Corte di Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza n 29432, 14 novembre 2024
PRINCIPIO DI DIRITTO
Nel procedimento di correzione degli errori materiali, ex artt. 287- 288 e 391-bis cod. proc. civ., in quanto di natura sostanzialmente amministrativa e non diretto a incidere, in situazione di contrasto tra le parti, sull’assetto di interessi già regolato dal provvedimento corrigendo, non può procedersi alla liquidazione delle spese, non essendo configurabile in alcun caso una situazione di soccombenza, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 91 cod. proc. civ., neppure nella ipotesi in cui la parte non richiedente, partecipando al contraddittorio, opponga resistenza all’istanza.
PARTE RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 91, 287 e 288 cod. proc. civ..
Sostiene che la natura non giurisdizionale, bensì meramente amministrativa, del procedimento di correzione di errore materiale, non equiparabile a un processo di impugnazione, considerata anche la sua collocazione nell’ambito del codice del rito civile, e destinato a concludersi con un provvedimento meramente ordinatorio, rende inapplicabile l’art. 91 cod. proc. civ. in tema di condanna della parte soccombente alle spese del procedimento, poiché la situazione di soccombenza potrebbe formarsi solo nell’ambito di un procedimento giurisdizionale contenzioso.
Evidenzia che l’affermazione della natura ordinatoria e sostanzialmente amministrativa del provvedimento conclusivo del procedimento di correzione di errore materiale – come tale inidoneo a determinare una situazione di tecnica soccombenza e a fondare una legittima statuizione di condanna alle spese processuali – corrisponde ad un principio tradizionalmente affermato nella giurisprudenza di legittimità, contraddetto da un solo precedente che ha, però, riconosciuto l’ammissibilità della liquidazione delle spese nel solo caso ─ diverso da quello in esame ─ in cui la parte non ricorrente si costituisca, resistendo all’istanza di correzione, e questa venga disposta (Cass. 05/07/2019, n. 18221).
Questa pronuncia ─ che, rileva il ricorrente, è stata peraltro smentita dalla successiva giurisprudenza di legittimità, ove si è prontamente ripristinato il precedente tradizionale orientamento di segno opposto ─ viene evocata anche dal controricorrente, per resistere al ricorso straordinario per cassazione.
- Come rilevato nell’ordinanza di rimessione, la questione posta dal ricorso è oggetto di contrasto, tra un orientamento assolutamente prevalente ed uno decisamente minoritario.
- Secondo il primo orientamento, nel procedimento di correzione degli errori materiali di cui agli artt. 287 ss. e 391-bis cod. proc. civ., non è in alcun caso ammessa una statuizione sulle spese processuali.
Trattasi dell’indirizzo tradizionale da gran tempo radicato, e ancora di recente più volte confermato, nella giurisprudenza della Corte, al punto da essere spesso tralaticiamente argomentato per lo più con rinvio ai precedenti nei quali il principio è stato inizialmente affermato.
Senza pretese di completezza possono qui ricordarsi, in ordine cronologico decrescente, le pronunce di: Cass. 16/07/2024, n. 19600; 14/09/2023, n. 26566; 10/02/2023, n. 4171; 08/02/2023, n. 3866; Sez. U. 13/02/2023, n. 4353, in motivazione; Sez. U. 31/01/2023, n. 2903; 24/10/2022, n. 31309; 03/12/2021, n. 38306; 06/11/2019, n. 28610; 29/01/2019, n. 2486; 19/03/2018, n. 6701, in motivazione; 22/02/2017, n. 4610; 18/11/2016, n. 23578; 04/01/2016, n. 14; 03/11/2015, n. 22395; 17/09/2013, n. 21213; 04/05/2009, n. 10203; 28/03/2008, n. 8103; 20/04/2006, n. 9311; Sez. U. 27/06/2002, n. 9438; 08/07/1983, n. 591.
Anche la spesso citata ordinanza di Cass. Sez. U. n. 9438 del 2002, resa su istanza (accolta) di correzione di sentenza in materia di giurisdizione delle stesse Sezioni Unite, si limita ad affermare in motivazione «sulle spese non si deve provvedere (Cass. 8 luglio 1983 n. 591)».
Da tali pronunce (e in particolare da quelle più remote di Cass. n. 591 del 1983 e a Cass. n. 9311 del 2006) emergono i seguenti ricorrenti argomenti:
─ il procedimento di correzione di errori materiali, disciplinato dagli art. 287 ss. c.p.c., non ha natura giurisdizionale, bensì amministrativa; anche quando viene instaurato ad iniziativa di una sola parte, non implica l’affermazione di un diritto nei confronti dell’altra o delle altre parti;
─ dà luogo ad un mero incidente del giudizio in cui il provvedimento da correggere è stato pronunciato, che non realizza una statuizione sostitutiva di quella corretta, in quanto è diretta esclusivamente ad emendare un difetto di formulazione esteriore dell’atto scritto rispetto al suo contenuto, nel caso in cui questo sia palese sulla base della sua sola lettura;
─ l’ordinanza di correzione non ha dunque natura decisoria, perché non incide sul contenuto concettuale del provvedimento oggetto della correzione e non realizza mai una statuizione sostitutiva di quella contenuta nel provvedimento corretto; non ha, quindi, rispetto ad essa alcuna autonoma rilevanza, ripetendo, invece, da essa medesima la sua validità, così da non esprimere un suo proprio contenuto precettivo rispetto al regolamento degli interessi in contestazione;
─ nessun rilievo può attribuirsi, perciò, all’eventuale contrasto delle parti in ordine alla sussistenza o meno dell’errore materiale, trattandosi in ogni caso di provvedimento di carattere non contenzioso tendente unicamente ad adeguare la formula esteriore dell’atto rispetto al suo contenuto;
─ il provvedimento di correzione non è impugnabile; in virtù del disposto dell’art. 288, quarto comma, c.p.c., è infatti il provvedimento corretto che, relativamente alle parti corrette, può essere impugnato con lo specifico mezzo di gravame per questo di volta in volta previsto, decorrendo il relativo termine dalla data della notificazione dell’ordinanza di correzione;
─ trattandosi di procedimento in camera di consiglio, non contenzioso, ma in materia di giurisdizione volontaria, non è suscettibile di determinare una posizione di soccombenza. Tra le più recenti pronunce che hanno confermato tale indirizzo, mette conto richiamare Cass. n. 26566 del 2023 che, nel confermare la validità degli esposti argomenti, vi aggiunge anche l’esigenza di salvaguardare, con essi, la certezza del diritto in materia processuale.
Si osserva, infatti: «l’orientamento prevalente di questa Corte è … da reputarsi tuttora convincente e idoneo a regolare, nella sua pratica schematicità a beneficio della certezza del diritto in materia processuale, l’istituto della correzione degli errori materiali in ogni sua evenienza: e, pertanto, a quello deve essere assicurata continuità …
Neppure appare possibile od opportuno, quanto meno allo stato attuale dell’elaborazione della materia ed apparendo preferibile privilegiare la semplicità e la concreta immediata praticabilità delle soluzioni via via adottate in materia processuale, individuare casi peculiari in cui riconoscere invece, in deroga a tale assoluta e semplice soluzione della non liquidabilità delle spese, l’ordinaria applicabilità del principio generale di soccombenza nel processo.
Ad esempio, quelli di inammissibilità – e non già di mera infondatezza – dello stesso procedimento di correzione come attivato, soprattutto quando quella sia manifesta ed abbia reso comunque necessaria un’attività difensiva, sovente non marginale»
- Proprio in relazione a quest’ultima evenienza si registra il contrasto.
Secondo l’orientamento minoritario, infatti, ferma l’inammissibilità di una statuizione sulle spese in caso di istanza congiunta o non opposta, ad essa invece occorre far luogo ove sorga contrasto in ordine all’ammissibilità o alla fondatezza dell’istanza di correzione.
Espressione di tale indirizzo, diversamente da quanto affermato in ricorso, non è la sola richiamata ordinanza della Prima Sezione n. 18221 del 05/07/2019
La Corte, con questa pronuncia, accogliendo l’istanza di correzione ex art. 391-bis cod. proc. civ. di una ordinanza della Corte, ha condannato la parte che vi si era opposta alle spese del procedimento sul rilievo che «il principio secondo cui il procedimento di correzione degli errori materiali non dà luogo alla liquidazione delle spese, in mancanza di una parte soccombente in senso proprio ex Cass. 4 gennaio 2016, n. 14; 17 settembre 2013, n. 21213; 4 maggio 2009, n. 10203; sez. un., 27 giugno 2002, n. 9438, fa salvo il caso in cui questa opponga resistenza all’istanza e, dunque, si ponga al contrario quale parte soccombente».
Prima di essa si era pronunciata in tal senso anche la Sezione Sesta, Sottosezione 2, con ordinanza n. 32736 del 18/12/2018 che aveva accolto istanza di correzione ex art. 391-bis cod. proc. civ. di precedente ordinanza nella parte in cui, in dispositivo, aveva liquidato per mero refuso, a titolo di esborsi, in favore della parte vittoriosa, l’importo di Euro 1.000, anziché quello di Euro 200, ma avendo al contempo dichiarato inammissibile l’istanza nella parte in cui era volta al riconoscimento di ulteriori costi da imputarsi nelle «spese borsuali».
Con quella pronuncia, la Corte aveva disposto il non luogo a provvedere sulle spese del procedimento limitatamente alla richiesta di correzione ritenuta ammissibile ed aveva compensato per intero le spese in relazione alla istanza dichiarata inammissibile (è evidente che anche la compensazione è una statuizione sulle spese e, dunque, ne postula l’ammissibilità).
La citata ordinanza, in motivazione, osserva che «pur sussistendo in ipotesi — in applicazione del principio di causalità correlato a quello della soccombenza sul punto, versandosi in un caso esulante da quelli di cui all’art. 287 c.p.c. — le condizioni per una pronuncia sulle relative spese di questa fase giudiziale, le medesime vanno, però, dichiarate interamente compensate tra le parti.
La motivazione era posta nella sussistenza di gravi e giustificati motivi in dipendenza della peculiarità della questione e, soprattutto, dell’opposizione integrale della controricorrente all’accoglimento almeno per quanto di ragione (ovvero per la parte legittimamente riconducibile nell’alveo del richiamato art. 287 c.p.c.) — dell’istanza di correzione».
Indirettamente riferibile a tale orientamento sembra anche Cass. 22/06/2020, n. 12184, che, accogliendo l’istanza di correzione, dispone non doversi provvedere sulle spese «attesa la mancata resistenza della parte cui il ricorso è stato notificato»; essa quanto meno conferma l’esistenza di una diffusa sensibilità al tema in questione (sensibilità del resto emergente, sebbene con esiti opposti, anche dalla già citata motivazione di Cass. n. 26566 del 2023).
- L’ordinanza di rimessione dà evidentemente espressione a tale diverso sentire, chiaramente collocandosi a favore dell’orientamento minoritario, al quale anzi fornisce un impianto motivazionale più denso di quanto sia dato rinvenire nei precedenti che ne hanno fatto applicazione.
Ciò essenzialmente sulla base di argomenti diretti a rivedere il significato e il fondamento logico dei due presupposti tradizionalmente indicati come necessari perché si abbia soccombenza ai fini della pronuncia sulle spese: ossia il carattere «contenzioso» del procedimento al quale tale pronuncia accede e la natura «giurisdizionale» del provvedimento che lo conclude.
5.1. Sotto il primo profilo il Collegio rimettente rileva che:
─ l’orientamento tradizionale trova pieno fondamento – e va ribadito – unicamente nell’ipotesi in cui la parte non ricorrente non si costituisca o, pur costituendosi, non si opponga all’istanza di correzione, poiché in tal caso non si determina alcuna controversia tra le parti e, pertanto, all’esito della statuizione del giudice, quale essa sia, non sono distinguibili una parte vittoriosa e una parte soccombente;
─ al contrario, nella diversa ipotesi in cui la parte non ricorrente si costituisca e resista all’istanza di correzione, non può ritenersi che il procedimento resti “non contenzioso”, poiché tra le parti si determina una controversia sulla sussistenza, o meno, dei presupposti della invocata correzione e, in seguito alla statuizione del giudice, quale essa sia, si configura una parte vittoriosa e una parte soccombente.
5.2. Sotto il secondo profilo nell’ordinanza di rimessione si rileva che:
─ il rilievo della natura amministrativa del procedimento (peraltro, non argomentato e tralaticiamente affermato) trova evidentemente il suo addentellato dogmatico nella tradizionale concezione che contrapponeva all’attività giurisdizionale in senso stretto (c.d. giurisdizione contenziosa) una attività che, pur essendo devoluta ad organi giurisdizionali, si collocava al di fuori della giurisdizione.
Questa attività si caratterizzava, funzionalmente, in senso negativo, per la mancanza di un diritto soggettivo azionato e per l’assenza di contrasto di interessi tra le parti (c.d. iurisdictio inter volentes) e, in senso positivo, per la natura necessariamente “costitutiva” della statuizione del giudice, nonché, strutturalmente, per l’inidoneità al giudicato del provvedimento finale, assunto all’esito di un procedimento in camera di consiglio (artt. 737-742 cod. proc. civ.);
─ a tale distinzione, secondo la dottrina classica, seguita dalla giurisprudenza, si correlava un differente statuto processuale che escludeva dalla giurisdizione volontaria istituti tipici del processo contenzioso (quali la rinuncia agli atti, l’intervento volontario e, soprattutto, la regola della soccombenza ai fini del carico delle spese);
─ allo stato attuale della elaborazione dottrinale e delle concrete applicazioni giurisprudenziali tale distinzione è divenuta molto meno netta, sia sotto il profilo teorico, che sotto il profilo dei concreti risvolti applicativi:
- sotto il primo profilo, le autorevoli, ma risalenti, dottrine che qualificavano la giurisdizione volontaria come attività amministrativa sono definitivamente tramontate, per essere state soppiantate, dapprima, dalla concezione che vi ravvisava un genus autonomo di attività pubblica, separato sia dall’amministrazione che dalla giurisdizione e, successivamente, dall’opinione, oggi assolutamente prevalente, tesa a ricondurla nel genus dell’attività giurisdizionale, sia pure quale peculiare species di esso, distinta dalla giurisdizione contenziosa;
- sotto il secondo profilo, da un lato, la dottrina ha osservato che l’idoneità al giudicato del provvedimento non costituisce un attributo costituzionalmente indefettibile dell’attività giurisdizionale e la Corte costituzionale, condividendo tale osservazione, ha escluso l’incostituzionalità delle scelte legislative dirette ad estendere l’ambito di applicazione del rito camerale oltre i procedimenti di volontaria giurisdizione, prevedendone l’adozione in funzione dell’emanazione di provvedimenti destinati ad incidere su diritti soggettivi (Corte cost. 10/07/1975, n. 202).
Dall’altro lato, la giurisprudenza ha posto in evidenza come il principio del contraddittorio (art. 101 cod. proc. civ.), trovando fondamento nella norma costituzionale che riconosce la difesa come diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art. 24, secondo comma, Cost.), non può essere considerato una prerogativa dei soli processi contenziosi, ma deve trovare attuazione anche nei processi volontari, ogni qualvolta sia identificabile un controinteressato (cfr., ad es., in tema di liquidazione del compenso al curatore dell’eredità giacente, già Cass. 04/03/1977, n. 885; Cass.13/08/1985, n. 4433; Cass. 21/07/1988, n. 4742; più recentemente, Cass. 09/03/2006, n. 5082).
- Sulla base di tali premesse il Collegio rimettente osserva che «né la struttura camerale né la funzione volontaria del procedimento sono incompatibili con la presenza di un reale contrasto di interessi tra le parti in conflitto» e che, pertanto, nel momento in cui tale contrasto si verifica, attraverso la costituzione della parte non ricorrente e la sua resistenza all’istanza di correzione, questo deve essere composto nel rispetto del principio del contraddittorio, e ciò anche sul piano del regolamento delle spese processuali.
Esclude, inoltre, che argomento ostativo possa essere rappresentato dal fatto che, a differenza di quanto normalmente accade nell’ordinaria giurisdizione contenziosa di accertamento, di condanna o costitutiva, la parte non agisca in giudizio a tutela di un proprio diritto soggettivo sostanziale, ma ponga in essere un mero atto di impulso perché il giudice eserciti il potere-dovere di correzione di un provvedimento afflitto da un errore materiale o di calcolo.
La circostanza, infatti, che l’accertamento giudiziale abbia per oggetto, non già un diritto soggettivo sostanziale della parte, ma il dovere del giudice di provvedere al verificarsi di specifiche fattispecie previste dalla legge, rende conto della natura superindividuale dell’interesse protetto dal procedimento (il quale, sotto tale specifico profilo, potrebbe essere ricondotto a quelli che autorevole dottrina raggruppa nella categoria dei processi a contenuto oggettivo).
Ma non esclude la possibilità che le parti siano, a loro volta, portatrici di interessi privati confliggenti, i quali trovino occasionalmente il loro soddisfacimento o il loro sacrificio attraverso il provvedimento giudiziale nella misura in cui vengano, o meno, a coincidere con l’interesse superiore da esso attuato, così determinando una situazione di soccombenza in senso tecnico, che giustifica l’operatività della regola di cui all’art. 91 cod. proc. civ..
- Queste Sezioni Unite ritengono che le considerazioni svolte nell’ordinanza di rimessione, sebbene colgano alcuni aspetti di debolezza nei motivi che da decenni si tramandano a fondamento dell’orientamento tradizionale, si rivelino nondimeno inidonee a giustificarne una revisione, ancorché limitata come quella proposta.
In estrema sintesi, può in tal senso sin d’ora anticiparsi che, se è vero che un contrasto di interessi tra le parti idoneo a configurare il presupposto della soccombenza ex art. 91 cod. proc. civ. può prospettarsi anche rispetto a procedimenti di volontaria giurisdizione ed a struttura camerale, tuttavia ciò non basta a dimostrare che altrettanto possa avvenire nel procedimento di correzione di errore materiale.
A ciò ostano le peculiarità di tale procedimento, che non ne consentono una assimilazione non solo ai procedimenti contenziosi, ma neppure ai procedimenti di volontaria giurisdizione.
- Giova muovere dall’art. 91 cod. proc. civ., primo inciso, a mente del quale «Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa». Si ricavano da tale norma due dati:
─ la condanna alle spese presuppone, anzitutto, la contestuale definizione del procedimento al quale esse si riferiscono; è pronunciata con un provvedimento del giudice che abbia il carattere della definitività, nel senso che deve «chiudere» il processo «davanti a lui»; è pacifico che il riferimento alla sentenza vada inteso come sinonimo o esempio paradigmatico di provvedimento che presenti il carattere della definitività rispetto alla chiusura del processo, o della fase di esso in cui è reso, carattere dunque che può assumere, ovviamente, anche un provvedimento adottato, secondo legge, in forma di ordinanza o di decreto (v. Cass. Sez. U. 29/10/2004, n. 20957; Cass. 18/07/2002, n. 10417);
─ l’altro presupposto è quello della soccombenza, che assume anche valore di criterio che deve guidare l’individuazione del soggetto onerato delle spese; si tratta di un criterio che dà attuazione al principio chiovendiano secondo cui la necessità di agire o resistere in giudizio non deve andare a danno della parte che ha ragione; esso, dunque, contribuisce altresì a realizzare la pienezza ed effettività del diritto di azione e difesa in giudizio garantito dall’art. 24 Cost. (v. Cass. 10/04/2012, n. 5696; 10/06/2011, n. 12893).
- Come rileva il Collegio rimettente è una infondata premessa di tipo dogmatico ad aver condotto la dottrina in grande prevalenza e la giurisprudenza tradizionale a porre quale discrimine per l’applicazione della norma (benché testualmente da essa non ricavabile) l’oggetto sul quale ricade la controversia definita dal provvedimento giudiziale ed a ritenere che una vera e propria soccombenza, tale da poter giustificare una condanna alle spese, sussista solo ove si tratti di provvedimenti c.d. decisori, che decidano, cioè, tra posizioni contrapposte, su diritti o status (c.d. giurisdizione contenziosa in contrapposto alla c.d. giurisdizione volontaria).
- La riflessione dottrinale e l’evoluzione giurisprudenziale hanno invero dimostrato la fallacia di tale premessa, almeno nella parte in cui con essa si è finito con l’identificare, quasi per effetto di una illusione ottica o di un cortocircuito logico, le ragioni della inconfigurabilità di una soccombenza nei procedimenti di volontaria giurisdizione con l’oggetto e il contenuto dei relativi provvedimenti, anziché con il fatto che, normalmente, quei provvedimenti non incidono su situazioni che coinvolgano gli interessi di parti diverse in posizioni contrapposte.
Non è difficile, però, dimostrare che tale carattere non connota sempre, né necessariamente, la volontaria giurisdizione e che in non rare ipotesi è destinata a trovare spazio anche la statuizione sulle spese.
Basti pensare alle ipotesi in cui l’attività giurisdizionale volontaria ha una diretta incidenza su diritti soggettivi o status di altri soggetti, procedimenti per lo più bilaterali o plurilaterali nei quali l’interesse di un soggetto, che il giudice camerale è chiamato a proteggere, entra in conflitto con gli interessi di altri soggetti, in quanto il provvedimento non contenzioso ha incidenza diretta su diritti soggettivi o status di questi ultimi, che vengono estinti o pregiudicati da esso.
Esempi tipici sono il procedimento di revoca di amministratori e sindaci di s.p.a. per gravi irregolarità nella gestione, ex art. 2409 cod. civ., o quello di revoca di amministratore di condominio, ex art. 1129 cod. civ..
In entrambi i casi la giurisprudenza è da tempo incline a riconoscere che, allorquando in detti procedimenti sia presente un contrasto di interessi espresso da posizioni contrapposte delle parti, il diritto di difesa (art. 24 Cost.) dei titolari di quegli interessi può dirsi effettivo solo se si esprima pure nel diritto al rimborso delle spese necessariamente sostenute per la difesa di tali interessi.
A tal fine si veda, in tema di procedimento ex art. 2409 c.c., Cass. 29/12/2011, n. 30052; 13/01/2010, n. 403; 21/01/2009, n. 1571; 10/01/2005, n. 293; 05/07/2002, n. 9828.
Si veda, inoltre, in tema di revoca dell’amministratore di condominio, ancor più indicativa, Cass. Sez. U. 29/10/2004, n. 20957, che ha affermato che il provvedimento reso dalla corte di appello a seguito del reclamo proposto avverso il decreto emanato dal tribunale ai sensi del l’art. 1129 c.c., ancorché accedente ad un provvedimento di volontaria giurisdizione, deve contenere la condanna alle spese.
Si evidenzia come il principio di soccombenza si riferisca ad ogni processo, senza distinzioni di natura e di rito, e come il termine “sentenza” sia usato dall’art. 91 c.p.c. nell’accezione di provvedimento che, nel risolvere contrapposte posizioni, chiude il procedimento stesso innanzi al giudice che lo emette, accezione perciò comprensiva delle ipotesi in cui tale provvedimento sia emesso nella forma dell’ordinanza o del decreto: v. conff. Cass. 13/11/2020, n. 25682; 22/10/2013, n. 23955; 11/04/2002, n. 5194; 30/03/2001, n. 4706).
- Anche la struttura camerale o comunque semplificata del rito non autorizza, di per sé, alcuna implicazione in punto di spese processuali nel senso di escluderne a priori la liquidazione per una supposta incompatibilità; ciò non solo per la nota estensione del modello camerale (quale «contenitore neutro») alla tutela contenziosa di diritti e status operata dal legislatore, in dimensioni vieppiù crescenti, attraverso il varco aperto dall’art. 51 legge 14 luglio 1950, n. 581, con l’introduzione dell’art. 742-bis cod. proc. civ.
Questa operazione, previ i necessari molteplici aggiustamenti pretori (in primis quello della ricorribilità per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., in evidente deroga all’art. 739, comma quarto, cod. proc. civ., ma anche ovviamente quello che ammette la pronuncia sulle spese), ha superato il vaglio di costituzionalità (in particolare con la sentenza n. 202 del 27 giugno 1975, in materia di procedimento camerale per la revisione delle condizioni di divorzio) ed ha trovato esplicito riconoscimento nella giurisprudenza di questa Corte (vds. in particolare, Cass. Sez. U. 19/06/1996, n. 5629).
Inoltre, anche perché, come visto, tale implicazione non può neppure essere affermata con riferimento ai procedimenti volontari puri, camerali bilaterali o plurilaterali, laddove idonei a incidere su centri di interesse contrapposti che vengano rappresentati nel contraddittorio.
- Tali approdi palesano, dunque, la debolezza degli argomenti che, per giustificare l’esclusione della liquidazione delle spese nel procedimento di correzione, lo accostano ai procedimenti di volontaria giurisdizione o fanno leva sulla struttura camerale del procedimento.
L’inammissibilità della liquidazione delle spese nei procedimenti di volontaria giurisdizione si giustifica non per il contenuto o gli effetti propri del provvedimento che li conclude (non decisori ma attuativi di interessi), ma piuttosto perché ─ e fino a quando ─ tale provvedimento non incide su interessi contrapposti che, come tali, si siano palesati nel contraddittorio tra le parti.
- Spogliata, dunque, la questione da fuorvianti parallelismi e postulati dogmatici, rimane però da affrontare il suo nucleo centrale che sta nello stabilire se nel procedimento di correzione disciplinato dagli artt. 287 e 288 c.p.c. possa oppure no ravvisarsi, sia pure in limitati casi, una soccombenza di una parte rispetto all’altra ai sensi e per gli effetti dell’art. 91 cod. proc. civ..
A tale quesito deve darsi risposta negativa rimanendo valide e meritevoli di conferma le altre ragioni sopra già ricordate («Ragioni della decisione», § 3) poste a fondamento dell’orientamento tradizionale, con le precisazioni che seguono volte a sottrarre quelle ragioni a possibili equivoci semantici e/o concettuali.
13.1. Il procedimento di correzione degli errori materiali, anche quando viene instaurato ad iniziativa di una sola parte, non implica l’affermazione di un diritto nei confronti dell’altra o delle altre parti, né realizza una statuizione sostitutiva di quella contenuta nel provvedimento corretto.
La funzione svolta in sede e ai fini della correzione delle sentenze per emendarle da errori materiali presenta caratteri sui generis e non è contenutisticamente assimilabile nemmeno alla volontaria giurisdizione, non trattandosi di attuare interessi in funzione integrativa della volontà dei rispettivi titolari, ma piuttosto e soltanto di recuperare la corrispondenza tra l’espressione formale e il contenuto sostanziale di un già emesso provvedimento.
Gli errori emendabili, infatti, sono solo quelli che intervengono nel momento della redazione del documento, la cui semplice lettura (e, in particolare, il confronto tra la parte del provvedimento che si assume errata e la motivazione) rende palese e rilevabile ictu oculi l’incongruenza esistente fra i concetti sottesi al contenuto del documento stesso e la loro materiale esteriorizzazione.
In breve, esso consente, come è stato efficacemente detto in dottrina, di eliminare gli errori che viziano il provvedimento considerato non nella sua essenza di atto giurisdizionale, ma semplicemente come documento. 13.2. In tal senso può convenirsi con l’affermazione che attribuisce al provvedimento che lo conclude natura sostanzialmente amministrativa.
È vero che si tratta di attività comunque riservata al giudice e regolata dalla legge, ma di una pronuncia giurisdizionale non ha né i presupposti, né il contenuto, né l’effetto.
Il giudice che pronuncia sulla istanza di correzione non esercita la potestas iudicandi, della quale si è già irreversibilmente spogliato con l’emissione del provvedimento corrigendo; il provvedimento, come detto, è diretto a porre rimedio ad un vizio meramente formale, derivante da divergenza evidente e facilmente rettificabile tra l’intendimento del giudice e la sua esteriorizzazione; esso lascia intatto il contenuto della decisione corretta.
Quanto sopra, tanto che, se nessuna delle parti si avvale del procedimento di correzione, non è preclusa la possibilità di cogliere ed affermare il reale contenuto precettivo della statuizione giudiziale in via interpretativa, sulla base di una lettura coordinata del dispositivo e della motivazione (v. Cass. 31/03/2007, n. 8060, Rv. 598697).
Per tale motivo l’istanza va diretta allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza o la ordinanza non revocabile di cui si chiede la correzione (art. 287 cod. proc. civ.) e non richiede il rilascio di nuova procura, costituendo esso non una nuova fase processuale, ma un mero incidente dello stesso giudizio, diretto solo ad adeguare l’espressione grafica all’effettiva volontà del giudice, già espressa in sentenza (Cass. 17/06/2005, n. 13083).
Per lo stesso motivo la correzione dell’errore materiale (al pari dell’integrazione per le omissioni, che non sopperisce ad una carenza di pronuncia, ma alla incompletezza espressiva della pronuncia pur contenuta nella sentenza da integrare) non solo è compatibile con il giudicato, ma è riservata ad un provvedimento che non ha alcuna validità autonoma rispetto alla sentenza, ma che detta validità ripete dalla sentenza medesima, poiché a questa appartiene la volontà della dichiarazione rappresentata dal provvedimento corretto (Cass. n. 8060 del 2007, cit.).
- Sta fondamentalmente nelle esposte premesse, costituenti dati pacifici, la ragione che non consente di seguire l’orientamento minoritario.
È ben vero, infatti, che nella ipotesi in cui la parte non ricorrente si costituisca e resista all’istanza di correzione, tra le parti si determina una controversia sulla sussistenza, o meno, dei presupposti della invocata correzione, resta però il fatto che il giudice non «giudica» su tale contrasto.
Né dirime la controversia tra le parti — la cui risoluzione sarà effetto indiretto e secondario — bensì persegue una finalità che riguarda esclusivamente la corretta estrinsecazione del giudizio già espresso, attraverso un’attività di mera lettura del documento al fine di verificare se l’errore materiale o di calcolo sussista e, in tal caso, rendere l’espressione letterale del provvedimento in taluna sua parte conforme al contenuto sostanziale dello stesso quale obiettivamente e univocamente emergente dal testo nel suo complesso.
Rispetto a tale attività, rispondente all’interesse superindividuale ad una corretta e chiara estrinsecazione dell’attività giurisdizionale, l’istanza ha funzione di impulso a quello che resta comunque un adempimento di carattere meramente formale, il quale peraltro, nel caso delle sentenze e ordinanze della Corte di cassazione, è attivabile anche ex officio, ai sensi della espressa previsione di cui all’art. 391- bis cod. proc. civ., come modificato dall’art. 1-bis, comma 1, lett. i), n. 2), d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito, con modificazioni, nella legge 25 ottobre 2016, n. 197.
Proprio con riferimento alla iniziativa officiosa prevista, accanto a quella su istanza di parte, per la correzione delle sentenze o ordinanze della Cassazione, le Sezioni Unite hanno di recente significativamente avuto occasione di evidenziare (Cass. Sez. U. n. 4353 del 2023, cit.) come «debba prevalere l’esigenza di rimediare a quella incoerenza che il provvedimento palesa tra la manifestazione formale della volontà giurisdizionale espressa nella statuizione e il reale contenuto di questa».
Si tratta, infatti, «di riconoscere il giusto rilievo all’interesse di carattere generale a che la Corte assuma, anche in siffatte evenienze, l’iniziativa volta all’adozione di una misura che consente di rimuovere un errore o un’omissione incidente sulla sola esteriorizzazione del comando giudiziale.
Il detto interesse di carattere generale non può, del resto, porsi in conflitto coi diritti delle parti implicati nella decisione da rettificare, giacché il provvedimento di correzione non ha nemmeno natura giurisdizionale.
Come si sa, infatti, l’errore materiale che qui viene in discorso è quello che non riguarda l’individuazione e valutazione degli elementi rilevanti della causa e la successiva formazione del giudizio, ma ― appunto ― solo l’espressione esteriore del giudizio stesso, così da poter essere emendato attraverso un intervento di tipo amministrativo che ripristini la corrispondenza fra quanto la sentenza ha inteso dichiarare e quanto ha formalmente dichiarato (Cass. Sez. U. 14 febbraio 1983, n. 1104)».
In tale prospettiva, che è certamente valida anche per la correzione di pronunce di merito, ben può cogliersi come il contraddittorio, che è necessario instaurare quando non si tratti di istanza congiunta, svolga un ruolo ancillare e di mero ausilio al corretto esercizio di una tale funzione e al perseguimento di un interesse che solo indirettamente è di una o di entrambe le parti, principalmente essendo un interesse dell’ordinamento.
Queste essendo la finalità del procedimento e la funzione del contraddittorio da instaurare, non è possibile apprezzare, quand’anche ad istanza di una sola parte e quale che sia il suo esito, una soccombenza in senso proprio quale postulata dall’art. 91 cod. proc. civ..
- Va al riguardo rilevato che, in linea di principio, la soccombenza può essere riguardata nella sua obbiettività di situazione emergente dalla pura e semplice difformità tra la domanda e la pronuncia (difformità che sussiste anche nel caso di pronuncia sul processo: Cass. 28/03/1981, n. 1802) oppure dalla conformità tra quest’ultima e la domanda della controparte, anche se non fatta oggetto di effettiva resistenza o di contestazione (come ad es., in caso di contumacia).
Come è noto, però, si è affermata in giurisprudenza, con l’avallo di parte della dottrina, una esegesi tesa a riconoscere, a monte della soccombenza, quale criterio che sovrintende alla regolamentazione definitiva delle spese, il c.d. principio di causalità (imperniato sul quesito se la parte avrebbe o meno potuto evitare la lite o se viceversa l’ha resa necessaria col suo comportamento processuale e preprocessuale) del quale la soccombenza costituirebbe solo un’applicazione o un elemento rivelatore (Cass. 15/7/2008, n. 19456; 16/05/2003, n. 7716; 08/06/2007, n. 13430; 30/05/2000, n. 7182; 10/09/1986, n. 5539; 24/02/1986, n. 1124; 09/04/1984, n. 2266), con il che viene in definitiva introdotto nel tema un elemento soggettivo.
Sia la prima impostazione che la seconda non possono trovare corrispondenza nel procedimento di correzione connotato nei sensi sopra detti. Il giudice della correzione non si pronuncia su una domanda ma, agendo su impulso di parte o d’ufficio, verifica se un errore materiale ci sia oppure no.
Né può giovare il principio di causalità, poiché il procedimento trae origine da un errore materiale del giudice.
Nella prospettiva che attribuisce esclusiva rilevanza al risultato del procedimento, considerato nella sua oggettività, le spese del procedimento di correzione, in caso di accoglimento dell’istanza, dovrebbero essere comunque poste a carico della controparte, il che è manifestamente iniquo ove si consideri che: a) la necessità della correzione nasce, come detto, da un errore materiale del giudice; b) l’inerzia della controparte nulla toglie né aggiunge a tale dato di partenza.
Nella prospettiva causale che attribuisce rilevanza anche al comportamento pre-processuale si dovrebbe ugualmente, in caso di accoglimento dell’istanza, porre le spese a carico della controparte per non aver agito in modo da prevenire l’iniziativa dell’altra parte; soluzione, questa, però anch’essa inaccettabile, poiché il sistema positivo non offre alcun elemento per ritenere che il ricorso alla correzione presupponga una controversia tra le parti in merito all’esistenza dell’errore materiale.
Del resto, l’interesse alla correzione può sorgere indipendentemente da qualsiasi contestazione in ordine all’esistenza di tale errore (si pensi, ad es., al caso in cui debba procedersi alfa trascrizione o iscrizione della sentenza in pubblici registri), mentre la circostanza che le parti sono sempre in grado di procedere a una richiesta concorde non implica in alcun modo che alla richiesta unilaterale possa farsi luogo solo in caso di mancato accordo.
- Il contrasto cui fa riferimento l’orientamento minoritario (e nella pratica non raro a presentarsi) non riguarda mai, né potrebbe farlo, l’astratta necessità che ad un errore materiale si possa e si debba rimediare con la correzione, ma riguarda piuttosto la sussistenza dell’errore e, più propriamente, la possibilità di qualificarlo come errore materiale e non di giudizio.
Dunque, riguarda la possibilità di rimediarvi con una ordinanza di correzione che, nel caso in cui il preteso errore tale caratteristica non abbia, si risolverebbe (non in una correzione ma) in una non consentita violazione del giudicato e/o nell’ampliamento o modifica del contenuto decisorio del provvedimento e conseguentemente nella modifica dell’assetto di interessi risultante da questo.
La parte che si opponga per tal motivo ad una istanza di correzione lo farebbe ovviamente proprio a tutela di tale assetto di interessi.
In tale contesto l’ordinanza del giudice adito per la correzione che, in ipotesi, accolga l’istanza ritenendo che effettivamente di errore materiale si sia trattato, ciò fa proprio perché ha escluso di stare invece modificando in alcun modo l’assetto di interessi già definitivamente regolato dal provvedimento corretto.
Per converso, la parte che si ritenga invece lesa per la ragione opposta non si dorrà di un provvedimento di correzione ma di un provvedimento che, fuori da ogni regola processuale, ha inciso su un assetto di interessi ledendo il suo diritto.
- È dunque questa la controversia rispetto alla quale potrebbe certamente aversi un giudizio e apprezzarsi, se oggetto della cognizione del giudice, una soccombenza in senso proprio, ai sensi e per gli effetti dell’art. 91 cod. proc. civ..
Proprio sotto questo profilo emerge il rilievo esegetico da attribuire, anche ai fini qui in esame, alla norma di cui all’art. 288, quarto comma, cod. proc. civ..
Da essa si trae, infatti, che un giudizio in senso proprio su tale controversia non è quello emesso in sede di correzione (con il provvedimento che accoglie o rigetta l’istanza), ma potrà aversi solo se viene proposta impugnazione ai sensi dell’art. 288, quarto comma, cod. proc. civ., il quale, non a caso, la consente non avverso il provvedimento di correzione in sé, ma contro il provvedimento corretto, «relativamente alle parti corrette» e «nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata l’ordinanza di correzione».
Ne discende che, in mancanza di tale impugnazione (oltre che naturalmente in caso di rigetto della stessa), resta definitivamente confermato che si è trattato di vera e propria correzione, come tale inidonea a mutare in alcun modo la sostanza di quanto deciso nel provvedimento corretto.
Solo, dunque, in tale eventuale giudizio di impugnazione potrà emergere una situazione di soccombenza idonea a giustificare il regolamento delle spese ai sensi degli artt. 91 ss. cod. proc. civ..
Non invece nell’ambito del procedimento di correzione destinato in ogni caso a concludersi con un provvedimento che per definizione non modifica (ma porta solo ad una coerente espressione formale) un assetto di interessi già definitivamente regolato.
- Convergenti argomenti possono trarsi anche dalle incongruenze o quanto meno dalle difficoltà operative cui, sul piano applicativo, dà adito l’orientamento minoritario. Come detto, secondo l’orientamento predetto, una soccombenza suscettibile di giustificare la liquidazione delle spese sarebbe configurabile, nel procedimento di correzione, nel solo caso in cui la parte non ricorrente si costituisca e resista all’istanza di correzione (v. quanto in proposito già rilevato supra § 15).
Posto che una elementare esigenza di pari trattamento dovrebbe in tale ipotesi ammettere la detta statuizione non solo nel caso di rigetto dell’istanza (con liquidazione delle spese in favore della parte resistente) ma anche, nel caso opposto di un suo accoglimento, in favore della parte richiedente e a carico di quella che infondatamente si è opposta, dovrebbero in tale ultimo caso considerarsi quali spese ripetibili anche quelle relative alla proposizione dell’istanza che, però, nel momento in cui sono proposte, come detto, nulla autorizza a ritenere che siano ascrivibili sul piano causale al comportamento della controparte.
Si dovrebbe ritenere, con evidente forzatura, che sia proprio la successiva opposizione all’istanza a palesare, sia pure a posteriori, che una controversia al riguardo già esisteva, o, in alternativa, escludere dalle spese rimborsabili in favore della parte istante quelle relative alla proposizione dell’istanza e limitare la rifusione alle sole (eventuali) spese successive (memorie e/o partecipazione all’udienza camerale).
- Alla luce delle considerazioni che precedono reputano queste Sezioni Unite che debba dunque darsi continuità all’orientamento prevalente che nega, in ogni caso, l’ammissibilità di una statuizione sulle spese nel procedimento de quo.
Deve dunque essere enunciato il seguente principio di diritto:«Nel procedimento di correzione degli errori materiali, ex artt. 287- 288 e 391-bis cod. proc. civ., in quanto di natura sostanzialmente amministrativa e non diretto a incidere, in situazione di contrasto tra le parti, sull’assetto di interessi già regolato dal provvedimento corrigendo, non può procedersi alla liquidazione delle spese, non essendo configurabile in alcun caso una situazione di soccombenza, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 91 cod. proc. civ., neppure nella ipotesi in cui la parte non richiedente, partecipando al contraddittorio, opponga resistenza all’istanza».
- Nel caso di specie il Tribunale di Foggia, avendo rigettato l’istanza di correzione e pronunciato condanna alle spese nei confronti della parte istante e in favore della parte che a quella istanza si era opposta, ha atto applicazione di una regola di giudizio opposta al su enunciato principio. Devesi pertanto ritenere fondato l’unico motivo di ricorso diretto a contestare, come detto, l’ammissibilità nel procedimento de quo di una pronuncia sulle spese.
- In accoglimento del ricorso, il provvedimento impugnato deve dunque essere cassato senza rinvio, nella parte in cui statuisce sulle spese. 22. Trattandosi di questione oggetto di contrastanti pronunce all’interno delle sezioni semplici della Corte, sussistono i presupposti per la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.