Corte Costituzionale, Sentenza, 07 marzo 2025, n. 24
PRINCIPIO DI DIRITTO
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter, comma 5, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) per contrasto con l’art. 27 Cost, stante che la previsione dell’automatismo preclusivo alla concessione dei permessi premio si pone in contrasto con la finalità rieducativa della pena desumibile dalla norma primaria. Invero la disposizione censurata azzera, invece, ogni margine valutativo in capo al magistrato di sorveglianza sul percorso trattamentale intrapreso dal detenuto e sulla sua residua pericolosità sociale, ogni qualvolta egli risulti essere stato condannato (o sia addirittura semplicemente imputato) per qualsiasi delitto doloso commesso durante l’esecuzione della pena o di una misura comunque restrittiva della libertà personale
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha sollevato, in via principale, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 30-ter, comma 5, ordin. penit., in riferimento agli artt. 3, 27, commi secondo e terzo, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU e all’art. 48 CDFUE.
In via subordinata, il rimettente ha censurato la disposizione, in riferimento ai medesimi parametri, nella sola parte in cui prevede che la concessione dei permessi premio è vietata anche nei confronti di coloro i quali siano «imputati» per un delitto doloso commesso durante l’espiazione della pena o l’esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale, prima che siano decorsi due anni dalla commissione del fatto.
La disposizione censurata prevede che «[n]ei confronti dei soggetti che durante l’espiazione della pena o delle misure restrittive hanno riportato condanna o sono imputati per delitto doloso commesso durante l’espiazione della pena o l’esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale, la concessione è ammessa soltanto decorsi due anni dalla commissione del fatto».
Il rimettente deve vagliare una istanza di permesso premio formulata da un condannato nel marzo 2024. Alla stregua della disposizione censurata, l’istanza sarebbe tuttavia inammissibile, dal momento che nel febbraio 2024 il richiedente, detenuto dal 2017, è stato rinviato a giudizio per un delitto in materia di stupefacenti, asseritamente da lui commesso nel marzo 2023 al rientro da un precedente permesso premio. Il richiedente era, dunque, «imputato per delitto doloso commesso durante l’espiazione della pena» nei due anni precedenti l’istanza di concessione del beneficio: ciò che renderebbe a priori non valutabile l’istanza medesima.
Ove la preclusione normativa fosse rimossa, il giudice a quo potrebbe invece apprezzare in concreto il percorso trattamentale svolto nel frattempo dal condannato, ed eventualmente concedere il beneficio richiesto.
2.– Le questioni sono ammissibili.
Ciò vale in particolare per quanto concerne la censura sollevata in relazione all’art. 48 CDFUE, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost. e, implicitamente, dell’art. 11 Cost.: parametro, quest’ultimo, che viene necessariamente in considerazione ogniqualvolta si assuma la contrarietà di una legge nazionale a una disposizione del diritto dell’Unione europea, rispetto alla quale operano le limitazioni di sovranità fondate su tale disposizione costituzionale, come affermato dalla costante e risalente giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 349 del 2007, punto 6.1. del Considerato in diritto; n. 348 del 2007, punto 3.3. del Considerato in diritto; n. 183 del 1973, punto 5 del Considerato in diritto).
Secondo l’altrettanto costante giurisprudenza costituzionale, l’evocazione di disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea quali parametri interposti nel giudizio di legittimità costituzionale presuppone che la controversia all’esame del giudice rimettente ricada nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 51 CDFUE (da ultima, sentenza n. 7 del 2025, punto 2.3. del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).
Pur non affrontando ex professo questo specifico profilo, il giudice a quo evoca, nell’ordinanza di rimessione, la direttiva 2016/343/UE sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. Tale direttiva, basata sull’art. 82, paragrafo 2, lettera b), del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, opera quale strumento ad applicazione “orizzontale” nell’ordinamento dei Paesi membri, mirando a fissare standard minimi di tutela di alcuni diritti riconosciuti dagli artt. 47 e 48 CDFUE, tra cui la presunzione di innocenza, per tutti gli Stati membri.
Ciò basta ad assicurare che la controversia oggetto del giudizio a quo, che pone in causa la presunzione di innocenza, ricada nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 51 CDFUE, a ciò non ostando la natura puramente interna del procedimento (sentenza n 182 del 2021, punto 4.2. del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti). Con conseguente invocabilità, nel caso in esame, dello stesso art. 48 CDFUE, quale parametro interposto di legittimità costituzionale.
3.– Prima di affrontare il merito delle questioni, conviene subito evidenziare che – come sottolineato dal rimettente – dubbi di legittimità costituzionale analoghi a quelli ora formulati sono stati giudicati non fondati da questa Corte nella sentenza n. 296 del 1997.
Fotografando la prassi osservata nell’intero arco della propria giurisprudenza, questa Corte ha recentemente rilevato che il tendenziale rispetto dei propri precedenti – unitamente alla coerenza dell’interpretazione con il testo delle norme interpretate e alla persuasività delle motivazioni – è condizione essenziale per l’autorevolezza delle decisioni di qualsiasi giurisdizione superiore; e che ciò vale anche, in speciale misura, per il giudice costituzionale (sentenza n. 203 del 2024, punto 4.5. del Considerato in diritto).
Tuttavia, come per ogni altra giurisdizione superiore, è ben possibile per questa Corte rimeditare i propri orientamenti, e se del caso modificarli, allorché sussistano «ragioni di particolare cogenza che rendano non più sostenibili le soluzioni precedentemente adottate: ad esempio, l’inconciliabilità dei precedenti con il successivo sviluppo della stessa giurisprudenza di questa Corte o di quella delle Corti europee; il mutato contesto sociale o ordinamentale nel quale si colloca la nuova decisione o – comunque – il sopravvenire di circostanze, di natura fattuale o normativa, non considerate in precedenza; la maturata consapevolezza sulle conseguenze indesiderabili prodotte dalla giurisprudenza pregressa» (sentenza n. 203 del 2024, punto 4.5. del Considerato in diritto). Criteri, questi, largamente diffusi nella giurisprudenza costituzionale comparata, e che sono altresì stati nella sostanza richiamati dalla Corte di cassazione in plurime occasioni, anche recenti, quanto alla possibilità di modificare i propri precedenti orientamenti (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 28 marzo 2024, n. 8486, punto 8; e, in senso analogo, sentenza 4 dicembre 2024, n. 31136, punto 7).
Ora, la sentenza n. 296 del 1997 ha affrontato, e risolto nel senso della non fondatezza, due questioni che il rimettente sostanzialmente ripropone: in primo luogo, quella relativa all’asserito contrasto con il principio di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost. (punto 5 del Considerato in diritto); in secondo luogo – dopo aver escluso taluni profili di irragionevole disparità di trattamento che non vengono in considerazione in questa sede – quella relativa all’allegato irragionevole sacrificio del principio della finalità rieducativa della pena (punto 7 del Considerato in diritto), che l’ordinanza di rimessione oggi all’esame prospetta evocando, assieme, gli artt. 27, terzo comma, e 3 Cost.
Occorre, allora, verificare se – rispetto a entrambi i profili – sussistano ragioni tali da indurre questa Corte a rimeditare quella decisione, tenendo conto in particolare della successiva evoluzione del contesto normativo e giurisprudenziale.
4.– Con riguardo anzitutto alla presunzione di non colpevolezza, la sentenza n. 296 del 1997 aveva ritenuto le censure dei rimettenti «esorbitant[i] rispetto alle finalità perseguite dall’art. 27, secondo comma, della Costituzione». La presunzione di non colpevolezza, aveva osservato quella pronuncia, «è […] coessenzialmente legata al fatto di reato per cui è stata elevata la nuova imputazione e non può essere estesa ad aspetti che nel caso di specie concernono il trattamento penitenziario conseguente al delitto per cui è in corso l’esecuzione della pena» (punto 5 del Considerato in diritto).
Una tale conclusione, tuttavia, risulta oggi distonica rispetto alle declinazioni medio tempore conferite alla presunzione di non colpevolezza (o di innocenza, secondo la denominazione corrente nelle fonti internazionali e unionali) dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, alla cui interpretazione l’ordinamento nazionale è in linea di principio vincolato in forza dell’art. 32 CEDU (sentenze n. 348 del 2007, punto 4.6. del Considerato in diritto, e n. 349 del 2007, punto 6.2. del Considerato in diritto) (infra, 4.1.), nonché dai recenti sviluppi del diritto dell’Unione (infra, 4.2.) e della stessa giurisprudenza di questa Corte (infra, 4.3.).
4.1.– Quanto alla giurisprudenza di Strasburgo, una recente pronuncia di questa Corte ha sottolineato che la presunzione di innocenza fondata sull’art. 6, paragrafo 2, CEDU, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, «assume un più ampio rilievo rispetto al parametro nazionale, presentando una portata non strettamente endoprocessuale» (sentenza n. 182 del 2021, punto 9 del Considerato in diritto).
Da una parte – ha proseguito questa Corte, citando ampiamente la sentenza della grande camera, 12 luglio 2013, Allen contro Regno Unito – «la presunzione di innocenza costituisce una “garanzia procedurale” destinata ad operare “nel contesto di un processo penale”, producendo effetti sul piano dell’“onere della prova”, sulla operatività delle “presunzioni legali di fatto e di diritto”, sull’applicabilità del “privilegio contro l’autoincriminazione”, nonché in ordine “alla pubblicità preprocessuale e alle espressioni premature, da parte della Corte processuale o di altri funzionari pubblici, della colpevolezza di un imputato”. Dall’altra, la presunzione di innocenza, “in linea con la necessità di assicurare che il diritto garantito” dall’art. 6, paragrafo 2, CEDU “sia pratico e effettivo”, estende i suoi effetti al di fuori del processo penale ed opera nel tempo successivo alla sua conclusione o interruzione, non in funzione di apprestare garanzie procedurali all’imputato, ma allo scopo di “proteggere le persone che sono state assolte da un’accusa penale, o nei confronti delle quali è stato interrotto un procedimento penale, dall’essere trattate dai pubblici ufficiali e dalle autorità come se fossero di fatto colpevoli del reato contestato”» (punto 9 del Considerato in diritto).
La tutela garantita dall’art. 6, paragrafo 2, CEDU si estende, dunque, oltre lo specifico procedimento penale nel quale si controverte della possibile responsabilità penale dell’imputato.
In particolare, secondo la costante giurisprudenza della Corte EDU, essa si estende non solo ai procedimenti giudiziari successivi, ma anche a quelli paralleli nei quali il fatto di reato addebitato alla persona, ma non ancora definitivamente accertato a suo carico, possa assumere una qualche rilevanza: ad esempio, al procedimento di revoca della sospensione condizionale della pena (Corte EDU, sentenza 3 ottobre 2002, Böhmer contro Germania, paragrafo 57 e seguenti; 12 novembre 2015, El Kaada contro Germania, paragrafo 56 e seguenti); al procedimento penale in cui debba valutarsi l’integrazione di una circostanza aggravante (sentenza 19 giugno 2012, Hajnal contro Serbia, paragrafo 131; sentenza 14 marzo 2019, Kangers contro Lettonia, paragrafo 61); al procedimento in cui si debba decidere sulla proroga della custodia cautelare in carcere (sentenza 31 ottobre 2013, Perica Oreb contro Croazia, paragrafo 147).
4.2.– Quanto all’ordinamento UE, il diritto alla presunzione di innocenza è oggi espressamente riconosciuto dall’art. 48, paragrafo 1, CDFUE: disposizione il cui significato e la cui portata – in forza della previsione generale di cui all’art. 52, paragrafo 3, CDFUE – incorporano il livello minimo di tutela previsto dalla corrispondente disposizione della CEDU, e cioè dell’art. 6, paragrafo 2, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo.
A livello di diritto derivato, il principio della presunzione di innocenza ha trovato poi specifica declinazione nell’art. 4, paragrafo 1, della direttiva 2016/343/UE, secondo il quale «[g]li Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, […] le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole»; obbligo che ha trovato attuazione nell’ordinamento italiano, tra l’altro, con il decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 188, recante «Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali».
4.3.– Quanto infine alla giurisprudenza di questa Corte, anch’essa ha ormai riconosciuto che la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost. si estende a tutti i procedimenti giudiziari nei quali possa assumere una qualche rilevanza un fatto di reato addebitato alla persona in un procedimento penale, ma in quella sede non ancora definitivamente accertato.
Già da epoca immediatamente successiva alla sentenza n. 296 del 1997, questa Corte ha affermato che dal principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza discende la necessità che la commissione di un nuovo reato nel periodo indicato dall’art. 445, comma 2, cod. proc. pen. successivo alla sentenza di applicazione della pena su richiesta, cui la legge ricollega effetto ostativo all’estinzione del precedente reato, sia accertata con sentenza di condanna irrevocabile (ordinanza n. 107 del 1998 e, con riferimento all’estinzione del reato conseguente alla sospensione condizionale della pena, ordinanze n. 210 del 2020 e n. 101 del 2019).
Più di recente questa Corte, nell’esaminare una disposizione che stabilisce la revoca della sanzione sostitutiva dell’espulsione dello straniero qualora questi rientri illegalmente nel territorio dello Stato, commettendo così il reato corrispondente, ha affermato che il giudice dell’esecuzione non può «procedere ad un accertamento incidentale dell’illecito penale sulla base della sola notizia di reato conseguente al riscontro della presenza dello straniero sul territorio nazionale da parte delle forze di polizia, senza con ciò stesso violare la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost., il cui superamento esige lo svolgimento di un giudizio in cui l’imputato sia posto in condizione di difendersi adeguatamente» (sentenza n. 163 del 2024, punto 3.2. del Considerato in diritto).
4.4.– È, dunque, ormai chiaro che la presunzione di innocenza, lungi dal limitare i propri effetti all’interno del singolo procedimento o processo penale avente ad oggetto la possibile responsabilità penale dell’individuo, implica un generale divieto di considerare quello stesso individuo colpevole del reato a lui ascritto dal pubblico ministero. Tale divieto opera, segnatamente, nell’ambito di qualsiasi procedimento giudiziario parallelo allo stesso procedimento o processo penale, sino a che la colpevolezza sia stata giudizialmente accertata, in via definitiva, nella sede sua propria.
Dal che l’ormai evidente frizione con il principio in parola di una disposizione che, come quella in questa sede censurata, obbliga un giudice (qui, il magistrato di sorveglianza) all’adozione di un provvedimento negativo a carico dell’interessato, per il solo fatto che questi sia stato imputato di un reato da parte del pubblico ministero.
Agli effetti pratici, una simile disposizione vincola il giudice a “presumere colpevole” l’imputato. Essa sottrae al magistrato di sorveglianza stesso ogni margine di autonomo apprezzamento sulla reale consistenza della notitia criminis e, soprattutto, gli impedisce di ascoltare l’imputato e il suo difensore, e di tenere conto delle loro deduzioni circa l’effettiva commissione del fatto, nonché di valutare la sua rilevanza rispetto al thema decidendum nel singolo procedimento.
Con conseguente, indiretto, vulnus allo stesso diritto di difesa dell’interessato, legato a doppio filo alla presunzione di innocenza: ciò che, in sostanza, questa Corte ha avuto modo recentemente di evidenziare, allorché ha sottolineato la necessità che tutti gli elementi raccolti dal pubblico ministero in un procedimento penale conclusosi con un provvedimento di archiviazione siano «oggetto di attenta rivalutazione nell’ambito di eventuali diversi procedimenti (civili, penali, amministrativi, disciplinari, contabili, di prevenzione) in cui dovessero essere in seguito utilizzati, dovendosi in particolare assicurare all’interessato le più ampie possibilità di contraddittorio, secondo le regole procedimentali o processuali vigenti nel settore ordinamentale coinvolto» (sentenza n. 41 del 2024, punto 3.8. del Considerato in diritto).
5.– Come anticipato, la sentenza n. 296 del 1997 aveva altresì escluso il contrasto della disposizione censurata con la necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.
La sentenza in parola aveva rammentato, invero, i propri già allora numerosi precedenti che avevano censurato «l’utilizzazione da parte del legislatore di meccanismi che sottraggono al magistrato di sorveglianza la verifica dell’effettiva incidenza di un determinato fatto-reato sul trattamento penitenziario». Tuttavia, aveva ritenuto che il meccanismo preclusivo in discussione – non determinante una esclusione definitiva dal beneficio – potesse superare lo scrutinio di legittimità costituzionale: «[l]’incentivazione alla “regolare condotta carceraria attraverso la promessa del permesso premio” può giustificare che, in presenza di delitti di natura dolosa, la nuova concessione possa rimanere preclusa per un determinato periodo di tempo».
Un simile meccanismo non fu dunque ritenuto idoneo a compromettere la funzione rieducativa della pena, la preclusione essendo qui «inquadrata nel presupposto di quella regolare condotta del condannato che è essenziale per la concedibilità di permessi premio».
Peraltro, questa Corte aveva espresso l’auspicio che il legislatore rivedesse l’automatismo in esame, «in relazione alle tipologie di delitti dolosi la cui commissione effettivamente comprometta il giudizio sulla regolarità della condotta e, conseguentemente, faccia presumere la pericolosità del condannato, nonché in relazione alla indifferenziata durata del periodo di esclusione dal beneficio» (punto 7 del Considerato in diritto).
5.1.– Quasi trent’anni sono trascorsi da quell’auspicio, e l’automatismo criticato da questa Corte si mantiene intatto, nonostante le proposte di riforma nel frattempo formulate per rimediare ai profili critici evidenziati in quell’occasione.
In particolare, un primo schema di decreto legislativo recante riforma dell’ordinamento penitenziario in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), b), c), d), e), f), g), i), l), m), o), r), s), t) e u), della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) aveva previsto l’abrogazione della disposizione ora censurata, in conformità alle indicazioni contenute nella relazione della Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario istituita con decreto del Ministro della giustizia del 2 luglio 2013 (cosiddetta commissione Giostra) (pagina 114). Tale schema fu presentato alle Camere, ottenendo parere favorevole sull’abrogazione della disposizione censurata, ma non fu poi adottato dal Governo.
5.2.– D’altra parte, la sentenza n. 296 del 1997 – la quale aveva ritenuto che i profili critici evidenziati ancora non attingessero la soglia dell’illegittimità costituzionale – si poneva essa stessa in rapporto di problematica conciliabilità non soltanto con la giurisprudenza che considera incompatibili con gli artt. 3 e 31 Cost. gli automatismi nell’esecuzione minorile, e che avrebbe condotto questa Corte, a pochi mesi di distanza, a dichiarare l’illegittimità costituzionale della medesima disposizione con riferimento ai condannati minorenni (sentenza n. 403 del 1997); ma anche, e soprattutto, con la serie di pronunce che, già da epoca precedente il 1997, avevano censurato automatismi simili anche nell’ambito dell’esecuzione penale concernente i condannati adulti.
In particolare, con la sentenza n. 186 del 1995 questa Corte aveva dichiarato costituzionalmente illegittima, per contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost., la disposizione di cui all’art. 54, terzo comma, ordin. penit., nella parte in cui prevedeva la revoca della liberazione anticipata in caso di condanna per delitto non colposo commesso nel corso dell’esecuzione successivamente alla concessione del beneficio, anziché stabilire che la liberazione anticipata è revocata se la condotta del soggetto, in relazione alla condanna subita, appare incompatibile con il mantenimento del beneficio. La pronuncia aveva, in particolare, stigmatizzato l’«indifferenza normativa per qualsiasi tipo di apprezzamento in ordine alla compatibilità o meno degli effetti che scaturiscono dalla liberazione anticipata rispetto al valore sintomatico che in concreto può assumere l’intervenuta condanna»; indifferenza che lasciava, secondo questa Corte, «presupporre che al fondo di una simile rigorosa opzione [stesse] nulla più che un preciso disegno volto ad assicurare, attraverso un meccanismo di tipo meramente sanzionatorio, la sola “buona condotta” del soggetto in espiazione di pena, relegando così nell’ombra proprio quella funzione di impulso e di stimolo ad una efficace collaborazione nel trattamento rieducativo che costituisce l’essenza stessa dell’istituto» (punto 2 del Considerato in diritto).
La sentenza n. 173 del 1997, di pochissimo anteriore alla n. 296 del 1997, aveva a sua volta dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 47-ter, ultimo comma, ordin. penit., nella parte in cui faceva derivare automaticamente la sospensione della detenzione domiciliare dalla presentazione di una denuncia per il reato, previsto dal comma 8 dello stesso articolo, di ingiustificato allontanamento dall’abitazione. Pur non venendo allora in considerazione il principio di presunzione di non colpevolezza, la sentenza aveva sottolineato come una «brusca ed automatica sospensione» della detenzione domiciliare, senza possibilità per il giudice di valutare caso per caso le «circostanze in cui l’allontanamento denunciato come reato è avvenuto», avrebbe potuto «interrompere senza sufficiente ragione un percorso risocializzativo e riabilitativo», compromettendo così la finalità rieducativa perseguita dalle misure alternative alla detenzione (punto 5 del Considerato in diritto).
5.3.– La giurisprudenza costituzionale successiva al 1997 ha confermato la tendenziale illegittimità costituzionale degli automatismi in materia di revoca o preclusione dei benefici e delle misure alternative, conseguenti alla commissione di nuovi reati da parte del condannato; insistendo, per converso, sulla necessità di una puntuale valutazione da parte del giudice della sorveglianza circa il significato concreto del fatto rispetto al percorso trattamentale intrapreso dal condannato e al giudizio relativo alla sua eventuale persistente pericolosità sociale.
In quest’ottica, la sentenza n. 189 del 2010 ha, ad esempio, giudicato inammissibili questioni di legittimità costituzionale relative alle preclusioni all’accesso a benefici penitenziari stabilite dall’art. 58-quater, comma 1, ordin. penit. a carico di coloro che siano stati condannati per evasione, ritenendo che il giudice rimettente non avesse esperito un’interpretazione conforme alla Costituzione della stessa. In base a tale interpretazione, il giudice avrebbe comunque dovuto «valutare, caso per caso, con motivazione approfondita e rigorosa, la personalità e le condotte concrete del condannato responsabile del reato di cui all’art. 385 cod. pen.» (punto 3 del Considerato in diritto), al fine di accertare o escludere la sua effettiva e perdurante pericolosità sociale, nonché i suoi progressi trattamentali.
Più di recente, e in via generale, questa Corte ha enunciato il «criterio “costituzionalmente vincolante”» che «esclude “rigidi automatismi e richiede sia resa possibile invece una valutazione individualizzata e caso per caso” nella materia dei benefici penitenziari (sentenza n. 436 del 1999), […] giacché ove non fosse consentito il ricorso a criteri individualizzanti “l’opzione repressiva fini[rebbe] per relegare nell’ombra il profilo rieducativo” (sentenza n. 257 del 2006)» (sentenza n. 149 del 2018, punto 7 del Considerato in diritto; nonché, nello stesso senso, sentenze n. 56 del 2021, punto 2.4. del Considerato in diritto, e n. 253 del 2019, punto 8.2. del Considerato in diritto).
Infine, allorché questa Corte si è trovata a vagliare la legittimità costituzionale della disciplina di cui all’art. 58-quater, commi 1, 2 e 3, ordin. penit., nella parte in cui dispone il divieto di concessione di taluni benefici per un periodo di tre anni dal momento della revoca di una misura alternativa, ha ritenuto che tale preclusione – pur definita «severa e opinabile dal punto di vista delle scelte di politica penitenziaria» – superasse il vaglio di legittimità costituzionale soltanto sulla base della considerazione che il tribunale di sorveglianza dispone normalmente la revoca nei soli casi più gravi di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura, e in particolare quando sia dimostrata «la necessità di una regressione del percorso rieducativo e di un almeno temporaneo ripristino del regime di detenzione, in particolare in funzione di contenimento di un concreto rischio di recidiva evidenziatosi in capo al condannato» (sentenza n. 173 del 2021, punto 3.3.3. del Considerato in diritto). Nel compiere tali valutazioni, ha proseguito questa Corte, il tribunale «non potrà non tenere conto anche delle conseguenze particolarmente gravose associate alla revoca, e in particolare della preclusione – nell’arco di un intero triennio – relativa alla concessione di ogni altra misura alternativa o beneficio penitenziario, diversi dalla liberazione anticipata» (ancora, punto 3.3.3. del Considerato in diritto); il che assicura, almeno nella decisione che determina il successivo effetto preclusivo, un margine significativo di discrezionalità in capo al giudice della sorveglianza, al di fuori di ogni automatismo incompatibile con l’art. 27, terzo comma, Cost.
5.4.– La disposizione ora all’esame azzera, invece, ogni margine valutativo in capo al magistrato di sorveglianza sul percorso trattamentale intrapreso dal detenuto e sulla sua residua pericolosità sociale, ogni qualvolta egli risulti essere stato condannato (o sia addirittura semplicemente imputato) per qualsiasi delitto doloso commesso durante l’esecuzione della pena o di una misura comunque restrittiva della libertà personale. E ciò per due anni dalla commissione del fatto: un lasso di tempo tutt’altro che trascurabile, per chi trascorre la propria vita in un carcere.
6.– Alla luce di tutte le considerazioni sin qui svolte, ritiene questa Corte che le conclusioni cui era pervenuta sul punto la sentenza n. 296 del 1997 non siano più, oggi, sostenibili; e che la disposizione censurata debba, conseguentemente, essere dichiarata costituzionalmente illegittima.
Più precisamente, le ragioni da ultimo esposte – relative all’incompatibilità dell’automatismo preclusivo rispetto alla nuova concessione di permessi premio con la necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. – comportano la caducazione dell’intera disposizione, con conseguente assorbimento delle ulteriori censure (sollevate in riferimento agli artt. 27, secondo comma, Cost.; 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU; 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 48 CDFUE) relative al frammento della disposizione concernente la posizione di chi sia soltanto imputato della commissione di un nuovo reato durante l’esecuzione della pena.
Resta altresì assorbita la questione formulata in riferimento all’art. 3 Cost., del resto meramente ancillare rispetto a quella relativa al contrasto con la funzione rieducativa della pena.
7.– Il venir meno dell’automatismo previsto dalla disposizione all’esame non esclude, naturalmente, che il magistrato di sorveglianza possa fondare la propria valutazione anche su fatti emergenti da informative di polizia o rapporti delle autorità penitenziarie, suscettibili di integrare ipotesi di reato.
In materia di permessi premio, l’art. 30-ter, comma 1, ordin. penit. conferisce al magistrato di sorveglianza il compito di accertare, da un lato, la «regolare condotta» del condannato – a sua volta dimostrata, in base al comma 8, dal «costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali» –; e, dall’altro, l’assenza di pericolosità sociale del condannato stesso.
Nel contesto di tali accertamenti, il magistrato di sorveglianza dovrà, dunque, necessariamente tener conto anche di eventuali notitiae criminis relative a condotte addebitate a chi richieda il permesso premio (come il tentativo di introdurre sostanze stupefacenti in carcere al rientro da un precedente permesso, per il quale il richiedente nel procedimento a quo risulta essere imputato). E ciò indipendentemente dalla circostanza se tali condotte integrino in concreto tutti gli elementi oggettivi e soggettivi di un reato, e siano in effetti suscettibili di dar luogo a una responsabilità penale del richiedente: profilo, questo, sul quale il magistrato di sorveglianza non può né deve esprimersi, ben potendo egli fondare il diniego di un beneficio anche su fatti rispetto ai quali il parallelo giudizio penale di cognizione si sia concluso con una pronuncia di proscioglimento per assenza di querela (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 9 settembre-17 novembre 2021, n. 41796), o addirittura di assoluzione perché i fatti – pur ritenuti sussistenti nella loro materialità – non integravano una fattispecie di reato (sezione prima penale, sentenza 29 febbraio-9 maggio 2024, n. 18351).
Essenziale è, però, che il magistrato di sorveglianza possa valutare liberamente le evidenze relative alle condotte in questione, senza essere vincolato dalle valutazioni su di esse compiute da un pubblico ministero, né a quelle contenute in una decisione giudiziaria non ancora definitiva.
Ed essenziale è altresì che, pur in presenza di una condanna definitiva del richiedente, il magistrato di sorveglianza possa – altrettanto liberamente – valutare il concreto rilievo del fatto, giudizialmente accertato in altra sede, ai fini della specifica decisione a lui affidata, tenendo conto dei contributi provenienti dalla difesa.