violazione dei parametri costituzionali nazionali e di quelli sovranazionali, risultano essenzialmente ancorate alla giurisprudenza europea maturata sulla già ricordata «custodia di sicurezza» regolata dal diritto tedesco.
Come detto, il giudice a quo evoca in particolare la sentenza M. contro Germania, in cui la Corte EDU aveva accertato, per quanto qui più direttamente rileva, una violazione dell’art. 7 CEDU, sul presupposto che la misura di sicurezza detentiva, in base alla sua disciplina ed alle sue modalità di esecuzione, deve essere considerata una “pena”, attratta come tale nell’area di influenza della norma convenzionale sul principio di legalità.
Lungi però dal trarre la conseguenza di una completa assimilazione tra misura di sicurezza e pena, la Corte di Strasburgo, nell’affermare la necessità di un diverso regime per le due misure restrittive, si è limitata a stabilire la necessaria applicazione del principio di non retroattività della lex superveniens a carattere peggiorativo anche con riguardo alla «custodia di sicurezza». Tale principio, nel caso deciso, non era stato osservato, in quanto l’internamento della persona interessata era stato prolungato oltre il termine massimo decennale vigente al tempo dell’applicazione della misura di sicurezza, sulla base di una riforma sopravvenuta che aveva rimosso ogni limite di durata del trattamento, pur rendendone più stringenti i presupposti.
La successiva giurisprudenza della Corte EDU ha confermato più volte l’incompatibilità convenzionale dell’applicazione retroattiva di norme sfavorevoli in punto di durata massima della misura di sicurezza (si vedano le sentenze 13 gennaio 2011 nei casi Kallweit contro Germania e Mautes contro Germania, nonché la sentenza 14 aprile 2011 nel caso Jendrowiak contro Germania). Tuttavia, esattamente come nel caso posto all’origine della sequenza, l’attribuzione alla custodia di sicurezza della sostanza di “pena” non ha mai indotto la Corte di Strasburgo a dubitare della compatibilità della relativa disciplina con le proiezioni ulteriori del principio (convenzionale) di legalità. Ciò è a dirsi, in particolare, per la denunciata indeterminatezza della durata della misura e per il connesso difetto di «prevedibilità», a tale riguardo, nel momento della condotta antigiuridica.
In particolare, la Corte EDU non ha stabilito un principio di necessaria predeterminazione di durata della restrizione di sicurezza ed ha anzi rivenuto nella lettera a) dell’art. 5, paragrafo 1, CEDU la norma di legittimazione convenzionale delle misure di sicurezza (che devono e possono essere applicate «in seguito a condanna da parte di un tribunale competente»), affermando, in punto di loro prevedibilità, che la stessa non resta esclusa per il sol fatto che non è stabilita preventivamente la durata del trattamento, entro un termine legalmente dato (in particolare, sentenza 9 giugno 2011, Schmitz contro Germania).
Rilievi analoghi vanno compiuti rispetto all’ulteriore argomento evocato dalla Corte rimettente, relativo all’incongruenza della complessiva risposta «sanzionatoria» rispetto al fatto di reato, poiché all’esecuzione di una pena (già computata in termini di proporzionalità) si aggiungerebbe una restrizione della libertà nella forma della misura di sicurezza.
Con riferimento alla pena, il principio di proporzionalità implica una stretta correlazione tra il fatto, nella sua dimensione oggettiva e soggettiva, e la conseguente punizione. Con riferimento alle misure di sicurezza, invece, la proporzionalità dipende da un complessivo giudizio di congruità e non eccessività rispetto allo scopo di prevenire ulteriori attività criminali dell’interessato (sentenza n. 250 del 2018).
In particolare, la misura di sicurezza opera se e quando l’autore del fatto esprime una concreta pericolosità sociale, che deve sussistere, sia nel momento dell’applicazione della misura, sia nel momento della sua esecuzione. Per quanto debba essere occasionata dalla commissione di un reato, la misura non ha perciò alcuna funzione retributiva, mentre deve fronteggiare un fenomeno di pericolosità ormai considerato per sé stesso, tanto che, abbia trovato o meno esecuzione, la misura deve essere immediatamente revocata non appena si riscontri la cessazione della condizione di pericolosità dell’interessato (si vedano le sentenze n. 291 del 2013, n. 1102 del 1988, n. 249 del 1983 e n. 139 del 1982), anche laddove non sia ancora maturato il termine di «durata minima» previsto dalla legge (sentenza n. 110 del 1974, e successivamente sentenza n. 139 del 1982 e ordinanza n. 111 del 1990).
Questa regola, di rilievo centrale nell’ordinamento, vale per qualunque misura di sicurezza personale, quali che ne siano le modalità di esecuzione. Con particolare riguardo ai casi qui in discussione, qualora il giudice di sorveglianza dovesse riscontrare la cessazione della condizione di pericolosità, l’esecuzione della misura personale dovrebbe essere evitata o interrotta, quand’anche l’esecuzione medesima fosse stata disposta secondo le regole straordinarie dell’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit.
Se queste sono le ragioni per cui va escluso il fondamento delle questioni di legittimità costituzionale incentrate sull’asserita lesione dei principi di legalità costituzionale e convenzionale, deve essere comunque ribadita, anche in questa sede, l’interpretazione affermata a proposito delle censure incentrate sulla lesione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.
Infatti, anche i rilievi riferiti alla presunta violazione dei principi di legalità, costituzionale e convenzionale, si fondano, in ultima analisi, sul presupposto interpretativo che la presente pronuncia esclude. E la presunta “spirale” tra diniego dell’offerta risocializzante e proroga ad libitum della misura di sicurezza è preclusa in radice dal principio per il quale l’applicazione del regime differenziale non annulla il dovere e il potere dell’amministrazione di dare concreta attuazione all’attività che caratterizza la misura di sicurezza della casa di lavoro.
Affermato questo principio d’interpretazione, anche la “spirale” lamentata non ha ragione di determinarsi, e dunque di produrre le trasformazioni che, nella stessa logica della Corte rimettente, imporrebbero l’estensione ai casi coinvolti dalla disciplina censurata di tutte le garanzie costituzionali e sovranazionali apprestate per la pena.
9.– Non supera, infine, la soglia dell’ammissibilità neppure la questione di legittimità costituzionale relativa alla pretesa violazione del principio ne bis in idem, che sarebbe provocata – ancora una volta – dalla trasformazione in “pena” della misura di sicurezza eseguita a norma dell’art. 41-bis ordin. penit., con un conseguente effetto di duplicazione del trattamento sanzionatorio per un medesimo fatto.
L’ordinanza di rimessione, invero, non pone apertamente in discussione la compatibilità costituzionale del cosiddetto sistema del “doppio binario” (coesistenza di pene e misure di sicurezza), che del resto trova espresso riconoscimento, entro limiti la cui ricostruzione non rileva in questa sede, nella stessa Costituzione (in particolare, al terzo comma dell’art. 25).
In un contesto caratterizzato da un’articolata giurisprudenza europea, a rivelarsi carenti sono, innanzitutto, le prospettazioni operate dalla Corte di cassazione rimettente in punto di asserita duplicazione sanzionatoria dell’idem factum. È, anzi, l’esistenza stessa del preteso idem factum a non essere sufficientemente argomentata. Come risulta dalla motivazione che precede, è evidente, infatti, che la pena detentiva è correlata direttamente al reato connesso, mentre la misura di sicurezza è solo occasionata dal medesimo reato, e richiede una giustificazione non direttamente rilevante per l’esecuzione della pena, cioè l’attuale e persistente pericolosità del soggetto interessato.
Nulla, inoltre, è detto in ordine al rilievo di un “doppio binario” procedimentale, il quale, del resto, in materia di misure di sicurezza è puramente eventuale (potendo la misura essere disposta anche dal giudice della cognizione).
L’assenza di tali verifiche, il cui compimento condiziona l’accesso al merito (sentenza n. 145 del 2020), determina l’inammissibilità della questione proposta (analogamente, sentenza n. 222 del 2019, nonché ordinanze n. 136 del 2021 e n. 114 del 2020).