Corte Costituzionale, sentenza 01 febbaio 2022 n. 28
1) Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 53, secondo comma, della legge 24 novembre 1981 n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui prevede che «[i]l valore giornaliero non può essere inferiore alla somma indicata dall’art. 135 del codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare», anziché «[i]l valore giornaliero non può essere inferiore a 75 euro e non può superare di dieci volte la somma indicata dall’art. 135 del codice penale»;
2) Vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, sollevate, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Ravenna;
3) Va del pari dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
3.– Le due ordinanze pongono questioni analoghe e meritano, pertanto, di essere riunite per la trattazione e decise con unica sentenza.
In effetti, entrambi i giudici rimettenti si dolgono in sostanza dell’eccessività del tasso giornaliero di sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria, che – in forza del rinvio compiuto dal censurato art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981 all’art. 135 del codice penale – è attualmente pari a 250 euro. Tale tasso condurrebbe a risultati sanzionatori sproporzionati rispetto alla gravità del reato e alle condizioni economiche del reo; dal che deriverebbe la violazione congiunta degli artt. 3, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost. nonché – secondo il GIP del Tribunale di Taranto – dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE.
4.– Quanto all’ammissibilità delle questioni prospettate, occorre osservare quanto segue.
4.1.– Le questioni poste dall’ordinanza iscritta al n. 177 del r.o. 2020, sollevate dal GIP del Tribunale di Ravenna, sono inammissibili.
L’Avvocatura generale dello Stato ha, in proposito, eccepito l’insufficiente motivazione sulla rilevanza delle questioni, non avendo il rimettente chiarito per quale motivo la pena pecuniaria calcolata sulla base della disciplina censurata risulterebbe eccessivamente gravosa per l’imputato.
L’eccezione è fondata, dal momento che il giudice rimettente ha effettivamente omesso di illustrare per quale ragione una pena pecuniaria sostitutiva di 20.000 euro in aggiunta alla multa di 2.222,22 euro – oggetto di specifica richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato, in sede di opposizione al decreto penale di condanna per il delitto di assunzione di lavoratori privi di valido permesso di soggiorno – debba ritenersi sproporzionata rispetto alle sue condizioni economiche, sulle quali lo stesso giudice a quo non fornisce alcuna informazione. Tale insufficiente descrizione della fattispecie concreta non consente a questa Corte di apprezzare la rilevanza delle questioni prospettate (sentenze n. 114 del 2021 e n. 254 del 2020; ordinanze n. 136 del 2021 e n. 147 del 2020).
Da ciò deriva l’inammissibilità di tutte le questioni sollevate dal GIP del Tribunale di Ravenna, restando assorbite le ulteriori eccezioni formulate dall’Avvocatura generale dello Stato.
4.2.– A diverso esito conduce lo scrutinio di ammissibilità delle questioni sollevate dal GIP del Tribunale di Taranto.
4.2.1.– L’Avvocatura generale dello Stato ha, in primo luogo, eccepito l’inammissibilità di tali questioni, in difetto di una soluzione costituzionalmente obbligata ai vulnera denunciati.
L’eccezione non è fondata.
La sentenza n. 214 del 2014, invocata dall’interveniente, aveva invero ritenuto l’inammissibilità di una questione sollevata sulla stessa disposizione, con la quale il rimettente chiedeva a questa Corte di fissare a 97 euro, anziché a 250, il tasso di conversione giornaliero della pena detentiva in pena pecuniaria. La Corte aveva allora rilevato come la soluzione proposta non fosse «costituzionalmente obbligata», ritenendo necessario un intervento da parte del legislatore in una materia riservata alla sua discrezionalità.
Tuttavia, una ormai copiosa giurisprudenza di questa Corte, successiva a quella sentenza, non ritiene più che l’impossibilità di individuare un’unica soluzione costituzionalmente obbligata al vulnus denunciato costituisca un ostacolo insuperabile all’ammissibilità di questioni di legittimità costituzionale, ben potendo questa Corte reperire essa stessa soluzioni costituzionalmente adeguate, già esistenti nel sistema e idonee a colmare temporaneamente la lacuna creata dalla stessa pronuncia di accoglimento della questione; ferma restando poi la possibilità per il legislatore di individuare, nell’esercizio della propria discrezionalità, una diversa soluzione nel rispetto dei principi enunciati da questa Corte. E ciò tanto in materia di dosimetria sanzionatoria (sentenze n. 185 del 2021, n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018, n. 236 del 2016), quanto altrove (ex multis, sentenze n. 63 del 2021, n. 252 e n. 224 del 2020, n. 242 del 2019 e n. 99 del 2019).
Lo stesso rimettente indica d’altronde, in rapporto di subordinazione, due possibili soluzioni a suo avviso costituzionalmente adeguate, rappresentate, la prima, dalla sostituzione del tasso di 250 euro giornalieri, previsto dall’art. 135 cod. pen., con quello minimo di 75 euro già previsto dall’art. 459, comma 1-bis, del codice di procedura penale in materia di decreto penale di condanna; e, la seconda, dall’addizione alla disposizione denunciata della possibilità per il giudice di diminuire sino a un terzo il valore giornaliero di 250 euro in relazione alle condizioni economiche del reo, sulla base di quanto già previsto dall’art. 133-bis cod. pen.
4.2.2.– In secondo luogo, l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’aberratio ictus nella quale sarebbe incorso il giudice a quo, il quale erroneamente non avrebbe esteso le proprie censure all’art. 4, comma 1, lettera a), della legge 12 giugno 2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti): e dunque proprio alla disposizione che ha espunto dal testo della disposizione censurata il riferimento all’art. 133-bis cod. pen., che lo stesso giudice mirerebbe ora a ripristinare mediante la propria domanda formulata in via subordinata.
Nemmeno questa eccezione è fondata.
Il rimettente individua infatti correttamente la disposizione che stabilisce – attraverso il richiamo all’art. 135 cod. pen. – il meccanismo di conversione oggetto delle proprie censure. D’altra parte, con il petitum formulato in via subordinata il rimettente non mira ad ottenere una – problematica – reviviscenza del frammento normativo che richiamava l’art. 133-bis cod. pen., abrogato dalla legge n. 134 del 2003, come sembrerebbe implicare l’eccezione formulata dalla difesa statale (sulla reviviscenza di disposizioni a seguito di sentenze di illegittimità costituzionale, sentenza n. 7 del 2020 e ivi ulteriori riferimenti). Piuttosto, il rimettente individua chiaramente nella facoltà di diminuire sino a un terzo la pena pecuniaria minima prevista dall’art. 133-bis cod. pen. una soluzione normativa già esistente nel sistema, la quale – una volta estesa anche all’istituto della sostituzione della pena detentiva – sarebbe in grado di ricondurre a legalità costituzionale la disposizione censurata. Richiesta, questa, pienamente ammissibile, alla luce delle considerazioni poc’anzi svolte.
4.2.3.– Deve, invece, essere dichiarata d’ufficio inammissibile la sola questione formulata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE, non avendo il rimettente chiarito per quali ragioni la disciplina censurata ricada nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea: ciò che condiziona in via generale, ai sensi dell’art. 51 CDFUE, l’operatività dei diritti riconosciuti dalla Carta, e di conseguenza la stessa possibilità di invocarli quali parametri interposti nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (ex multis, sentenze n. 213, n. 185, n. 33 e n. 30 del 2021). Il che naturalmente non esclude la possibilità che i diritti della Carta possano essere utilizzati come strumenti interpretativi nella lettura delle stesse disposizioni costituzionali corrispondenti (come, ad esempio, nelle sentenze n. 33 del 2021, n. 102 del 2020, n. 272 del 2017 e n. 236 del 2016).
5.– Ai fini dell’esame nel merito delle residue questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP del Tribunale di Taranto, appare opportuna una sintetica ricostruzione del contesto normativo in cui tali questioni si collocano.
5.1.– L’art. 53 della legge n. 689 del 1981 prevede che le pene detentive brevi possano essere sostituite dal giudice con le pene sostitutive della semidetenzione, della libertà controllata e della pena pecuniaria entro i limiti massimi, rispettivamente, di due anni, un anno e sei mesi.
Il successivo art. 58 disciplina l’esercizio di tale potere discrezionale da parte del giudice. Sulla base dei generali criteri per la commisurazione della pena indicati dall’art. 133 cod. pen., il giudice valuta anzitutto se sostituire la pena, essendo tenuto a non farlo allorché presuma che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato, oltre che in presenza delle cause ostative enumerate dall’art. 59 della stessa legge n. 689 del 1981; nel caso poi in cui opti per la sostituzione, «sceglie quella più idonea al reinserimento sociale del condannato».
Come è noto, l’istituto della sostituzione della pena detentiva fu introdotto nel nostro ordinamento nel 1981 con l’obiettivo fondamentale di evitare, per quanto possibile, gli effetti negativi determinati dall’esecuzione delle pene detentive di breve durata (peraltro contenute, nella versione originaria della legge, entro il limite massimo di sei mesi): pene troppo brevi, appunto, perché potesse essere impostato e attuato un programma rieducativo realmente efficace in favore del condannato; ma abbastanza lunghe per determinare gravi conseguenze a suo carico, per reati di bassa gravità, dal momento che l’ingresso in carcere provoca non soltanto una brusca lacerazione dei rapporti familiari, sociali e lavorativi sino a quel momento intrattenuti (con conseguente difficoltà di un loro ripristino una volta terminata l’esecuzione della pena), ma anche il contatto con persone condannate per reati assai più gravi e, in generale, con subculture criminali che possono condurlo a maturare scelte di vita stabilmente orientate verso la commissione di nuovi reati.
Di talché, più che a contribuire, in positivo, alla risocializzazione del reo, le pene sostitutive risultano orientate a evitare, per quanto possibile, gli effetti desocializzanti della carcerazione di breve durata, assicurando al contempo – in conseguenza del loro contenuto comunque afflittivo – un risultato di intimidazione e ammonimento del reo, che dovrebbe distoglierlo dalla commissione di nuovi reati in futuro.
5.2.– Tali essenziali obiettivi sono caratteristici anche dalla pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva breve, cui è dedicato il secondo comma dell’art. 53 della legge n. 689 del 1981, oggi censurato.
Nel testo modificato, da ultimo, dall’art. 4 della legge n. 134 del 2003, tale disposizione prevede, in particolare, un sistema di determinazione della pena pecuniaria sostitutiva per tassi giornalieri: il giudice «individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva», tenendo conto – ai fini della determinazione di tale valore giornaliero – «della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare». Tale valore giornaliero non può peraltro «essere inferiore alla somma indicata dall’articolo 135 del codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare». La pena pecuniaria complessiva risultante può, infine, essere soggetta al beneficio della rateizzazione previsto dall’art. 133-ter cod. pen., pure richiamato dalla disposizione in esame.
Le censure dell’odierno rimettente si appuntano sul limite minimo del tasso di conversione giornaliero che il giudice è tenuto a stabilire: limite minimo determinato mediante il rinvio, pacificamente considerato come “mobile”, all’art. 135 cod. pen. Come più analiticamente rammentato dalla sentenza n. 214 del 2014, tale disposizione detta un criterio di ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive che è applicabile in linea di principio «per qualsiasi effetto giuridico», e il cui importo originario di cinquanta lire per ogni giorno di pena detentiva è stato oggetto di «reiterati interventi di adeguamento, sollecitati dalla progressiva perdita di potere di acquisto della moneta».
In particolare, l’art. 101 della legge n. 689 del 1981 innalzò da 5.000 a 25.000 lire per ogni giorno di pena detentiva tale coefficiente, che fu ulteriormente elevato a 75.000 lire dalla legge 5 ottobre 1993, n. 402 (Modifica dell’articolo 135 del codice penale: ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive); somma poi arrotondata a 38 euro in seguito all’introduzione della moneta unica.
Infine, la legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) ha drasticamente innalzato il criterio di ragguaglio alla misura oggi oggetto delle censure del rimettente, pari a 250 euro giornalieri: con una modifica che, come sottolineato ancora nella sentenza n. 214 del 2014, «torna a vantaggio dell’imputato, allorché sia la pena pecuniaria a dover essere ragguagliata alla pena detentiva (ad esempio, in sede di verifica della fruibilità dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale); mentre va a suo discapito nell’ipotesi inversa, così come tipicamente avviene quando si discuta dell’applicazione dell’istituto di cui all’art. 53 della legge n. 689 del 1981».
6.– Ciò premesso, le questioni sollevate dal giudice rimettente sull’eccessività di tale limite minimo, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., sono fondate.
6.1.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (per una più estesa ricapitolazione, sentenza n. 112 del 2019), ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. l’ampia discrezionalità di cui dispone il legislatore nella quantificazione delle pene incontra il proprio limite nella manifesta sproporzione della singola scelta sanzionatoria, sia in relazione alle pene previste per altre figure di reato (sentenze n. 88 del 2019, n. 68 del 2012, n. 409 del 1989, n. 218 del 1974), sia rispetto alla intrinseca gravità delle condotte abbracciate da una singola figura di reato (sentenze n. 136 e 73 del 2020, n. 284 e 40 del 2019, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016, n. 341 del 1994). Il limite in parola esclude, più in particolare, che la severità della pena comminata dal legislatore possa risultare manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del reato: il che accade, in particolare, ove il legislatore fissi una misura minima della pena troppo elevata, vincolando così il giudice all’inflizione di pene che potrebbero risultare, nel caso concreto, chiaramente eccessive rispetto alla sua gravità.
6.2.– Il limite costituzionale in parola non può non valere anche per la pena pecuniaria, che è una sanzione criminale a tutti gli effetti, seppur con una precisazione imposta dalla sua stessa natura.
Come questa Corte ebbe modo di rilevare già nella sentenza n. 131 del 1979, la pena detentiva comprime la libertà personale, che è «bene primario posseduto da ogni essere vivente», mentre la pena pecuniaria incide sul patrimonio, bene che «non inerisce naturalmente alla persona umana»; di talché la pena pecuniaria naturalmente «comporta l’inconveniente di una disuguale afflittività e al limite, dell’impossibilità di applicarla, in funzione delle diverse condizioni economiche dei soggetti condannati». Dunque, mentre l’impatto di pene detentive di eguale durata può in linea di principio ipotizzarsi come omogeneo per ciascun condannato, così non è per le pene pecuniarie: una multa del medesimo importo può risultare più o meno afflittiva secondo le disponibilità reddituali e patrimoniali del singolo condannato. Di qui, aveva proseguito questa Corte, la ricerca da parte di molti legislatori contemporanei «di rimedi, atti a salvaguardare l’efficacia e la concreta uguaglianza dell’effetto della pena pecuniaria, mediante meccanismi d’adeguamento alle diverse condizioni economiche dei condannati».
Un tale adeguamento, come rileva l’odierno rimettente, deve ritenersi imposto dal principio di eguaglianza, da cui discende il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (art. 3, secondo comma, Cost.). Nella prospettiva di un’eguaglianza “sostanziale” e non solo “formale”, il vaglio che questa Corte è chiamata a compiere sulla manifesta sproporzione della pena pecuniaria non potrà che confrontarsi con il dato di realtà del diverso impatto del medesimo quantum di una tale pena rispetto a ciascun destinatario. Tale diverso impatto esige di essere “compensato” attraverso uno di quei rimedi cui aveva fatto cenno la sentenza n. 131 del 1979, in modo che il giudice sia posto nella condizione di tenere debito conto – nella commisurazione della pena pecuniaria – delle condizioni economiche del reo, oltre che della gravità oggettiva e soggettiva del reato (nell’ambito del diritto comparato, sulla illegittimità costituzionale di pene pecuniarie suscettibili di risultare gravemente sproporzionate rispetto alle concrete condizioni economiche dei singoli condannati, è citata Corte Suprema del Canada, sentenza 14 dicembre 2018, Regina contro Boudreault, 3 SCR 599).
A questa esigenza è ispirato, nell’ordinamento italiano, l’art. 133-bis cod. pen., che, al primo comma, impone al giudice di tenere conto delle condizioni economiche del reo nella determinazione dell’ammontare della multa e dell’ammenda e, al secondo comma, prevede la possibilità di un aumento sino al triplo del massimo stabilito dalla legge, nonché di una diminuzione sino a un terzo del minimo, allorché il giudice ritenga «che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa». Analogamente, in materia di sanzioni amministrative pecuniarie, l’art. 11 della legge n. 689 del 1981 dispone che, in sede di determinazione di tali sanzioni, si debba tenere conto, oltre che della gravità della violazione e di eventuali condotte compiute dall’agente per l’eliminazione o l’attenuazione delle sue conseguenze, anche della personalità e delle condizioni economiche dell’agente medesimo; mentre, nel settore specifico delle violazioni in materia di tutela dei mercati finanziari – caratterizzato da sanzioni pecuniarie amministrative di natura punitiva e di impatto potenzialmente assai significativo – l’art. 194-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52) parimenti dispone che nella determinazione dell’ammontare delle sanzioni debba tenersi conto, tra l’altro, della «capacità finanziaria del responsabile della violazione» (comma 1, lettera c).
Come già rilevato nella sentenza n. 131 del 1979, il diritto comparato mostra poi che numerosi ordinamenti hanno adottato in via generale – proprio per meglio assicurare l’eguaglianza “sostanziale” – il sistema cosiddetto dei tassi giornalieri, caratterizzato dalla scomposizione del processo di commisurazione della pena pecuniaria in due fasi distinte: una prima fase, nella quale si stabilisce, sulla base della gravità oggettiva e soggettiva del reato, il numero delle quote giornaliere che il condannato è tenuto a pagare; e una seconda fase, in cui viene fissato il valore di ciascuna quota, sulla base delle condizioni economiche del condannato stesso – e in particolare della quota di reddito giornaliero che si presume egli possa ragionevolmente impiegare per il pagamento della pena pecuniaria, tenuto conto anche dell’ammontare del patrimonio di cui risulti disporre – (in questo senso, ad esempio, l’art. 131-5 del codice penale francese, il § 40 del codice penale tedesco, il § 19 del codice penale austriaco, l’art. 50 del codice penale spagnolo, l’art. 47 del codice penale portoghese).
6.3.– La disposizione ora scrutinata si ispira, in effetti, al modello dei tassi giornalieri, stabilendo che per ogni giorno di pena detentiva sostituita il giudice debba individuare il «valore giornaliero cui può essere assoggettato l’imputato», tenendo conto «della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare». Tuttavia, essa prevede altresì che tale valore giornaliero non possa essere inferiore alla somma indicata dall’art. 135 cod. pen., che, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 94 del 2009, è oggi pari a 250 euro. E tale limite minimo è attualmente da intendersi come inderogabile, non essendo più possibile la diminuzione sino a un terzo che in precedenza era consentita dal richiamo all’art. 133-bis cod. pen., ora eliminato dal testo della disposizione censurata per effetto delle modifiche introdotte dalla legge n. 134 del 2003.
Una quota giornaliera di 250 euro è, all’evidenza, ben superiore a quella che la gran parte delle persone che vivono oggi nel nostro Paese sono ragionevolmente in grado di pagare, in relazione alle proprie disponibilità reddituali e patrimoniali. Moltiplicata poi per il numero di giorni di pena detentiva da sostituire, una simile quota conduce a risultati estremamente onerosi per molte di queste persone, sol che si consideri ad esempio – come già osservato nella sentenza n. 15 del 2020 – che «il minimo legale della reclusione, fissato dall’art. 23 cod. pen. in quindici giorni, deve oggi essere sostituito in una multa di almeno 3.750 euro, mentre la sostituzione di sei mesi di reclusione (pari al limite massimo entro il quale può operare il meccanismo previsto dall’art. 53, comma 2, della legge n. 689 del 1981) dà luogo a una multa non inferiore a 45.000 euro».
Il caso oggetto del giudizio a quo dimostra emblematicamente l’elevatezza della sanzione determinata dalla disposizione censurata: a fronte di una condotta in definitiva di modesto disvalore, come una violenza privata realizzata mediante il parcheggio di un’autovettura in prossimità dell’ingresso dell’abitazione delle persone offese, con l’effetto di impedire a queste ultime di entrare e uscire con la propria macchina, la sostituzione della pena concordata dalle parti di tre mesi di reclusione – ritenuta congrua dal giudice – condurrebbe all’irrogazione di una pena pecuniaria sostitutiva di ben 22.500 euro: una somma che, come puntualmente osserva il giudice a quo sulla base della documentazione prodotta dall’imputato, è sostanzialmente pari ai redditi da lui dichiarati per l’intero anno 2020.
Come già sottolineato dalla sentenza n. 15 del 2020, una quota giornaliera di conversione così elevata «ha determinato, nella prassi, una drastica compressione del ricorso alla sostituzione della pena pecuniaria, che pure era stata concepita dal legislatore del 1981 – in piena sintonia con la logica dell’art. 27, terzo comma, Cost. – come prezioso strumento destinato a evitare a chi sia stato ritenuto responsabile di reati di modesta gravità di scontare pene detentive troppo brevi perché possa essere impostato un reale percorso trattamentale, ma già sufficienti a produrre i gravi effetti di lacerazione del tessuto familiare, sociale e lavorativo, che il solo ingresso in carcere solitamente produce». Al tempo stesso, la disposizione censurata ha finito per «trasformare la sostituzione della pena pecuniaria in un privilegio per i soli condannati abbienti», in contrasto con l’art. 3 Cost.
6.4.– Simili considerazioni appaiono, del resto, alla base del criterio stabilito dall’art. 1, comma 17, lettera l), della legge 27 settembre 2021, n. 134 (Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), con cui si delega il Governo a prevedere che il valore giornaliero, al quale può essere assoggettato il condannato in caso di sostituzione della pena detentiva, debba essere individuato, nel minimo, «in misura indipendente dalla somma indicata dall’art. 135 del codice penale», così da «evitare che la sostituzione della pena risulti eccessivamente onerosa in rapporto alle condizioni economiche del condannato e del suo nucleo familiare, consentendo al giudice di adeguare la sanzione sostitutiva alle condizioni economiche e di vita del condannato».
7.– Questa Corte è chiamata ora, a due anni dal monito contenuto nella sentenza n. 15 del 2020 più volte citata, a porre rimedio alle violazioni riscontrate.
La semplice ablazione della disposizione censurata renderebbe impossibile la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria, pregiudicando così la funzionalità di uno strumento importante, anche se oggi sottoutilizzato proprio in ragione dell’incongruità della disciplina censurata, per «contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria» (sentenza n. 179 del 2017): ciò che determinerebbe un «insostenibile vuoto di tutela» per interessi costituzionalmente rilevanti (sentenza n. 185 del 2021, nonché sentenza n. 222 del 2018).
Si rende perciò necessario reperire nel sistema soluzioni normative già esistenti, che consentano di porre almeno provvisoriamente rimedio agli accertati vizi di legittimità costituzionale, assicurando al contempo la perdurante operatività della sostituzione della pena detentiva.
Al riguardo, questa Corte non può allo stato che ricorrere alla soluzione – suggerita dal petitum formulato in via principale dal giudice rimettente – consistente nella sostituzione del minimo di 250 euro con quello di 75 euro per ogni giorno di pena detentiva sostituita, stabilito dall’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. in relazione al decreto penale di condanna; soluzione che peraltro poco si discosta, nell’esito pratico, da quella – prospettata attraverso il petitum formulato in via subordinata – di ripristinare la possibilità per il giudice di diminuire sino a un terzo la pena pecuniaria minima, prevista in via generale dall’art. 133-bis, secondo comma, cod. pen. (ciò che condurrebbe a fissare a circa 83 euro il minimo del valore giornaliero).
Non è invece necessaria – né è richiesta dal rimettente – alcuna modifica relativa al massimo del valore giornaliero, che deve pertanto rimanere ancorato alla misura – fissata dal legislatore – pari a dieci volte l’ammontare stabilito dall’art. 135 cod. pen., e dunque, oggi, a 2.500 euro; ciò che consente di mantenere una differenza di regime tra l’ordinaria sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria, disciplinata dalla disposizione censurata, e quella speciale prevista dall’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen. in materia di decreto penale di condanna, che prevede un valore giornaliero massimo pari a tre volte la somma di 75 euro (e cioè pari a 225 euro).
In conclusione, la disposizione censurata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui, al quarto periodo, prevede che «[i]l valore giornaliero non può essere inferiore alla somma indicata dall’art. 135 del codice penale e non può superare di dieci volte tale ammontare», anziché «[i]l valore giornaliero non può essere inferiore a 75 euro e non può superare di dieci volte la somma indicata dall’art. 135 del codice penale».
8.– Resta ovviamente ferma la possibilità che nell’esercizio della menzionata delega di cui alla legge n. 134 del 2021 vengano individuate soluzioni diverse, e in ipotesi ancor più adeguate, a garantire la piena conformità della disciplina della sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria ai principi costituzionali così come poc’anzi declinati.
E resta ferma, più in generale, la stringente opportunità – più volte segnalata da questa Corte – che il legislatore intervenga, nell’attuazione della delega stessa ovvero mediante interventi normativi ad hoc, a restituire effettività alla pena pecuniaria, anche attraverso una revisione degli attuali meccanismi di esecuzione forzata e di conversione in pene limitative della libertà personale (sentenza n. 279 del 2019); e ciò «nella consapevolezza che soltanto una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una commisurazione da parte del giudice proporzionata tanto alla gravità del reato quanto alle condizioni economiche del reo, e assieme di assicurarne poi l’effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri ordinamenti contemporanei» (sentenza n. 15 del 2020).