Massima
Da sempre particolare attenzione è stata prestata, in ottica sanzionatoria, alla strumentalizzazione delle funzioni rivestite – e del conseguente potere esercitato, siccome giuridicamente riconosciuto secondo una declinazione, di volta in volta pubblica o privata – da determinati soggetti nei loro eventuali (o necessari) rapporti con i terzi, sia nella pertinente veste “attiva” rispetto a fatti inadempimento reato, sia nell’opposta foggia di eventuali vittime; ciò con particolare riguardo alle fattispecie “sessualmente orientate” nel cui contesto campeggi il c.d. abuso di autorità, di recente sempre meno “esclusivamente pubblicistico” e sempre più “anche privatisticamente” orientato, con conseguente aggravamento circostanziale del trattamento sanzionatorio.
Crono-articolo
Nel diritto romano, l’abuso di autorità affiora già in epoca arcaica, con riferimento ai poteri tendenzialmente assoluti del paterfamilias il quale ultimo non può vendere – giusta mancipatio – per più di tre volte il proprio figlio, pena la relativa “affrancazione” dal pertinente potere: stando infatti alle Dodici Tavole (XII, IV.2) “si pater filium ter venum duit, filius a patre liber esto”, secondo un meccanismo che verrà strumentalizzato in seguito per dare un discendente a chi non lo ha (attraverso massime l’istituto dell’adoptio).
Significativa più avanti, in un ambito “civil-penalistico”, la Lex Laetoria de circumscriptione adulescentium del 191 a.c., alla cui stregua chiunque raggiri un minore di 25 anni proponendogli un affare svantaggioso può essere sottoposto ad un’azione “penale” popolare, e dunque ad un’azione orientata a sanzionare il colpevole assai più che a ripetergli il maltolto.
Un consistente ed emblematico terreno di elezione dell’abuso di autorità romanistico affiora poi, massime nel contesto della tarda Repubblica (con significative proiezioni nel successivo Principato), in materia di concussione, con riguardo alla possibilità di chiedere in restituzione (c.d. repetundae) quanto indebitamente ottenuto da un funzionario pubblico (anche a livello provinciale) secondo schemi nel diritto moderno assimilabili all’estorsione, alla corruzione e soprattutto alla concussione.
Si succedono in proposito – senza qui scandagliarne singulatim lo specifico contenuto – varie Leges: la lex Calpurnia del 149 a.C., la lex Iuna di poco successiva (viene collocata tra il 149 e il 123 a.C.), la lex Sempronia repetundarum del 123 a.C. – quest’ultima proposta da Caio Gracco – la lex Acilia del 111 a.C., le leges Servilie del 101-100 a.C., la lex Cornelia dell’ 81 a.C. varata su iniziativa di Silla e la lex Iulia del 59 a.C., proposta da Caio Giulio Cesare.
1889
Il 30 giugno viene varato il R.D. n.6133, codice Zanardelli, di impianto liberale, nel cui contesto precettivo campeggiano diverse disposizioni in materia di c.d. abuso di autorità.
Sul crinale dei rapporti personali, l’art. 336 punisce ad esempio l’abuso della patria potestà e l’art. 390 l’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, mentre il successivo art.404 aggrava il furto allorché commesso con abuso della fiducia derivante da scambievoli relazioni di ufficio, di prestazione d’opera o di coabitazione, anche temporanea, fra il derubato e il colpevole, ed abbia ad oggetto cose che – in conseguenza di tali relazioni – siano lasciate od esposte alla fede del colpevole; l’art.415 incrimina poi l’abuso dei bisogni o della inesperienza di una persona minore, nonché dello stato di infermità o deficienza psichica di una persona; ancora, l’art.459 punisce (a livello “collettivo”) l’abuso di credulità popolare.
Sullo specifico versante dei rapporti tra privati cittadini e potere pubblico, gli art.35, 175 e 176 disciplinano il generico abuso d’ufficio; l’art.152 l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti ed il successivo art.162 quello di persona addetta al servizio delle poste,dei telegrafi o dei telefoni.
Particolarmente importanti, rispettivamente, gli articoli:
– 192, alla cui stregua le norme incriminatrici su violenza e resistenza all’Autorità non si applicano quando il pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto, eccedendo, con atti arbitrari, i limiti delle relative attribuzioni;
– 199 onde, in tema di oltraggio e di altri delitti contro persone rivestite di pubblica autorità, le pertinenti disposizioni incriminatrici non si applicano ancora una volta quando il pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto, eccedendo, con atti arbitrari, i limiti delle relative attribuzioni.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, che anch’esso disciplina espressamente – tanto in sede di parte generale quanto in ambito di parte speciale – talune fattispecie in cui è significativo l’abuso di autorità.
Muovendo dalla parte generale, stando all’art.7 è punito secondo la legge italiana il cittadino (non anche lo straniero, giacché non potrebbe) che commette in territorio estero, tra gli altri, dei delitti in qualità di pubblico ufficiale a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle proprie funzioni (n.4); stando poi al successivo art.31, ogni condanna per delitti commessi, tra gli altri, con l’abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o ad un pubblico servizio importa l’interdizione temporanea dai pertinenti pubblici uffici. Ancora, per l’art.34, comma 2, la condanna per delitti commessi con abuso della patria potestà o dell’autorità maritale importa la sospensione del pertinente esercizio per un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta.
Molto significativo l’art.61 in materia di circostanze aggravanti comuni, alla cui stregua aggravano il reato – quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali – tra gli altri, l’aver commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto (versante “pubblicistico”: n.9), nonché con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione di opera, di coabitazione o di ospitalità (versante “privatistico”: n.11).
Stando invece all’art.61, n.10, scatta una “giustapposta” circostanza aggravante allorché il fatto sia commesso “contro” un “pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio, o rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato, ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno Stato estero, nell’atto o a causa dell’adempimento delle relative funzioni.
Quanto poi alla parte speciale, a titolo esemplificativo e limitandosi alle sole fattispecie di maggior richiamo, vanno rammentate in tema di rapporti “personali” l’abuso dei mezzi di correzione e disciplina (art.571), i maltrattamenti in famiglia (art.572) la circonvenzione di incapace (art.643), l’appropriazione indebita aggravata dalle circostanze di cui all’art.61, n.11 (art.646, comma 3: con procedibilità d’ufficio e non a querela), l’abuso della credulità popolare (art.661).
Una particolare menzione merita poi l’abuso di autorità “tecnica” perpetrato attraverso l’abusivo esercizio di una professione ex art.348 c.p.
In tema di rapporti tra cittadini e pubbliche autorità, significativi tra gli altri la concussione (art.317) l’abuso d’ufficio (art.323), la rivelazione di segreti d’ufficio (art.326), il sequestro di persona del pubblico ufficiale con abuso dei poteri inerenti alle proprie funzioni, (art.605, comma 2, n.2), l’arresto illegale (art.606), l’indebita limitazione della libertà personale (art.607), l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art.608), la perquisizione e ispezione personali arbitrarie (art.609), la violazione di domicilio commessa da un pubblico ufficiale (art.615), la violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza commesse da persona addetta al servizio delle poste, dei telegrafi e dei telefoni (art.619).
Sullo specifico crinale sessuale, va rammentato innanzi tutto l’art.519 alla cui stregua chiunque, con violenza o minaccia, costringe taluno a congiunzione carnale è punito con la reclusione da 3 a 10 anni (comma 1), pena alla quale soggiace anche (comma 2) chi si congiunge carnalmente con persona la quale al momento del fatto: 1) non ha compiuto gli anni 14; non ha compiuto gli anni 16, quando il colpevole ne è l’ascendente o il tutore, ovvero è un’altra persona a cui il minore è affidato per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o custodia; 3) è malata di mente, ovvero non è in grado di resistergli a cagione della propria condizione di inferiorità psichica o fisica, anche se questa è indipendente dal fatto del colpevole; 4) è stata tratta in inganno, per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Emblematico poi l’art.520 alla cui stregua il pubblico ufficiale che – fuori dai casi preveduti dall’articolo precedente (violenza carnale: art.519) – si congiunge carnalmente con una persona arrestata o detenuta, di cui ha la custodia per ragione del suo ufficio, ovvero con persona che è a lui affidata in esecuzione di un provvedimento dell’Autorità competente, è punito con la reclusione da 1 a 5 anni (comma 1); pena che si applica anche se il fatto è commesso da altro pubblico ufficiale rivestito, per ragione del relativo ufficio, di qualsiasi autorità sopra taluna delle persone suddette (comma 2).
Ancora, stando al successivo art.521 chiunque, usando dei mezzi o valendosi delle condizioni indicate nei due articoli precedenti, commette su taluno atti di libidine diversi dalla congiunzione carnale soggiace alle pene stabilite nei detti articoli, ridotte di un terzo (comma 1); pene alle quali soggiace anche chi, usando dei mezzi o valendosi delle condizioni indicate nei due articoli precedenti, costringe o induce taluno a commettere gli atti di libidine su se stesso, sulla persona del colpevole o su altri (comma 2).
Importante sottolineare infine come l’ispirazione autoritaria del codice Rocco porti, nondimeno, alla soppressione della circostanza della reazione legittima ad atti arbitrari del pubblico ufficiale, già presente nel codice Zanardelli del 1889 agli articoli 192 e 199.
1944
Il 14 settembre viene varato il decreto legislativo luogotenenziale n.288, recante provvedimenti relativi alla riforma della legislazione penale, secondo il cui art.4 non si applicano le disposizioni degli articoli 336, 337, 338, 339, 341, 342, 343 del codice penale quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle proprie attribuzioni.
Viene dunque reintrodotta – con riguardo a taluni reati contro l’amministrazione della giustizia (si pensi alla c.d. resistenza a pubblico ufficiale) – la esimente della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, in precedenza soppressa dal codice penale.
1948
Viene varata la Costituzione che prevede la natura personale della responsabilità penale, cui è connessa la funzione tendenzialmente rieducativa della pena (art.27): il condannato deve percepire la pena come tendenzialmente rieducativa per la commissione di un fatto penalmente rilevante che gli viene rimproverato, circostanza da ammttersi vieppiù in presenza di fattispecie in cui la condotta (azione od omissione) è in certamente riconducibile alla coscienza e volontà del relativo autore, nella pertinente veste “sovraordinata” rispetto alla vittima della propria condotta criminosa.
Da ricordare anche l’art.28, onde i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, anche secondo le leggi penali (oltre che civili ed amministrative) degli atti compiuti in violazione di diritti (con responsabilità civile estesa allo Stato e agli enti pubblici ridetti).
Stando al successivo art.97, i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione (comma 1); nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari (comma 2) ed agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge (comma 3).
Significativo anche il comma 1 dell’art.98, onde i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione, circostanza che impone loro di non strumentalizzare i poteri che l’ordinamento gli conferisce nell’interesse pubblico.
Sul versante privato, di rilievo l’art.41 alla cui stregua se l’iniziativa economica privata è libera (comma 1), essa non può tuttavia svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (comma 2).
1982
Il 13 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione, n.1347 , Di Gaspare, che si occupa della figura del “pubblico ufficiale” di cui all’art. 520 c.p.
Per il Collegio la relativa posizione, secondo la lettura della norma offertane dalla prevalente giurisprudenza, è già di per sé sufficiente alla configurazione del reato ivi previsto, non essendo richiesta la costrizione, bensì il solo nesso occasionale tra la posizione di pubblico ufficiale ed il fatto commesso, tanto da ritenersi penalmente rilevante la condotta posta in essere anche con soggetto consenziente o indotta dal soggetto passivo, essendo peraltro il reato configurabile soltanto quando quest’ultimo sia una persona arrestata, detenuta o in affidamento per esecuzione di un provvedimento dell’autorità competente.
1987
*Il 09 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione, n.2909, Panicola, che si occupa della figura del “pubblico ufficiale” di cui all’art. 520 c.p.
Per il Collegio la relativa posizione, secondo la lettura della norma offertane dalla prevalente giurisprudenza, è già di per sé sufficiente alla configurazione del reato ivi previsto, non essendo richiesta la costrizione, bensì il solo nesso occasionale tra la posizione di pubblico ufficiale ed il fatto commesso, tanto da ritenersi penalmente rilevante la condotta posta in essere anche con soggetto consenziente o indotta dal soggetto passivo, essendo peraltro il reato configurabile soltanto quando quest’ultimo sia una persona arrestata, detenuta o in affidamento per esecuzione di un provvedimento dell’autorità competente.
* * *
*Il 15 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione, n.7406, Maione, che si occupa della figura del “pubblico ufficiale” di cui all’art. 520 c.p.
Per il Collegio la relativa posizione, secondo la lettura della norma offertane dalla prevalente giurisprudenza, è già di per sé sufficiente alla configurazione del reato ivi previsto, non essendo richiesta la costrizione, bensì il solo nesso occasionale tra la posizione di pubblico ufficiale ed il fatto commesso, tanto da ritenersi penalmente rilevante la condotta posta in essere anche con soggetto consenziente o indotta dal soggetto passivo, essendo peraltro il reato configurabile soltanto quando quest’ultimo sia una persona arrestata, detenuta o in affidamento per esecuzione di un provvedimento dell’autorità competente.
1996
Il 15 febbraio viene varata la legge n.66, recante norme contro la violenza sessuale, il cui art. 3 introduce nel codice penale un nuovo art.609 bis, rubricato violenza sessuale ed alla cui stregua chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da 5 a 10 anni (comma 1).
Alla stessa pena soggiace poi chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; ovvero 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona (comma 2).
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi (comma 3).
Vengono contestualmente abrogati gli articoli 519, 520 e 521 c.p.
Il successivo art.5 inserisce nel codice penale anche l’art.609 quater, alla cui stregua soggiace alla pena stabilita dall’articolo 609 bis chiunque, al di fuori delle ipotesi previste in detto articolo, compie atti sessuali con persona che, al momento del fatto: 1) non ha compiuto gli anni 14; 2) non ha compiuto gli anni 16, quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza (comma 1).
Non e’ poi punibile il minorenne che, al di fuori delle ipotesi previste nell’articolo 609-bis, compie atti sessuali con un minorenne che abbia compiuto gli anni 13, se la differenza di età tra i soggetti non e’ superiore a tre anni (comma 2); nei casi di minore gravità la pena e’ diminuita fino a due terzi (comma 3) mentre si applica la pena di cui all’articolo 609-ter, secondo comma, se la persona offesa non ha compiuto gli anni 10.
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Il 30 settembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione, n.1318, alla cui stregua l’abuso di autorità ex art.61, n.11, c.p., va assunto sussistente a carico di un amministratore di una società per azioni che abbia indebitamente fotocopiato i disegni industriali di proprietà di quest’ultima per poi trasferire il pertinente know how ad altra società concorrente.
2000
Il 27 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione, n.860, Colafemmina, alla cui stregua l’abuso di autorità di cui all’art. 609-bis c.p., comma 1, presuppone (indefettibilmente) nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico.
La sentenza assume rilevante, ai fini della soluzione interpretativa prospettata, la circostanza onde l’art. 609-bis c.p., comma 1, ha sostituito le fattispecie precedentemente previste dagli abrogati art. 519 c.p., comma 1 e artt. 520 e 521 c.p., ritenendo l’abuso d’autorità coincidente con l’abuso della qualità di pubblico ufficiale già contemplato dall’art. 520.
Perno della decisione è la forza di coartazione che deriva da un esercizio distorto dei poteri connessi con la funzione preminente esercitata dal titolare della posizione sovraordinata, in un caso in cui peraltro la natura formale e pubblicistica della autorità della quale è investito l’imputato non viene in discussione, trattandosi di un ufficiale comandante un battaglione dell’esercito.
* * *
Il 05 luglio esce la sentenza delle SSUU della Cassazione n.13, Bove, che, con riguardo alla violenza sessuale c.d. “costrittiva” in relazione al concetto di “abuso di autorità“, afferma in via incidentale (occupandosi direttamente dell’interpretazione dell’art. 600-ter c.p., comma 1) che l’abuso di autorità ridetto di cui all’art. 609-bis c.p., comma 1, presuppone indefettibilmente nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico.
Per la Corte ne va dunque esclusa la configurabilità nei confronti di un insegnante privato che abbia compiuto atti sessuali con un minore degli anni sedici a lui affidato per ragioni di istruzione ed educazione, dovendosi conseguentemente assumere corretta la decisione del giudice di merito che ha qualificato il fatto come atti sessuali con minorenne ai sensi dell’art. 609-quater c.p..
Secondo il Collegio, più nello specifico, è significativa la circostanza onde l’art. 609-bis c.p., comma 1, ha sostituito le fattispecie precedentemente previste agli abrogati art. 519 c.p., comma 1 e artt. 520 e 521 c.p., ritenendo l’abuso d’autorità coincidente con l’abuso della qualità di pubblico ufficiale già contemplato dall’art. 520.
La Corte osserva che – in sede cautelare, nella misura custodiale originaria – al B. era stato contestato il reato di violenza sessuale aggravata di cui agli articoli 609 bis e 609 ter n.1 c.p., perché, mediante abuso dell’autorità di insegnante privato di sostegno, aveva costretto il minore di anni tredici a subire e a compiere atti sessuali.
Il tribunale del riesame, con motivazione per la Corte insindacabile in sede di legittimità, ha accertato in fatto che non era intervenuta alcuna costrizione fisica tra il B. e il minore (circostanza questa non contestata neppure dal pubblico ministero ricorrente); ed ha aggiunto in linea di diritto che non ricorreva abuso d’autorità tra l’insegnante privato (che impartiva lezioni di latino e aiutava il minore nello svolgimento dei compiti scolastici) e il minore stesso, intercorrendo piuttosto tra gli stessi solo un rapporto di educazione e istruzione, sicché doveva assumersi integrato non il reato contestato nell’ordinanza custodiale (art. 609 bis, comma 1), quanto piuttosto il reato di cui all’articolo 609 quater n. 2, perché il B. aveva compiuto atti sessuali con minore di sedici anni che gli era stato affidato per ragioni di istruzione e di educazione.
La qualificazione giuridica del fatto operata nell’ordinanza impugnata appare per la Corte corretta; di contro, non è pertinente né fondata l’osservanza critica del pubblico ministero ricorrente, secondo cui l’abuso d’autorità di cui all’articolo 609 bis sussisterebbe anche quando l’agente abusi delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto (comma secondo, n. 1, dell’articolo 609 bis).
Infatti da una parte l’abuso delle condizioni di inferiorità non è stato mai contestato all’imputato, e dall’altra esso non può essere confuso con l’abuso di autorità di cui al comma primo dell’articolo 609bis. Invero, chiosa ancora la Corte, il delitto di violenza sessuale introdotto dall’articolo 609 bis consiste in uno o più atti sessuali compiuti senza il consenso della vittima, con violenza, minaccia o abuso d’autorità da parte dell’agente (primo comma).
A questa fattispecie è equiparata quella in cui gli atti sessuali sono compiuti con consenso della vittima, che però il legislatore considera «viziato» perché l’agente ha abusato della relativa condizione di inferiorità fisica o psichica ovvero ha tratto in inganno la vittima sostituendosi ad altra persona (secondo comma).
Se si considera che la fattispecie di cui al primo comma ha sostituito quella prevista dagli abrogati articoli 519, primo comma, e 520 (nonché dall’articolo 521), se ne deve concludere che l’abuso d’autorità previsto dalla norma vigente – art.609 bis, comma 1 – coincide con l’abuso della qualità di pubblico ufficiale di cui all’articolo 520, e comunque presuppone una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico.
Del tutto diversa è la fattispecie di cui all’articolo 609 quater, che esclude espressamente le ipotesi di cui all’articolo 609 bis: essa è infatti integrata da atti sessuali compiuti, “senza costrizione”, con un minorenne, il cui consenso è però «viziato» ex se dalla circostanza onde il minore in parola non ha ancora compiuto 14 anni, ovvero non ha ancora compiuto gli anni 16 quando il colpevole sia l’ascendente, l’educatore, l’istruttore ecc.
In questi casi – conclude la Corte – il differenziale di maturità sessuale che «vizia» e invalida il consenso del minore riflette una gamma di rapporti vari (di parentela, educazione o istruzione, cura, vigilanza, o semplice convivenza) che non sempre hanno forma giuridica e comunque differiscono nettamente dal rapporto autoritativo di cui al primo comma dell’articolo 609bis.
Proprio per questa differenza ontologica e giuridica tra i due tipi di rapporto, non è ravvisabile alcuna illogicità laddove l’ordinanza impugnata da un lato esclude l’esistenza di un rapporto autoritativo e dall’altro afferma contestualmente la sussistenza del rapporto di educazione e istruzione.
2002
Il 30 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.32513, che – in tema di reati sessuali ed abuso di autorità – si conforma al precedente delle SSUU scandagliando una fattispecie di abuso sessuale posto in essere da un insegnante in danno di una minorenne frequentante un corso di formazione professionale.
Il Collegio conferisce significatività al fatto che la posizione autoritativa richiesta dall’art. 609-bis c.p., comma 1, da individuarsi nei termini indicati appunto dalle Sezioni Unite, deve ritenersi distinta dalla ipotesi di violenza sessuale di cui al n. 1 del comma 2 del medesimo articolo, caratterizzata (non già dalla “costrizione” quanto piuttosto) dall’induzione all’atto sessuale di persona in condizioni di inferiorità fisica o psichica e da quella di atti sessuali compiuti con minori degli anni sedici ad opera dell’ascendente o di altri soggetti in rapporto qualificato con la persona offesa, considerata dall’art. 609-quater c.p., comma 1, n. 2.
Per la Corte, più in specie, va rilevato che, nell’ipotesi di abuso di autorità, vi è la “costrizione” al compimento degli atti sessuali la quale difetta, invece, negli altri casi, caratterizzati da un consenso viziato dalle condizioni di inferiorità della vittima (art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1); consenso che ricorre anche nel reato di atti sessuali con minorenne (art. 609 quater c.p., comma 1, n. 2), ma che si ritiene invalido in conseguenza del rapporto che lega la persona offesa all’autore del reato, sulla base delle tipizzazioni contenute nella norma.
2004
*L’11 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione, n.5321, Retillo, che si occupa della figura del “pubblico ufficiale” di cui all’art. 520 c.p.
Per il Collegio la relativa posizione, secondo la lettura della norma offertane dalla prevalente giurisprudenza, è già di per sé sufficiente alla configurazione del reato ivi previsto, non essendo richiesta la costrizione, bensì il solo nesso occasionale tra la posizione di pubblico ufficiale ed il fatto commesso, tanto da ritenersi penalmente rilevante la condotta posta in essere anche con soggetto consenziente o indotta dal soggetto passivo, essendo peraltro il reato configurabile soltanto quando quest’ultimo sia una persona arrestata, detenuta o in affidamento per esecuzione di un provvedimento dell’autorità competente.
2006
Il 6 febbraio viene varata la legge n.38 il cui art.6, comma 1, lettera b) introduce un nuovo comma 2 nell’art.609 quater c.p., onde, al di fuori delle ipotesi previste dall’articolo 609-bis, l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente, o il tutore che, con “l’abuso dei poteri” connessi alla relativa posizione, compie atti sessuali con persona minore che ha compiuto gli anni sedici, è punito con la reclusione da tre a sei anni
2007
Il 24 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.2283 che – nel dar conto della nuova figura di violenza sessuale introdotta ad opera della legge 6 febbraio 2006, n. 38, giusta inserimento di un ulteriore comma dopo il primo dell’art. 609-quater c.p. – indica, quale ulteriore ragione di adesione alla pronuncia delle Sezioni Unite in tema di abuso di autorità, oltre alla successione di leggi valorizzata dalla sentenza n. 13/2000 (rispetto in particolare all’originario art.520 del codice), anche un argomento definito di carattere sistematico.
Più precisamente, il Collegio osserva che, considerando l’abuso di autorità riferibile anche a poteri di carattere privatistico, verrebbe meno la possibilità di distinguere l’ipotesi di reato contemplata dall’art. 609-bis c.p., comma 1, dall’ipotesi di rapporto sessuale con abuso di potere parentale o tutorio ora previsto dall’art. 609-quater c.p., comma 2; e ciò in quanto l’unica interpretazione idonea a salvaguardare la coerenza normativa è quella che attribuisce carattere “pubblicistico” all’autorità considerata dalla prima delle richiamate disposizioni e carattere “privatistico” a quella considerata dalla seconda.
Invero, intendendo come autorità ogni posizione sovraordinata pubblicistica o privatistica, continua la Corte, l’art. 609-quater c.p., comma 2, resterebbe praticamente privo di effetti, poiché esso presuppone espressamente la inapplicabilità delle ipotesi previste nell’art. 609 bis, tra le quali rientra anche quella di ogni atto sessuale commesso appunto con “abuso di autorità”.
2008
L’11 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.6433 che – in materia di reati sessuali ed abuso di autorità – abbraccia l’orientamento della prevalente dottrina la quale propende per un concetto di abuso di autorità più ampio, comprensivo di ogni relazione, anche di natura privata (e, dunque, non solo formalmente pubblica), in cui l’autore del reato rivesta una posizione di supremazia della quale si avvale per coartare la volontà della persona offesa.
Per la Corte, più in specie, la convivenza dell’imputato con la madre del minore (vittima del reato) è da assumersi valido presupposto dell’abuso di autorità ridetto: non affiora nondimeno dal tenore della pronuncia un esplicito dissenso rispetto alle precedenti decisioni in senso opposto e, dunque, più “formalmente pubblicistico”.
2009
Il 10 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.23873 che – in materia di reati sessuali ed abuso di autorità – abbraccia l’orientamento della prevalente dottrina che propende per un concetto di abuso di autorità più ampio, comprensivo di ogni relazione, anche di natura privata (e, dunque, non solo formalmente pubblica), in cui l’autore del reato rivesta una posizione di supremazia della quale si avvale per coartare la volontà della persona offesa.
Il Collegio manifesta questa volta un esplicito dissenso rispetto alle precedenti decisioni in senso opposto laddove, esaminando un caso in cui il fatto era stato commesso con abuso della potestà genitoriale – anche se ai soli fini della verifica della correlazione tra accusa e sentenza – dà conto del formarsi (per l’appunto) di un diverso orientamento che colloca nell’ambito dell’abuso di autorità (ex art.609 bis, comma 1, c.p.) ogni forma di strumentalizzazione del rapporto di supremazia, senza distinzioni tra autorità pubblica e privata, osservando che, per individuare quest’ultima, va fatto riferimento all’art. 61 c.p., n. 11.
* * *
Il 15 luglio viene varata la legge n.94, recante disposizioni in materia di sicurezza pubblica, il cui art.1, comma 10, abroga l’art.4 del decreto luogotenenziale 288.44.
Il precedente comma 9 introduce contestualmente nel codice penale un nuovo art.393 bis alla cui stregua non si applicano le disposizioni degli articoli 336, 337, 338, 339, 341 bis, 342, 343 del codice penale quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle proprie attribuzioni.
In sostanza, viene dunque codificata l’esimente della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio, con riguardo a taluni specifici reati contro l’amministrazione della giustizia.
Di rilievo l’art.3, comma 19, lettera a), che inserisce nel codice penale il nuovo art.600 octies, alla stregua del cui comma 1, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque si avvale per mendicare di un persona minore degli anni quattordici, comunque, non imputabile, ovvero permette che tale persona, ove sottoposta alla sua autorità o affidata alla sua custodia o vigilanza, mendichi, o che altri se ne avvalga per mendicare, è punito con la reclusione fino a tre anni.
Significativo infine anche l’art.3, comma 20, che introduce nel codice penale la nuova circostanza aggravante comune di cui all’art.61, numero 11 ter, onde è aggravato il delitto contro la persona commesso ai danni di un soggetto minore all’interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o di formazione.
2010
Il 16 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.14837, Cardinali, alla cui stregua la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11 va assunta compatibile con il reato di violenza sessuale con abuso di autorità: si tratta di una freccia nell’arco della tesi che vuole anche l’autorità “privatistica” potenziale oggetto di abuso di cui all’art.609 bis c.p.
2012
Il 23 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.2681 che esclude – in ciò uniformandosi alla sentenza 2283/2007 – che la potestà genitoriale possa essere considerata un istituto di natura “pubblicistica”, diversamente da quanto ritenuto dal giudice del merito, che l’aveva assunta come prevista e disciplinata dall’ordinamento al fine di consentire ai genitori la possibilità di adempiere convenientemente i loro doveri e svolgere compiutamente le loro prerogative.
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Il 22 febbraio esce la sentenza della sezione IV della Cassazione n.6982 alla cui stregua – in tema di violenze sessuali commesse da soggetti rivestenti la qualifica di pubblico ufficiale – va ribadita la natura necessariamente formale e pubblicistica della posizione autoritativa dell’agente, con esclusione dunque delle fattispecie in cui la ridetta natura sia meramente privata.
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Il 22 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.19419 che, in tema di reati sessuali ed abuso di autorità, effettua un primo effettivo confronto tra le diverse posizioni giurisprudenziali sul campo, ritenendo configurato l’abuso di autorità nello stato di soggezione indotto dall’imputato sulla cognata, in un contesto familiare di particolare degrado, caratterizzato dalla supremazia dell’uomo rispetto alla componente femminile.
Ancora una volta viene richiamata dalla Corte l’attenzione sul contenuto dell’art. 61 c.p., n. 11 (la cui compatibilità con il reato di violenza sessuale con abuso di autorità è stata, peraltro, ripetutamente riconosciuta dalla giurisprudenza:; Sez. 3, n. 14837 del 04/03/2010, Cardinali, Rv. 246819) osservando che lo stesso si riferisce, indifferentemente, all’abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero di relazioni d’ufficio, di prestazioni d’opera, di coabitazione o di ospitalità e ricordando come la giurisprudenza ne abbia sempre offerto un’interpretazione pacificamente ampia, riferibile indistintamente tanto all’autorità pubblica che a quella privata, mentre quando il legislatore intende considerare una posizione autoritativa di tipo pubblicistico la indica espressamente, come nel caso dell’art. 608 c.p., il quale fa specifico riferimento al “pubblico ufficiale“.
Menzione quest’ultima che, presente nell’abrogato art. 520 c.p., non è stata ripetuta nella formulazione dell’art. 609-bis c.p. con il preciso fine di sanzionare qualsiasi persona che, dotata di autorità pubblica o privata, abusi della propria posizione per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali.
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Il 21 settembre esce la sentenza della sezione III della Cassazione n.36595 alla cui stregua – in tema di violenze sessuali commesse da soggetti rivestenti la qualifica di pubblico ufficiale – va ribadita la natura necessariamente formale e pubblicistica della posizione autoritativa dell’agente, con esclusione dunque delle fattispecie in cui la ridetta natura sia meramente privata.
Per il Collegio va peraltro precisato che l’abuso di autorità consiste nella strumentalizzazione del proprio potere, realizzato attraverso una subordinazione psicologica tale per cui la vittima viene costretta al rapporto sessuale, risolvendosi, pertanto, in una vera e propria costrizione che non può essere desunta, in via meramente presuntiva, sulla base della posizione autoritativa ricoperta dal soggetto agente.
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Il 17 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.40848,alla cui stregua – muovendo dalla nozione ristretta e meramente “pubblicistica” di abuso di autorità – va esclusa la posizione per l’appunto “pubblicistica” del soggetto agente laddove questo eserciti le funzioni di tutore.
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Il 01 ottobre viene varata la legge n.172, il cui art.4 modifica l’art.609 quater, comma 2, c.p., onde, fuori dei casi previsti dall’articolo 609-bis, l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato, o che abbia con quest’ultimo una relazione di convivenza, che, con “l’abuso dei poteri” connessi alla relativa posizione, compie atti sessuali con persona minore che ha compiuto gli anni sedici, è punito con la reclusione da tre a sei anni
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Il 10 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.47869,alla cui stregua – muovendo dalla nozione ristretta e meramente “pubblicistica” di abuso di autorità – va esclusa la posizione per l’appunto “pubblicistica” del soggetto agente che eserciti le funzioni di responsabile di un centro di accoglienza quale ente ausiliario riconosciuto dalla Regione ed iscritto nel Registro generale del volontariato.
2013
Il 14 agosto viene varato il decreto legge n.93, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province.
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Il 9 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.36869 che si occupa di una fattispecie di violenza sessuale perpetrata da un sacerdote nei confronti di un giovane minorato psichico.
Per il Collegio, giova in materia richiamare le precedenti decisioni relative agli elementi costitutivi dei reati di violenza sessuale caratterizzati da condotte di abuso delle condizioni di inferiorità psichica della persona offesa (a tale proposito si veda Sez. 3, n. 44978 del 22/10/2010, dep. 22/12/2010, C, Rv. 249111), tali linee interpretative non potendo che essere qui confermate.
È stato in proposito precisato – chiosa la Corte – che l’induzione a compiere o subire atti sessuali si realizza quando, con un’opera di persuasione sottile e subdola, l’agente spinge, istiga o convince la persona che si trova in stato di inferiorità ad aderire ad atti sessuali che diversamente non avrebbe compiuto (sez. 3, n. 20766 del 3/6/2010, T. e altro, Rv. 247654).
Quanto all’abuso, è stato ribadito che lo stesso consiste nel doloso sfruttamento da parte dell’autore del reato, delle condizioni di menomazione della vittima, che viene strumentalizzata con l’obiettivo di accedere alla relativa sfera intima a fini di soddisfacimento dei propri impulsi sessuali (cfr., tra le altre, sez. 4, n. 40795 del 3/10/2008, Cecere, Rv. 241326, che ha affermato in tema di violenza sessuale ai danni di soggetti che si trovano in stato di inferiorità fisica o psichica, l’induzione sufficiente alla sussistenza del reato non si identifica solamente nell’attività di persuasione esercitata sulla persona offesa per convincerla a prestare il proprio consenso all’atto sessuale, bensì consiste in ogni forma di sopraffazione posta in essere, senza ricorrere ad atti costrittivi ed intimidatori nei confronti della vittima, la quale, non risultando in grado di opporsi a causa della relativa condizione di inferiorità, soggiace al volere dell’autore della condotta, divenendo strumento di soddisfazione delle voglie sessuali di quest’ultimo: così già sez. 3, n. 2646 del 27/1/2004, Laffy, Rv. 227029).
Quindi, “indurre” ad un atto sessuale mediante abuso delle condizioni di inferiorità psichica altro non è che approfittare e strumentalizzare tali condizioni per accedere alla sfera intima della sessualità della persona, che a causa della relativa vulnerabilità, connessa all’infermità psichica, viene ad essere utilizzata quale mezzo per soddisfare le voglie sessuali dell’autore del reato, per cui lo stesso “fruisce” del corpo della persona la quale, per effetto di tali comportamenti, da soggetto di una relazione sessuale, viene ridotta al rango di “oggetto” dell’atto sessuale o di più atti sessuali (cfr. anche parte motiva di Sez. 3, n. 44978 del 22/10/2010, dep. 22/12/2010, C, Rv. 249111, che ha affermato che “il carattere consenziente del rapporto sessuale di un soggetto affetto da minorazione psichica è da escludersi ove si accerti che la malattia abbia impedito allo stesso di resistere all’altrui prevaricazione“).
Naturalmente è compito del giudice di merito verificare, con un’indagine adeguata e dandone conto nella motivazione, la situazione di inferiorità psichica della vittima, le modalità con le quali l’agente ha posto in essere comportamenti di induzione all’atto sessuale, abusando delle predette condizioni e la consapevolezza in capo al responsabile di abusare delle condizioni della vittima per fini sessuali.
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Il 10 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.37135 che si occupa di una fattispecie di abuso di autorità commesso da un maestro di arti marziali.
Per la Corte, più in specie, il primo e il secondo motivo di ricorso, imperniati rispettivamente sulla pretesa inapplicabilità dell’articolo 609 quater e delle aggravanti di cui all’articolo 61, nn. 5 e 11, c.p., con correlato vizio motivazionale, possono essere valutati congiuntamente perché relativi, a ben guardare, alla conformazione fattuale della vicenda, prospettando l’imputato che non vi sia stato abuso derivante dalla relativa posizione di maestro d’arti marziali, siano stati i ragazzi a chiedere e a scegliere le attività sessuali e queste comunque non siano avvenute durante le lezioni e in palestra.
È immediatamente evidente per il Collegio la inammissibile natura del motivo rispetto ai limiti della cognizione del giudice di legittimità.
Ad abundantiam, si osserva da parte della Corte che comunque correttamente il giudice d’appello ha motivato riguardo a tali profili (pagina 6-7), illustrando la fattispecie criminosa riconducibile all’articolo 609 quater c.p. aggravato ai sensi dell’articolo 61 nn. 5 e 11 c.p., ed evidenziando tra l’altro – in particolare quanto all’applicazione dell’articolo 61 n. 5 c.p. – il “forte coinvolgimento emotivo” che l’imputato aveva provocato nei ragazzi suoi allievi, come già rimarcato dal primo giudice.
È d’altronde chiaro che ciò integra anche l’abuso di autorità di cui all’articolo 61 n. 11 c.p., considerate le modalità con cui si sono svolti i vari episodi di rapporto sessuale tra il “maestro” e gli allievi siccome nitidamente evincibili, prima ancora che dalle motivazioni delle sentenze di merito, già dai dettagliati capi d’imputazione, dai quali emerge che l’imputato non si è limitato ad approfittare della minore età delle sue plurime vittime, ma si è oggettivamente avvalso nei confronti delle parti offese della relativa posizione apicale nel gruppo che si era costituito attorno alla propria attività di istruttore d’arti marziali (cfr. da ultimo Cass. sez. III, 13 giugno 2012 n. 37381), non assumendo peraltro incidenza, visto il concreto rapporto configuratosi, che la condotta criminosa sia stata posta in essere o meno dall’imputato durante le ore delle lezioni e proprio in palestra.
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Il 15 ottobre viene varata la legge n.119 che converte in legge, con modificazioni, il decreto legge n.93, introducendo nel codice penale, all’art.61, un nuovo numero 11 quinquies e così aggravando il trattamento sanzionatorio di chi abbia, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale, nonché nel delitto di cui all’art.572 c.p. (maltrattamenti in famiglia), commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni 18, ovvero in danno di persona in stato di gravidanza.
2014
Il 03 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.36704 che scandaglia una fattispecie di abuso di autorità commesso dal datore di lavoro nei confronti di una dipendente.
Il Collegio rinviene un ulteriore elemento di sostegno alla lettura in senso “anche privatistico” (e non già solo pubblicistico) della norma nel contenuto dell’art. 609-quater c.p., comma 2, laddove si riferisce al potere da parte di soggetto non necessariamente ricoprente una funzione pubblica, come il convivente della madre del minore abusato.
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Il 01 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.49990, concernente una fattispecie di abuso sessuale commesso dal superiore gerarchico su una dipendente della ditta presso la quale entrambi lavorano; posizione di superiore gerarchico rivestita che, in maniera del tutto coerente e per la Corte logicamente inattaccabile, la Corte d’appello fa nel caso di specie derivare dal fatto, non contestato se non in termini di assoluta genericità, che l’imputato fosse sostanzialmente uno dei contitolari della impresa ove la P. prestava il relativo servizio e che in tale veste operasse all’interno della pertinente ditta.
Scandagliando il primo motivo di impugnazione – con il quale è censurata la sentenza gravata per avere essa ritenuto integrato il reato di cui all’art. 609-bis cod. pen. anche nel caso in cui il soggetto attivo abbia realizzato la condotta tipica del reato in questione abusando di una posizione di autorità che gli deriva non da un rapporto di carattere pubblicistico ma da una relazione inter privatos – osserva la Corte che nella propria giurisprudenza sono rinvenibili decisioni espressive sia dell’orientamento più ampio, fatto proprio anche dalla Corte d’appello nel caso di specie, sia di un orientamento invece più restrittivo in base al quale, come è dato leggere con estrema nettezza, “in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità presuppone una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, derivante dal pubblico ufficio ricoperto dall’agente” (Corte di cassazione, Sezione III penale, 10 dicembre 2012, n. 47869).
Orientata nello stesso senso è la decisione della Corte n. 2681 del 2012, nella quale, oltre ad affermarsi che “l’espressione abuso di autorità che costituisce (…) una delle modalità di consumazione del reato previsto dall’art. 609-bis, cod. pen. non include la violenza sessuale commessa abusando della potestà di genitore o di altra potestà privata“, si precisa, nel motivare il riportato principio, che a ritenere diversamente, resterebbe inapplicabile l’art. 609-quater, comma secondo, cod. pen., che presuppone l’inapplicabilità delle ipotesi previste dall’art. 609-bis cod. pen., tra cui rientra, appunto, anche quella di ogni atto sessuale commesso con abuso di autorità (Corte di cassazione Sezione III penale, 23 gennaio 2012 n. 2861).
Analogo principio – rammenta il Collegio – è, infine, rinvenibile anche in un non recentissimo arresto delle Sezioni unite, peraltro originato da un provvedimento di rimessione a detto consesso avente ad oggetto un contrasto relativo ad una questione diversa da quella ora in discorso, ove si è osservato che “l’abuso di autorità di cui all’art. 609-bis, primo comma, cod. pen. presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico” (Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 5 luglio 2000, n. 13).
In particolare nella motivazione di questa ultima sentenza la Corte sostenne che “il delitto di violenza sessuale introdotto dall’art. 609-bis cod. pen. consiste in uno o più atti sessuali compiuti senza il consenso della vittima, con violenza, minaccia o abuso d’autorità da parte dell’agente (primo comma). (…) Se si considera che la fattispecie di cui al primo comma ha sostituito quella prevista dagli abrogati artt. 519, primo comma, e 520 (nonché dall’art. 521), se ne deve concludere che l’abuso d’autorità previsto dalla norma vigente coincide con l’abuso della qualità di pubblico ufficiale di cui all’art. 520, e comunque presuppone una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico“.
Accanto a tale impostazione, come dianzi accennato, è dato ritrovarne un’altra, di segno diametralmente opposto, dichiaratamente propugnata siccome nella sentenza n. 19419 del 2012, la quale si esprime nel senso che “l’espressione abuso di autorità che costituisce (…) una delle modalità di consumazione del reato previsto dall’art. 609-bis, cod. pen. va intesa come supremazia derivante da autorità, indifferentemente pubblica o privata, di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali” (Corte di cassazione, Sezione III penale, 22 maggio 2012, n. 19419).
Ovvero più o meno implicitamente sostenuta nei fatti, come nella sentenza n. 2019 del 2009, nella quale è stata assunta correttamente contestata la violazione dell’art. 609-bis cod. pen. in relazione alla condotta di violenza sessuale commessa dal soggetto agente con abuso di autorità in danno della figlia della propria convivente, sulla base della considerazione onde “il rapporto di convivenza tra imputato e la minore aveva determinato una situazione di autorità del primo sulla seconda, accentuata dalla posizione dell’imputato che era convivente della madre della minore e che quindi si collocava all’interno di una famiglia di fatto ricomposta” (Corte di cassazione, Sezione III penale, 20 gennaio 2009, n. 2119).
O come nella sentenza n. 23873 del 2009, in cui si è osservato che, a seguito della complessiva riforma dei reati afferenti alla violenza sessuale, che aveva sul punto modificato la previgente disciplina, doveva ritenersi che anche l’abuso dell’autorità genitoriale (evidentemente autorità di carattere privatistico) – e non solo quello di una posizione di tipo formale o pubblicistico – potesse costituire fattore integrativo del reato in questione (Corte di cassazione, Sezione III penale, 1 giugno 2009, n. 23873).
Ovvero, infine, nella più recente sentenza n. 37135 del 2013, ove l’abuso di autorità è stato riscontrato nel compimento di atti sessuali da parte dell’istruttore di arti marziali nei confronti dei propri allievi (Corte di cassazione, Sezione III penale, 19 settembre 2013, n. 37135).
Ritiene a questo punto il Collegio di dovere preferire tale secondo indirizzo, peraltro confortato dalla adesione della prevalente dottrina, secondo la quale il concetto di abuso di autorità va inteso in senso lato e non restrittivo.
In tal senso – prosegue la Corte – militano argomenti sia di carattere letterale che di carattere sistematico, peraltro già ampiamente e proficuamente scandagliati dalla citata sentenza n. 19419 del 2012 della Corte medesima.
Invero, non può trascurarsi il dato letterale costituito dal fatto che la testuale espressione “abuso di autorità” sia già utilizzata dal legislatore penale nello scolpire, all’art. 61, n. 11, cod. pen., come aggravata la condotta di chi commetta un reato, appunto, “con abuso di autorità“.
Al riguardo – oltre al rilievo che lo stesso art. 61, n. 11, cod. pen. nell’elencare altre analoghe situazioni il cui abuso costituisce elemento di aggravamento comune in linea di principio a tutti i reati, enumera l’abuso di “relazioni domestiche, (…) di relazioni di ufficio, di prestazioni di opera di coabitazione o di ospitalità“, quindi tutte situazioni caratterizzate dall’essere pertinenti a rapporti di diritto privato, mentre al numero 9 della stessa disposizione legislativa, laddove disciplina l’aggravante derivante dall’aver commesso il fatto asservendo a ciò la pubblica funzione o il pubblico servizio svolti, parla di abuso dei poteri connessi a tale qualifica (peraltro in coerenza con la terminologia riscontrabile in numerose altre norme che prevedono la qualifica soggettiva di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio in capo all’agente come elemento costitutivo del reato) – va osservato per il Collegio che l’interpretazione data dalla giurisprudenza alla ridetta disposizione è stata nel senso che “l’abuso di relazioni di autorità, previsto come circostanza aggravante dall’art. 61 n. 11 cod.pen., riguarda principalmente l’autorità privata e presuppone l’esistenza di un rapporto di dipendenza tra il soggetto passivo ed il soggetto attivo del reato” (Corte di cassazione, Sezione II penale 26 novembre 2003, n. 45742).
Con riferimento all’argomento di carattere sistematico, appare poi significativo per la Corte rilevare che, ove il legislatore ha inteso riferirsi ad una posizione autoritativa di tipo pubblicistico, l’ha indicato espressamente. Così, ad esempio, all’art. 608 cod. pen. (abuso di autorità contro arrestati o detenuti) che fa espresso riferimento, come possibile soggetto attivo del reato, al “pubblico ufficiale“.
La conferma di tale impostazione si ricava per il Collegio proprio dall’abrogato art. 520 cod. pen.; questo prevedeva come figura autonoma di reato la congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico ufficiale. Il primo comma sanzionava “il pubblico ufficiale che, fuori dai casi preveduti nell’articolo precedente, si congiunge carnalmente con una persona arrestata o detenuta, di cui ha la custodia per ragioni del suo ufficio, ovvero con persona che è a lui affidata in esecuzione di un provvedimento dell’Autorità competente..”; il comma 2 della medesima disposizione affermava che “la stessa pena si applica se il fatto è commesso da un altro pubblico ufficiale, rivestito, per ragione del suo ufficio di qualsiasi autorità sopra taluna delle persone suddette“.
La norma era, quindi, chiarissima nel ritenere che la congiunzione con “abuso di autorità” non potesse che essere commessa da un pubblico ufficiale.
La legge n. 66 del 1996, con la quale è stata radicalmente riformata la disciplina dei reati afferenti alla sfera sessuale dell’individuo, nell’abrogare il capo I del titolo IX del cod. pen., ha riunito nell’art. 609-bis, comma primo, cod. pen. le ipotesi della violenza e minaccia (previste dall’abrogato art. 519 cod. pen.) e l’ipotesi dell’abuso di autorità (prevista dal precedente art. 520 cod. pen.). Significativamente, però, con l’espressione “abuso di autorità” non ha fatto più alcun riferimento ad una posizione di preminenza di natura pubblicistica o comunque derivante da pubbliche funzioni.
Tale mancato riferimento – chiosa ancora la Corte – non può essere frutto di una mera trascuratezza del legislatore, dovendosi, al contrario, ritenere che in tal modo si sia inteso sanzionare qualsiasi soggetto che, dotato di autorità pubblica o privata, abusi della relativa posizione per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali; si è, cosi, voluto far rientrare nella norma, ad evitare che rimanessero aree di impunità, tutte quelle ipotesi in cui la vittima sia costretta a subire atti sessuali o contro la propria volontà o perché il relativo consenso è risultato, viziato stante la impossibilità di esprimerlo in termini di effettiva consapevolezza e libertà di autodeterminazione.
Né vale osservare che una siffatta interpretazione del concetto di abuso di autorità di cui all’art. 609 bis cod. pen. colliderebbe con la disposizione di cui all’art. 609-quater, comma secondo, cod. pen., rendendo di fatto inapplicabile siffatta seconda disposizione di legge (così: Corte di cassazione Sezione III penale, 23 gennaio 2012, n. 2681); infatti – al di là del pur esistente dato offerto dalla diversità dell’espressione usata – posto che in un caso, art. 609-bis cod. pen., il legislatore parla di abuso di autorità, mentre nell’altro, art. 609-quater cod. pen., parla di abuso dei poteri, in tal senso apparendo che nella seconda ipotesi è richiesta una più diretta ed effettiva strumentalizzazione della posizione rivestita – l’elemento che caratterizza l’illecito delineato dalla seconda fra le disposizioni citate e che, pertanto, ne segnala l’ambito di perdurante autonomia rispetto alla prima, è l’assenza di costrizione, essendo, invece, questa presente nell’ipotesi di cui al 609-bis cod. pen..
Tanto osservato in diritto, rileva la Corte che il giudice di appello, con motivazione adeguata e non contraddittoria, ha ritenuto che l’imputato rivestisse, nell’ambito della impresa ove anche la P. operava come segretaria – peraltro in condizioni di assoluta precarietà e debolezza non essendo stata la relativa posizione lavorativa contrattuale ancora perfezionata – la qualifica di superiore gerarchico della medesima, essendone egli di fatto il contitolare, e che in tale veste egli avesse abusato della pertinente autorità all’interno della impresa per commettere il reato a lui ascritto, non foss’altro che nel creare le condizioni che gli avevano permesso di trovarsi da solo nell’ufficio con la P. , situazione evidentemente necessaria per la perpetrazione dello stesso reato.
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Il 4 dicembre esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.5966 alla cui stregua la circostanza di cui all’art.61, n.9, c.p. in tema di abuso di poteri e violazione dei doveri del pubblico ufficiale, dell’incaricato di pubblico servizio e del ministro di culto può assumersi operativa solo allorché la specifica qualifica abbia in qualche modo agevolato la commissione del reato oggetto di scandaglio.
Per il Collegio va dunque esclusa la configurabilità dell’aggravante in parola quando la condotta posta in essere dall’imputato, pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, esuli da qualsiasi dimensione di servizio, e la commissione del reato non sia resa possibile o comunque facilitata dall’approfittamento delle mansioni affidategli.
2015
Il 29 gennaio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.4332, alla cui stregua l’introduzione dell’aggravante di cui all’art.61, n.11 quinquies c.p. impone — con riferimento al delitto di cui all’art. 572 c.p. — un coordinamento con il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità per cui integrano il reato di maltrattamenti in danno dei figli minori anche condotte di reiterata violenza fisica o psicologica nei confronti dell’altro genitore, quando i discendenti siano resi sistematici spettatori obbligati di tali comportamenti, in quanto tale atteggiamento integra anche una omissione connotata da deliberata e consapevole indifferenza e trascuratezza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali della prole.
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Il 17 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.16107, alla cui stregua l’abuso di autorità, sul crinale processuale, non può essere dedotto per presunzioni, dovendo piuttosto essere dimostrato.
Per la Corte, più in specie, nel caso in esame il G.U.P. ha ritenuto l’inutilità del dibattimento riconoscendo la veridicità del racconto della persona offesa, ma non ritenendo che si configurasse l’induzione al consenso con l’abuso di autorità.
A tali conclusioni il giudice di merito è pervenuto sulla scorta di numerose contraddizioni evidenziate nel racconto dei fatti, non sempre coerente nelle varie fasi delle indagini, da parte della persona offesa.
In primis, il GUP ha ritenuto poco comprensibile la ragione per la quale la C. , ventiduenne affetta da “vaginismo“, si fosse portata presso il M. per sottoporsi a visita ginecologica accompagnata dal suo “ex fidanzato” (come più volte dichiarato nella denuncia del …omissis), mentre questo suo “ex fidanzato“, sentito dai poliziotti, aveva dichiarato invece di avere da diversi anni una relazione sentimentale in atto con la C. .
Nella sentenza impugnata si è posta poi in rilievo la circostanza che, nella denuncia orale sporta al Commissariato di P.S., alle ore 15.50, allorquando la donna si presentò in compagnia di due legali per riferire verbalmente di avere subito una presunta violenza sessuale da parte del M. , in servizio, quale ginecologo presso il relativo reparto dell’Ospedale di (…), la stessa ebbe a dichiarare: “…durante tale visita medica il dottore, dopo avermi spiegato a voce quale sarebbe stata la tecnica di rilassamento da attuare per risolvere il mio problema, incominciò ad attuarla ed in pratica mi fece denudare tutta la parte inferiore del corpo. In pratica rimasi vestita solo con la maglietta sollevata sino al seno. Quindi il dottore cominciò ad effettuare delle manipolazioni sul mio corpo ed in particolare si dedicò al ventre e sino alle parti intime del mio corpo. Dopo avere terminato tale manipolazione, chiese ed ottenne che io stessa facessi a lui le stesse manipolazioni che avevo ricevuto. In pratica il dottore si denudò rimanendo vestito solo con la maglietta sollevata sino all’altezza del seno ed io praticai sul suo corpo le stesse identiche manipolazioni che poco prima avevo da lui ricevuto. Al termine della visita medica il dottore mi disse che avrei dovuto imparare bene le tecniche di rilassamento appena effettuate, poiché in futuro avrei dovuto praticarle anche ad altri pazienti…. Poiché tale tipo di visita medica mi era sembrata alquanto strana, domenica scorsa, in occasione della festa della mamma, ho scritto una lettera a mia madre spiegando quanto mi era accaduto. Mia madre appreso ciò si è rivolta ad un avvocato, il quale, dopo aver consultato un ginecologo, apprendeva che tale tecnica non prevedeva che la paziente effettuasse sul corpo del dottore le manipolazioni idonee a superare il problema ginecologico di irrigidimento vaginale sofferto. Pertanto lo stesso avvocato mi consigliava di rivolgermi alle forze dell’ordine per denunciare quanto accadutomi”.
In sentenza – prosegue la Corte – viene evidenziata la diversità di contenuto di tale denuncia rispetto a quella presentata il giorno successivo alla Procura della Repubblica, soprattutto per ciò che concerne l’intervento della madre della denunciante nella vicenda, omesso nella denuncia del 16.2.2012.
Il GUP fa dunque per il Collegio buon governo dei principi affermati dalla Corte in materia (in particolare, con la pronuncia n. 36595/12) quando ricorda che, anche a dare per scontato che la vicenda si sia svolta secondo quanto riferito dalla C. , nel reato di violenza sessuale mediante abuso di autorità la costrizione della persona offesa, quale elemento pur sempre necessario del reato stesso alla pari di quello commesso con violenza o minaccia, non può essere desunta, in via meramente presuntiva, sulla base della posizione autoritativa ricoperta dal soggetto agente.
Nella pronuncia richiamata si era ricordato infatti, chiosa ancora il Collegio, che il legislatore del 1996, con la disposizione dell’art. 609 bis c.p., innovando il delitto di cui al precedente art. 520, ha modificato la norma sulla violenza sessuale commessa mediante abuso di autorità ed ha eliminato la presunzione assoluta sussistente a carico del pubblico ufficiale che si fosse congiunto carnalmente con persone sottoposte alla relativa autorità, richiedendo ora, per l’integrazione del nuovo reato di cui all’art. 609 bis, un abuso di autorità, ossia una strumentalizzazione del proprio potere, realizzato attraverso una subornazione psicologica tale per cui la vittima viene costretta al rapporto sessuale (cfr. sul punto sez. 3, n. 36595 del 22.5.2012, T. e altro, rv. 253389).
Anche nella violenza sessuale mediante abuso di autorità, in altri termini, deve esservi per la Corte una costrizione della vittima a subire gli atti sessuali nonostante il relativo dissenso, al pari della violenza sessuale commessa mediante violenza o minaccia.
L’ipotesi di reato contestata presuppone dunque necessariamente nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico (Sez. Un., 31.5.2000, n. 13, Bove, m. 216338), che il GUP di Trani pare dare per scontato anche se non si comprende, da quanto emerge dagli atti, se il medico in questione abbia sottoposto la C. ad una visita nell’attività di servizio pubblico ovvero, privatamente, intra moenia.
Tuttavia, condivisibilmente, superata anche la questione della qualifica dell’agente, il GUP ha ritenuto che l’ipotesi accusatoria non avesse possibilità di essere sostenuta in giudizio sul versante della necessaria presenza, anche in tali casi, dell’elemento della costrizione (così sez. 3, n. 12446 del 10.10.2000, Gerardi, rv.218351; sez. 3, n. 32513 del 19.6.2000,Padova, rv. 223101; sez. 4, n. 6982 del 19.1.2012, M., rv. 251955).
Nel caso di specie ha ritenuto, infatti, che tale costrizione non la si evincesse, in primis, dalla ricordata denuncia orale resa dalla C. alla P.S. in data (omissis), dal momento che quella richiesta del ginecologo – rivolta alla donna – di “manipolazione” sul relativo corpo, e l’ottenimento della stessa, ancorché risultata successivamente “alquanto strana” alla stessa paziente, non venne avanzata né ottenuta mediante alcuna costrizione da parte del sanitario, tant’è che quella, per sua stessa ammissione, la praticò sul corpo di questi secondo la stessa tecnica posta in essere poco prima sul suo corpo dal medico, senza alcuna rimostranza o comunque dissenso.
E, addirittura, che dalla (diversa e ulteriore) denuncia che la C. ebbe a formalizzare presso la Procura della Repubblica di Trani, si rileva, al contrario, chiaramente l’assenza di costrizione laddove la denunciante riferiva che il M. la “… invitava a continuare anche nella zona genitale perché questa era importante per la terapia“, ancorché – in questa successiva denuncia, rileva il GUP integrando qualcosa che nella prima mancava – con “disagio ed imbarazzo“, che il giudicante valuta connaturati, comunque, ad una visita ginecologica operata da un uomo.
Il GUP di Trani dunque, conclude la Corte, ha logicamente ritenuto – a fronte del contenuto delle due denunce – che il dibattimento non avrebbe potuto aggiungere altri elementi di conoscenza a sostegno di una inconsistente imputazione, se non la circostanza che quella riferita erezione del M. mai si sarebbe potuta in realtà verificare a causa dell’incapacità di natura patologica dell’imputato.
Peraltro, tutti gli elementi che il GUP sembra trascurare e che erano emersi (la patologia lamentata e provata dall’imputato che mal si concilierebbe con l’avvenuta erezione, ma anche la contraddittoria presenza del fidanzato della donna in sala d’attesa) sono tutti ulteriori elementi a favore del M. che, dunque, avvalorano ulteriormente l’assunta decisione da parte del GUP di pronunciare una sentenza di non luogo a procedere.
2016
Il 28 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.9730 alla cui stregua, in tema di abuso di c.d. “relazioni d’opera”, va assunta configurabile la pertinente aggravante di cui all’art.61, n.11, c.p. anche in relazione all’ipotesi di reato commesso quando l’agente non sia più alle dipendenze della persona offesa – da assumersi, dunque, ormai “terzo” rispetto alla ridetta relazione d’opera – ove si accetti che l’autore del reato abbia comunque tratto profitto dalle condizioni favorevoli create dal preesistente rapporto di lavoro.
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Il 28 luglio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n. 33042 alla cui stregua l’abuso di autorità ex art.609 bis c.p. va inteso in senso “anche privatistico”.
Per il Collegio, ponendo l’accento anche sulla diversa natura del bene giuridico tutelato rispetto alla previgente disciplina – che non è più la moralità pubblica ed il buon costume, ma la libertà personale, che prescinde dalla rilevanza pubblicistica della posizione di autorità eventualmente rivestita – oltre che sulla natura di reato comune della violenza sessuale, va fatto rilevare come la presenza di una clausola di riserva nell’art. 609 quater c.p. sia di per sé idonea a delimitarne l’ambito di operatività rispetto all’art. 609-bis c.p., regolando l’eventuale concorso apparente di norme.
Peraltro l’art.609 bis c.p. descrive la modalità della condotta come “abuso di autorità“, così mostrando di considerare la strumentalizzazione della dimensione soggettiva dell’autorità, mentre per l’art. 609 quater – che si riferisce ad un “abuso dei poteri” – rileva la strumentalizzazione della dimensione oggettiva, funzionale, dei poteri connessi alla posizione dell’agente.
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Il 14 dicembre esce la sentenza della VI sezione della Cassazione n.55833, che rammenta preliminarmente come – quanto ai presupposti di applicazione dell’aggravante di cui all’art.61, n.11 quinquies c.p. – si sia posto il problema se il minore che abbia assistito ai reati previsti dalla norma incriminatrice ridetta debba anche essere in grado di (concretamente) percepirne il disvalore.
Per il Collegio, nel caso di un bambino di pochi mesi alla cui presenza vengano poste in essere condotte vessatorie ai danni della madre, al quesito va risposto in senso negativo, onde non è richiesta la percepibilità del disvalore da parte del minore medesimo.
Ciò, precisa la Corte, per due ordini di considerazioni; da un lato vi è evidenza scientifica che anche i feti nel grembo materno sono in grado di percepire quanto avviene nell’ambiente in cui si sviluppano; dall’altro, il bene tutelato dalla norma di cui all’art. 572 c.p. è in primo luogo la famiglia, sicché, a prescindere dalla percezione “concreta” che ne abbia il minore, la condotta posta in essere in relativa presenza va assunta più gravemente lesiva della morale familiare.
2017
Il 14 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.12328 alla cui stregua l’aggravante di cui all’art.61, n.11 quinquies del codice penale va assunta configurabile tutte le volte in cui il minore degli anni 18 abbia percepito la commissione del reato, anche quando la relativa presenza non sia visibile all’autore di questo, sempre che l’agente, tuttavia, ne abbia la consapevolezza ovvero avrebbe dovuto averla usando l’ordinaria diligenza
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Il 21 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.36113 alla cui stregua, al fine assumere integrata l’aggravante di cui all’art.61, n.11, c.p. (e dunque l’aver commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni d’ufficio, di prestazione d’opera di coabitazione, di ospitalità) occorre verificare se – in concreto – un affidamento sia effettivamente insorto in capo alla persona offesa nei confronti del soggetto attivo, con l’instaurazione di un rapporto di fiducia che abbia per lo meno facilitato la commissione del reato.
2018
L’11 gennaio viene varata la legge n.3, recante delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali nonché disposizioni per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della salute, il cui art.14, comma 1, introduce nel codice penale la nuova aggravante di cui all’art.61, n.11 sexies così inasprendo il trattamento sanzionatorio di chi commetta un delitto non colposo in danno di persone ricoverate presso strutture sanitarie o presso strutture sociosanitarie residenziali o semiresidenziali, pubbliche o private, ovvero presso strutture socio-educative.
L’art.12 della legge inasprisce inoltre le pene previste dall’art.348 c.p. in tema di esercizio abusivo della professione, riformulando il disposto di tale articolo che ora punisce chiunque abusivamente esercita una professione per la quale e’ richiesta una speciale abilitazione dello Stato, punendolo con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 10.000 a euro 50.000 (comma 1), con condanna che comporta la pubblicazione della sentenza e la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e, nel caso in cui il soggetto che ha commesso il reato eserciti regolarmente una professione o un’attività, la trasmissione della sentenza medesima al competente Ordine, albo o registro ai fini dell’applicazione dell’interdizione da uno a tre anni dalla professione o attività regolarmente esercitata (comma 2); si applica infine la pena della reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 15.000 a euro 75.000 nei confronti del professionista che ha determinato altri a commettere il reato di cui al primo comma ovvero ha diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo.
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Il 15 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.1483 che scandaglia una fattispecie di atti sessuali con minore nel cui contesto l’informale affidatario della minore – titolare di una tabaccheria con la quale essa collaborava – avrebbe agito nei relativi confronti con “abuso di autorità”.
Per la Corte le doglianze imbastite nel caso di specie in ordine alla erroneità della affermazione in ordine alla configurabilità della veste del ricorrente quale affidatario della minore, che ha determinato la procedibilità d’ufficio anche in relazione ai fatti commessi successivamente al compimento del quattordicesimo anno di età da parte della persona offesa, non sono fondate.
Come la Corte dichiara di avere già affermato (e si tratta di orientamento che il Collegio condivide e ribadisce) la configurabilità dell’abuso di autorità, quale modalità di consumazione del reato di cui all’art. 609 bis cod. pen., allorquando sussista un potere di supremazia di natura privata, di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali (cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 33049 del 17/05/2016, B., Rv. 267402).
Va, dunque, annoverata tra i soggetti attivi ogni persona, rivestita di supremazia o autorità anche privata senza particolari connotazioni, che eserciti una forma di influenza o suggestione sul soggetto passivo al fine di coartarne la volontà o condizionarne il comportamento. In tal senso sono state ritenute rilevanti: la posizione di datore di lavoro nei confronti di una dipendente con mansioni di segretaria (Sez. 3, n. 49990 del 30/4/2014, n. 49990, G., Rv. 261594; Sez. 3, n. 36704 del 27/3/2014, n. 36704, A., Rv. 260172); la condizione di convivenza dell’imputato con la madre del minore vittima di violenza sessuale (Sez. 3, n. 2119 del 3/12/2008, M. A., Rv. 242306); la qualità di istruttore di arti marziali esercitata dall’imputato nei confronti dei relativi allievi minorenni (Sez. 3, n. 37135 del 10/4/2013, Rv. 256849); il ruolo di marito che esercitava un potere di soggezione sulla cognata minore destinataria degli atti sessuali (Sez. 3, n. 19419 del 19/4/2012, I., Rv. 252768).
A sostegno di tale opzione interpretativa – prosegue il Collegio – è stato richiamato il contenuto dell’art. 61, n. 11, cod. pen., che configura, come elemento di aggravamento comune, la condotta di chi commette un reato “con abuso di autorità” o “di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni d’ufficio, di prestazione di opera, di coabitazione o di ospitalità“, ossia strumentalizzando situazioni coinvolgenti rapporti di diritto privato.
D’altra parte, allorquando il legislatore ha inteso riferirsi ad una situazione autoritativa di tipo pubblicistico l’ha indicata espressamente, come nel caso dell’art. 608 cod. pen., avente ad oggetto l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti, il che rinvia, quanto ai possibili soggetti attivi del reato, alla figura del pubblico ufficiale.
Tale posizione autoritativa può, poi, derivare anche dalla esistenza di un rapporto di lavoro non regolarizzato e privo di alcuno dei connotati tipici della subordinazione da cui, però, discenda, per la disparità di posizioni tra lavoratore e datore di lavoro, un potere di supremazia di quest’ultimo sul primo, che può derivare da una pluralità di fattori, tra cui l’età o l’immaturità del lavoratore e la relativa condizione di bisogno economico, idonei a influenzare o suggestionare il soggetto passivo o a condizionarne il comportamento.
Una siffatta posizione – prosegue il Collegio – non è, poi, incompatibile, con l’affidamento di un minore per ragioni di cura o istruzione, posto che, anche quando non vi sia un vero e proprio rapporto di apprendistato, il minore può essere affidato al datore di lavoro affinché vigili su di lui nel corso dello svolgimento della attività lavorativa (in considerazione dell’età del minore e del relativo grado di maturità) e, al tempo stesso, ne favorisca l’apprendimento dei rudimenti della attività lavorativa in concreto svolta, sicché possono concorrere sia l’affidamento di un minore per ragioni di cura e istruzione, sia l’esistenza di una posizione di supremazia derivante dal concreto atteggiarsi del rapporto tra datore di lavoro e dipendente, posizione di cui il primo abusi allo scopo di coartare la volontà del secondo al fine del compimento o della tolleranza di atti sessuali.
Del tutto correttamente dunque per il Collegio la Corte d’appello di Messina, nel caso di specie, ha ritenuto che i fatti contestati all’imputato fossero procedibili d’ufficio ai sensi dell’art. 609 quater, comma 4, n. 2, cod. pen., in quanto commessi da soggetto al quale la minore era stata affidata dai genitori per ragioni di custodia e di istruzione nel senso anzidetto, posto che la condizione di affidamento in custodia del minore non richiede un atto di formale – per l’appunto – “affidamento” da parte del genitore, costituendo piuttosto un dato fattuale che prescinde da rapporti formali tra l’affidatario e il soggetto avente la potestà sul minore, potendo avere anche carattere temporaneo e occasionale (cfr. Sez. 3, n. 2835 del 13/10/2011, B., Rv. 251890; Sez. 3, n. 16461 del 26/01/2010, R., Rv. 246755).
Al riguardo – chiosa ancora il Collegio – la Corte territoriale ha sottolineato sia le disagiate condizioni economiche della famiglia della minore, che avevano determinato i genitori a consentire allo svolgimento di attività lavorativa da parte della stessa presso l’esercizio commerciale dell’imputato anche in orario scolastico, sottraendola così al relativo obbligo; sia il fatto che la ragazza trascorreva parecchie ore della giornata presso la tabaccheria dell’imputato, al quale, quindi, era stata di fatto affidata per parti consistenti della giornata, tanto che l’imputato si presentava assieme alla ragazza anche in pubblico (al punto che tra i commercianti della zona erano sorte perplessità e critiche a proposito del rapporto tra l’imputato e la minore, anche perché l’imputato si mostrava pubblicamente possessivo nei confronti della ragazza).
In modo pienamente logico, dunque, la Corte d’appello ha concluso per l’esistenza di un rapporto di affidamento per ragioni di custodia e istruzione, desunto dal disinteresse dei genitori per il modo in cui la figlia trascorreva il proprio tempo, anche in orario scolastico, implicante una sorta di trasferimento delle loro attribuzioni all’imputato per il tempo in cui la ragazza si trovava presso di lui; dalla regolarità della presenza della ragazza nella tabaccheria dell’imputato per parti non brevi della giornata; dal rapporto instauratosi tra l’imputato e la minore, con la quale il primo si presentava anche in pubblico mostrandosi geloso e possessivo.
Ne consegue per il Collegio, in definitiva, l’infondatezza delle doglianze relative alla insussistenza di un rapporto di affidamento della minore all’imputato e anche di un abuso della posizione di supremazia dallo stesso in concreto assunta nei confronti della ragazza.
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L’11 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.40301 che condanna un parroco per avere compiuto atti sessuali in danno di minori con “abuso di autorità”.
Per la Corte occorre evidenziare che la differenza tra il reato di violenza sessuale e quello di atti sessuali con minorenne è stata oggetto di attenta riflessione da parte della giurisprudenza di legittimità (cfr. ex multis Cass. Sez. 3 n. 19419 del 19.4.2012 Rv. 252768, Sez. 3 n. 49990 del 30.4.2014, Rv. 261594 e Sez. 3 n. 33042 dell’8.3.2016, Rv. 267453); si è al riguardo messo in evidenza che l’art. 609 bis cod. pen. sanziona al comma 1 la violenza sessuale mediante costrizione (attraverso violenza, minaccia o abuso di autorità) e al comma 2 mediante abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima oppure attraverso inganno con sostituzione di persona; l’art. 609 quater cod. pen. invece equipara quoad poenam il compimento di atti sessuali con minorenne (nelle diverse ipotesi indicate nella norma) al di fuori delle ipotesi previste nell’art. 609 bis cod. pen.
Nella fattispecie di cui all’art. 609 bis cod. pen. in definitiva, chiosa la Corte, manca il consenso della vittima per effetto della costrizione operata dall’agente attraverso la violenza, la minaccia o l’abuso di autorità, oppure il consenso è viziato per effetto dell’induzione operata dall’agente con abuso delle condizioni di inferiorità della vittima o con inganno; nel delitto di cui all’art. 609 quater cod. pen., invece, il legislatore presume invalido e dunque giuridicamente inesistente il consenso al compimento degli atti sessuali da parte dei minori infraquattordicennni in generale, e in particolare dei minori infrasedicenni rispetto ai rapporti sessuali con soggetti qualificati da una posizione di sovraordinazione, cioè quando l’agente sia l’ascendente, il genitori anche adottivo, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia con quest’ultimo una relazione di convivenza.
Ora, prosegue la Corte, rispetto alla nozione di abuso di autorità, che, insieme alla violenza e alla minaccia, è una delle forme di consumazione della violenza sessuale mediante costrizione prevista dal comma 1 dell’art. 609 bis cod. pen., vi è un ampio dibattito dottrinario e giurisprudenziale, essendo cioè controverso se l’espressione faccia riferimento soltanto a una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico (in questo senso Sez. 4 n. 6982 del 19.1.2012 Rv. 251955 e Sez. 3 n. 16107 del 24.3.2015, Rv. 263333), o se invece l’abuso di autorità indicato dalla norma in esame debba comprendere anche situazioni di supremazia di tipo privatistico (sul punto cfr. le già citate Sez. 3 n. 19419 del 19.4.2012 Rv. 252768, Sez. 3 n. 49990 del 30.4.2014, Rv. 261594 e Sez. 3 n. 33042 dell’8.3.2016, Rv. 267453).
Quest’ultimo orientamento, che peraltro – osserva ancora il Collegio – trova adesione nella prevalente dottrina, appare invero preferibile, innanzitutto per una ragione storico-sistematica: l’art. 520 cod. pen. abrogato, infatti, prevedeva come figura autonoma di reato la congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico ufficiale, sanzionando al comma 1 il pubblico ufficiale che si congiungeva carnalmente con una persona arrestata o detenuta, di cui aveva la custodia per ragioni del relativo ufficio, ovvero con persona che era a lui affidata in esecuzione di un provvedimento dell’Autorità competente, mentre il comma 2 affermava che la medesima pena applicarsi se il fatto fosse commesso da un altro pubblico ufficiale, rivestito, per ragione del relativo ufficio di qualsiasi autorità sopra taluna delle persone suddette.
Dunque, prosegue il Collegio, la norma era chiara nel ritenere che la congiunzione con “abuso di autorità” non potesse che essere quella commessa da un pubblico ufficiale.
La legge n. 66 del 15 febbraio 1996, nell’abrogare il capo I del titolo 9 del codice penale, ha ricompreso nell’art. 609 bis cod. pen., comma 1, le ipotesi della violenza e minaccia (previste dall’abrogato art. 519 cod. pen.) e l’ipotesi dell’abuso di autorità (prevista dal precedente art. 520 cod. pen.); significativamente, però, con l’espressione “abuso di autorità” non ha fatto più alcun riferimento a una posizione di preminenza di natura pubblicistica o comunque derivante da pubbliche funzioni.
Tale mancato riferimento, prosegue la Corte, non può essere frutto di una mera “dimenticanza” normativa, dovendosi al contrario ritenere che il legislatore abbia inteso sanzionare qualsiasi soggetto che, dotato di autorità pubblica o privata, abusi della relativa posizione per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali; si è in tal modo voluto far rientrare nel perimetro della norma, per evitare che rimanessero aree di impunità, tutte quelle ipotesi in cui la vittima è costretta a subire atti sessuali contro la propria volontà o perché il relativo consenso è viziato.
Del resto, come è stato per la Corte correttamente rimarcato (Sez. 3 n. 19419 del 19.4.2012 Rv. 252768), l’espressione adoperata è la stessa utilizzata in relazione alle circostanze aggravanti comuni, posto che l’art. 61 n. 11 cod. pen. prevede che il reato è aggravato quando il fatto è commesso con “abuso di autorità” o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni d’ufficio, di prestazioni d’opera, di coabitazione o di ospitalità, tutte situazioni caratterizzate dall’essere pertinenti a rapporti di diritto privato. La norma non fa dunque distinzione alcuna, riferendosi genericamente ad “autorità“.
E la giurisprudenza non ha mai mostrato incertezze nel fornire un’interpretazione ampia del dato normativo, riferito indistintamente ad autorità pubblica o privata che sia.
Si è così affermato, esemplifica il Collegio (citando Cass. Sez. 2 n. 45742 del 4.11.2003), che l’abuso di relazioni di autorità previsto come circostanza aggravante dall’art. 61 cod. pen., n. 11, riguarda principalmente l’autorità privata e presuppone l’esistenza di un rapporto di dipendenza tra il soggetto passivo ed il soggetto attivo del reato, anche perché, laddove il legislatore abbia inteso riferirsi a una posizione autoritativa di tipo pubblicistico, l’ha indicato espressamente, come ad esempio avvenuto con l’art. 608 cod. pen. (abuso di autorità contro arrestati o detenuti), che fa espresso riferimento al “pubblico ufficiale“.
È vero – prosegue il Collegio – che a diverse conclusioni erano pervenute in precedenza (sentenza n. 13 del 31.5.2000) le Sezioni Unite, le quali avevano affermato che, “in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità di cui all’art. 609 cod. pen., comma 1, presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico“.
È altrettanto vero, tuttavia, che la questione era stata affrontata dalla sentenza sopra richiamata in modo del tutto marginale, poiché il contrasto giurisprudenziale devoluto alle Sezioni Unite riguardava nella specie il solo delitto di pornografia minorile di cui all’art. 600 ter cod. pen. (mentre il motivo di ricorso del P.M. in ordine al diverso reato di cui all’art. 609 bis cod. pen. riguardava la pretesa sussistenza dell’abuso di autorità anche quando l’agente abusasse delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa, deduzione ritenuta non pertinente e infondata, non potendosi confondere l’abuso delle condizioni di inferiorità con l’abuso di autorità).
E in ogni caso – chiosa ancora il Collegio – la successiva evoluzione giurisprudenziale, a parte talune eccezioni, sembra ormai orientata nell’accogliere un’accezione non restrittiva del concetto di “abuso di autorità“, estendendo cioè tale nozione non solo alle posizioni autoritative di tipo formale e pubblicistico, coincidenti sostanzialmente con la qualifica di pubblico ufficiale, ma a ogni potere di supremazia di natura privata, di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali (in termini cfr. anche Sez. 3 n. 33049 del 17.5.2016, Rv. 267402).
Ciò posto, conclude la Corte, la Corte di appello, nel manifestare adesione a quest’ultimo indirizzo ermeneutico, ha correttamente rilevato che il ricorrente, per il rivestito ruolo di parroco, era percepito come un sicuro punto di riferimento dai giovani che frequentavano l’oratorio, a nulla rilevando che I. non rivestisse alcun ruolo formale all’interno dell’istituto scolastico ospitato dalla casa salesiana di cui era direttore, essendo sufficiente la relativa veste di parroco a giustificare l’esistenza della pertinente posizione di supremazia rispetto ai minori che si relazionavano con lui in oratorio, fermo restando che a ciò l’imputato sommava una relativa, asserita competenza come preparatore atletico, che lo autorizzava a presentarsi come esperto di massaggi, espediente spesso utilizzato per praticare le molestie sessuali in danno dei minori.
La dinamica delle relazioni instauratesi tra il ricorrente e i giovani frequentatori dell’oratorio, alla luce delle emergenze probatorie analizzate nelle conformi decisioni di merito (e in assenza di contestazioni da parte dell’imputato della realtà fenomenica dei fatti), è risultata contraddistinta non da rapporti consensuali, ma dalla imposizione, in forma generalmente graduale, delle pulsioni sessuali del ricorrente, scaturita proprio dall’abuso della relativa condizione soggettiva di supremazia collegata alla veste di parroco, per cui sotto tale profilo, ravvisandosi l’elemento della costrizione, deve ritenersi che correttamente la vicenda fattuale contestata sia stata collocata nell’alveo della previsione di cui al 609 bis cod. pen. piuttosto che in quella ex art. 609 quater.
2019
*Il 28 maggio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.23463 che ribadisce come la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11 vada assunta compatibile con il reato di violenza sessuale con “abuso di autorità”.
2020
Il 01 ottobre esce l’importante sentenza delle SSUU della Cassazione n.27326, che si sofferma sui rapporti tra “abuso di potere” e violenza sessuale, con particolare riguardo alla fattispecie delle lezioni private impartite da un docente in occasione delle quali si consumi appunto una violenza sessuale ai danni della vittima discente.
Più in specie, per il Collegio la questione di diritto da affrontare è quella se, in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità di cui all’art. 609-bis c.p., comma 1, presupponga nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico o, invece, possa riferirsi anche a poteri di supremazia di natura privata di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali.
La soluzione della questione prospettata attiene – chiosa la Corte – all’ambito di applicazione dell’art. 609-bis c.p., comma 1, il quale punisce, attualmente con la reclusione da 6 a 12 anni, chiunque, con violenza o minaccia o mediante “abuso di autorità”, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali, prevedendo poi, nel comma 2, che alla stessa pena soggiaccia chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona; il comma 3 stabilisce infine che, nei casi di minore gravità, la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.
La Sezione rimettente – precisa la Corte – ha posto in evidenza due diversi indirizzi interpretativi venutisi a formare con riferimento alla violenza sessuale definita “costrittiva” in relazione al concetto di “abuso di autorità” dopo una prima pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 13 del 31/05/2000, PM, Rv. 216338) nella quale, in via incidentale, essendo la questione prospettata relativa alla interpretazione dell’art. 600-ter c.p., comma 1, si era stabilito che l’abuso di autorità di cui all’art. 609-bis c.p., comma 1, presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, escludendone la configurabilità nei confronti di un insegnante privato che aveva compiuto atti sessuali con un minore degli anni sedici a lui affidato per ragioni di istruzione ed educazione, ritenendo conseguentemente corretta la decisione del giudice di merito che aveva qualificato il fatto come atti sessuali con minorenne ai sensi dell’art. 609-quater c.p..
La sentenza assumeva rilevante, ai fini della soluzione interpretativa prospettata, la circostanza onde l’art. 609-bis c.p., comma 1, aveva sostituito quella precedentemente prevista dagli abrogati art. 519 c.p., comma 1 e artt. 520 e 521 c.p., ritenendo l’abuso d’autorità coincidente con l’abuso della qualità di pubblico ufficiale già contemplato dall’art. 520.
Tale soluzione interpretativa era stata peraltro adottata in precedenza, considerando la forza di coartazione che deriva da un esercizio distorto dei poteri connessi con la funzione preminente esercitata dal titolare della posizione sovraordinata, in un caso in cui, però, la natura formale e pubblicistica della autorità della quale era investito l’imputato non era in discussione, trattandosi di un ufficiale comandante un battaglione dell’esercito (Sez. 3, n. 860 del 15/10/1999, dep. 2000, Colafemmina V, Rv. 215599)
Alla decisione delle Sezioni Unite si conformava una successiva pronuncia (Sez. 3, n. 32513 del 19/06/2002, P, Rv. 223101), attinente ad abuso sessuale posto in essere da un insegnante in danno di una minorenne frequentante un corso di formazione professionale, dando peraltro rilievo al fatto che la posizione autoritativa richiesta dall’art. 609-bis c.p., comma 1, da individuarsi nei termini indicati dalle Sezioni Unite, deve ritenersi distinta dalla ipotesi di violenza sessuale di cui al n. 1 del comma 2 del medesimo articolo, caratterizzata dall’induzione all’atto sessuale di persona in condizioni di inferiorità fisica o psichica e da quella di atti sessuali compiuti con minori degli anni sedici ad opera dell’ascendente o di altri soggetti in rapporto qualificato con la persona offesa, considerata dall’art. 609-quater c.p., comma 1, n. 2.
La sentenza opera tale distinzione rilevando che, nell’ipotesi di abuso di autorità, vi è la costrizione al compimento degli atti sessuali la quale difetta, invece, negli altri casi, caratterizzati da un consenso viziato dalle condizioni di inferiorità della vittima (art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1); consenso che ricorre anche nel reato di atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p., comma 1, n. 2), ma che si ritiene invalido in conseguenza del rapporto che lega la persona offesa all’autore del reato, sulla base delle tipizzazioni contenute nella norma.
Altra pronuncia (Sez. 3, n. 2283 del 26/10/2006, dep. 2007, C, non massimata), proseguono le SSUU, dando conto della nuova figura di violenza sessuale introdotta ad opera della L. 6 febbraio 2006, n. 38 mediante l’inserimento di un ulteriore comma dopo il primo all’art. 609-quater c.p., ha indicato, quale ulteriore ragione di adesione alla pronuncia delle Sezioni Unite, oltre alla successione di leggi valorizzata dalla sentenza n. 13/2000, anche un argomento definito di carattere sistematico, osservando che, considerando l’abuso di autorità riferibile anche a poteri di carattere privatistico, verrebbe meno la possibilità di distinguere l’ipotesi di reato contemplata dall’art. 609-bis c.p., comma 1 dall’ipotesi di rapporto sessuale con abuso di potere parentale o tutorio ora previsto dall’art. 609-quater c.p., comma 2; ciò in quanto l’unica interpretazione idonea a salvaguardare la coerenza normativa è quella che attribuisce carattere pubblicistico all’autorità considerata dalla prima delle richiamate disposizioni e carattere privatistico a quella considerata dalla seconda.
Invero, intendendo come autorità ogni posizione sovraordinata pubblicistica o privatistica, continua la sentenza 2283/2007, l’art. 609-quater c.p., comma 2, resterebbe praticamente privo di effetti, poiché esso presuppone espressamente la inapplicabilità delle ipotesi previste nell’art. 609 bis, tra le quali rientra anche quella di ogni atto sessuale commesso con abuso di autorità.
Si è anche escluso, uniformandosi alla sentenza 2283/2007, che la potestà genitoriale possa essere considerata un istituto di natura pubblicistica, diversamente da quanto ritenuto dal giudice del merito, che l’aveva ritenuta come prevista e disciplinata dall’ordinamento al fine di consentire ai genitori la possibilità di adempiere convenientemente i loro doveri e svolgere compiutamente le loro prerogative (Sez. 3, n. 2681 del 11/10/2011, dep. 2012, R., Rv. 251885).
Altre successive pronunce, aventi ad oggetto violenze sessuali commesse da soggetti rivestenti la qualifica di pubblico ufficiale, hanno ribadito la natura formale e pubblicistica della posizione autoritativa dell’agente (Sez. 4, n. 6982 del 19/01/2012, M., Rv. 251955) precisando, tra l’altro, che l’abuso di autorità consiste nella strumentalizzazione del proprio potere, realizzato attraverso una subordinazione psicologica tale per cui la vittima viene costretta al rapporto sessuale, risolvendosi, pertanto, in una vera e propria costrizione che non può essere desunta, in via meramente presuntiva, sulla base della posizione autoritativa ricoperta dal soggetto agente (Sez. 3, n. 36595 del 22/05/2012, T., Rv. 253389).
In altre sentenze la nozione ristretta di abuso di autorità è stata ribadita escludendo la posizione pubblicistica dell’agente che esercitava le funzioni di responsabile di un centro di accoglienza quale ente ausiliario riconosciuto dalla regione ed iscritto nel Registro generale del volontariato (Sez. 3, n. 47869 del 04/10/2012, M., Rv. 253870), del tutore (Sez. 3, n. 40848 del 18/07/2012, B, non mass.) e del medico curante, pur distinguendo, in tale ultimo caso, tra attività esercitata nell’ambito del servizio pubblico o, privatamente, intra moenia (Sez. 3, n. 16107 del 24/03/2015, M., Rv. 263333).
Il diverso orientamento – chiosa a questo punto la Corte – richiamando la prevalente dottrina, propende invece per un concetto di abuso di autorità più ampio, comprensivo di ogni relazione, anche di natura privata, in cui l’autore del reato riveste una posizione di supremazia della quale si avvale per coartare la volontà della persona offesa ed è stato prospettato in una prima decisione (Sez. 3, n. 2119 del 03/12/2008, dep. 2009, M., Rv. 242306) ritenendo la convivenza dell’imputato con la madre del minore quale valido presupposto dell’abuso di autorità, senza, tuttavia, manifestare un esplicito dissenso rispetto alle precedenti decisioni, alle quali fa invece riferimento una successiva pronuncia (Sez. 3, n. 23873 del 08/04/2009, C., Rv. 244082), ove, esaminando un caso in cui il fatto era stato commesso con abuso della potestà genitoriale – anche se ai soli fini della verifica della correlazione tra accusa e sentenza – viene dato conto del formarsi di un diverso orientamento che colloca nell’ambito dell’abuso di autorità ogni forma di strumentalizzazione del rapporto di supremazia, senza distinzioni tra autorità pubblica e privata, osservando che, per individuare quest’ultima, viene fatto riferimento all’art. 61 c.p., n. 11.
Un primo effettivo confronto con le diverse posizioni è stato però effettuato solo successivamente (Sez. 3, n. 19419 del 19/04/2012, I., Rv. 252768), ritenendo configurato l’abuso di autorità nello stato di soggezione indotto dall’imputato sulla cognata vittima del reato, in un contesto familiare di particolare degrado, caratterizzato dalla supremazia dell’uomo rispetto alla componente femminile.
Ancora una volta viene richiamata l’attenzione sul contenuto dell’art. 61 c.p., n. 11 (la cui compatibilità con il reato di violenza sessuale con abuso di autorità è stata, peraltro, ripetutamente riconosciuta dalla giurisprudenza: Sez. 3, n. 23463 del 24/01/2019, G, Rv. 275972; Sez. 3, n. 14837 del 04/03/2010, Cardinali, Rv. 246819) osservando che lo stesso si riferisce, indifferentemente, all’abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero di relazioni d’ufficio, di prestazioni d’opera, di coabitazione o di ospitalità e ricordando come la giurisprudenza ne abbia sempre offerto un’interpretazione pacificamente ampia, riferibile indistintamente tanto all’autorità pubblica che a quella privata, mentre quando il legislatore intende considerare una posizione autoritativa di tipo pubblicistico la indica espressamente, come nel caso dell’art. 608 c.p., il quale fa specifico riferimento al “pubblico ufficiale“, menzione che, presente nell’abrogato art. 520 c.p., non è stata ripetuta nella formulazione dell’art. 609-bis c.p. con il preciso fine di sanzionare qualsiasi persona che, dotata di autorità pubblica o privata, abusi della sua posizione per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali (conforme, Sez. 3, n. 36704 del 27/03/2014, A, Rv. 260172, relativa ad abuso commesso dal datore di lavoro nei confronti di una dipendente, che rinviene un ulteriore elemento di sostegno alla lettura della norma nel contenuto dell’art. 609-quater c.p., comma 2, laddove si riferisce al potere da parte di soggetto non necessariamente ricoprente una funzione pubblica, come il convivente della madre del minore abusato).
In una successiva occasione (Sez. 3, n. 49990 del 30/04/2014, G, Rv. 261594, relativa a fattispecie di abuso sessuale commesso dal superiore gerarchico su una dipendente della medesima ditta che impiegava entrambi) tale orientamento è stato ribadito, confutando espressamente le osservazioni svolte in precedenti sentenze (n. 2283/2007 e 2681/2011, cit.) ove, quale ulteriore elemento a favore della tesi sulla natura necessariamente pubblicistica e formale dell’autorità di cui abusa l’autore della violenza sessuale, viene prospettata la sostanziale inapplicabilità dell’art. 609- quater c.p., comma 2 che verrebbe a determinarsi aderendo alla tesi opposta.
Viene fatto rilevare, a tale proposito, che, oltre ad utilizzare espressioni diverse (“abuso di autorità” nell’art. 609-bis e “abuso di poteri” nell’art. 609-quater), il delitto di atti sessuali con minorenne ex art.609 quater c.p. – che richiede peraltro una più diretta ed effettiva strumentalizzazione della posizione rivestita dall’agente – si caratterizza per l’assenza di costrizione, richiesta, invece, per la configurabilità della violenza sessuale ex art.609 bis c.p.
Nello stesso senso – chiosa ancora la Corte – si è posta altra pronuncia (Sez. 3, n. 33042 del 08/03/2016, F, Rv. 267453) la quale – ponendo l’accento anche sulla diversa natura del bene giuridico tutelato rispetto alla previgente disciplina, che non è più la “moralità pubblica” ed il “buon costume”, ma la libertà personale, che prescinde dalla rilevanza pubblicistica della posizione di autorità e sulla natura di reato comune della violenza sessuale – rileva anche come la presenza di una clausola di riserva nell’art. 609- quater c.p. sia di per sé idonea a delimitarne l’ambito di operatività rispetto all’art. 609-bis c.p., regolando l’eventuale concorso apparente di norme e che, descrivendo tale ultimo articolo la modalità della condotta come “abuso di autorità“, esso considera la strumentalizzazione della dimensione soggettiva dell’autorità, mentre per l’art. 609-quater, che si riferisce ad un “abuso dei poteri“, rileva la strumentalizzazione della dimensione oggettiva, funzionale, dei poteri connessi alla posizione dell’agente.
Ritiene infine condivisibile la più ampia accezione del concetto di abuso di autorità altra pronuncia quasi coeva a quella appena richiamata (Sez. 3, n. 33049 del 17/05/2016, B, Rv. 267402), così come altre decisioni più recenti che a tale orientamento espressamente aderiscono (ex pl. Sez. 3, n. 40301 del 15/12/2017, dep. 2018, I, non massimata; Sez. 3, n. 21997 del 13/03/2018, I, non massimata; Sez. 3, n. 20712 del 19/01/2018, U, non massimata).
Anche la dottrina, precisa il Collegio, propende per una interpretazione ampia del concetto di autorità, pur dando atto, in alcuni casi, della difficoltà di individuare le condotte di abuso di autorità rispetto a quelle in cui la costrizione al compimento degli atti sessuali avviene con minaccia.
Richiamati i contrapposti orientamenti giurisprudenziali che hanno dato origine al contrasto e preso atto di quanto osservato in dottrina, occorre per le SSUU in primo luogo individuare, prima di stabilire quale sia l’origine della posizione autoritativa rilevante per la configurabilità del reato, il significato concreto della locuzione “abuso di autorità” nel contesto in cui è collocato.
La differente formulazione dei primi due comma dell’art. 609-bis c.p. evidenzia come, nella violenza sessuale “costrittiva” (comma 1), il soggetto passivo ponga in essere o subisca un evento non voluto poiché ne viene annullata o limitata la capacità di azione e di reazione coartandone la capacità di autodeterminazione, mentre nella violenza sessuale “induttiva” (comma 2) l’agente persuade la persona offesa a sottostare ad atti che, diversamente, non avrebbe compiuto, ovvero a subirli, strumentalizzandone la vulnerabilità e riducendola al rango di un mezzo per il soddisfacimento della sessualità.
In entrambi i casi l’autore del reato incide sul processo formativo della volontà della persona offesa, direttamente compressa, nel primo caso, fino ad impedire ogni diversa opzione ed orientata, nel secondo, conformemente alle intenzioni dell’agente.
Si tratta, a ben vedere, di due situazioni distinte, che rendono evidente come l’abuso di autorità considerato dal comma 1 sia solo quello che determina una vera e propria sopraffazione della volontà della persona offesa che si risolve in una costrizione e non anche una mera induzione, alla quale viene fatto riferimento solo nel comma 2 nei termini dianzi specificati.
Come osservato in dottrina, la condizione in cui versa la persona offesa nei casi di abuso di autorità è una condizione di sudditanza materiale o psicologica ma non “psichica” e, quindi, di origine patologica in senso stretto.
L’abuso di autorità può, peraltro, ritenersi distinguibile anche dalla minaccia funzionale alla costrizione, menzionata sempre nell’art. 609-bis c.p., comma 1. Il confine – chiosa la Corte – è certamente labile, ma risponde, evidentemente, all’esigenza di ampliare l’ambito di operatività del comma 1 fino a ricomprendervi situazioni non riconducibili alla violenza o minaccia ed è individuabile nel senso che, mentre la minaccia determina un’efficacia intimidatoria diretta sul soggetto passivo, costretto a compiere o subire l’atto sessuale, la coartazione che consegue all’abuso di autorità trae origine dal particolare contesto relazionale di soggezione tra autore e vittima del reato determinato dal ruolo autoritativo del primo, creando le condizioni per cui alla seconda non residuano valide alternative di scelta rispetto al compimento o all’accettazione dell’atto sessuale che, consegue, dunque, alla strumentalizzazione di una posizione di supremazia.
Quanto finora osservato – proseguono le SSUU – consente già di rilevare come non vi siano validi argomenti per accedere all’interpretazione maggiormente restrittiva del concetto di abuso di autorità nei termini prospettati dal primo degli indirizzi giurisprudenziali richiamati in precedenza, per una serie di ragioni efficacemente sviluppate nelle decisioni più recenti, che evidenziano la debolezza delle conclusioni cui erano pervenute le precedenti pronunce.
La sentenza 13/2000 delle Sezioni Unite, dopo aver dato conto dell’accertamento in fatto, nel giudizio cautelare, dell’assenza di costrizione fisica nei confronti della persona offesa da parte dell’agente, afferma – come si è detto, in via del tutto incidentale – che l’abuso di autorità previsto dall’art. 609-bis c.p. coincide con l’abuso della qualità di pubblico ufficiale di cui all’abrogato art. 520 c.p. perché la disposizione vigente aveva sostituito quella di cui agli abrogati art. 519 c.p., comma 1 e art. 520 c.p., aggiungendo che, in ogni caso, esso presuppone una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico.
La sentenza, inoltre, confronta l’art. 609-bis c.p. con l’art. 609-quater c.p., considerando il vizio del consenso del minore determinato dalla differente maturità sessuale dell’agente e richiamando la differenza ontologica e giuridica del rapporto intercorrente tra autore del reato e persona offesa in ciascuna delle due fattispecie richiamate. A tali considerazioni si sono richiamate le successive pronunce adesive.
Ciò posto, occorre per la Corte rilevare, in primo luogo, come non sia determinante il richiamo alle disposizioni del codice penale abrogate, rispetto alle quali quelle vigenti risultano del tutto scollegate.
Invero, la collocazione del delitto di violenza sessuale tra quelli contro la libertà personale e la pacifica natura di reato comune rendono evidente l’intenzione del legislatore di ampliare l’ambito di operatività della fattispecie e svincolano del tutto l’art. 609-bis c.p. dai riferimenti alla figura del pubblico ufficiale di cui all’abrogato art. 520 c.p., la cui posizione, secondo la lettura della norma offerta dalla coeva giurisprudenza, era di per sé sufficiente alla configurazione del reato, non essendo richiesta la costrizione, bensì il solo nesso occasionale tra la posizione di pubblico ufficiale ed il fatto, tanto da ritenersi penalmente rilevante la condotta posta in essere con soggetto consenziente o indotta dal soggetto passivo, essendo peraltro il reato configurabile soltanto quando quest’ultimo fosse una persona arrestata, detenuta o in affidamento per esecuzione di un provvedimento dell’autorità competente (Sez. 3, n. 1347 del 27/10/1981, dep. 1982, Di Gaspare, Rv. 152136; Sez. 3, n. 7406 del 08/05/1987, Maione, Rv. 176179; Sez. 3, n. 2909 del 28/01/1986, dep. 1987, Panicola, Rv. 175293; Sez. 3, n. 5321 del 18/12/2003, dep. 2004, Retillo, Rv. 227440).
Corretta risulta, poi, l’osservazione secondo cui, quando la legge ha inteso riferirsi a soggetti che rivestono una posizione autoritativa formale, lo ha fatto espressamente, come nel caso dell’art. 608 c.p., concernente l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti, mentre in altre disposizioni il concetto di autorità è inteso in senso ampio, pacificamente comprensivo di posizioni di preminenza non necessariamente di derivazione pubblicistica, come, ad esempio, nel caso dell’art. 61 c.p., n. 11, richiamato dalla giurisprudenza in precedenza menzionata e confrontato anche con il n. 9 del medesimo articolo (nella sentenza n. 49990/2014), ovvero in altre disposizioni richiamate dalla dottrina, quali l’ormai abrogato art. 671 c.p. (impiego di minori nell’accattonaggio), l’art. 600 octies c.p., comma 1, che attualmente sanziona condotte analoghe e gli artt. 571, (abuso dei mezzi di correzione o di disciplina), 600 (riduzione o mantenimento in servitù o in schiavitù) e 601 (tratta di persone) c.p.
Anche le ulteriori argomentazioni poste a sostegno della interpretazione maggiormente restrittiva, facendo ricorso al confronto tra la fattispecie in esame e quella prevista dell’art. 609-quater c.p., comma 2, perdono consistenza non soltanto per la presenza della clausola di riserva e la diversa formulazione, che si riferisce non all’abuso “di autorità” bensì all’abuso “di poteri”, ma anche per la diversa conformazione della condotta sanzionata che non richiede, come si è fatto rilevare in più occasioni, la costrizione del minore, il quale è ritenuto non capace di esprimere un valido consenso (in ragione dell’età o del rapporto che lo lega al soggetto attivo), tanto è vero che il bene giuridico del reato non è la libertà di autodeterminazione del minore ma la relativa integrità fisio-psichica nella prospettiva di un corretto sviluppo della propria sessualità (Sez. 3, n. 23205 del 11/04/2018, G., Rv. 272790; Sez. 3, n. 24258 del 27/5/2010, V., Rv. 247289; Sez. 3, n. 29662 del 13/05/2004, Sonno, Rv. 229358; Sez. 3, n. 15287 del 25/02/2004, D’Ettore, Rv. 228610).
Tali considerazioni trovano per il Collegio ulteriore conferma nel fatto che, in termini generali, l’autorità, come osservato in altro ambito, ha natura “relazionale” e presuppone un rapporto tra più soggetti, sostanzialmente caratterizzato dal fatto che colui che riconosce l’autorità di chi la esercita subisce, senza reagire, gli atti che ne derivano, sicché in un simile contesto, non può validamente sostenersi che il riconoscimento dell’autorità debba avere esclusivamente natura formale e pubblicistica.
Una simile interpretazione risulta, invero, in evidente contrasto con la esigenza di massima tutela della libertà sessuale della persona che la legge persegue, come pacificamente riconosciuto e rende collocabili nella fattispecie astratta di cui all’art. 609-bis c.p., comma 1 anche situazioni che, altrimenti, ne resterebbero escluse, quali quelle derivanti da rapporti di natura privatistica o di mero fatto, come, ad esempio, nel caso dei rapporti di lavoro dipendente (anche irregolare), ovvero di situazioni di supremazia riscontrabili in ambito sportivo, religioso, professionale ed all’interno di determinate comunità, associazioni o gruppi di individui.
Accedendo, pertanto, alla tesi più restrittiva, la prevaricazione esercitata dall’agente sulla persona offesa sarebbe valutabile in sede penale solo se collocabile nell’ambito della minaccia o dell’abuso delle condizioni di inferiorità psichica, restandone esclusa qualora il compimento dell’atto sessuale con soggetto non consenziente avvenga in assenza dei presupposti caratterizzanti le suddette forme di coartazione o induzione.
Esclusa dunque la natura formale e pubblicistica dell’autorità di cui l’agente abusa nel commettere il reato di cui all’art. 609-bis c.p., occorre a questo punto per la Corte stabilire se l’autorità “privata” sia solo quella che deriva dalla legge o anche un’autorità di fatto, comunque determinatasi ed è conseguente alle premesse indicate ritenere corretta la seconda ipotesi, poiché, se ciò che rileva è la coartazione della volontà della vittima, posta in essere da una posizione di preminenza, la specifica qualità del soggetto agente resta in secondo piano rispetto alla strumentalizzazione di tale posizione, quale ne sia l’origine.
Va peraltro osservato – chiosa ancora il Collegio – che il riconoscimento della validità della interpretazione più ampia del concetto di abuso di autorità non incide negativamente sul principio di tipicità, occorrendo in primo luogo ribadire a tale proposito, che, come peraltro riconosciuto dalla dottrina, tra le finalità della L. 15 febbraio 1996, n. 66 vi era quella di assicurare la massima tutela a tutti coloro che, per caratteristiche personali o in ragione del contesto ambientale o relazionale che li vede coinvolti, vengano indotti o costretti a compiere o subire atti sessuali, sicché una nozione “ampia” del concetto di autorità risulta del tutto coerente con gli scopi perseguiti dal legislatore.
Inoltre, la sussistenza oggettiva del rapporto autoritario così come in precedenza individuato, deve essere inequivocabilmente dimostrata mediante un’analisi concreta della dinamica dei fatti idonea a porre in luce un rapporto di soggezione effettivamente intercorrente tra l’agente e la vittima del reato.
Deve, poi, essere dimostrata anche l’arbitraria utilizzazione del potere, dando anche conto della correlazione esistente tra l’abuso di autorità e le conseguenze sulla capacità di autodeterminazione della persona offesa, poiché una condotta che dovesse diversamente estrinsecarsi dovrebbe inevitabilmente essere inquadrata nelle contermini ipotesi di minaccia o induzione.
In altre parole, per la configurabilità del reato in esame occorre dimostrare non soltanto l’esistenza di un rapporto di autorità tra autore del reato e vittima diverso dalla mera costrizione fisica e dalle richiamate ipotesi di minaccia ed induzione, ma anche che di tale posizione di supremazia l’agente abbia abusato al fine di costringere la persona offesa a compiere o subire un atto sessuale al quale non avrebbe in altro contesto consentito, dovendosi dunque escludere la possibilità di desumere la costrizione in via meramente presuntiva sulla base della posizione autoritativa del soggetto agente.
Quanto in precedenza rilevato consente, infine, di ritenere rilevante, per la configurabilità del reato, la valenza coercitiva dell’abuso di autorità tanto nel caso in cui la posizione di preminenza dell’agente sia venuta meno, permanendo tuttavia una condizione di soggezione psicologica derivante dall’autorità da questi già esercitata, quanto in quello di relazione di dipendenza indiretta tra autore e vittima del reato, quando il primo, abusando della sua autorità, concorre con un terzo che compie l’atto sessuale non voluto dalla persona offesa.
Alla stregua di quanto precede, può pertanto enunciarsi per le SSUU il principio di diritto onde l’abuso di autorità cui si riferisce l’art. 609-bis c.p., comma 1, presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali.
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Il 16 dicembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione Penale n. 35990, alla stregua della quale per l’integrazione della circostanza aggravante del fatto commesso su persona sottoposta a limitazione della libertà personale di cui all’art. 609 ter, comma 1, n. 4, c.p. non è sufficiente la mera immobilizzazione della vittima, essendo richiesto un quid pluris, che risiede nel fatto che la condotta violenta sia commessa, come vuole la legge, “su persona comunque sottoposta a limitazioni della libertà personale”, vale a dire quando essa già si trovi in una condizione in cui la propria libertà di movimento sia di per sé compromessa, sì da agevolare la commissione del fatto per la conseguente diminuita possibilità di difesa.
2021
L’11 febbraio esce la sentenza della VI sezione della Cassazione Penale n. 5453, concernente il concetto di “abuso di autorità” rispettivamente nel reato di violenza sessuale e nel reato di induzione indebita a dare o promettere utilità.
Ad avviso del Collegio, in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità, che costituisce – unitamente alla violenza o minaccia – una delle modalità di consumazione del reato presuppone una posizione di preminenza, che di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali.
Di contro, nell’induzione indebita a dare o promettere utilità, l’abuso esercitato dal pubblico agente può alternativamente riguardare i suoi poteri, nel caso di prospettazione dell’esercizio delle potestà per scopi diversi da quelli leciti, ovvero la sua qualità, nel caso della strumentalizzazione della posizione rivestita all’interno della pubblica amministrazione, anche indipendentemente dalla sfera di competenza specifica.
Questioni intriganti
Cosa occorre rammentare in particolare della circostanza aggravante di cui all’art.61, n.9 e n.10 c.p.?
- la circostanza aggravante di cui all’art.61, n.9, è posta a tutela della funzione pubblica, del pubblico servizio e della funzione “cultuale”;
- essa è infatti contestabile, dal punto di vista soggettivo, solo a chi può rendersene protagonista e dunque ad un pubblico ufficiale, ad un incaricato di pubblico servizio ovvero ad un ministro di culto;
- si è al cospetto di un “abuso di poteri” o di una “violazione di doveri” che – per poter rilevare a livello “circostanziale” generale – non devono integrare un elemento costitutivo del reato che “connotano”, né una pertinente aggravante speciale;
- in sostanza, tanto il potere abusato quanto il dovere violato vengono dal soggetto agente strumentalizzati con finalità criminali, con uno sfondo strutturale di tipo ontologicamente doloso e, dunque, connotato da consapevole volontà “strumentalizzante”;
- il soggetto agente deve essere stato agevolato dalla propria qualifica pubblica o cultuale nella commissione del fatto inadempimento reato, finendo altrimenti la pertinente circostanza – secondo l’interpretazione più accreditata in dottrina e giurisprudenza – con il risultarne sterilizzata;
- è abuso di potere lo “sviamento” del potere stesso e, dunque, la deviazione rispetto alla relativa causa, e dunque allo scopo (interesse pubblico) in vista del quale il potere viene dalla legge conferito al soggetto agente;
- è violazione del dovere la mancata osservanza di un comportamento specificamente imposto al soggetto agente, senza che possa essere sufficiente – secondo l’interpretazione più accreditata – una deviazione da generici doveri di probità e correttezza pur connessi alla qualifica pubblica o cultuale del soggetto agente medesimo;
- per quanto riguarda in particolare i ministri del culto, il riferimento “consustanziale” ai poteri (abusati) e ai doveri (violati) fa dire alla dottrina più garantista come la circostanza non sia contestabile al ministro di un culto non ammesso dallo Stato e, come tale, non avvinto da nessuna relazione giuridica riconosciuta con lo Stato italiano;
- anche la circostanza aggravante di cui all’art.61, n.10 – seppure in un’ottica “complementare” – è posta a tutela della funzione pubblica (anche diplomatica), del pubblico servizio e della funzione “cultuale”, dovendo essere più rigorosamente perseguite condotte che recano un vulnus penalmente rilevante a chi svolga funzioni o servizi di particolare pregnanza sociale;
- qui l’aggravamento di pena scatta allorché il pubblico ufficiale, ovvero la persona incaricata di un pubblico servizio, ovvero ancora la persona rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato (qui, dunque, come tale ex lege specificato), ovvero l’agente diplomatico o consolare di uno Stato estero siano rese vittime del fatto inadempimento reato;
- ciò purché – dal punto di vista oggettivo – quest’ultimo sia commesso “nell’atto o a causa” dell’adempimento delle funzioni rispettivamente proprie di ciascuna delle ridette figure, dovendo pertanto configurarsi una peculiare relazione che avvinca il crimine, per come in concreto commesso, e le funzioni o il servizio “spiegati” contestualmente dal soggetto passivo “qualificato”, secondo la declinazione che segue: k.1) la funzione o il servizio devono essere la “causa” del reato commesso, laddove questo venga perpetrato “lontano” da essi (in termini di eziogenesi del reato ridetto: si uccide il poliziotto in borghese e fuori servizio a causa di un atto dell’ufficio da lui in precedenza compiuto); k.2) la funzione o il servizio devono essere l’”occasione” del reato commesso, laddove questo venga perpetrato “durante” il pertinente espletamento (in termini di contestualità rispetto al reato ridetto: si lede un carabiniere per puro rancore mentre sta compiendo un atto del proprio ufficio o servizio);
- sul crinale soggettivo, con riguardo a questa circostanza si propende in dottrina per la natura giocoforza dolosa della circostanza stessa, attesa la parola “contro” utilizzata dal legislatore penale, come tale denotante una indefettibile quota di intenzionalità a colorare la condotta del soggetto agente; i fautori di questa tesi (maggioritaria) richiedono a fini di contestazione dell’aggravante – dal punto di vista rappresentativo – la conoscenza da parte del soggetto agente delle funzioni o del servizio propri del soggetto passivo, contingentando l’applicazione dell’aggravante medesima ai soli reati (delitti e contravvenzioni) dolosi e, al più, ai delitti preterintenzionali.
Cosa occorre rammentare in particolare della circostanza aggravante di cui all’art.61, n.11, c.p.?
- la circostanza aggravante di cui all’art.61, n.11, concerne situazioni “private” che vengono sconvolte dall’abuso di autorità, dall’abuso di relazioni domestiche, dall’abuso di relazioni di ufficio, dall’abuso di prestazione d’opera, dall’abuso di coabitazione o, infine, dall’abuso di ospitalità;
- si tratta di fattispecie il cui minimo comun denominatore va rintracciato nell’affidamento che un soggetto (la vittima) ripone in un altro (il soggetto agente) e, dunque, nel vincolo di fiducia che lega il “creditore” rispetto al “debitore” che, nel tradire tale fiducia, commette fatto inadempimento reato proprio per questo “aggravato”;
- stando all’opzione ermeneutica maggiormente accreditata, per poter contestare l’aggravante occorre la verifica in concreto d’un instaurato rapporto di fiducia che, in quanto tale, ha agevolato il soggetto agente nella commissione del pertinente reato (aggravato);
- per “ab-uso” si intende, al solito, un vero e proprio “sviamento” del contegno tenuto – avvalendosi del potere che discende dall’altrui affidamento – rispetto ai limiti e alle finalità del contegno stesso, letto nello spettro del rapporto di fiducia che lo connota;
- sul crinale soggettivo, se deve trattarsi di abuso “volontario”, tale volontarietà non deve necessariamente tradursi in intenzionalità dell’atteggiamento proprio del soggetto agente, che deve volere il comportamento che in abuso si traduce e non (necessariamente) l’abuso stesso, il quale può dunque anche essere scaturigine di un contegno di tipo colposo (laddove l’abuso in parola assurge ad evento non voluto, e tuttavia prodotto dalla consapevole e voluta violazione di una norma cautelare);
- secondo l’opinione più accreditata, con riguardo al c.d. “abuso di autorità” è possibile contestare – in concorso tra loro – tanto l’aggravante di cui all’art.61, n.9, “pubblicisticamente” orientata, quanto l’aggravante di cui all’art.61, n.11, “privatisticamente” orientata, laddove nella concreta fattispecie convergano gli elementi astrattamente previsti dalle due disposizioni che, come tali, vanno assunte tra loro “complementari”;
- quanto poi alle “relazioni domestiche”, si contendono il campo diverse tesi: g.1) tali relazioni presuppongono soggetti che siano parenti o affini tra loro conviventi; g.2) tali relazioni presuppongono l’appartenenza ad un unico gruppo familiare, quand’anche non vi sia rapporto di parentela (e, secondo l’opzione più estensiva, quand’anche non si coabiti);
- un particolare rapporto lega la fattispecie criminosa di furto in abitazione con l’aggravante dell’abuso di c.d. “relazioni domestiche”: h.1) stando ad un primo orientamento, si hanno relazioni domestiche quando tra soggetto agente e soggetto passivo del reato si configura un rapporto che consente al primo il libero accesso ai luoghi abitati dal secondo, onde vi è incompatibilità con il furto “in abitazione” che, come tale, presuppone un ingresso “ab externo”; h.2) alla stregua di un secondo orientamento, fatto proprio da parte della giurisprudenza, la ridetta compatibilità potrebbe sussistere in circostanze particolari, come nel caso in cui la vittima abbia consentito al soggetto agente il solo accesso ad una parte della propria abitazione e quest’ultimo, approfittando della “relazione domestica”, abbia commesso furto in altra parte a lui interdetta, ovvero nell’ipotesi in cui il consenso all’accesso alla propria abitazione da parte della vittima sia da collocarsi nel passato e non sia più attuale, allorché il soggetto attivo approfitti, abusandone, di queste pregresse “relazioni domestiche” per commettere furto;
- un cenno particolare meritano i concetti di “coabitazione” da un lato e di “ospitalità” dall’altro; si ha “coabitazione” quando vi è una qualche relazione tra soggetto agente del reato aggravato e vittima tale che esse – per volontà o anche solo per necessità – si trovino a condividere un medesimo spazio abitativo, quale teatro delle tipiche attività che compendiano la vita domestica; l’”ospitalità” presuppone invece l’esercizio dello ius excludendi, rispetto ad un dato luogo, di un soggetto e l’accoglimento temporaneo in detto luogo dell’altro; si è fatto notare che mentre la coabitazione ha connotati indefettibilmente “abitativi”, così non è del pari necessariamente per l’”ospitalità”, che potrebbe anche sostanziarsi nel temporaneo accoglimento in uno spazio “non abitativo” come una automobile; onde, se normalmente si ha coincidenza tra ospitalità e coabitazione, ciò non è detto che avvenga sempre e necessariamente, ed è anzi escluso in tutti i casi in cui l’ospite dimori in un luogo “non abitativo” e non connotante una (anche solo potenziale) “convivenza”;
- si hanno “relazioni d’ufficio” allorché si configuri una medesima comunità di lavoro e vi sia ad essa partecipazione, pur solo occasionale, del soggetto agente, quand’anche – stando all’interpretazione più accreditata – l’attività svolta dal soggetto “abusante” e la vittima sia spazialmente distanziata;
- diverse dalle relazioni d’ufficio sono le “relazioni d’opera”: sul crinale oggettivo, si è al cospetto di una attività che un soggetto presta a favore di un altro in virtù di un rapporto giuridico dal quale discendono degli obblighi (come nel classico esempio del contratto di mandato), con esclusione dunque di qualsivoglia mera “facoltà” (non obbligatoria) di facere, e quale che sia poi titolo, oggetto e regime giuridico proprio del rapporto tra le parti, rispettivamente, “abusante” e “vittima di abuso”; sul versante soggettivo, se è certa l’applicabilità dell’aggravante quando la “relazione d’opera” abusata veda come soggetto attivo una delle parti del rapporto giuridico e come vittima l’altra, più discussa è la configurabilità dell’aggravante quando siano coinvolti dei terzi, come nel caso – affiorato in giurisprudenza – di chi commetta il reato nei confronti di qualcuno del quale non è più alle dipendenze (e che è ormai dunque per lui, appunto, un terzo) traendo vantaggio dalle favorevoli condizioni avvincibili al pregresso (ed ormai esaurito) rapporto con la vittima.
Cosa occorre rammentare in particolare delle nuove circostanze aggravanti di cui all’art.61, n.11 ter, 11 quinquies 11 sexies e 11 octies, c.p.?
- la circostanza aggravante di cui all’art.61, n.11 ter, introdotta nel 2009, è aggravante comune, concerne i soli delitti contro la persona e può avere come vittima soltanto un soggetto minore, al quale va garantita una tutela penale particolarmente consistente ed incisiva; si applica solo quando il fatto sia commesso all’interno o nelle adiacenze di un istituto di istruzione o formazione; la pena per il reato commesso può essere aumentata fino a 1/3;
- la circostanza aggravante di cui all’art.61, n.11 quinquies, introdotta nel 2013, è aggravante comune e concerne i delitti non colposi contro la vita, contro l’incolumità individuale e contro la libertà personale, nonché il delitto di maltrattamenti in famiglia ex art.572 c.p.; si applica quando il delitto è commesso in presenza o in danno di un minore degli anni 18, ovvero in danno di una persona in stato di gravidanza; secondo la tesi più accreditata peraltro, ogni volta che la percezione del minore, per il relativo carattere di sistematicità, venga a determinare per lo stesso una mortificazione rilevante ex art. 572 c.p., dovrà ritenersi persona offesa del reato di maltrattamenti, con conseguente assorbimento dell’aggravante de qua ex att. 68 c.p. (laddove richiama l’art.15 c.p. in tema di rapporto di specialità); del pari (e sempre in virtù del principio di specialità), la circostanza non è applicabile se la minore età o lo stato di gravidanza sono elementi costitutivi di altri reati, come nel caso dell’art. 609 quater c.p. o di altre circostanze, come nella violenza sessuale compiuta contro donna in stato di gravidanza, ex artt. 609-bis e 609-ter co. 5-ter c.p., o nel caso di reato compiuto contro un minore “all’interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione e formazione” ex art. 61 co. 11 ter c.p.;
- la circostanza aggravante di cui all’art.61, n.11 sexies, introdotta nel 2018, è aggravante “comune” che si affianca alla riforma del delitto di cui all’art. 348 c.p., con consistente innalzamento delle relative pene, ed alla introduzione di due nuove circostanze aggravanti ad effetto speciale per i delitti di omicidio colposo e lesioni personali colpose gravi o gravissime, qualora commessi nell’esercizio abusivo di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato o di un’arte sanitaria; essa si applica ai delitti non colposi (e, dunque, dolosi) commessi in danno di persone (attualmente) “ricoverate” presso strutture sanitarie (come ospedali, cliniche e così via), sociosanitarie residenziali o semi-residenziali (RSA, case di cura e così via), pubbliche o private, ovvero presso strutture socio-educative (come nel caso delle comunità per anziani o per minori) ed ha natura oggettiva ai sensi dell’art. 70 n. 1 c.p., afferendo ai connotati dell’azione commessa dal soggetto agente, ovvero alle peculiari condizioni personali della vittima; l’elenco delle strutture di “attuale ricovero”, che è il presupposto per l’applicazione della circostanza, viene assunto tassativo (stante anche il divieto di analogia), potendo le singole strutture coinvolte ricavarsi dalla pertinente legislazione regionale;
- la circostanza aggravante di cui all’art.61, n.11 octies, introdotta nel 2020, è aggravante comune che inasprisce il trattamento sanzionatorio di chi abbia agito – nei delitti commessi con violenza o minaccia – in danno degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nonché di chiunque svolga attività ausiliarie di cura, assistenza sanitaria o soccorso, funzionali allo svolgimento di dette professioni, a causa o nell’esercizio di tali professioni o attività; si tratta di aggravante comune introdotta in piena emergenza sanitaria, che ha come presupposto eziologico (anche remoto: “a causa”) o comunque attuale (“nell’esercizio”) il disimpegno delle ridette attività, ancora una volta da assumersi tassativamente elencate (stante il ridetto divieto di analogia).