Massima
La parabola dell’abuso d’ufficio è vicenda davvero intrigante e appassionante snodantesi – nel corso dei decenni – tra fasi di totale (e consapevole) “obliterazione” e momenti di straordinaria (quanto inattesa) auge; ciò in diretta correlazione con il potere di scandaglio che il Legislatore decide volta a volta di assegnare al giudice penale su condotte che costituiscono – nella fisiologia – espressione di un Potere (quello – per lo più, discrezionale – della PA) diverso da quello giudiziario, ed orientato in modo più “generalista” al perseguimento degli interessi pubblici dello Stato-Comunità: interessi anche diversi, dunque, dall’interesse specifico alla Giustizia e alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive, siccome costituzionalmente affidato alla Magistratura. Alla necessità di scongiurare la pavidità della c.d. “burocrazia difensiva” fa allora da contraltare l’altra esigenza – del pari pregnante – di assicurare alla ridetta Giustizia quegli operatori formalmente “pubblici” che nondimeno perseguano interessi (sovente privati) “diversi” rispetto a quello istituzionalmente loro affidato dalla Legge.
Crono-articolo
Nel diritto romano, un consistente ed emblematico terreno di elezione dell’”abuso d’ufficio”, come già più in generale dell’abuso “di pubblica autorità” (si rinvia sul tema all’apposito CRONO PERCORSO) affiora – massime nel contesto della tarda Repubblica, ma con significative proiezioni nel successivo Principato – in materia di concussione, con riguardo alla possibilità di chiedere in restituzione (c.d. repetundae) quanto indebitamente ottenuto da un funzionario pubblico (anche a livello provinciale) secondo schemi nel diritto moderno assimilabili all’estorsione, alla corruzione e soprattutto, per l’appunto, alla concussione, ma anche al ridetto abuso d’ufficio.
Si succedono in proposito – senza qui scandagliarne singulatim lo specifico contenuto – varie Leges: la lex Calpurnia del 149 a.C., la lex Iuna di poco successiva (viene collocata tra il 149 e il 123 a.C.), la lex Sempronia repetundarum del 123 a.C. – quest’ultima proposta da Caio Gracco – la lex Acilia del 111 a.C., le leges Servilie del 101-100 a.C., la lex Cornelia dell’ 81 a.C. varata su iniziativa di Silla e la lex Iulia del 59 a.C., proposta da Caio Giulio Cesare.
1786
Il 30 novembre viene pubblicata dallo Stato toscano la Riforma della legislazione criminale, che sarà in futuro nota come “Codice Leopoldino” o semplicemente “Leopoldina“.
Il relativo art. LXIV punisce il fatto dell’agente pubblico che agisca “trascendendo i limiti o altrimenti abusando del pubblico ministero, ufficio o impiego per fare a chicchessia qualsivoglia specie d’ingiustizia e di torto, e massimamente a vedove, pupilli ed altre miserabili persone, come ancora per favorire un reo conosciuto”.
Si tratta dell’ipotesi embrionale di abuso di “ufficio pubblico” dal quale affiora tanto, sul crinale oggettivo, lo sviamento di potere quanto, sul versante soggettivo (passivo), la disparità di trattamento della quale vengono fatti oggetto i pertinenti destinatari.
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, il cui art. 175 punisce il c.d. abuso innominato di autorità, onde “il pubblico ufficiale che, abusando del suo ufficio, ordina o commette contro gli altrui diritti qualsiasi fatto non preveduto come reato da una [diversa] speciale disposizione di legge, è punito con la detenzione da 15 giorni a 1 anno; e, qualora agisca per un fine privato, la pena è aumentata di un sesto, sostituita alla detenzione la reclusione”, palesando una speciale garanzia per il privato che sia vittima di soprusi da parte dei pubblici ufficiali.
La fattispecie si presenta già come “sussidiaria”, scattando la pertinente punizione solo in difetto di una speciale disposizione di legge penale.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, secondo la rubrica del cui art.323 – “abuso di ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge” – la nuova figura criminosa, siccome rimodellata rispetto a quella di cui al codice Zanardelli del 1889, viene tuttavia tosto confermata come palmarmente “sussidiaria”, scattando nei soli casi non previsti specificamente da altre disposizioni di legge.
Stando al testo della norma, viene punito infatti il pubblico ufficiale (e non anche, dunque, l’incaricato di pubblico servizio) che, abusando dei poteri inerenti alle proprie funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una (diversa) “particolare disposizione di legge”.
La dottrina addita l’art.323 quale sostanziale “norma di chiusura” con funzione dichiaratamente residuale, stante per l’appunto la “doppia clausola di sussidiarietà” evincibile tanto dalla rubrica quanto dal testo della disposizione incriminatrice, calibrandosi la pertinente disposizione quale strumento punitivo delle sole condotte del pubblico ufficiale che si atteggino a “favoritive” verso terzi, senza che tali condotte possano già ricadere nella sanzione penale di cui all’art.324 (interesse privato in atti d’ufficio: condotte “positive”) ovvero di cui all’art.328 (omissione di atti d’ufficio: condotte “negative”).
Più nel dettaglio, ai sensi dell’art.324 il pubblico ufficiale che, direttamente o per interposta persona, o con atti simulati, prende un interesse privato in qualsiasi atto della pubblica Amministrazione presso la quale esercita il proprio ufficio, è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni e con la multa da lire mille a lire 20.000.
Stando invece al successivo art.328, il pubblico ufficiale o (in questo caso, anche) l’incaricato di pubblico servizio che indebitamente rifiuta, omette o ritarda un atto dell’ufficio o del servizio è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a lire dieci mila (comma 1); se poi il pubblico ufficiale è un giudice o un funzionario del pubblico ministero, vi è omissione, rifiuto o ritardo, quando concorrono le condizioni previste dalla legge per esercitare contro di essi l’azione civile (comma 2).
L’abuso d’ufficio si presenta dunque come ipotesi criminosa le cui criticità vengono attutite dal fatto che essa è chiamata a recitare – nel disegno tracciato dal Codice Rocco – un ruolo marginale nel sistema, quale figura sussidiaria e blandamente punita, stretta tra le varie altre fattispecie delittuose cui risulta più precipuamente affidato il controllo di legalità sull’attività amministrativa.
Tra esse, oltre ai già richiamati interesse privato in atti d’ufficio ed omissione di atti d’ufficio, spicca anche il peculato per distrazione, ai sensi dell’art.314 del codice alla cui stregua il pubblico ufficiale o (in questo caso, anche) l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del proprio ufficio o servizio il possesso di denaro o di altra cosa mobile, appartenente alla PA, (se l’appropria, ovvero) lo distrae a profitto proprio o di altri, è punito con la reclusione da 3 a 10 anni e con la multa non inferiore a lire 1000 (comma 1), con condanna che importa l’interdizione perpetua dai pubblici uffici (temporanea laddove, per circostanze attenuanti, venga inflitta la reclusione per un tempo interiore ai 3 anni).
1948
Entra in vigore la Costituzione repubblicana che prevede, all’art.97, come i pubblici uffici debbano essere organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati “il buon andamento” e “l’imparzialità” della Pubblica Amministrazione.
Si tratta di formule “positive” che, trasposte nel loro contraltare negativo, inquadrano le due figure sintomatiche più rilevanti di c.d. eccesso di potere, ovvero lo sviamento (opposto al buon andamento) e la disparità di trattamento (opposta all’imparzialità), palesando come il ridetto eccesso di potere in null’altro si risolva, fundatim, che in una (gravissima) “violazione di legge costituzionale”.
1965
Il 4 febbraio esce la sentenza della Corte costituzionale n.7, che dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 323 del Codice penale, sollevata dal Giudice istruttore del Tribunale di Foggia con ordinanza del 27 aprile 1964, in riferimento agli artt. 3 e 25, secondo comma, della Costituzione (tassatività e sufficiente determinatezza).
L’art. 323 del Codice penale – principia la Corte, con riguardo ad una norma applicata peraltro marginalmente e per lo più ad ipotesi bagatellari – non è in contrasto col secondo comma dell’art. 25 della Costituzione, giacché la fattispecie ivi prevista è determinata in modo da non lasciare alla discrezionalità dell’interprete la configurazione del reato, come si assumerebbe invece nell’ordinanza di rimessione.
Ed invero, prosegue il Collegio, secondo la norma impugnata il fatto punibile consiste nella trasgressione, da parte del pubblico ufficiale, di un dovere inerente all’ufficio, quando essa si concreti in un atto o, comunque, in un comportamento illegittimo, posto in essere con dolo.
In base a questa individuazione degli elementi del reato, si deve riconoscere che il precetto penale in esame, mentre corrisponde all’intento di reprimere quei comportamenti dei pubblici ufficiali, che, pur essendo illegittimi, non rientrerebbero in un titolo specifico di reato, dà nello stesso tempo sufficiente garanzia che il pubblico ufficiale sia al coperto dalla possibilità di arbitrarie applicazioni della legge penale, il timore delle quali nuocerebbe anch’esso al buon andamento della pubblica Amministrazione e al sollecito perseguimento dei suoi fini.
Né vale in contrario il rilievo che per determinare, in concreto, la sussistenza del reato si rende necessario prendere in esame l’eventuale violazione di norme non contenute nelle leggi penali, quali, nel caso di specie, le norme del Codice di procedura civile su gli obblighi del custode giudiziario. A parte che la possibilità di considerare come illecito penale la violazione di norme inerenti all’esercizio di una pubblica funzione, ovunque siano contenute, non dà luogo a dubbi di costituzionalità; nel caso dell’art. 323 del Codice penale elemento essenziale per la sussistenza del reato è il dolo specifico; vale a dire, l’intenzione di recare ad altri un danno o procurargli un vantaggio.
La proposta questione – prosegue ancora la Corte – non ha fondamento neanche in riferimento all’art. 3 della Costituzione, con specifico riguardo alla punizione dei pubblici ufficiali e alla mancata repressione, in parallelo e con riguardo alle medesime condotte, degli incaricati di pubblico servizio.
È propria giurisprudenza costante, rammenta il Collegio, che il principio di eguaglianza enunciato in tale articolo consente al legislatore ordinario di emanare norme differenziate rispetto a situazioni obbiettivamente diverse, e che il giudizio sulla parità o diversità delle situazioni spetta insindacabilmente allo stesso legislatore nei limiti del rispetto della ragionevolezza e degli altri principi costituzionali (sentenza n. 81 del 1963).
Ora, non può ritenersi che contrasti col criterio della ragionevolezza o con principi costituzionali l’aver collegato la responsabilità penale con la qualità di pubblico ufficiale, senza estenderla alla diversa situazione giuridica dell’incaricato di pubblico servizio.
1990
Il 26 aprile viene varata la legge n. 86, recante modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, la quale, estromette dalla fattispecie del peculato la forma per distrazione, lasciando operativo nell’art.314 c.p. il solo peculato per appropriazione, ed abroga ad un tempo l’art.324 c.p., e con esso il reato di interesse privato in atti d’ufficio.
Viene ad un tempo riscritto dal Legislatore proprio l’art. 323 cod. pen., nella prospettiva di far refluire nel “nuovo” abuso d’ufficio una parte delle condotte già colpite dalle fattispecie abrogate, con un filtro – almeno negli intenti – di maggiore selettività; a questo fine, viene previsto che l’abuso d’ufficio – esteso ormai anche agli incaricati di pubblico servizio – debba essere finalizzato ad un vantaggio, proprio od altrui, «ingiusto», o a un danno altrui del pari «ingiusto», con la previsione di un sensibile aumento della pena qualora il vantaggio ingiusto (per sé o per i terzi) si caratterizzi per la pertinente natura patrimoniale.
A valle della riforma, l’abuso d’ufficio acquista di colpo una centralità applicativa in precedenza ad esso ignota; tale “picco” di operatività si presenta tuttavia non accompagnato da un reale incremento di determinatezza della fattispecie tipica, la quale resta tutta incentrata su una condotta in sé vaga – quale quella di «abusa[re] del[l]’ufficio» – senza che il requisito dell’ingiustizia del vantaggio o del danno, oggetto del dolo specifico, si riveli realmente capace di delimitare adeguatamente i confini del pertinente tipo criminoso.
Il rivisitato art. 323 cod. pen. diviene peraltro – ciò è assai significativo ratione materiae – il nuovo strumento per un penetrante sindacato della magistratura penale sull’operato dei pubblici funzionari, adombrando il costante spettro dell’avvio di indagini a loro danno, con riguardo ad una fattispecie criminosa priva di consistente determinatezza e, dunque, dai confini di applicabilità labili e incerti.
Il pertinente tenore testuale punisce infatti il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, “abusa del proprio ufficio”, con una sanzione che, se il fatto non costituisce più grave reato, si compendia nella reclusione fino a due anni, mentre se il fatto è commesso per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, consiste addirittura nella reclusione da 2 a 5 anni.
1997
Il 16 luglio viene varata la legge n.234, recante modifica dell’art. 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del codice di procedura penale; stando alla nuova formulazione della norma, viene punito – salvo sempre che il fatto non costituisca un più grave reato – il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che nello svolgimento delle sue funzioni o del servizio, in violazione delle norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, “intenzionalmente” procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.
Con questa novella, a distanza di pochi anni dal precedente intervento del 1990, il Legislatore corre ai ripari rispetto ad un sempre più penetrante scandaglio della discrezionalità amministrativa da parte del giudice penale, siccome via via registratosi nella prassi, riscrivendo una seconda volta la pertinente norma incriminatrice.
Dismesso il generico riferimento all’abuso dell’ufficio (che resta solo nella rubrica dell’art. 323 cod. pen.), la condotta tipica viene individuata nella «violazione di norme di legge o di regolamento», ovvero, in alternativa, nella omessa astensione «in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti».
La fattispecie si trasforma, altresì, in reato di evento, essendo richiesta, ai fini del relativo perfezionamento, l’effettiva verificazione dell’ingiusto danno o dell’ingiusto vantaggio patrimoniale (il vantaggio non patrimoniale perde rilevanza); evento che deve essere oggetto di dolo intenzionale.
Nel risagomare la figura, il Legislatore agisce con il trasparente intento di renderne più nitidi i confini, impedendo, in specie, proprio un sindacato del giudice penale sull’esercizio della discrezionalità amministrativa. Il riferimento alla «violazione di norme di legge o di regolamento», evocando uno dei vizi tipici dell’atto amministrativo, dovrebbe infatti servire a metter fuori gioco, a contrario, l’eccesso di potere, non menzionato expressis verbis.
Le intenzioni del legislatore dovranno tuttavia fare i conti con le soluzioni della giurisprudenza, la quale, dopo una fase iniziale di ossequio allo spirito della novella, virerà verso interpretazioni estensive degli elementi della pertinente fattispecie, atte a travalicare i rigidi paletti che la novella legislativa del 1997 ha inteso fissare e a riaprire ampi scenari di controllo del giudice penale sull’attività amministrativa discrezionale.
1998
Il 29 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.1192, onde, in tema di abuso di ufficio, a seguito della nuova fattispecie di cui all’art. 323 c.p. introdotta con la legge 16 luglio 1997, n. 234, trova applicazione l’art. 2, comma terzo, c.p. (c.d. abrogatio sine abolitione), secondo cui il giudice, nella valutazione comparativa della norma abrogata e di quella nuova, disciplinanti la medesima materia dell’abuso funzionale del pubblico ufficiale, deve individuare e applicare quella più favorevole al reo, essendogli inibito di “costruire” una terza disposizione che contenga gli elementi più favorevoli dell’una e dell’altra norma.
Al riguardo, precisa la Corte, non vi è dubbio che la nuova formulazione normativa sia più favorevole al reo, in quanto, a parte il più mite trattamento sanzionatorio, essa riduce grandemente l’area dell’illecito penale rispetto al passato, sia perché l’abuso di ufficio può commettersi ora solo attraverso più limitate condotte (violazione di legge o di regolamento o mancata astensione in caso di interesse proprio o di un congiunto), sia perché la fattispecie è ora strutturata come un reato di evento, che si consuma solo con la realizzazione di un ingiusto vantaggio patrimoniale dell’agente o di altri o di un danno ingiusto di altri.
Inoltre, quanto all’elemento soggettivo, non è più richiesto il dolo specifico (fine di procurare un ingiusto vantaggio o di arrecare un ingiusto danno) ma semplicemente il dolo generico (consapevolezza e volontà di procurare un ingiusto vantaggio o di arrecare un ingiusto danno), mentre l’espressione “intenzionalmente” esclude che l’evento possa essere attribuito all’agente a titolo di dolo eventuale.
Su altro versante, per il Collegio l’abuso di ufficio, come configurato dalla nuova fattispecie introdotta con la legge 16 luglio 1997, n. 234, annovera la realizzazione dell’ingiusto vantaggio patrimoniale, cioè la verificazione dell’evento del reato, che deve assumersi integrata nel momento in cui risulti ampliata la sfera delle situazioni soggettive facenti capo ai destinatari dell’atto amministrativo.
Nel caso di specie, per la Corte va ritenuto sussistente un vantaggio patrimoniale in considerazione del rilascio ai destinatari di una concessione edilizia illegittima, produttiva in capo ai beneficiari medesimi del diritto ad edificare, a nulla rilevando la realizzazione materiale della costruzione abusiva.
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Il 9 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.5820, Mannucci, onde per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità.
Si ha pertanto per il Collegio violazione di legge, rilevante a norma dell’art. 323 cod. pen., non solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito.
Anche in questa ipotesi si realizza – per giurisprudenza prevalente – un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione.
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Il 29 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.5118 alla cui stregua in tema di abuso di ufficio, anche precedentemente alla modifica dell’art. 323 recata dalla legge n. 234 del 1997, ai fini della integrazione dell’elemento oggettivo del reato è richiesto che l’abuso si realizzi attraverso l’esercizio da parte del pubblico ufficiale di un potere per scopi diversi da quelli imposti dalla natura della funzione ad esso attribuita.
Ne consegue che quando il pubblico ufficiale agisca del tutto al di fuori dell’esercizio delle proprie funzioni il reato in questione non è per la Corte configurabile.
Per il Collegio, nel caso di specie va escluso che rientri nei doveri del comandante di un posto di polizia aeroportuale la denuncia di ritrovamento presso il competente ufficio comunale di un oggetto smarrito da un viaggiatore (denuncia che peraltro, secondo l’accusa, non ha avuto un contenuto veritiero, essendo la cosa smarrita stata rinvenuta da altro dipendente del posto di polizia ed essendosi il comandante sostituito a quest’ultimo allo scopo di appropriarsene facendolo assegnare quale rinvenitore di essa).
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Il 15 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.5820, alla cui stregua, pur prescindendo la figura dell’innovato art. 323 c.p. dalle patologie dell’atto amministrativo e rimanendo la condotta integrata dall’ingiusto vantaggio patrimoniale o dal danno ingiusto procurato nello svolgimento delle funzioni in violazione di norme di legge o di regolamento, la condotta da prendere in considerazione deve inerire all’esercizio del potere attribuito dalla normativa di base dell’ufficio di cui fa parte il pubblico ufficiale.
E, trattandosi di funzione, cioè di potere attribuito in vista di uno scopo pubblico, che del potere medesimo costituisce la causa intrinseca di legalità, si ha per la Corte violazione di legge non solo quando la condotta sia stata svolta in contrasto con le forme, le procedure, i requisiti richiesti, ma anche quando essa non si sia conformata al presupposto stesso da cui trae origine il potere, caratterizzato, a differenza dell’autonomia negoziale, dal vincolo di tipicità e di stretta legalità funzionale.
Pertanto, chiosa significativamente il Collegio, il potere esercitato per un fine diverso da quello voluto dalla legge, e quindi per uno scopo personale od egoistico, e comunque estraneo alla pubblica amministrazione (nel caso di specie, invio da parte di un assessore comunale di una missiva indirizzata al sindaco ed alla giunta comunale con la quale si lamentava la condotta del comandante dei vigili urbani), si pone fuori dello schema di legalità e rappresenta nella relativa oggettività offesa dell’interesse tutelato.
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Il 4 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.6561 onde la nuova formulazione dell’art. 323 c.p., introdotta con la L. 17 luglio 1997, n. 234, ha meglio definito la condotta tipica del pubblico ufficiale, sostituendo la generica formula «abusa del suo ufficio» con la descrizione di un comportamento non più a forma libera, ma vincolata, consistente nella violazione di norme di legge o di regolamento, oppure nella violazione del dovere di astensione.
Il delitto, prosegue il Collegio, è stato anche trasformato da reato di mera azione in reato di azione a reato di evento, giacché elemento essenziale della fattispecie materiale non è più soltanto la condotta illegittima del pubblico ufficiale integrante l’abuso, ma altresì l’ingiusto vantaggio patrimoniale che quella condotta procura o l’ingiusto danno che essa arreca. Per integrare il reato di abuso di ufficio, non basta dunque che il pubblico ufficiale abusi delle sue funzioni, ma occorre, secondo la precedente formulazione della norma, introdotta dall’art. 13 della L. 26 aprile 1990, n. 86, che l’azione illecita miri a procurare un vantaggio ingiusto, o, secondo la nuova configurazione del reato, prevista dall’art. 1 della L. 16 luglio 1997, n. 234, che effettivamente lo procuri.
Affinché il «vantaggio» previsto dall’art. 323 c.p. come necessario per la configurazione del reato possa considerarsi «ingiusto», conclude la Corte, occorre la doppia condizione che esso sia prodotto non iure, cioè per mezzo di un atto illegittimo, e inoltre che sia contra ius, vale a dire che il risultato dell’abuso si presenti come contrario all’ordinamento giuridico, di modo ceé l’ingiustizia riguardi non solo il fatto causativo, ma anche il risultato dell’azione.
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Il 9 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.2662, onde deve assumersi integrare il reato di abuso di ufficio, anche dopo la riforma dell’art. 323 c.p., introdotta con l’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234, sotto il profilo della violazione di legge (art. 279 del T.U. 1934, n. 383), con specifico riferimento all’inottemperanza del dovere di astensione, la condotta dell’amministratore comunale che partecipi alla deliberazione di approvazione di variante di piano regolatore, qualora si profili un interesse concreto proprio o di un prossimo congiunto, nonostante l’atto in questione abbia la natura di atto amministrativo di carattere generale.
Nella fattispecie, a seguito dell’approvazione della variante, sono divenuti edificabili alcuni terreni di proprietà dei congiunti dell’amministratore comunale, con connesso “interesse proprio” in conflitto con quello pubblico da perseguirsi.
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Il 28 dicembre esce la sentenza della Corte costituzionale n.447 che – salvando la fattispecie incriminatrice – dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 323 del codice penale (Abuso d’ufficio), come sostituito dall’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’art. 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli artt. 289, 416, 555 del codice di procedura penale), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Bolzano e dal tribunale di Firenze; dichiara altresì la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 323 del codice penale (Abuso d’ufficio), come sostituito dall’art. 1 della predetta legge n. 234 del 1997, sollevata, in riferimento all’art. 79 della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Bolzano.
La questione sollevata – principia il Collegio – riguarda il nuovo testo dell’art. 323 del codice penale (Abuso d’ufficio), quale risulta dall’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’art. 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli artt. 289, 416, 555 del codice di procedura penale).
Tale nuovo testo, limitando la punibilità alle condotte di abuso commesse in violazione di norme di legge o di regolamento o in violazione di obblighi di astensione, che procurino intenzionalmente ingiusti vantaggi patrimoniali all’agente o a terzi, ovvero rechino intenzionalmente ingiusto danno ad altri, lascerebbe sguarnite di sanzione penale condotte altrettanto o più gravemente riprovevoli dal punto di vista sociale, e lesive dei principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.
In tal modo, stando all’ordinanza di rimessione, si realizzerebbero una disparità di trattamento di situazioni analoghe, sulla base di elementi distintivi irrazionali, ed una disuguaglianza fra i cittadini, con violazione dell’art. 3, primo comma, nonché – secondo il giudice di Bolzano – dell’art. 3, secondo comma, della Costituzione; e sarebbe violato altresì l’art. 97 della Costituzione.
Ad avviso del giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Bolzano, inoltre, sarebbe violato l’art. 79 della Costituzione, in quanto il legislatore avrebbe, in sostanza, realizzato un’amnistia mascherata, senza i presupposti di ordine procedimentale richiesti dalla norma costituzionale.
La questione, sotto i profili dell’art. 3 e dell’art. 97 della Costituzione, è tuttavia per la Corte inammissibile.
Le censure mosse dai remittenti sono volte a lamentare che il legislatore, nel ridefinire la fattispecie dell’abuso d’ufficio, lo abbia fatto in senso restrittivo, escludendo dalla medesima condotte che, a loro giudizio, avrebbero invece richiesto di essere, parimenti, sanzionate penalmente.
Gli stessi remittenti non indicano l’esistenza di una norma costituzionale suscettibile di costituire essa stessa la base legale dell’incriminazione di tali condotte, e che possa dunque ritenersi direttamente violata dalla scelta del legislatore. Si limitano, da un lato, a lamentare una mera differenza di trattamento, che sarebbe di per sé ingiustificata, fra le condotte rese non più punibili e quelle per le quali permane invece la punibilità (senza prospettare una ipotetica discriminazione fra i cittadini operata sulla base di fattori vietati dall’art. 3, primo comma, della Costituzione); dall’altro lato, a sostenere che i principi costituzionali di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione non sarebbero adeguatamente tutelati a causa della esclusione di taluni tipi di condotte dalla fattispecie di reato.
Ma nessuna di queste prospettazioni – chiosa il Collegio – può valere a fondare una questione di legittimità costituzionale relativamente ad una norma incriminatrice che si assuma troppo restrittiva nella individuazione delle condotte punite, in vista di una pronuncia della Corte costituzionale che possa estenderne la portata.
È principio essenziale in campo penale, e garanzia fondamentale per la persona, che non si possa addebitare a titolo di reato alcuna condotta diversa ed ulteriore rispetto a quelle in tal senso esplicitamente qualificate da una legge in vigore al momento della commissione del fatto (art. 25, secondo comma, della Costituzione). Solo il legislatore dunque, chiosa la Corte, può, nel rispetto dei principi della Costituzione, individuare i beni da tutelare mediante la sanzione penale, e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena, nonché stabilire qualità e quantità delle relative pene edittali.
È il principio nullum crimen, nulla poena sine lege, a cui si riconducono sia la riserva di legge vigente in materia penale, sia il principio di determinatezza delle fattispecie penali (non potendosi lasciare che la individuazione della condotta incriminata dipenda da valutazioni discrezionali del giudice, e quindi non sia prevedibile da parte del destinatario della legge penale: cfr. sentenza n. 364 del 1988), sia il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici.
Al di fuori dei confini delle fattispecie di reato, come definiti dalla legge, riprende vigore per la Corte il generale divieto di incriminazione, anche là dove siano configurabili altre ipotesi di illecito e di responsabilità non sanzionate penalmente.
Discende da ciò per il Collegio – secondo quanto costantemente affermato nella propria giurisprudenza (cfr., tra le molte, sentenze n. 226 del 1983, n. 49 del 1985, n. 411 del 1995; ordinanze n. 288 del 1996, n. 355 del 1997) – che l’eventuale addebito al legislatore di avere omesso di sanzionare penalmente determinate condotte, in ipotesi socialmente riprovevoli o dannose, o anche illecite sotto altro profilo, ovvero di avere troppo restrittivamente definito le fattispecie incriminatrici, lasciandone fuori condotte siffatte, non può, in linea di principio, tradursi in una censura di legittimità costituzionale della legge, e tanto meno in una richiesta di “addizione“ alla medesima mediante una pronuncia di questa Corte.
Né vale invocare in contrario, prosegue il Collegio, l’ipotetico pregiudizio che potrebbe discendere a beni costituzionalmente tutelati, quali, nella specie, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione (peraltro evocati dall’art. 97 della Costituzione in relazione alla organizzazione dei pubblici uffici).
Le esigenze costituzionali di pertinente presidio non si esauriscono infatti nella (eventuale) tutela penale, ben potendo invece essere soddisfatte con diverse forme di precetti e di sanzioni (cfr. sentenza n. 317 del 1996); ché anzi l’incriminazione costituisce una extrema ratio (cfr. sentenze n. 487 del 1989, n. 282 del 1990, n. 317 del 1996), cui il legislatore ricorre quando, nel proprio discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o la insufficienza o la inadeguatezza di altri mezzi di tutela.
Per gli stessi motivi, non può, in linea di principio, tradursi in una questione di legittimità costituzionale della norma incriminatrice il rilievo che altre condotte, diverse da quelle individuate come fatti di reato dal legislatore, avrebbero dovuto essere a loro volta incriminate per ragioni di parità di trattamento di situazioni omogenee, o in nome di esigenze di ragionevolezza o di armonia dell’ordinamento.
La mancanza della base legale – costituzionalmente necessaria – dell’incriminazione, cioè della scelta legislativa di considerare certe condotte come penalmente perseguibili, preclude radicalmente per il Collegio la possibilità di prospettare una estensione ad esse delle fattispecie incriminatrici attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale.
La questione è invece manifestamente infondata, chiosa ancora la Corte, sotto il profilo – prospettato dal solo giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Bolzano – della asserita violazione dell’art. 79 della Costituzione, perché il legislatore avrebbe mascherato sotto le spoglie di una parziale abolitio criminis una sostanziale amnistia, non deliberata secondo le regole costituzionali.
L’art. 1 della legge n. 234 del 1997 ha ridefinito in senso più restrittivo la fattispecie dell’abuso d’ufficio, tenendo anche conto dei dubbi di insufficiente determinatezza che venivano sollevati sulla fattispecie descritta nel testo previgente: e lo ha fatto in via stabile, non già in vista di una eccezionale cancellazione di reati già commessi in un determinato periodo di tempo. Siffatta scelta non ha nulla a che fare con una amnistia, mascherata o meno: onde non vi è luogo per lamentare una violazione dell’art. 79 della Costituzione.
1999
Il 29 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.5488 alla cui stregua non è idonea a determinare la violazione di legge rilevante ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 323 c.p. la violazione di norme di legge aventi carattere procedurale.
Nel caso di specie, la Corte esclude la configurabilità del reato nella condotta di un preside di un istituto scolastico che, nella ipotesi accusatoria, non si è attenuto ai criteri fissati dall’art. 3 D.P.R. n. 417 del 1974 circa le modalità per l’esercizio dei poteri attinenti alla formazione delle classi, all’assegnazione ad esse dei docenti e alla determinazione dell’orario.
* * *
Il 19 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.13341 alla cui stregua in tema di abuso di ufficio, è idonea a integrare la violazione di legge rilevante ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 323 c.p. la inosservanza da parte del pubblico ufficiale del dovere di motivazione del provvedimento e della forma scritta imposti dall’art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 e, ancor prima, dall’art. 7 della L. 9 maggio 1989, n. 168.
Nel caso di specie, la Corte assume configurabile il delitto al cospetto della condotta di un rettore universitario che ha conferito numerosi incarichi retribuiti di consulenza e assistenza legale a un professionista in forma verbale e senza previa audizione e interpello del consiglio di facoltà.
2004
Il 23 giugno esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.28389, Vetrella, onde per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità.
Si ha pertanto per il Collegio violazione di legge, rilevante a norma dell’art. 323 cod. pen., non solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito.
Anche in questa ipotesi si realizza – per giurisprudenza prevalente – un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione.
2005
*Il 29 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.12196, Delle Monache, onde per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità.
Si ha pertanto per il Collegio violazione di legge, rilevante a norma dell’art. 323 cod. pen., non solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito.
Anche in questa ipotesi si realizza – per giurisprudenza prevalente – un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione.
Sez. 6, n. 38965 del 18/10/2006, Fiori, Rv. 235277; Sez. 6, n. 41402 del 25/09/2009, D’Agostino, Rv. 245287; Sez. 5, n. 35501 del 16/06/2010, De Luca, Rv. 248496; Sez. 6, n. 35597 del 05/07/2011, Barbera).
2006
*Il 24 novembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.38965, Fiori, onde per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità.
Si ha pertanto per il Collegio violazione di legge, rilevante a norma dell’art. 323 cod. pen., non solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito.
Anche in questa ipotesi si realizza – per giurisprudenza prevalente – un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione.
Sez. 6, n. 41402 del 25/09/2009, D’Agostino, Rv. 245287; Sez. 5, n. 35501 del 16/06/2010, De Luca, Rv. 248496; Sez. 6, n. 35597 del 05/07/2011, Barbera).
2009
*Il 28 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.41402, D’Agostino, onde per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità.
Si ha pertanto per il Collegio violazione di legge, rilevante a norma dell’art. 323 cod. pen., non solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito.
Anche in questa ipotesi si realizza – per giurisprudenza prevalente – un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione.
Sez. 5, n. 35501 del 16/06/2010, De Luca, Rv. 248496; Sez. 6, n. 35597 del 05/07/2011, Barbera).
2010
*Il 01 ottobre esce la sentenza della V sezione della Cassazione n.35501, De Luca, onde per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità.
Si ha pertanto per il Collegio violazione di legge, rilevante a norma dell’art. 323 cod. pen., non solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito.
Anche in questa ipotesi si realizza – per giurisprudenza prevalente – un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione.
Sez. 6, n. 35597 del 05/07/2011, Barbera).
2011
Il 15 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.34116, alla cui stregua l’art.323 c.p., nella nuova formulazione del 1997, deve assumersi essere stato trasformato in un reato di evento (richiedendosi un «ingiusto vantaggio patrimoniale» ovvero «un danno ingiusto») a condotta vincolata commissiva («in violazione di norme di legge o di regolamento») od omissiva («ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti»), caratterizzato dal dolo intenzionale («intenzionalmente», riferito solo all’evento, gli altri elementi della fattispecie palesandosi oggetto di dolo generico.
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*Il 20 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.35597, Barbera, onde per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità.
Si ha pertanto per il Collegio violazione di legge, rilevante a norma dell’art. 323 cod. pen., non solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito.
Anche in questa ipotesi si realizza – per giurisprudenza prevalente – un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione.
2012
Il 6 novembre viene varata la legge n.190, recante disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, che inasprisce la pena edittale del reato di abuso d’ufficio la quale, già fissata nella reclusione da sei mesi a tre anni, viene elevata dall’art. 1, comma 75, lettera p), alla reclusione da 1 a 4 anni.
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Il 10 gennaio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.155, che recupera nell’area di rilevanza penale gli atti amministrativi viziati da eccesso di potere nella forma dello sviamento, apparentemente esclusi dal disposto testuale dell’art.323 c.p., siccome riscritto nel 1997.
Per il Collegio infatti la “violazione di legge” cui fa riferimento l’art. 323 cod. pen. ricorre non solo quando la condotta del pubblico funzionario si ponga in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando sia volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, dando luogo appunto a un vizio di sviamento: vizio che integrerebbe la violazione di legge, perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione.
Per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, chiarisce il Collegio, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità.
Secondo la giurisprudenza nettamente prevalente della medesima Corte, si ha pertanto violazione di legge, rilevante a norma dell’art. 323 cod. pen., non solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito.
Anche in questa ipotesi si realizza un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione (in termini analoghi, tra le tante, Sez. 6, n. 5820 del 09/02/1998, Mannucci, Rv. 211110; Sez. 6, n. 28389 del 19/05/2004, Vetrella, Rv. 229594; Sez. 6, n. 12196 dell’11/03/2005, Delle Monache, Rv. 231194; Sez. 6, n. 38965 del 18/10/2006, Fiori, Rv. 235277; Sez. 6, n. 41402 del 25/09/2009, D’Agostino, Rv. 245287; Sez. 5, n. 35501 del 16/06/2010, De Luca, Rv. 248496; Sez. 6, n. 35597 del 05/07/2011, Barbera).
Non interessa in questa sede, chiosa ancora il Collegio, verificare se tali arresti s’attaglino a tutta l’azione amministrativa. Certamente valgono allorché si tratta di definire l’ambito dell’attività per legge doverosa dei giudici. La peculiarità della categoria sta nel fatto che per dettato costituzionale i giudici sono soggetti alla legge ed esercitano una funzione, quella giurisdizionale, che postula terzietà e imparzialità e si attua in un giusto processo il cui primo requisito è d’essere regolato dalla legge.
Se si fa riferimento ai «doveri propri della pubblica funzione esercitata», si parla dunque anzitutto e inequivocabilmente di terzietà e di indifferenza rispetto agli interessi e ai soggetti coinvolti nel processo e di rispetto della legge, tassativa o ordinatoria che sia.
Neppure – prosegue il Collegio – può indurre in errore, per il giudice, il riferimento che sovente si fa alla discrezionalità per indicare i relativi poteri di valutazione del merito. Se per discrezionalità s’intende, come per la pubblica amministrazione, la valutazione d’opportunità che attiene alla fase di ponderazione degli interessi, l’attività del giudice non ha di regola nulla di discrezionale.
Il relativo agire in funzione di arbitro e regolatore di una pretesa di parte non è connotato da libertà della scelta ma, come detto, dal principio di legalità ed è in tali termini sempre doveroso.
Altra cosa è la cosiddetta discrezionalità che coincide con la valutazione di merito che compete al giudice effettuare allorché si tratta di ricostruire la materialità del fatto (sostanziale o processuale) in vista della qualificazione di esso dal punto di vista della legge, cui in ogni caso consegue il cosiddetto “potere-dovere” – ossia il dovere che sorge da un potere (recte, da una potestà) a esercizio necessario – della applicazione della norma al caso concreto in essa sussumibile.
Altra cosa ancora – conclude la Corte – è il giudizio secondo equità o la commisurazione equitativa del quantum, che non riguardano le situazioni in esame e che restano in ogni caso ancorati a parametri previsti dalla legge nonché al rispetto del principio di eguaglianza, comportante in primo luogo rispetto della par condicio civium.
2013
Il 15 marzo esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.12370 alla cui stregua tra le innovazioni più significative della riforma dell’abuso d’ufficio risalente al 1997 vi è la c.d. “doppia ingiustizia”, dovendo palesarsi contra ius tanto la condotta del soggetto agente quanto l’evento di vantaggio, ormai solo patrimoniale.
2015
Il 20 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.46096, che si inserisce nel solco giurisprudenziale onde la «violazione di norme di legge», rilevante come abuso d’ufficio, può anche – in guisa tutt’affatto “estensiva” – essere integrata dall’inosservanza del generalissimo principio di imparzialità della pubblica amministrazione, enunciato dall’art. 97 Cost..
Tale principio per il Collegio, in particolare nella parte in cui vieta al pubblico funzionario di operare ingiustificati favoritismi o intenzionali vessazioni, esprime difatti una precisa regola di comportamento di immediata applicazione.
2016
*Il 28 aprile esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.17676 alla cui stregua tra le innovazioni più significative della riforma dell’abuso d’ufficio risalente al 1997 vi è la c.d. “doppia ingiustizia”, dovendo palesarsi contra ius tanto la condotta del soggetto agente quanto l’evento di danno.
2018
*Il 29 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.4140 alla cui stregua tra le innovazioni più significative della riforma dell’abuso d’ufficio risalente al 1997 vi è la c.d. “doppia ingiustizia”, dovendo palesarsi contra ius tanto la condotta del soggetto agente quanto l’evento di vantaggio, ormai solo patrimoniale.
* * *
Il 21 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.22523 alla cui stregua in tema di abuso d’ufficio, la prassi amministrativa di disapplicare un regolamento comunale non abilita di per sé il pubblico ufficiale ad invocare la condizione soggettiva d’ignoranza inevitabile della legge penale che vale ad escludere l’elemento soggettivo del pertinente reato.
Ciò in quanto non può attribuirsi per la Corte valenza scriminate ad un comportamento contra legem alla cui formazione egli stesso abbia contribuito.
Per il Collegio, grava peraltro su chi è professionalmente inserito in un settore collegato alla materia disciplinata dalla norma integratrice del precetto penale un dovere di diligenza “rafforzato” di rispettare la legge ed i regolamenti che regolano l’attività pertinente.
* * *
*Il 29 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.49549, che si inserisce nel solco giurisprudenziale onde la «violazione di norme di legge», rilevante come abuso d’ufficio, può anche – in guisa tutt’affatto “estensiva” – essere integrata dall’inosservanza del generalissimo principio di imparzialità della pubblica amministrazione, enunciato dall’art. 97 Cost..
Tale principio per il Collegio, in particolare nella parte in cui vieta al pubblico funzionario di operare ingiustificati favoritismi o intenzionali vessazioni, esprimere una precisa regola di comportamento di immediata applicazione.
2019
L’8 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.10224 onde, in tema di abuso d’ufficio, non ricorre il dolo intenzionale nel caso in cui l’agente persegua esclusivamente la finalità di realizzare un interesse pubblico ovvero quando, pur nella consapevolezza di favorire un interesse privato, sia stato mosso esclusivamente dall’obiettivo di perseguire un interesse pubblico, con conseguente degradazione del dolo di procurare a terzi un vantaggio da dolo intenzionale a mero dolo diretto o eventuale e con esclusione, quindi, di ogni finalità di favoritismo privato.
In sostanza, per la Corte uno “sviamento di potere” solo parziale può condurre ad una soluzione assolutoria dal punto di vista del diritto penale, occorrendo l’intenzionalità di uno sviamento totale del potere ridetto.
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*Il 23 maggio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.22871, che si inserisce nel solco giurisprudenziale onde la «violazione di norme di legge», rilevante come abuso d’ufficio, può anche – in guisa tutt’affatto “estensiva” – essere integrata dall’inosservanza del generalissimo principio di imparzialità della pubblica amministrazione, enunciato dall’art. 97 Cost..
Tale principio per il Collegio, in particolare nella parte in cui vieta al pubblico funzionario di operare ingiustificati favoritismi o intenzionali vessazioni, esprimere una precisa regola di comportamento di immediata applicazione.
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Il 31 ottobre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.44598 onde, in tema di abuso di ufficio, la nozione di danno “ingiusto” non ricomprende le sole situazioni giuridiche attive a contenuto patrimoniale ed i corrispondenti diritti soggettivi, ma è riferita anche agli interessi legittimi, in particolare quelli di tipo pretensivo, suscettibili di essere lesi dal diniego o dalla ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo.
Ciò, precisa la Corte, sempre che, sulla base di un giudizio prognostico, il danneggiato avesse concrete opportunità di conseguire il provvedimento a sé favorevole, così da poter lamentare una perdita di “chances“.
Nel caso di specie, il direttore generale di un’azienda ospedaliera ha conferito incarico di responsabile del procedimento per l’esecuzione di lavori ingegneristici ad un soggetto esterno, anziché al tecnico di ruolo interno all’azienda il quale vantava un’aspettativa concreta a ricevere tale incarico, in ragione del ristrettissimo numero dei legittimi aspiranti e della circostanza che, in un momento successivo, quella funzione sarebbe stata assegnata proprio a lui.
Si tratta di un caso in cui l’illegittimità del potere – tradottasi nel conculcamento contra ius di un interesse legittimo pretensivo – disegna una fattispecie di abuso d’ufficio a cagione del potere mal esercitato unito all’ingiustizia del danno prodotto all’interlocutore del funzionario agente.
2020
Il 16 luglio viene varato il decreto legge n.76, recante misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale, secondo il cui art.23 – rubricato “modifiche all’art.323 del codice penale” – al ridetto art.323 c.p. le parole “di norma di legge o di regolamento” sono sostituite dalle parole “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Si tratta di una modifica a carattere chirurgico che in primo luogo, attraverso un esplicito riferimento alle fonti primarie, esclude dall’usbergo precettivo della fattispecie criminosa l’eventuale violazione di “regolamenti” (con riferimento ai quali si rinvia all’apposito CRONOPERCORSO).
In secundis, l’art.323 si palesa ormai come configurabile nei soli confronti dell’attività vincolata della PA, laddove appunto non residuino in capo ad essa margini di discrezionalità; peraltro la violazione deve avere ad oggetto specifiche regole di condotta espressamente previste dalla fonte primaria, caratterizzando in senso rigidamente “tipico” le disposizioni dalla patente frizione con le quali discende l’abuso d’ufficio del soggetto pubblico agente.
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L’11 settembre viene varata la legge n.120 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.76.
2022
Il 18 gennaio esce la sentenza della Corte costituzionale n.8 in tema di abuso d’ufficio, intervenute modifiche nell’anno 2020 e compatibilità con la Costituzione, alla cui stregua va dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, sollevata, in riferimento all’art. 77 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Catanzaro, mentre vanno – ad un tempo – dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Catanzaro.
Per meglio affrontare le questioni ad essa sottoposte, premette la Corte, è necessario ricostruire preliminarmente la genesi della disposizione sottoposta a scrutinio, ripercorrendo, in sintesi, la travagliata vicenda normativa e giurisprudenziale che si colloca alle relative spalle.
La figura criminosa dell’abuso d’ufficio, assolvendo una funzione “di chiusura” del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, rappresenta infatti – chiosa il Collegio – il punto saliente di emersione della spigolosa tematica del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa: tematica percorsa da una perenne tensione tra istanze legalitarie, che spingono verso un controllo a tutto tondo, atto a fungere da freno alla mala gestio della cosa pubblica, e l’esigenza di evitare un’ingerenza pervasiva del giudice penale sull’operato dei pubblici amministratori, lesiva della sfera di autonomia ad essi spettante.
Al tempo stesso, precisa ancora la Corte, si tratta di fattispecie caratterizzata da congeniti margini di elasticità, generatori di persistenti problemi di compatibilità con il principio di determinatezza, di tutto ciò essendo testimonianza la tormentata parabola storica della figura.
Nel disegno originario del codice penale del 1930, prosegue la Corte, l’abuso d’ufficio era descritto all’art. 323 con formula semplice, ma, in pari tempo, estremamente comprensiva: veniva, infatti, punito il pubblico ufficiale che, «abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette[sse], per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge».
Le criticità di una ipotesi criminosa così congegnata rimanevano, peraltro, attutite dal fatto che essa era chiamata a recitare un ruolo marginale nel sistema. Si trattava, infatti, di una figura sussidiaria e blandamente punita, stretta, com’era, tra le due fattispecie delittuose cui risultava allora precipuamente affidato il controllo di legalità sull’attività amministrativa: il peculato per distrazione e l’interesse privato in atti d’ufficio (artt. 314 e 324 cod. pen.).
Figure anch’esse peraltro, precisa la Corte, dai contorni assai labili, che permettevano alla magistratura penale penetranti incursioni sulle scelte della pubblica amministrazione.
Lo scenario mutava con la riforma operata dalla legge 26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione), la quale, onde arginare tale temperie, estromise dalla fattispecie del peculato la forma per distrazione e abrogò il reato di interesse privato in atti d’ufficio.
Di riflesso però, chiosa ancora il Collegio, la riforma riscrisse l’art. 323 cod. pen., nella prospettiva di far refluire nell’abuso d’ufficio una parte delle condotte già colpite dalle fattispecie abrogate, con un filtro – almeno negli intenti – di maggiore selettività. A questo fine, si prevedeva che l’abuso d’ufficio – esteso anche agli incaricati di pubblico servizio – dovesse essere finalizzato ad un vantaggio, proprio od altrui, «ingiusto», o a un danno altrui del pari «ingiusto», con la previsione di un sensibile aumento della pena, qualora il vantaggio fosse di natura patrimoniale.
I risultati non furono tuttavia, registra la Corte, quelli sperati. L’abuso d’ufficio acquistava di colpo una centralità applicativa in precedenza ignota, non accompagnata, però, da un reale incremento di determinatezza della fattispecie tipica, la quale restava incentrata su una condotta in sé vaga – quale quella di «abusa[re] del[l]’ufficio» – senza che il requisito dell’ingiustizia del vantaggio o del danno, oggetto del dolo specifico, si rivelasse capace di delimitare adeguatamente i confini del tipo.
Il rivisitato art. 323 cod. pen. divenne, così, il nuovo strumento per un penetrante sindacato della magistratura penale sull’operato dei pubblici funzionari, adombrando il costante spettro dell’avvio di indagini in loro danno.
A distanza di pochi anni, prosegue nel suo iter la Corte, il Legislatore corse quindi ai ripari, riscrivendo una seconda volta la norma incriminatrice con l’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell’art. 323 del codice penale, in materia di abuso d’ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del codice di procedura penale).
Dismesso il generico riferimento all’abuso dell’ufficio (che resta solo nella rubrica dell’art. 323 cod. pen.), la condotta tipica viene individuata nella «violazione di norme di legge o di regolamento», ovvero, in alternativa, nella omessa astensione «in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti».
La fattispecie si trasforma, altresì, in reato di evento, essendo richiesta, ai fini del relativo perfezionamento, l’effettiva verificazione dell’ingiusto danno o dell’ingiusto vantaggio patrimoniale (il vantaggio non patrimoniale perde rilevanza); evento che deve essere oggetto di dolo intenzionale.
Nel risagomare la figura, il legislatore del 1997 aveva agito con il trasparente intento di renderne più nitidi i confini, impedendo, in specie, un sindacato del giudice penale sull’esercizio della discrezionalità amministrativa. Il riferimento alla «violazione di norme di legge o di regolamento», evocando uno dei vizi tipici dell’atto amministrativo, doveva servire infatti a metter fuori, a contrario, l’eccesso di potere, non menzionato.
Le intenzioni del legislatore hanno dovuto, però, fare i conti con le soluzioni della giurisprudenza, la quale, dopo una fase iniziale di ossequio allo spirito della novella, è virata verso interpretazioni estensive degli elementi di fattispecie, atte a travalicare i rigidi paletti che la novella legislativa aveva inteso fissare e a riaprire ampi scenari di controllo del giudice penale sull’attività amministrativa discrezionale.
Per quanto qui più interessa, prosegue il Collegio, è venuto infatti a consolidarsi, da un lato, nella giurisprudenza di legittimità, l’indirizzo in forza del quale la «violazione di norme di legge», rilevante come abuso d’ufficio, può essere integrata anche dall’inosservanza del generalissimo principio di imparzialità della pubblica amministrazione, enunciato dall’art. 97 Cost.: principio che – secondo la Corte di cassazione – nella parte in cui vieta al pubblico funzionario di operare ingiustificati favoritismi o intenzionali vessazioni, esprimerebbe una precisa regola di comportamento di immediata applicazione (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 21 febbraio 2019-23 maggio 2019, n. 22871; Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 12 giugno 2018-29 ottobre 2018, n. 49549; Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 27 ottobre 2015-20 novembre 2015, n. 46096).
Dall’altro lato, poi, si è assistito al recupero nell’area di rilevanza penale degli atti viziati da eccesso di potere, nella forma dello sviamento.
Con soluzione ermeneutica avallata dalle sezioni unite, la Corte di cassazione ha ritenuto, infatti, che la violazione di legge cui fa riferimento l’art. 323 cod. pen. ricorra non solo quando la condotta del pubblico funzionario si ponga in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando sia volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, dando luogo appunto a un vizio di sviamento: vizio che integrerebbe la violazione di legge, perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 settembre 2011-10 gennaio 2012, n. 155).
Si è venuta a creare, in questo modo, una situazione che riecheggia, per molti versi, quella registratasi all’indomani della legge n. 86 del 1990 e alla quale la successiva legge n. 234 del 1997 aveva inteso por rimedio.
Ciò peraltro, continua la Corte, in presenza di un inasprimento della pena edittale del reato, che, già fissata da tale ultima legge nella reclusione da sei mesi a tre anni, è stata elevata dall’art. 1, comma 75, lettera p), della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) alla reclusione da uno a quattro anni.
La vicenda ora descritta – prosegue il Collegio – non è rimasta, tuttavia, priva di ricadute.
Per opinione ampiamente diffusa, deve individuarsi, infatti, proprio in tale stato di cose una delle principali cause della sempre maggiore diffusione del fenomeno che si è soliti designare come “burocrazia difensiva” (o “amministrazione difensiva”). I pubblici funzionari si astengono, cioè, dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite su prassi consolidate e anelastiche), o più spesso restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta “paura della firma”).
A questi fini, poco conta l’enorme divario, che pure si è registrato sul piano statistico, tra la mole dei procedimenti per abuso d’ufficio promossi e l’esiguo numero delle condanne definitive pronunciate in esito ad essi. Il solo rischio, ubiquo e indefinito, del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso comporta, basta a generare un “effetto di raffreddamento”, che induce il funzionario ad imboccare la via per sé più rassicurante.
Tutto ciò, peraltro, con significativi riflessi negativi in termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati.
Benché l’esigenza di contrastare la “burocrazia difensiva” e relativi guasti, agendo sulle cause del fenomeno, fosse già da tempo avvertita, la scelta di porre mano all’intervento è maturata – precisa a questo punto la Consulta – solo a seguito dell’emergenza pandemica da COVID-19, nell’ambito di un eterogeneo provvedimento d’urgenza volto a dare nuovo slancio all’economia nazionale, messa a dura prova dalla prolungata chiusura delle attività produttive disposta nella prima fase acuta dell’emergenza: si allude, chiosa ancora il Collegio, al d.l. n. 76 del 2020, correntemente noto come “decreto semplificazioni”.
Il provvedimento si occupa, in un apposito capo (il Capo IV del Titolo II), intitolato «[r]esponsabilità», delle due principali fonti di “timore” per il pubblico amministratore (e, dunque, dei relativi “atteggiamenti difensivistici”): la responsabilità erariale e la responsabilità penale. Entrambe vengono fatte oggetto di modifiche limitative e all’insegna della maggiore tipizzazione.
Quanto alla responsabilità penale, chiosa il Collegio, l’art. 23 del decreto-legge in esame – norma oggi censurata, rimasta invariata all’esito della conversione operata dalla legge n. 120 del 2020 – ridefinisce per la terza volta, nel suo unico comma, il perimetro applicativo del delitto di abuso d’ufficio: nell’occasione, però, senza riscrivere per intero la disposizione del codice penale, ma incidendo in modo “mirato” sulla prima delle due condotte tipiche, rappresentata dalla «violazione di norme di legge o di regolamento» (mentre quella alternativa dell’inosservanza di un obbligo di astensione resta invariata).
La modifica consiste, in specie, nella sostituzione della locuzione «di norme di legge o di regolamento» con l’altra «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
In negativo, dunque, la recente novella estromette il riferimento ai regolamenti; in positivo, richiede che la violazione abbia ad oggetto regole specifiche previste in modo espresso da fonti primarie e che non lascino al funzionario pubblico spazi di discrezionalità.
Particolarmente su questo secondo versante, prosegue il Collegio, risulta trasparente l’intento di sbarrare la strada alle interpretazioni giurisprudenziali che avevano dilatato la sfera di operatività della norma introdotta dalla legge n. 234 del 1997: la puntualizzazione che l’abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche mira ad impedire che si sussuma nell’ambito della condotta tipica anche l’inosservanza di norme di principio, quale l’art. 97 Cost.; richiedendo che le regole siano espressamente previste dalla legge e tali da non lasciare «margini di discrezionalità» si vuol negare rilievo al compimento di atti viziati da eccesso di potere.
Si è, dunque, al cospetto di una modifica di segno restrittivo dell’area di rilevanza penale – specie nel raffronto con la “norma vivente” disegnata dalle ricordate interpretazioni giurisprudenziali – con conseguenti effetti di abolitio criminis parziale, operanti, come tali, ai sensi dell’art. 2, secondo comma, cod. pen., anche in rapporto ai fatti anteriormente commessi (quali quelli oggetto del giudizio a quo).
Della legittimità costituzionale di un simile intervento dubita tuttavia, precisa a questo punto la Corte, l’odierno rimettente, ponendo in discussione, sul piano costituzionale, sia la scelta di attuarlo tramite provvedimento d’urgenza, sia la correttezza, dal punto di vista sostanziale, delle soluzioni concretamente adottate.
Il giudice a quo ha reputato le questioni rilevanti sull’assunto che le modifiche operate dalla norma censurata – sopravvenuta dopo la fissazione dell’udienza preliminare – imporrebbero il proscioglimento degli imputati nel giudizio principale, i quali avrebbero dovuto essere invece rinviati a giudizio in base al precedente testo dell’art. 323 cod. pen.
Agli imputati è contestato infatti, rammenta il Collegio, di aver favorito, quali membri della commissione esaminatrice di un concorso pubblico, due candidati (imputati anch’essi, si può supporre quali concorrenti extranei), in violazione sia del generale principio di imparzialità posto dall’art. 97 Cost., sia di una norma di legge che ribadisce il principio con riguardo alle procedure di reclutamento del personale (art. 35, comma 3, lettera a, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche»), sia, infine, di talune norme regolamentari in tema di attribuzione dei punteggi e di valutazione dei titoli.
Nessuna di tali violazioni rileverebbe più alla luce della nuova configurazione delle fattispecie: non quella delle norme regolamentari, ormai estromessa dal campo applicativo dell’incriminazione; ma nemmeno quella delle residue norme di rango legislativo e costituzionale, trattandosi di disposizioni recanti principi generali, e non già di specifiche regole di condotta dalle quali non residuino margini di discrezionalità.
Tale ragionamento – in sé del tutto plausibile – non sarebbe però sufficiente ai fini della rilevanza, avendo il rimettente omesso di verificare se le condotte ascritte agli imputati, non più rilevanti come violazione di legge, restino tuttavia inquadrabili nell’altra modalità di realizzazione del reato – non incisa dalla novella – costituita dalla mancata astensione «in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti».
Verifica questa, precisa la Corte, in assunto tanto più necessaria a fronte del fatto che la stessa ordinanza di rimessione ha posto in evidenza gli ottimi rapporti intercorrenti tra i candidati favoriti e uno dei membri della commissione, il quale avrebbe manifestato ripetutamente il proprio intento di «stabilizzare ed internalizzare» i candidati stessi: donde un possibile conflitto d’interessi.
L’eccezione tuttavia per il Collegio non è fondata: a prescindere da ogni possibile dubbio sul fatto che le esternazioni di che trattasi bastino ad integrare un «caso prescritto» di astensione, vale osservare che si tratta di esternazioni ascrivibili, secondo l’ordinanza di rimessione, a uno solo dei membri della commissione esaminatrice, e non agli altri.
A tutto pure concedere, peraltro, il passaggio dall’una all’altra modalità di realizzazione del reato richiederebbe una modifica dell’imputazione (per diversità del fatto): modifica che il PM – rammenta la Corte – non risulta aver operato. Il giudice a quo dovrebbe, quindi, eventualmente sollecitarla, restituendo gli atti al pubblico ministero ove questi non aderisse al pertinente invito (ciò, in ossequio al meccanismo delineato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 20 dicembre 2007-1° febbraio 2008, n. 5307, riguardo al controllo del giudice sull’imputazione nell’udienza preliminare). Ottica nella quale le questioni risulterebbero, comunque sia, rilevanti, incidendo sull’esercizio della funzione giurisdizionale.
Di ben maggiore consistenza – chiosa a questo punto la Corte – è un altro profilo di inammissibilità, connesso al petitum; il giudice a quo invoca, infatti, una pronuncia ablativa della modifica operata dalla norma censurata, che avrebbe come effetto la reviviscenza della precedente norma incriminatrice dell’abuso d’ufficio, dal perimetro applicativo più vasto. Si tratta dunque, registra il Collegio, inequivocabilmente, della richiesta di una sentenza in malam partem in materia penale.
Viene di conseguenza in rilievo il costante indirizzo della Corte medesima secondo cui l’adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale risulta, in via generale, preclusa dal principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale, rimettendo al «soggetto-Parlamento» (sentenza n. 5 del 2014), che incarna la rappresentanza politica della Nazione (sentenza n. 394 del 2006), le scelte di politica criminale (con i relativi delicati bilanciamenti di diritti e interessi contrapposti), impedisce alla Corte, sia di creare nuove fattispecie o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti, comunque sia, alla punibilità (ex plurimis, sentenze n. 17 del 2021, n. 37 del 2019, n. 46 del 2014, n. 324 del 2008, n. 394 del 2006 e n. 161 del 2004; ordinanze n. 219 del 2020, n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007).
A questo riguardo, è necessario tuttavia distinguere la questione (formale) che investe il procedimento di produzione della norma da quelle intese a denunciare vizi “sostanziali”, attinenti, cioè, a quanto la norma dispone.
Per quel che riguarda la questione sollevata in riferimento all’art. 77 Cost. – che assume carattere pregiudiziale, proprio perché concernente il corretto esercizio della funzione normativa primaria (ex plurimis, sentenze n. 115 del 2020, n. 288 e n. 247 del 2019) – la Corte rammenta di avere avuto modo, in effetti, di chiarire che la preclusione delle pronunce in malam partem non viene in considerazione quando si discuta di vizi formali o di incompetenza, relativi, cioè, al procedimento di formazione dell’atto legislativo e alla legittimazione dell’organo che lo ha adottato.
Se l’esclusione delle pronunce in malam partem mira a salvaguardare il monopolio del «soggetto-Parlamento» sulle scelte di criminalizzazione, sarebbe illogico che detta preclusione possa scaturire da interventi normativi operati da soggetti non legittimati, i quali pretendano di “neutralizzare” le scelte effettuate da chi detiene quel monopolio, quale il Governo, che si serva dello strumento del decreto legislativo senza il supporto della legge di delegazione (sentenze n. 189 del 2019 e n. 5 del 2014), o le Regioni, che legiferino indebitamente in materia penale, loro preclusa (sentenza n. 46 del 2014).
Ovvero – prosegue la Corte – che possa derivare da interventi normativi operati senza il rispetto del corretto iter procedurale, che pure assume una specifica valenza garantistica nella cornice della riserva di legge, connessa al fatto che il procedimento legislativo «implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione» (sentenza n. 230 del 2012), consentendo, così, alle une e all’altra un apporto critico alle «scelte di criminalizzazione adottate dalla maggioranza» (sentenza n. 487 del 1989).
Ciò vale anche e specificamente per le norme penali introdotte mediante decreto-legge.
La Corte rammenta di avere infatti scrutinato nel merito, malgrado i possibili effetti in malam partem conseguenti al loro accoglimento, non solo questioni volte a censurare l’inserimento in sede di conversione di norme penali “intruse”, prive cioè di ogni collegamento logico-giuridico con il testo originario del decreto-legge convertito (sentenza n. 32 del 2014) (operazione che menoma indebitamente il dibattito parlamentare, comprimendolo all’interno dei tempi contingentati correlati alla breve “vita provvisoria” dell’atto normativo del Governo); ma anche, e prima ancora, questioni intese – come l’odierna – a denunciare la carenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, ai quali è subordinata l’eccezionale legittimazione del Governo ad adottare atti con forza di legge in assenza di delegazione parlamentare (sentenza n. 330 del 1996; ordinanze n. 90 del 1997 e n. 432 del 1996, tutte in tema di depenalizzazione mediante decreto-legge di reati in materia di inquinamento delle acque).
Se pure dunque ammissibile, la questione in esame non è però – si affretta a precisare la Corte – fondata.
Per costante giurisprudenza costituzionale, la preesistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza di provvedere tramite l’utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto-legge, costituisce un requisito di validità dell’adozione di tale atto, la cui mancanza configura un vizio di legittimità costituzionale del medesimo, che non è sanato dalla legge di conversione, la quale, ove intervenga, risulta a propria volta inficiata da un vizio in procedendo (ex plurimis, sentenze n. 149 del 2020, n. 10 del 2015, n. 93 del 2011, n. 128 del 2008, n. 171 del 2007 e n. 29 del 1995).
Il sindacato resta, tuttavia, circoscritto alle ipotesi di “mancanza evidente” dei presupposti in discorso o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione (ex plurimis, sentenze n. 186 del 2020, n. 288 e n. 97 del 2019, n. 137, n. 99 e n. 5 del 2018, n. 236 e n. 170 del 2017): ciò, al fine di evitare la sovrapposizione tra la valutazione politica del Governo e delle Camere (in sede di conversione) e il controllo di legittimità costituzionale (sentenze n. 186 del 2020, n. 93 del 2011, n. 83 del 2010 e n. 171 del 2007).
L’espressione, usata dall’art. 77 Cost., per indicare i presupposti della decretazione d’urgenza è connotata infatti, precisa ancora il Collegio, da un «largo margine di elasticità» (sentenza n. 5 del 2018), onde consentire al Governo di apprezzare la loro esistenza con riguardo a una pluralità di situazioni per le quali non sono configurabili rigidi parametri (sentenze 137 del 2018 e n. 171 del 2007).
La Corte rammenta di avere chiarito, per altro verso, che l’omogeneità costituisce un requisito del decreto-legge sin dalla relativa origine, poiché «l’inserimento di norme eterogenee all’oggetto o alla finalità del decreto spezza il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell’urgenza del provvedere ed “i provvedimenti provvisori con forza di legge”, di cui alla norma costituzionale citata» (sentenze n. 149 del 2020 e n. 22 del 2012).
Il riconoscimento dell’esistenza dei presupposti fattuali, di cui all’art. 77, secondo comma, Cost., resta, dunque, collegato ad una intrinseca coerenza delle norme contenute nel decreto-legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico. L’urgente necessità del provvedere può riguardare, cioè, una pluralità di norme accomunate o dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero dall’intento di fronteggiare una situazione straordinaria complessa e variegata, che richiede interventi oggettivamente eterogenei, in quanto afferenti a materie diverse, ma indirizzati tutti all’unico scopo di approntare urgentemente rimedi a tale situazione (tra le altre, sentenza n. 149 del 2020, n. 137 del 2018, n. 170 del 2017, n. 244 del 2016 e n. 22 del 2012).
Per i decreti-legge ab origine a contenuto plurimo, quel che rileva è dunque il profilo teleologico, ossia l’osservanza della ratio dominante l’intervento normativo d’urgenza (sentenze n. 213 del 2021, n. 170 e n. 16 del 2017, e n. 287 del 2016). Anche su tale fronte, il sindacato della Corte resta, peraltro, circoscritto ai casi in cui la rottura del nesso tra la situazione di necessità ed urgenza che il Governo mira a fronteggiare e la singola disposizione del decreto-legge risulti evidente, così da connotare quest’ultima come «totalmente “estranea”» o addirittura «intrusa», analogamente a quanto avviene con riguardo alle norme aggiunte dalla legge di conversione (sentenza n. 213 del 2021).
Alla luce dei principi ora ricordati, le censure del giudice rimettente non possono allora per il Collegio essere condivise.
Non si può ritenere, anzitutto, come egli opina, che la norma censurata sia «eccentrica ed assolutamente avulsa», per materia e finalità, rispetto al decreto-legge in cui è inserita.
Come emerge dal preambolo, dai lavori preparatori e dalle dichiarazioni ufficiali che ne hanno accompagnato l’approvazione, il d.l. n. 76 del 2020 reca un complesso di norme eterogenee accomunate dall’obiettivo di promuovere la ripresa economica del Paese dopo il blocco delle attività produttive che ha caratterizzato la prima fase dell’emergenza pandemica. In quest’ottica, il provvedimento interviene in molteplici ambiti: semplificazioni di vario ordine per le imprese e per la pubblica amministrazione, diffusione dell’amministrazione digitale, ma anche responsabilità degli amministratori pubblici.
Quanto a quest’ultima, e segnatamente alla responsabilità penale per abuso d’ufficio, è ben vero che di essa non si fa alcuna menzione nel titolo del provvedimento (che parla esclusivamente di «[m]isure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale»), mentre nel preambolo il tema è richiamato in modo cursorio ed ambiguo (con il secco riferimento alla ritenuta «straordinaria necessità e urgenza di introdurre», tra gli altri, «interventi di semplificazione in materia di responsabilità del personale delle amministrazioni»).
Né molto più prodiga di indicazioni è la relazione al disegno di legge di conversione A.S.1883, laddove la modifica dell’art. 323 cod. pen. viene giustificata con la mera esigenza «di definire in maniera più compiuta la condotta rilevante ai fini del reato di abuso di ufficio», senza alcuna precisazione riguardo al collegamento dell’intervento con gli obiettivi di fondo del provvedimento d’urgenza.
Tale collegamento per la Corte è individuabile – anche alla luce del convincimento espresso dal Presidente del Consiglio dei ministri nel presentare il decreto – nell’idea che la ripresa del Paese possa essere facilitata da una più puntuale delimitazione delle responsabilità. “Paura della firma” e “burocrazia difensiva”, indotte dal timore di un’imputazione per abuso d’ufficio, si tradurrebbero, in quanto fonte di inefficienza e immobilismo, in un ostacolo al rilancio economico, che richiede, al contrario, una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente.
In questa prospettiva, la modifica volta a restringere, meglio definendola, la sfera applicativa del reato dell’abuso d’ufficio (specie in rapporto alla precedente “norma vivente” di matrice giurisprudenziale) non è neppure una “monade” isolata. Come già si è accennato, infatti, la norma censurata si abbina, nell’ambito di dell’apposito capo del “decreto semplificazioni” dedicato alle «[r]esponsabilità» (il Capo IV del Titolo II), a disposizioni volte a “tranquillizzare” i pubblici amministratori rispetto all’altro rischio che accompagna il loro operato: vale a dire la responsabilità erariale.
In conclusione, per la Corte non può dunque sostenersi che la norma censurata sia palesemente estranea alla traiettoria finalistica portante del decreto.
Neppure poi può ritenersi – prosegue la Corte, e come pure assume il rimettente – che rispetto alla norma in esame si versi, comunque sia, in un caso di evidente mancanza del presupposto della straordinaria necessità ed urgenza.
Al riguardo, non può condividersi, nella relativa assolutezza, l’affermazione del giudice a quo, stando alla quale sarebbe, in linea generale, «opinabile, se non addirittura impossibile», che la depenalizzazione parziale di una figura criminosa rivesta caratteri di straordinaria necessità ed urgenza. Si tratta infatti, precisa il Collegio, di assunto apodittico e non sorretto da adeguata base logica, il quale trova smentita nella citata sentenza n. 330 del 1996, con cui la Corte negò che fosse censurabile per difetto dei presupposti della decretazione d’urgenza la depenalizzazione di alcuni reati in materia di inquinamento delle acque.
Ciò premesso, deve osservarsi per il Collegio come l’intervento normativo oggi in discussione rifletta due convinzioni, per quanto si è visto, entrambe diffuse:
- a) che il “rischio penale” e, in specie, quello legato alla scarsa puntualità e alla potenziale eccessiva ampiezza dei confini applicativi dell’abuso d’ufficio, rappresenti uno dei motori della “burocrazia difensiva”;
- b) che quest’ultima costituisca a propria volta un freno e un fattore di inefficienza dell’attività della pubblica amministrazione.
È ben vero – chiosa ancora la Corte – che l’esigenza di contrastare tali fenomeni, incidendo sulle relative cause – e, in particolare, per quel che qui rileva, ridefinendo la portata del precetto dell’art. 323 cod. pen. –, non nasce con l’emergenza epidemiologica, ma si connette all’epifania, ben anteriore, degli indirizzi giurisprudenziali che hanno dilatato la sfera applicativa dell’incriminazione, attraendovi, tanto la violazione dell’art. 97 Cost., quanto lo sviamento di potere.
Ma, se la necessità della riforma trae origine da quegli indirizzi, è però l’esigenza di far “ripartire” celermente il Paese dopo il prolungato blocco imposto per fronteggiare la pandemia che – nella valutazione del Governo (e del Parlamento, in sede di conversione) – ha impresso ad essa i connotati della straordinarietà e dell’urgenza. Valutazione, questa, che non può per la Corte assumersi manifestamente irragionevole o arbitraria.
Il discorso è diverso – chiosa a questo punto il Collegio – per le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., intese a censurare i contenuti della norma. Riguardo ad esse, resta, infatti, pienamente operante la ricordata preclusione delle sentenze in malam partem in materia penale, cui consegue l’inammissibilità delle questioni stesse.
Onde superare l’ostacolo, il rimettente invoca decisioni della Corte (in specie, le sentenze n. 394 del 2006 e n. 148 del 1983) che hanno ammesso la sindacabilità in malam partem delle cosiddette norme penali di favore: qualifica che tuttavia non compete alla norma oggi in esame.
Come la Corte rammenta di avere chiarito (sentenza n. 394 del 2006; in senso conforme, tra le altre, sentenza n. 155 del 2019, n. 57 del 2009 e n. 324 del 2008; ordinanza n. 413 del 2008), per norme penali di favore debbono intendersi quelle che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni compresenti nell’ordinamento.
L’effetto in malam partem conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di tali norme non vulnera la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione, rappresentando una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di ingiustificata disciplina derogatoria.
La qualificazione come norma penale di favore non può essere fatta, di contro, discendere, come nel caso di specie, dal raffronto tra una norma vigente e una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell’area di rilevanza penale. In tal caso, la richiesta di sindacato in malam partem non mira a far riespandere una norma tuttora presente nell’ordinamento, ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale: operazione preclusa alla Corte (sulla inammissibilità delle questioni volte a conseguire il ripristino di norme incriminatrici abrogate o di discipline penali sfavorevoli, ex plurimis, sentenze n. 37 del 2019, n. 57 del 2009 e n. 324 del 2008; ordinanze n. 282 del 2019, n. 413 del 2008 e n. 175 del 2001).
La Corte rammenta di avere già applicato, peraltro, i ricordati principi all’evoluzione legislativa dell’abuso d’ufficio, dichiarando inammissibili, con la sentenza n. 447 del 1998, questioni analoghe a quelle ora in esame, sollevate in riferimento ai medesimi parametri (artt. 3 e 97 Cost.), aventi ad oggetto l’art. 323 cod. pen., come riformulato – anche allora in senso restrittivo – dalla legge n. 234 del 1997.
Nell’occasione, chiosa il Collegio, si è posto in evidenza come una censura di illegittimità costituzionale non possa basarsi sul pregiudizio che la formulazione, in assunto troppo restrittiva, di una norma incriminatrice, recherebbe a valori di rilievo costituzionale, quali, nella specie, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione. Le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono, infatti, nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con altri precetti e sanzioni: l’incriminazione costituisce anzi un’extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel proprio discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o l’inadeguatezza di altri mezzi di tutela (sentenza n. 447 del 1998; in senso analogo, con riferimento all’abrogazione del reato di ingiuria, sentenza n. 37 del 2019; si vedano pure la sentenza n. 273 del 2010 e l’ordinanza n. 317 del 1996).
Si è rilevato altresì, nella medesima occasione, che, in linea di principio, neppure può tradursi in una questione di legittimità costituzionale della norma incriminatrice il rilievo che altre condotte, diverse da quelle individuate come fatti di reato dal legislatore, avrebbero dovuto essere a loro volta incriminate per ragioni di parità di trattamento o in nome di esigenze di ragionevolezza. «La mancanza della base legale – costituzionalmente necessaria – dell’incriminazione, cioè della scelta legislativa di considerare certe condotte come penalmente perseguibili, preclude radicalmente la possibilità di prospettare una estensione ad esse delle fattispecie incriminatrici attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale» (sentenza n. 447 del 1998).
In altre parole, ove pure, in ipotesi, la norma incriminatrice (non qualificabile come norma penale di favore) determinasse intollerabili disparità di trattamento o esiti irragionevoli, il riequilibrio potrebbe essere operato dalla Corte solo “verso il basso” (ossia in bonam partem): non già in malam partem, e in particolare tramite interventi dilatativi del perimetro di rilevanza penale (sulla inammissibilità di questioni in malam partem basate sulla denuncia di violazione dell’art. 3 Cost., ex plurimis, sentenza n. 411 del 1995; ordinanze n. 437 del 2006 e n. 580 del 2000).
Alla luce delle considerazioni che precedono, conclude la Corte, la questione sollevata in riferimento all’art. 77 Cost., logicamente pregiudiziale, deve essere dichiarata non fondata, mentre quelle sollevate in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. debbono essere dichiarate inammissibili.
Questioni intriganti
Cosa occorre rammentare in generale e sul piano storico sui rapporti tra abuso d’ufficio e potere della PA fino al 1990?
- l’abuso d’ufficio compendia una fattispecie criminosa perpetrata contro la Pubblica Amministrazione da soggetti che ad essa appartengono e dunque, già solo per questo, interferisce con l’esercizio da parte di quest’ultima del pertinente potere;
- si tratta di una fattispecie di natura sussidiaria, che dunque entra in gioco quando non siano operative delle altre (conflitto apparente di norme: si rinvia all’uopo all’apposito CRONOPERCORSO);
- sul crinale del processo, tale fattispecie rileva sia in ambito penalistico, riservato al GO, sia in ambito amministrativistico, appannaggio del GA;
- il problema, più in specie in ambito penalistico, è quello di trovare un giusto equilibrio tra le istanze repressive affidate al giudice penale e la discrezionalità che la legge affida alla PA nel perseguimento dell’interesse pubblico (c.d. “merito amministrativo”), dacché i soggetti attivi dell’abuso d’ufficio sono proprio soggetti ai quali è affidato il potere (sovente, discrezionale) di perseguire il ridetto interesse pubblico, con modalità che potrebbero finire nello scandaglio del giudice ordinario penale chiamato ad accertare la pertinente fattispecie di inadempimento reato;
- la disposizione che incorpora la fattispecie penale si è atteggiata, nel corso del tempo, talvolta a maggiormente “elastica” e talaltra a maggiormente “rigida” (o, comunque, anelastica), alla perenne ricerca di un giusto compromesso tra i due valori dell’accertamento giudiziario penale e dell’esercizio del potere pubblico, massime se connotato da discrezionalità;
- si sono registrati in proposito: f.1) un’azione simil-creatrice della giurisprudenza, talvolta parallela a quella legislativa; f.2) un’opera del Legislatore orientata a garantire, a più riprese, sufficiente determinatezza e ragionevole tassatività alla pertinente fattispecie criminosa;
- dal punto di vista storico, in una prima fase l’abuso d’ufficio è in origine (codice Rocco) figura residuale, che scatta in via sussidiaria solo quando il soggetto agente non sia già punibile, in particolare, “attivamente” per interesse privato in atti d’ufficio (art.324 c.p.) o peculato “distrattivo” (art.314 c.p.) ovvero “passivamente” per omissione di atti d’ufficio (art.328 c.p.); applicato per lo più in ipotesi bagatellari o marginali (quando non, financo, “disapplicato”), nel 1965 viene giudicato conforme alla Costituzione sotto il profilo della sufficiente determinatezza e, dunque, non in frizione con l’art.25, comma 2, della Carta;
- nel 1990, in occasione della riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, viene estromessa dalla fattispecie del peculato la forma per distrazione, lasciando operativo nell’art.314 c.p. il solo peculato per appropriazione; viene abrogato ad un tempo l’art.324 c.p., e con esso il reato di interesse privato in atti d’ufficio; viene riscritto infine proprio l’art. 323 cod. pen., con l’obiettivo di far refluire nel “nuovo” abuso d’ufficio una parte delle condotte già colpite dalle fattispecie abrogate; l’abuso d’ufficio – esteso ormai anche agli incaricati di pubblico servizio – deve essere finalizzato ad un vantaggio, proprio od altrui, «ingiusto», o a un danno altrui del pari «ingiusto», con la previsione di un sensibile aumento della pena qualora il vantaggio si caratterizzi per la pertinente natura patrimoniale;
- la fattispecie in versione 1990 acquista di colpo una centralità applicativa in precedenza ad esso ignota senza che a quest’ultima faccia da contraltare un reale incremento di determinatezza della fattispecie tipica, la quale resta tutta incentrata su una condotta in sé vaga – per l’appunto l’”abuso d’ufficio” – e senza che il requisito dell’ingiustizia del vantaggio o del danno, oggetto del dolo specifico, si riveli realmente capace di delimitare adeguatamente i confini del pertinente “tipo criminoso”; il rivisitato art. 323 c.p. compendia un nuovo e potente strumento di penetrante sindacato del giudice penale sull’operato dei pubblici funzionari, adombrando il costante spettro dell’avvio di indagini a loro danno, con riguardo ad una fattispecie criminosa priva di consistente determinatezza e, dunque, dai confini di applicabilità labili e incerti;
- riassumendo, nel 1990: j.1) viene ampliato il novero dei possibili soggetti attivi, potendo ormai esserlo, oltre ai pubblici ufficiali, anche gli incaricati di pubblico servizio; j.2) viene prevista una “doppia illiceità” alternata: “abuso” con finalizzazione ad un “ingiusto” vantaggio (patrimoniale o non patrimoniale) per sé o per altri, ovvero ad un altrui “ingiusto” danno; j.3) viene introdotta una differenziazione quoad poenam tra le fattispecie di orientamento da parte del soggetto agente della propria condotta ad un vantaggio patrimoniale e tendenza ad un vantaggio non patrimoniale (personale);
- l’obiettivo del Legislatore del 1990 appare quello di trasformare l’abuso innominato d’ufficio in un quid criminoso (in qualche modo) più “nominato” attraverso la previsione del dolo specifico; operazione non solo non riuscita, ma che dà financo la stura all’effetto opposto, facendo luogo a quello che accorta dottrina ha additato a “gigantesco contenitore” di condotte prive di determinatezza, tenuto conto in particolare del fatto che a poter essere scandagliato dal giudice penale è l’eccesso di potere pubblico in tutte le pertinenti forme, con un penetrante controllo della discrezionalità riservata ex lege alla PA.;
- il diretto precipitato della rivisitazione dei delitti dei pubblici ufficiali e degli incaricati di servizio contro la PA, e in particolare dell’abuso d’ufficio, è alla radice del fenomeno giudiziario a tutti noto come “Mani pulite”, e che risale proprio ai primi anni Novanta del secolo scorso.
Cosa occorre rammentare sui rapporti tra abuso d’ufficio e potere della PA dal 1990 al 2020?
- proprio al fine di scongiurare “abusi” del potere giudiziario, la figura criminosa viene “riscritta” dal Legislatore nel 1997, con lo scopo di sottrarre al giudice penale margini (assunti – proprio a valle di “Mani pulite”- eccessivi) di scandaglio della discrezionalità amministrativa; dismesso il generico riferimento all’abuso dell’ufficio (che resta solo nella rubrica dell’art. 323 cod. pen.), la condotta tipica viene difatti neoindividuata nella «violazione di norme di legge o di regolamento», ovvero, in alternativa, nella omessa astensione da parte del soggetto agente «in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti»; la fattispecie si trasforma, altresì, in reato di evento, essendo richiesta, ai fini del relativo perfezionamento, l’effettiva verificazione dell’ingiusto danno o dell’ingiusto vantaggio patrimoniale (il vantaggio non patrimoniale perde rilevanza); evento “effettivo” che, per giunta, deve essere oggetto di dolo intenzionale;
- nel risagomare la figura, il legislatore del 1997 agisce con il trasparente intento di renderne più nitidi i confini, impedendo, in specie, ed appunto un sindacato del giudice penale “debordante” sul fisiologico esercizio della discrezionalità amministrativa. Il riferimento alla «violazione di norme di legge o di regolamento», evocando uno dei vizi tipici dell’atto amministrativo, ha infatti lo scopo di mettere fuori gioco, a contrario, l’eccesso di potere, non menzionato; l’obiettivo è anche quello di nettamente restringere l’area delle condotte penalmente rilevanti, giusta più elevato grado di precisione e determinatezza dei pertinenti elementi costitutivi, così scongiurando una capillare ingerenza del potere giudiziario e, con essa, il rischio di una (più o meno larvata) “prudenziale” inerzia dei funzionari pubblici, siccome avvinta alla scarsa prevedibilità delle pertinenti condotte siccome penalmente rilevanti, scaturigine a propria volta della rammentata, insufficiente tipizzazione ex lege delle medesime;
- le intenzioni del legislatore – giudicate conformi alla Costituzione dalla Corte costituzionale nel 1998 – fanno tuttavia i conti con le soluzioni adottate nella prassi dalla giurisprudenza la quale, dopo una fase iniziale di ossequio allo spirito della novella, vira verso interpretazioni estensive degli elementi di fattispecie, atte a travalicare i rigidi paletti che la novella legislativa aveva inteso fissare e a riaprire ampi scenari di controllo del giudice penale sull’attività amministrativa discrezionale; più nel dettaglio, viene a consolidarsi: c.1) da un lato, nella giurisprudenza di legittimità, l’indirizzo in forza del quale la «violazione di norme di legge», rilevante come abuso d’ufficio, può essere integrata anche dall’inosservanza del generalissimo principio di imparzialità della pubblica amministrazione, enunciato dall’art. 97 Cost.: principio che – secondo la Corte di cassazione – nella parte in cui vieta al pubblico funzionario di operare ingiustificati favoritismi o intenzionali vessazioni, esprimerebbe una precisa regola di comportamento di immediata applicazione; c.2) dall’altro lato, si assiste al recupero nell’area di rilevanza penale degli atti viziati da eccesso di potere, nella forma dello sviamento; con soluzione ermeneutica alfine avallata dalle SSUU nel 2012, la Cassazione prende difatti ad assumere la “violazione di legge” cui fa riferimento l’art. 323 cod. pen. ricorrere non solo quando la condotta del pubblico funzionario si ponga in contrasto con le specifiche norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando sia volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere gli è attribuito, dando luogo appunto a un vizio di sviamento: vizio che integrerebbe anch’esso una “violazione di legge”, la potestà palesandosi non esser stata esercitata secondo lo schema normativo che ne legittimava l’attribuzione;
- in sostanza, riaffiora una situazione che riecheggia, per molti versi, quella registratasi all’indomani della legge n. 86 del 1990 e alla quale la successiva legge n. 234 del 1997 aveva inteso (velleitariamente) porre rimedio, per giunta assistendosi – sempre nel 2012, con la la c.d. “Legge Severino” – ad un inasprimento della pena edittale del reato che, già fissata da tale ultima legge nella reclusione da 6 mesi a 3 anni, viene elevata alla reclusione da 1 a 4 anni;
- l’effetto diretto che ne scaturisce si compendia in una sempre maggiore diffusione del fenomeno noto come “burocrazia difensiva” (o “amministrazione difensiva”), onde i pubblici funzionari si astengono dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite su prassi consolidate e anelastiche), o più spesso restano inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (inverando il fenomeno noto come “paura della firma”); a questi fini, poco conta l’enorme divario pure registratosi, sul piano strettamente “statistico”, tra la mole dei procedimenti per abuso d’ufficio promossi dalle Procure e l’esiguo numero delle condanne definitive pronunciate in esito ad essi nei confronti degli imputati: il solo rischio, ubiquo e indefinito, del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali che esso comporta (anche in forza del ricorrente clamore mediatico che sovente accompagna tale coinvolgimento nelle pertinenti indagini), è difatti sufficiente a generare un “effetto di raffreddamento”, inducendo di volta in volta il competente funzionario ad imboccare la via – spesso “omissiva” – più rassicurante, con significativi riflessi negativi in termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati;
- benché l’esigenza di contrastare la ridetta “burocrazia difensiva” e i relativi guasti, agendo sulle cause del pertinente fenomeno, sia stata da tempo avvertita, la scelta di porre mano all’intervento è maturata per il Legislatore solo a seguito dell’emergenza pandemica da COVID-19, nell’ambito di un eterogeneo provvedimento d’urgenza volto a dare nuovo slancio all’economia nazionale (e, più in generale, all’efficienza operazionale pubblica e privata), messa a dura prova dalla prolungata chiusura delle attività produttive disposta nella prima fase acuta dell’emergenza;
- con il d.l. n. 76 del 2020, correntemente noto come “decreto semplificazioni”, è stato all’uopo introdotto nel contesto ordinamentale vigente – giusta un apposito capo, il Capo IV del Titolo II, intitolato «[r]esponsabilità» – un qualche contraltare alle due principali fonti di “timore” per il pubblico amministratore (cui sono connessi i noti e pertinenti “atteggiamenti difensivistici”), ovvero la responsabilità erariale e, appunto, la responsabilità penale, entrambe fatte oggetto di modifiche da un lato “limitative” e, dall’altro, orientate all’insegna di una maggiore tipizzazione;
- per quanto specificamente concerne la responsabilità penale, l’art. 23 del decreto-legge – norma rimasta invariata all’esito della conversione operata dalla legge n. 120 del 2020 – ridefinisce per la terza volta, nel relativo, unico comma, il perimetro applicativo del delitto di abuso d’ufficio; senza riscrivere per intero la disposizione del codice penale, il Legislatore incide in modo “mirato” e “chirurgico” sulla prima delle due condotte tipiche, rappresentata dalla «violazione di norme di legge o di regolamento» (mentre quella alternativa dell’inosservanza di un obbligo di astensione resta invariata), giusta significativa sostituzione della locuzione «di norme di legge o di regolamento» con l’altra «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità»;
- la riforma si caratterizza dunque: i.1) in negativo, per l’esclusione di ogni riferimento ai “regolamenti”; i.2) in positivo, per il pertinente forgiare ex novo l’oggetto della “violazione di legge”, che deve avere ora per oggetto regole specifiche previste in modo espresso da fonti primarie e che non lascino al funzionario pubblico spazi di discrezionalità;
- affiora trasparente l’intento di sbarrare la strada in guisa tranchant e definitiva ad interpretazioni giurisprudenziali capaci di dilatare oltremodo la sfera di operatività della norma introdotta dalla legge n. 234 del 1997: la puntualizzazione che l’abuso deve consistere nella violazione di regole “specifiche” mira difatti ad impedire che si sussuma nell’ambito della condotta tipica anche l’inosservanza di norme di principio, quale l’art. 97 Cost.; richiedendo che le regole siano espressamente previste dalla legge (ordinaria) e tali da non lasciare «margini di discrezionalità», il Legislatore del 2020 vuole, in sostanza, (provare ancora una volta a) negare rilievo penale al compimento di atti viziati da “mero” eccesso di potere; come affiora dal Comunicato stampa del Consiglio dei ministri, 7 luglio 2020, n. 54, l’intervento ha lo scopo, ratione materiae, di definire «in modo più puntuale il reato di abuso d’ufficio, affinché i funzionari pubblici abbiano certezza su quali sono gli specifici comportamenti puniti dalla legge»;
- si assiste allora ad una modifica di segno restrittivo dell’area di rilevanza penale – specie nel raffronto con la “norma vivente” disegnata dalle ricordate interpretazioni giurisprudenziali – con conseguenti effetti di abolitio criminis parziale, operanti, come tali, ai sensi dell’art. 2, secondo comma, cod. pen., anche in rapporto ai fatti anteriormente commessi;
- proprio scandagliando una fattispecie attinente a “fatti anteriori”, la nuova formulazione dell’art.323 c.p. viene rimessa alla Corte costituzionale che, nel 2022, “salva” tuttavia la disposizione tanto sul crinale formale della “fonte” (decreto legge) con la quale è stata introdotta quanto, su quello sostanziale, con riguardo alla compatibilità con la Carta (ed in particolare con l’art.97 della Costituzione) della disciplina in esso inscritta, potendo la Consulta, semmai, intervenire in bonam partem, e non già in malam partem con riguardo ad una norma che abbia comunque contingentato la punibilità del soggetto pubblico agente riforgiando l’intera, pertinente fattispecie, in un’ottica dunque di favor rei;
- la versione dell’art.323 c.p. in vigore, la cui compatibilità con la Costituzione è stata dunque (al momento) ribadita dalla Corte costituzionale, si prefigge vieppiù lo scopo di scongiurare che su funzionari onesti gravi il peso di una eccessiva incertezza in ordine alla possibilità di essere sottoposti ad indagini, a procedimento o a processo (penale) in relazione al disimpegno delle loro funzioni; ciò, in sostanza, legando in qualche modo le mani all’interprete, e segnatamente al giudice penale, il cui potere di scandaglio sull’azione della PA viene tutt’affatto contingentato e, con riguardo all’esercizio di potestà discrezionali, financo eliso, con positive ricadute in termini di “abbattimento” della burocrazia difensiva e, con essa, del c.d. “rifiuto della firma”;
- ciò pur a fronte di statistiche giudiziarie capaci di far registrare la notevole ampiezza della forbice tra indagini avviate per abuso d’ufficio e condanne alfine inflitte che, se da un lato ha portato a riflettere sulla corretta gestione della notitia criminis (sovente collegata alla mera segnalazione alla competente Procura della Repubblica di atti amministrativi illegittimi), dall’altro non è in grado di annullare i costi, tanto personali quanto sociali, del funzionario investito da un’indagine penale per presunto “abuso d’ufficio”, recando seco contegni “difensivi” di natura statica, talvolta pignola e in ogni caso il più possibile rassicurante (a fini di esclusione di responsabilità), con pesante incidenza sulla stessa efficacia ed efficienza dell’azione pubblica.
Cos’altro occorre rammentare, sul piano sistematico, dei rapporti tra azione della PA, processo penale e processo amministrativo, siccome sollecitato dalla figura dell’abuso d’ufficio?
- è sufficiente qui un mero accenno, muovendo dalla considerazione onde la figura di cui all’art.323 c.p., come del resto altre inserite nel codice penale a salvaguardia dell’azione pubblica dall’operato di funzionari infedeli, consente di intersecare il diritto amministrativo, quello penale e le pertinenti declinazioni processuali (processo penale e processo amministrativo);
- di norma, l’atto amministrativo affetto da violazione di legge o da eccesso di potere è assunto illegittimo e, come tale, impugnabile dal destinatario (sfavorito) in un breve termine di decadenza;
- esso si atteggia dunque ad atto “annullabile” ex art.21 octies, comma 1, della legge 241.90, idoneo a consolidarsi in caso di mancata impugnativa da parte del soggetto legittimato (e interessato) in sede processuale amministrativa;
- l’eventuale condanna definitiva del funzionario infedele in sede penale (anche per abuso d’ufficio) implica tuttavia l’accertamento – riconducibile appunto al giudice penale, ed in seno al processo penale – della intervenuta violazione di “norme imperative” da parte del funzionario medesimo, con conseguente, potenziale “nullità” dell’atto amministrativo pertinente (anche già sul crinale strutturale), con possibile rilevanza dell’art.21 septies della legge 241.90 (in luogo del richiamato art.21 octies);
- è un problema analogo a quello che si pone nei rapporti tra diritto penale e diritto civile dei contratti, onde un comportamento “doloso” del contraente nei confronti della controparte, se in sede civile fa scattare – attraverso il regime del pertinente “vizio della volontà” – l’annullabilità del divisato contratto, esso – laddove penalmente rilevante (si pensi alla truffa ex art.640 c.p.) – potrebbe a rigore importare nullità del contratto ridetto (si rinvia sul punto all’apposito CRONOPERCORSO sui c.d. reati-contratto e reati in contratto);
- la tendenza degli interpreti è tuttavia quella a tenere separati i tre sotto-sistemi – civile, penale e amministrativo – ciascuno governato dalle proprie regole e dai propri rimedi, con conseguente assunzione (di regola), tanto dell’atto amministrativo (dinanzi al GA) quanto del contratto (dinanzi al GO in sede civile), come meramente “annullabili”, e non già “nulli”, pur a fronte della rilevanza penale del contegno tenuto, rispettivamente, dal privato che spende la propria autonomia negoziale o dal funzionario che spende il potere pubblico ad esso affidato dalla legge;
- in ambito civilistico, fanno tuttavia eccezione gli effetti prodotti, in termini di nullità – e non già di mera annullabilità – dalla circonvenzione di incapace ex art.643 c.p., stante la necessità di assicurare una peculiare tutela ai soggetti più deboli e fragili.