Consiglio di Stato, II- sentenza 28.03.2025 n. 2592
PRINCIPIO DI DIRITTO
Nel nostro ordinamento giuridico vige il principio della presunzione di legittimità degli atti amministrativi, che ne attesta la validità fino alla loro rimozione dal mondo giuridico mediante i tipici strumenti previsti dal sistema, ovvero l’annullamento in via giudiziaria, giustiziale, in autotutela espresssa oppure, nei soli casi consentiti, straordinaria da parte dell’autorità competente. La presunzione di legittimità che assiste il provvedimento risponde ai canoni costituzionali di certezza del diritto, stabilità dei rapporti, effettività del potere siccome funzionalizzato al perseguimento dell’interesse pubblico.
TESTO RILEVANTE DELLE DECISIONE
- – Con istanza del 30 agosto 2007 (prot. n. GSE/A2007033041 del 6 settembre 2007) la società Marcopolo Engineering s.p.a. Sistemi Ecologici (in seguito MPE) domandava al Gestore dei Servizi Energetici – GSE s.p.a. il riconoscimento della qualifica di impianto alimentato da fonti rinnovabili (IAFR), ai sensi degli art. 4, comma 3, del D.M. 24 ottobre 2005 (recante “Aggiornamento delle direttive per l’incentivazione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili ai sensi dell’articolo 11, comma 5, del D.Lgs. 16 marzo 1999, n. 79”), in relazione ad un progetto di nuova costruzione di impianto termoelettrico denominato “Taranto”, sito in località La Riccia Giardinello nel Comune di Taranto (procedimento catalogato dal GSE come IAFR 2945).
Nell’istanza si indicava espressamente che la domanda atteneva a un impianto di potenza pari a 2,13 MW, precisandosi che “il primo gruppo elettrogeno ha effettuato il primo parallelo in data 23 agosto 2007” e che “il secondo gruppo elettrogeno entrerà in funzione entro fine dicembre 2007”.
La domanda di qualifica dell’impianto per cui è causa quale IAFR era corredata dalla denuncia di inizio attività (DIA) al Comune di Taranto relativa alla “platea in calcestruzzo da realizzare nel Comune di Taranto in località la Riccia Giardinello per la realizzazione di impianto di produzione di energia elettrica all’interno della Cava di proprietà ITALCAVE S.p.A. identificata catastalmente al NCT/NCEU al Foglio 138 part 19” e della pertinente comunicazione alla Provincia di Taranto, all’ARPA Puglia e al Comune di Taranto, datata 3 maggio 2006 avente ad oggetto la comunicazione di inizio attività a inquinamento atmosferico (entrambe concernenti esclusivamente il primo gruppo di generazione, di potenza pari a 1,065 MW).
Veniva anche prodotta la richiesta di autorizzazione unica, ai sensi del decreto legislativo n. 387/2003 e della D.G.R. n. 35 del 23 gennaio 2007, per la costruzione e l’esercizio dell’impianto di potenza pari a 2,13 MW, inoltrata alla Regione Puglia, relativa all’impianto complessivamente inteso (primo e secondo gruppo di generazione).
Con nota prot. n. GSE/P2007025197 del 26 novembre 2007 il GSE riconosceva la qualifica IAFR, contestualmente segnalando che, circa “il successivo rilascio dei Certificati Verdi” (CV), occorreva “ottemperare a quanto specificatamente previsto dall’art. 5 del … Decreto 24/10/2005”.
Come risulta dall’allegato tecnico alla domanda, il riconoscimento della qualifica riguardava la costruzione di un unico nuovo impianto di 2,13 MW, costituito da due gruppi di generazione elettrica da 1,065 MW l’uno.
Successivamente la ditta MPE chiedeva e otteneva il rilascio su base annua dei certificati verdi in considerazione della produzione dell’intero impianto, composto da due gruppi di generazione per una potenza elettrica complessiva di 2,13 MW e una potenza termica complessiva superiore a 5 MW.
In data 22 maggio 2014 perveniva al GSE la comunicazione prot. n. AOO_159/0003104 della Regione Puglia – Ufficio Energie Rinnovabili e Reti, con la quale veniva comunicato il “diniego al rilascio dell’AU, comunicato alla Società e agli Enti coinvolti … con provvedimento prot. n. 2793 del 7.5.2014”.
La comunicazione della Regione precisava che né “l’impianto in oggetto e nessun altro impianto per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili riconducibile allo stesso è stato autorizzato dal servizio Energia della Regione Puglia”.
La nota regionale del 7 maggio 2014 prot. n. 2793 recava la comunicazione a MPE del “diniego dell’Autorizzazione Unica” rispetto a “un impianto … della potenza elettrica di 2,130 MW”.
Alla luce delle note della Regione Puglia, con nota prot. n. GSE/P20140113791 del 6 agosto 2014 il GSE comunicava a MPE l’avvio di un procedimento di verifica e controllo rispetto alla qualifica IAFR e, contestualmente, la sospensione dell’erogazione dei certificati verdi sino alla conclusione del procedimento.
In particolare il GSE evidenziava che “l’impianto ha prodotto energia elettrica con entrambi i gruppi di generazione da gennaio 2008 con una potenza termica complessiva superiore a 5 MW (dato rilevato dalla scheda tecnica dei gruppi di generazione allegata alla richiesta di qualifica) a fronte della DIA e della comunicazione alla Provincia di Taranto, citate in premessa, presentate in relazione a un impianto di potenza termica inferiore a 3 MW”.
Nella specie – si proseguiva nella comunicazione del 6 agosto 2014 – “la sussistenza, validità ed efficacia dei titoli autorizzativi alla costruzione e all’esercizio è presupposto essenziale per il riconoscimento della qualifica IAFR e per la legittima attribuzione di incentivi pubblici”.
Con nota del 6 settembre 2014 la società MPE presentava le proprie osservazioni procedimentali (e relativa produzione documentale), rappresentando al GSE che “l’iter autorizzativo relativo ai due motori è sempre stato distinto e separato …”.
Nella specie la società MPE confermava che la Regione con la citata nota prot. n. 159/2793 del 7 maggio 2014 aveva comunicato “il diniego dell’Autorizzazione Unica”, segnalando al riguardo di aver proposto avverso tale diniego “ricorso straordinario al Presidente della Repubblica”.
La ditta MPE confermava che “l’impianto ha prodotto energia elettrica con entrambi i gruppi di generazione … a partire dal 2008 e sino a fine dicembre 2009, mentre da gennaio 2010 i dati di produzione” sarebbero stati “compatibili con un solo gruppo di generazione”, senza altra specificazione.
Con nota prot. n. GSE/P20140146719 del 13 ottobre 2014 il GSE comunicava a MPE la caducazione della qualifica IAFR, disponendo la restituzione dei certificati verdi indebitamente percepiti, come risultante da apposita tabella, per complessivi € 5.576.584,14 oltre IVA.
A sostegno di tale determinazione, ripercorsa la vicenda sopra delineata, si evidenziava in sintesi che “l’impianto ha prodotto energia elettrica con entrambi i gruppi di generazione da gennaio 2008, per una potenza termica complessiva superiore a 5MW …, senza essere in possesso di idoneo e valido titolo autorizzativo ma a fronte della DIA e della comunicazione alla Provincia di Taranto … presentata in relazione ad un impianto di potenza termica inferiore a 3MW”.
Più in dettaglio, il GSE segnalava che in forza del decreto ministeriale 24 ottobre 2005 (recante “Aggiornamento delle direttive per l’incentivazione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili ai sensi dell’articolo 11, comma 5, del D.Lgs. 16 marzo 1999, n. 79”) … “l’emissione dei certificati verdi è subordinata alla presentazione di apposita richiesta corredata dalla autorizzazione rilasciata ai sensi dell’articolo 12 del decreto legislativo n. 387/2003” (cfr. art. 5, comma 7), nella specie difettante sulla scorta di quanto segnalato dalla Regione Puglia.
Ancora, veniva rammentato che “… l’impianto è entrato in esercizio in data 23/08/2007 con un solo gruppo di generazione elettrica per una potenza pari a 1.065MW” e “da gennaio 2008 e almeno fino sino a fine dicembre 2009 l’impianto ha prodotto energia elettrica con entrambi i gruppi di generazione, per una potenza pari a 2.13 MW (potenza termica superiore a 5 MW) benché non in possesso di titolo autorizzativo idoneo …”.
Nel provvedimento il Gestore rappresentava, altresì, che “… non risultano pervenute comunicazioni relative all’entrata in esercizio del secondo gruppo di generazione elettrica né alla sua eventuale dismissione” e “non è stata fornita documentazione utile attestante la data di installazione e rimozione del secondo gruppo di generazione elettrica; pertanto non è possibile accertare che la produzione degli anni successivi al 2009 sia attribuibile a un gruppo di generazione invece che a entrambi …”.
Pertanto con la suddetta comunicazione prot. n. GSE/P20140146719 del 13 ottobre 2014 il GSE:
– annullava la qualifica IAFR 2945 di MPE;
– affermava di essere tenuto al recupero dei certificati verdi percepiti da MPE per un ammontare di € 5.576.584,14 + IVA, invitando la stessa MPE a restituire tale somma ipotizzando, altrimenti, di agire in compensazione con le partite economiche afferenti ad altri rapporti pendenti con la medesima società.
- – Con ricorso principale r.g. n. 14857/2014 la società MPE impugnava dinanzi al T.a.r. Lazio il richiamato provvedimento del GSE del 13 ottobre 2014, l’art. 3, comma 11, del D.M. 24 ottobre 2005 (recante “Direttive per la regolamentazione dell’emissione dei certificati verdi alle produzioni di energia di cui all’articolo 1, comma 71, della L. 23 agosto 2004, n. 239”) e dell’art. 11, comma 7, del D.M. 18 dicembre 2008 (recante “Incentivazione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, ai sensi dell’articolo 2, comma 150, della legge 24 dicembre 2007, n. 244”), nella parte in cui attribuiscono al GSE il potere di compensare trattenendo i certificati verdi di competenza del medesimo produttore relativi ad eventuali altri impianti gestiti dal privato.
In data 23 giugno 2016 MPE presentava domanda di concordato preventivo ai sensi dell’art. 161 del regio decreto n. 267/1942 (legge fallimentare) presso il Tribunale di Cuneo.
In data 12 dicembre 2016 MPE depositava presso il Tribunale di Cuneo la proposta di concordato che veniva poi accolta da Tribunale di Cuneo con provvedimento del 2 febbraio 2017. Da quest’ultima data, dunque, MPE è in concordato preventivo con continuità aziendale.
Con pec del 5 giugno 2017 il GSE a seguito di riesame: (i) annullava in autotutela il proprio precedente provvedimento prot. GSE/P20140146719 del 13 ottobre 2014, con il quale era stata annullata la qualifica IAFR 2945 relativa all’impianto Taranto; (ii) riconosceva la qualifica IAFR in questione per l’impianto termoelettrico di MPE, sito in Taranto, località La Riccia Giardinello, costituito da un gruppo di generazione di potenza nominale di 0,990 MW, entrato in esercizio il 23 agosto 2007 (cd. impianto Taranto 1) e (iii) riconosceva gli incentivi per l’energia prodotta dal suddetto motore solo per il periodo successivo al 28 febbraio 2011, ossia a seguito dell’avvenuta rimozione del secondo motore (cd. Taranto 2).
Con il primo ricorso per motivi aggiunti MPE impugnava dinanzi al T.a.r. Lazio: (i) il menzionato provvedimento del GSE del 5 giugno 2017 nella parte in cui il Gestore negava il riconoscimento della qualifica IAFR per il secondo motore presente presso il sito di Taranto dal 2007 e nella parte in cui riconosceva alla stessa società solo l’energia netta prodotta dal primo motore successivamente alla comunicazione di avvenuta rimozione del secondo gruppo di generazione trasmessa dal GSE in data 28 febbraio 2011; (ii) la comunicazione del GSE del 4 agosto 2017 nella parte in cui non disponeva che MPE ricevesse gli incentivi per tutta l’energia prodotta presso l’impianto di Taranto dal 2007 in poi.
Con pec del 25 settembre 2017 prot. GSE/P20170070680 il GSE rideterminava l’ammontare degli importi che MPE avrebbe dovuto restituire (pari ad € 1.899.885,28) e disponeva la compensazione di tale somma con quella già recuperata tramite (i) corresponsione delle rate di cui al piano di rientro del dicembre 2015 e (ii) compensazione sulle altre partite commerciali attive (complessivamente pari ad € 1.177.765,46).
Con la medesima comunicazione il GSE quindi richiedeva a MPE il pagamento della somma asseritamente da recuperare, pari ad € 722.119,82.
I provvedimenti del GSE del 25 settembre 2017 e del 24 ottobre 2017 (quest’ultimo di quantificazione del credito complessivo del GSE nei confronti della società) venivano impugnati da MPE con il secondo ricorso per motivi aggiunti.
Con successivo provvedimento del 14 marzo 2018 prot. GSE/P20180022456 il GSE comunicava che, a quella data, il credito dello stesso Gestore, riferibile all’impianto Taranto – IAFR 2945, sarebbe stato pari ad € 328.461,48.
Avverso il suddetto provvedimento MPE proponeva il terzo ricorso per motivi aggiunti, contestandolo nella parte in cui il Gestore comunicava che, a quella data, il proprio credito, riferibile all’impianto Taranto – IAFR 2945, sarebbe stato pari a € 328.461,48 e anche nella parte in cui negava il riconoscimento della qualifica IAFR per il secondo motore presente presso l’impianto Taranto Italcave e non riconosceva gli incentivi per tutta l’energia prodotta dal 2007.
Per effetto della comunicazione del medesimo GSE del 14 marzo 2018, nel piano industriale depositato a gennaio 2019 nell’ambito della procedura di concordato (e in vista dell’adunanza dei creditori, che sarebbe stata tenuta in data 24 maggio 2019) MPE indicava un credito chirografario del GSE pari ad € 328.461,48, precisando comunque che su detto credito pendevano giudizi dinanzi al T.a.r.
Con relazione ex art. 172 della legge fallimentare, depositata in data 10 aprile 2019 nell’ambito della procedura per concordato preventivo avviata da MPE, il GSE: (i) accoglieva l’appostazione di MPE, che ha collocato il debito del GSE nel passivo chirografario per € 328.461,48 (pag. 96); (ii) dava atto della comunicazione del GSE del 26 marzo 2019, ove il Gestore affermava di esser titolare di un credito da recuperare pari ad € 722.119,82, e (iii) sottolineava che la compensazione prospettata dal GSE tra crediti maturati prima del deposito della domanda di concordato e crediti maturati dopo tale data sarebbe stata illegittima per violazione degli artt. 169 e 56 della legge fallimentare e, quindi, della par condicio creditorum (pag. 46).
Con il quarto e il quinto ricorso per motivi aggiunti MPE impugnava i seguenti atti:
- i) il provvedimento del GSE prot. GSE/P20190016662 del 26 marzo 2019 nella parte in cui il Gestore disponeva un importo residuo da recuperare pari ad € 722.119,82 e comunicava che avrebbe compensato l’importo residuo sui futuri incentivi spettanti all’impianto in forza della convenzione GRIN_001707;
- ii) la convenzione RID_000528 del 1° febbraio 2008 (in specie l’art. 14), la convenzione RID_013636 del 13 gennaio 2012 (in specie l’art. 14), nonché la convenzione GRIN 001707 del 24 maggio 2018 (in specie l’art. 14 e l’art. 6.5) nella parte in cui erano state interpretate dal GSE quali fondamenti per procedere a compensazione tra i propri crediti e i crediti del privato in violazione degli artt. 56 e 169 della legge fallimentare, nonché i relativi atti presupposti, fra cui la delibera dell’AEEG – Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico (ora ARERA – Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente) n. 280 del 6 novembre 2007 e la delibera dell’AEEG (ora ARERA) n. 207 del 2013, in specie il punto 13.5 dell’Allegato A, nella parte in cui erano state interpretate dal GSE quali fondamenti per procedere a compensazione tra i propri crediti e i crediti del privato in violazione degli artt. 56 e 169 della legge fallimentare; iii) ogni operata compensazione tra crediti del GSE e crediti di MPE, disposta unilateralmente dal GSE, tra crediti del Gestore (sorti prima del 23 giugno 2016) e crediti di MPE (sorti dopo il 23 giugno 2016) e, in particolare, l’operazione di compensazione (anticipata con nota prot. GSE/P20190016662 del 26 marzo 2019) di non meglio specificati crediti del GSE con i crediti di MPE per gli incentivi di cui alla rendicontazione del 29 marzo 2019 per l’energia prodotta presso l’impianto di Taranto – convenzione GRIN 001707 nel periodo luglio-settembre 2018, per cui MPE avrebbe dovuto già incassare € 167.161,22.
Con tale ricorso la ditta MPE chiedeva anche la condanna del Gestore:
– al pagamento delle somme spettanti a MPE a titolo di incentivi di cui alla rendicontazione del 29 marzo 2019 per l’energia prodotta presso l’impianto di Taranto nel periodo luglio-settembre 2018, per cui MPE avrebbe incassato € 167.161,22, oltre interessi di mora ex decreto legislativo n. 231/2002 o nella misura legale dal dì del dovuto sino all’effettivo soddisfo;
– al pagamento/restituzione delle somme indebitamente compensate e comunque indebitamente trattenute anche in esecuzione del piano di rientro del 31 dicembre 2015, pari almeno ad € 2.212.505,62 o comunque nella misura che emergerà in corso di causa, oltre interessi di mora ex decreto legislativo n. 231/2002 o nella misura di cui alla convenzione per tempo vigente o nella misura legale dal dì del dovuto sino all’effettivo soddisfo.
Con ordinanza collegiale n. 3583 del 23 marzo 2020 il T.a.r. disponeva verificazione ai sensi dell’art. 66 del codice del processo amministrativo e chiedeva al verificatore incaricato di chiarire “… la corretta ricostruzione del debito vantato del Gestore dei Servizi Energetici SpA (GSE) nei confronti della ricorrente relativamente alla produzione di energia dell’impianto sito in Taranto, località La Riccia Giardinello e quali somme risultino ancora dovute dalla ricorrente …”.
Nell’ambito della suddetta verificazione in data 25 giugno 2020 il GSE depositava una nota (inviata a MPE in data 1° luglio 2020) in cui il Gestore esponeva le proprie modalità di calcolo e di incasso degli interessi asseritamente maturati in suo favore in esecuzione del piano di rientro del 30 dicembre 2015.
Quest’ultimo atto veniva impugnato da MPE con il sesto ricorso per motivi aggiunti del 23 settembre 2020 ed, in specie, MPE chiedeva: “… l’accertamento dell’illegittimità … delle operazioni di compensazione e/o delle trattenute effettuate dal GSE sui crediti di Marcopolo Engineering S.p.A. come indicate nel “piano di rientro e dettaglio interessi incassati/compensati” e, più in generale, nelle “informazioni relative agli interessi” rese nella nota del Gestore dei Servizi Energetici S.p.A. prot. 101313 del 25 giugno 2020, comunicata a Marcopolo il 1° luglio 2020 nell’ambito della verificazione disposta nell’ambito del ricorso r.g. 14857/2014 dinanzi al TAR Lazio – Roma …” e la condanna del GSE “… alla restituzione delle somme versate da Marcopolo o compensate dal GSE a titolo di interessi moratori e di interessi di dilazione, oltre interessi di mora ex d. lgs. 231/2002 o nella misura di cui alla convenzione per tempo vigente o nella misura legale dal dì del dovuto all’effettivo soddisfo”.
Sempre con il sesto ricorso per motivi aggiunti MPE svolgeva un’ulteriore istanza istruttoria e chiedeva di “… disporre CTU volta a chiarire se gli interessi pretesi dal GSE superino o meno il tasso di soglia, con conseguente illegittimità ex art. 2 della L. 108/1996 e dell’art. 1815 c.c. e quantificare gli interessi effettivamente spettanti al GSE sulla base del capitale così rideterminato”.
- – Con l’appellata sentenza n. 307 del 12 gennaio 2022 il T.a.r. Lazio:
– dichiarava improcedibile il ricorso principale;
– respingeva i motivi aggiunti;
– alla luce delle risultanze della disposta verificazione accertava “… il credito complessivo del GSE per capitale e interessi pari a € 280.534,28 oltre gli ulteriori interessi legali che dovranno essere calcolati sulle somme così calcolate fino all’integrale soddisfo del debito da parte di MPE”;
– compensava tra le parti le spese di lite.
- – Con rituale atto di appello la società MPE chiedeva la riforma della predetta sentenza, lamentandone l’erroneità e l’ingiustizia alla stregua dei seguenti motivi di gravame:
«I.- Erroneità ed illogicità della sentenza, omessa pronuncia. Violazione dell’art. 97 Cost. Violazione dell’art. 3 l. 241/90, d.m. 24/2005, del d. lgs. 28/2011, del d.m. 31/1/2014, degli artt. 63 e 64 c.p.a. difetto di istruttoria, violazione del principio dell’affidamento, illogicità manifesta, contraddittorietà intrinseca ed estrinseca e rispetto a provvedimenti di altre amministrazioni. violazione del principio di economicità, di non aggravio del procedimento, di leale collaborazione, sviamento;
II.- Erroneità ed illogicità della sentenza, omessa pronuncia. Violazione dell’art. 97 Cost. Violazione dell’art. 3, 21 nonies, l. 241/90, d.m. 24/2005, del d. lgs. 28/2011, del d.m. 31/1/2014, degli artt. 63 e 64 c.p.a. difetto di istruttoria, violazione del principio dell’affidamento, illogicità manifesta, contraddittorietà intrinseca ed estrinseca e rispetto a provvedimenti di altre amministrazioni. Violazione del principio di economicità, del legittimo affidamento, di non aggravio del procedimento, di leale collaborazione, sviamento. Riproposizione delle domande e delle eccezioni non espressamente esaminate dal Tar ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a.;
III.- Erroneità della sentenza omessa pronuncia ed illegittimità della motivazione. Violazione dell’art. 97 Cost., degli artt. 1, 1bis, 3, l.n. 241/1990, 42 del d.lgs. n. 28/2011, degli artt. 56, 168, 169 e 184 r.d. 267/1942, artt. 63 e 64 c.p.a. violazione degli artt. 1243 e 1246 c.c. violazione del giudicato. Difetto di istruttoria, travisamento, violazione del principio di economicità dell’azione amministrativa e di leale collaborazione. Violazione del principio di non aggravio del procedimento, eccesso di potere per sviamento ed ingiustizia manifesta. Violazione dei principi di compensazione anche contabile. Violazione dei principi di interpretazione del diritto. Riproposizione dei motivi di impugnazione non espressamente esaminati dal Tar ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a.;
IV.- Erroneità della sentenza omessa pronuncia ed illegittimità della motivazione. Violazione dell’art. 97 Cost., degli artt. 1, 1bis, 3, l.n. 241/1990, 42 del d.lgs. n.28/2011, degli artt. 56, 168, 169 e 184 r.d. 267/1942, artt. 63 e 64 c.p.a. Violazione degli artt. 1243 e 1246 c.c. Violazione del giudicato. Difetto di istruttoria, travisamento, violazione del principio di economicità dell’azione amministrativa e di leale collaborazione. violazione del principio di non aggravio del procedimento, eccesso di potere per sviamento ed ingiustizia manifesta. Violazione dei principi di compensazione anche contabile. Violazione dei principi di interpretazione del diritto. Riproposizione dei motivi di impugnazione e delle domande istruttorie non espressamente esaminati dal Tar ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a.;
V.- Erroneità della sentenza per omessa pronuncia. Riproposizione, ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a., delle eccezioni e delle domande proposte in primo grado e non esaminate».
- – Resisteva al gravame il Gestore dei Servizi Energetici – GSE s.p.a., chiedendone il rigetto.
- – All’udienza pubblica dell’11 marzo 2025 la causa passava in decisione.
- – L’appello è infondato.
7.1. – Con il primo motivo di appello MPE sostiene che il Giudice di primo grado non si sarebbe avveduto della contraddittorietà intrinseca che inficia gli atti gravati, in quanto la contestata decisione del GSE di riconoscere gli incentivi per l’energia prodotta dal motore Taranto 1 solo per il periodo successivo alla rimozione del secondo motore (cd. Taranto 2) sarebbe in contrasto non solo con le statuizioni delle Amministrazioni interpellate sul punto, ma anche con quanto disposto dal medesimo GSE.
Il motivo va disatteso.
Deve in primis evidenziarsi che sino al febbraio 2011 l’impianto per cui è causa ha prodotto energia con entrambe le unità di generazione Taranto 1 e Taranto 2 (circostanza non contestata) e ottenuto certificati verdi in assenza del titolo abilitativo per una simile configurazione (rectius prima del suo conseguimento).
È evidente che il fatto storico dell’avvenuta produzione e incentivazione di energia in difetto del prescritto titolo abilitativo non può essere ignorato e correttamente è stato valorizzato con portata dirimente dal T.a.r. nella sentenza appellata e, prima ancora, dal GSE negli impugnati provvedimenti (del 13 ottobre 2014 prima e del 5 giugno 2017 dopo).
Del resto, già in sede di presentazione dell’originaria istanza di qualifica IAFR (in data 6 settembre 2007), MPE ha inoltrato al GSE la documentazione autorizzativa (DIA) sufficiente per la costruzione e l’esercizio di una sola delle due unità di generazione e, contestualmente, la sola richiesta di autorizzazione unica per la costruzione e l’esercizio dell’impianto costituito da entrambi i gruppi di produzione ai sensi dell’art. 4 del D.M. 24 ottobre 2005 (recante “Aggiornamento delle direttive per l’incentivazione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili ai sensi dell’articolo 11, comma 5, del D.Lgs. 16 marzo 1999, n. 79”).
Tuttavia, la DIA e la connessa comunicazione alla Provincia, conseguita da MPE, era idonea a consentire l’esercizio del solo primo gruppo di generazione esclusivamente sino al limite di 3 MW termici.
All’opposto, come emerge dall’istruttoria condotta dal GSE, l’impianto condotto da MPE ha prodotto energia con entrambi i generatori; solo dal 28 febbraio 2011 è stato possibile avere certezza dell’intervenuta dismissione del secondo gruppo di generazione (come detto privo di titolo abilitativo).
Invero, non è contestato che il secondo gruppo di generazione è entrato in esercizio nel 2008 senza trasmettere alcuna comunicazione e senza avere ottenuto il titolo abilitativo, continuando a percepire i certificati verdi sull’intera produzione (per un impianto di potenza di 2,13 MW).
Inoltre, MPE non è stata in grado di fornire evidenza alcuna in ordine alla certa individuazione del motore che – nel periodo in astratto compatibile con una produzione a opera di un solo gruppo di generazione – ha effettivamente prodotto energia.
Ne discende, pertanto, l’infondatezza delle censure articolate da MPE.
La circostanza che MPE abbia trasmesso la DIA e la comunicazione alla Provincia, quale documentazione autorizzativa per una delle unità di generazione, non vale comunque a dimostrare che l’impianto fosse abilitato per l’esercizio di entrambe le unità di generazione.
La società MPE era in ogni caso tenuta a ottenere e trasmettere il titolo abilitativo per l’impianto nel suo complesso (nonché astenersi dal produrre con il secondo gruppo prima dell’ottenimento del titolo abilitativo).
In sintesi, il riconoscimento dei certificati verdi per il periodo di compresenza di entrambi i gruppi di generazione – come ribadito nel gravato provvedimento del 5 giugno 2017 – non può ammettersi.
Infatti, poiché il secondo gruppo di generazione è entrato in esercizio prima del conseguimento del titolo abilitativo (peraltro, senza alcuna comunicazione dell’attivazione al GSE) e poiché MPE non è stata in grado di comprovare con assoluta certezza che la produzione di energia, anche nei periodi astrattamente compatibili con l’esercizio di un solo gruppo di generazione, è avvenuta esclusivamente con il primo motore, è evidente che al GSE non è stato possibile accertare che l’energia da incentivarsi provenga (unicamente) da un motore munito del pertinente titolo abilitativo.
Nella vicenda in esame MPE ha posto in esercizio anche il secondo motore, in difetto del prescritto titolo autorizzativo, senza comunicare alcunché al GSE ed essendo in grado di dimostrare con certezza l’avvenuta dismissione del secondo gruppo di generazione solo a partire dalla data del 28 febbraio 2011 (come da comunicazione al Gestore di rete).
Conseguentemente, in maniera del tutto legittima, il GSE non ha potuto fare altro che riconoscere la qualifica al solo primo gruppo di generazione e far decorrere i benefici dalla data certa di avvenuta dismissione del secondo gruppo.
Va, altresì, evidenziato che per il secondo gruppo di generazione è stata conseguita la (ineludibile) autorizzazione unica soltanto nell’ottobre 2016 (a riprova del fatto che, precedentemente, lo stesso era sprovvisto del prescritto titolo abilitativo).
Il conseguimento del necessario titolo abilitativo solo nel 2016 chiaramente osta al riconoscimento della qualifica IAFR per tale unità dell’impianto (essendo ormai stato ampiamente superato il regime incentivante di cui al D.M. 24 ottobre 2005 e al D.M. 18 dicembre 2008, sostituito in primo luogo dal D.M. 6 luglio 2012 e, poi, dal D.M. 23 giugno 2016 – cfr. art. 24 del decreto legislativo n. 28/2011).
Il provvedimento del 5 giugno 2017 è, dunque, legittimo, dato che soltanto il primo gruppo di generazione era stato debitamente autorizzato e in considerazione del fatto che esclusivamente a partire dal 28 febbraio 2011 – come dimostrato dalla formale comunicazione al Gestore di rete in merito alla avvenuta dismissione del secondo gruppo di generazione – vi è certezza che l’energia prodotta presso l’impianto di MPE sia stata generata dal solo primo gruppo.
Con il provvedimento del 5 giugno 2017 è stato esplicitato quanto già rappresentato dal GSE con le precedenti determinazioni, ossia che il possesso di idoneo titolo abilitativo è condizione indefettibile ai fini del riconoscimento della qualifica IAFR e all’erogazione dei benefici (cfr. art. 5, comma 7, del D.M. 24 ottobre 2005 recante “Aggiornamento delle direttive per l’incentivazione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili ai sensi dell’articolo 11, comma 5, del D.Lgs. 16 marzo 1999, n. 79” e Cons. Stato, Sez. II, 26 novembre 2024, n. 9505, secondo cui “… secondo la condivisa giurisprudenza amministrativa, il rilascio dell’autorizzazione unica costituisce una condizione necessaria per il riconoscimento della qualità di IAFR (impianto alimentato da fonti rinnovabili) e per la concessione dei relativi benefici. …”).
I motivi che hanno determinato il riconoscimento solo parziale della qualifica IAFR e il recupero dei certificati verdi rilasciati in eccesso, quindi, sono stati evidenziati dal GSE nella determinazione del 5 giugno 2017 e nei precedenti provvedimenti.
D’altra parte, già con la comunicazione di riconoscimento della qualifica IAFR del 2007 il GSE aveva segnalato la necessità di ottemperare a quanto specificatamente previsto dall’art. 5, comma 7, del D.M. 24 ottobre 2005 (recante “Aggiornamento delle direttive per l’incentivazione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili ai sensi dell’articolo 11, comma 5, del D.Lgs. 16 marzo 1999, n. 79”) per il rilascio dei certificati verdi.
Ne discende l’infondatezza della tesi sostenuta da MPE secondo cui l’impianto, nella configurazione con entrambi i motori, sarebbe dovuto essere considerato come debitamente autorizzato (e, dunque, secondo la prospettazione della parte appellante legittimato a percepire gli incentivi).
In ogni caso va osservato che l’eventuale illegittimità derivata, invocata da MPE in ragione della asserita illegittimità dell’originario diniego di autorizzazione unica impugnato dalla stessa società con ricorso straordinario, non può in alcun modo rilevare rispetto alla materia del contendere oggetto del presente giudizio, attesa la generale presunzione di legittimità degli atti e provvedimenti amministrativi (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 4 novembre 2022, n. 9664 e Cons. Stato, Sez. IV, 26 agosto 2024, n. 7236 secondo cui “… Nel nostro ordinamento giuridico vige il principio della presunzione di legittimità degli atti amministrativi, che ne attesta la validità fino alla loro rimozione dal mondo giuridico mediante i tipici strumenti previsti dal sistema, ovvero l’annullamento in via giudiziaria, giustiziale, in autotutela espressa oppure, nei soli casi consentiti, straordinaria da parte dell’autorità competente. La presunzione di legittimità che assiste il provvedimento risponde a canoni costituzionali di certezza del diritto, stabilità dei rapporti, effettività del potere siccome funzionalizzato al perseguimento dell’interesse pubblico (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 4 novembre 2022 n. 9664). …”).
Al contrario di quanto asserisce MPE, difatti, il diniego della Regione Puglia all’autorizzazione unica è pienamente valido ed efficace e la mera proposizione del ricorso straordinario non è idonea a determinare ex se l’inefficacia della determinazione negativa assunta dalla Regione, la quale pertanto costituisce condizione ostativa al riconoscimento della qualifica IAFR al secondo gruppo di generazione e all’erogazione dei certificati verdi per il periodo di coesistenza e contestuale esercizio di entrambi i motori.
Peraltro, deve rimarcarsi che il ricorso straordinario non è stato corredato da alcuna istanza cautelare – come noto ben esperibile anche nell’ambito di tale rimedio giustiziale (cfr. art. 3, comma 4, della legge n. 205/2000) – e, da quanto riferito da MPE, sarebbe pendente in attesa del parere del Consiglio di Stato ex art. 11 del d.P.R. n. 1199/1971. Pertanto la società non può in alcun modo dolersi del provvedimento adottato dal GSE il quale, con tutta evidenza, non ha potuto che trarre le conseguenze del diniego adottato dalla Regione.
In altri termini, disponendo MPE di un valido e idoneo strumento per ottenere l’inibizione in via cautelare dell’immediata esecutività della determinazione regionale ed essendosi la stessa liberamente e autonomamente risolta a non formulare apposita domanda cautelare, non sarebbe stato possibile per il GSE omettere l’adozione dei provvedimenti in questa sede impugnati.
L’ordinamento giuridico rimette alla parte interessata ogni scelta processuale in merito alla tutela della propria posizione sostanziale, riconoscendole anche lo strumento dell’istanza cautelare onde evitare di subire gli effetti pregiudizievoli di un determinato provvedimento amministrativo nelle more della definizione del giudizio di impugnazione nel merito.
Ove tale diritto non sia esercitato, il soggetto interessato dal provvedimento assume su di sé ogni rischio di conseguenza negativa per la propria posizione giuridica.
D’altra parte, ove mai si aderisse alla tesi della appellante MPE, si finirebbe per assicurare alla società interessata una protezione della propria sfera giuridica ben più ampia dello spettro di rimedi che la stessa si è determinata ad attivare.
In altri termini, ove MPE avesse inteso evitare l’adozione dell’originario provvedimento caducatorio da parte del GSE (e, poi, conseguire un pieno riconoscimento della qualifica IAFR), avrebbe potuto (e dovuto) promuovere apposita istanza cautelare (nell’ambito del giudizio avviato con ricorso straordinario) e ottenere uno specifico provvedimento di sospensione degli effetti del diniego regionale.
Inoltre, atteso l’ampio lasso di tempo trascorso dalla proposizione del ricorso straordinario, MPE avrebbe potuto attivarsi ai fini della definizione della relativa controversia nel merito.
Tutto ciò non è accaduto e, dunque, MPE deve imputare a se medesima ogni nocumento che l’appellante subisce per effetto di proprie autonome determinazioni.
Va, altresì, precisato che, anche laddove venissero riconosciute fondate le censure dedotte con il ricorso straordinario, ciò non determinerebbe il riconoscimento del titolo abilitativo con effetto retroattivo e, pertanto, non è possibile affermare che l’eventuale annullamento della determinazione regionale in commento possa condurre a un esito diverso dell’esercizio del potere ad opera del GSE. Ne discende la reiezione della doglianza articolata sul punto da MPE a pag. 12 e ss. dell’atto di appello e la non condivisibilità dell’affermazione di parte appellante contenuta a pag. 4 della memoria di replica del 18 febbraio 2025 secondo cui “… la circostanza che il ricorso straordinario avverso il diniego di AU per il secondo motore sia ancora pendente non può andare a detrimento del privato che lo ha proposto. Ciò mentre l’eventuale accoglimento del ricorso straordinario determinerà il venir meno dei presupposti sulla base dei quali era stata negata la qualifica IAFR all’impianto nella configurazione a due motori. …”.
Ne discende che, a tutto voler concedere, l’ipotetico annullamento del diniego di autorizzazione unica in sede di ricorso straordinario non sanerebbe comunque quanto rilevato con i provvedimenti impugnati in questa sede, atteso che l’impianto ha prodotto energia con entrambe le unità di generazione e ottenuto certificati verdi in assenza di idoneo titolo abilitativo in tale configurazione (o, il che è lo stesso, prima del suo conseguimento).
In altri termini, in questa sede non assume rilevanza la riferita illegittimità dei provvedimenti che hanno negato i titoli abilitativi, la cui valutazione è devoluta alla delibazione del ricorso straordinario, rilevando unicamente l’insussistenza di un congruo titolo nel periodo in cui l’impianto ha beneficiato della qualifica IAFR e dei relativi certificati verdi, esercendo MPE comunque entrambi i gruppi di generazione.
7.2. – Con il secondo motivo di appello la ricorrente MPE reitera le doglianze relative all’asserita violazione del principio del legittimo affidamento e dei canoni dell’autotutela di cui all’art. 21 nonies della legge n. 241/1990.
La doglianza va respinta.
Invero, nessun legittimo affidamento della società MPE può dirsi leso per effetto dei provvedimenti impugnati.
La tesi di MPE, diretta a far constare un asserito legittimo affidamento riposto nella decisione del GSE di riconoscere la qualifica IAFR sulla base della sola richiesta di autorizzazione unica (con conservazione di tale qualifica anche in difetto del conseguimento del prescritto titolo abilitativo) – oltre che contraria a quanto espressamente previsto dalla normativa (art. 5, comma 7, del D.M. 24 ottobre 2005 recante “Aggiornamento delle direttive per l’incentivazione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili ai sensi dell’articolo 11, comma 5, del D.Lgs. 16 marzo 1999, n. 79”) – rinviene un insuperabile ostacolo anche sotto il profilo della ragionevolezza stessa dell’intervento normativo.
Infatti, se si aderisse all’interpretazione offerta da MPE, il Gestore finirebbe per dover riconoscere i benefici in esame a tutti quei soggetti che – al pari dell’appellante – abbiano realizzato ed gestito un impianto in assenza dei congrui titoli abilitativi, per il solo fatto di aver presentato l’istanza volta al rilascio degli stessi, vedendosi poi costretto a rimanere vincolato al riconoscimento di vantaggi della medesima entità anche in relazione a impianti sforniti dei presupposti previsti dalla normativa.
In buona sostanza, a dire di MPE, ai fini del conseguimento della qualifica IAFR e dell’erogazione degli incentivi sarebbe stata sufficiente la semplice presentazione dell’istanza di rilascio del pertinente titolo abilitativo (e non già il suo conseguimento).
È evidente che un’applicazione ad ampio raggio del canone ermeneutico proposto da MPE condurrebbe alla non ammissibile conseguenza per cui il riconoscimento della qualifica IAFR consentirebbe, al titolare dell’impianto, di beneficiare dei vantaggi del D.M. 24 ottobre 2005 in difetto dei requisiti prescritti.
Ne discende l’infondatezza delle censure di parte appellante, con le quali la stessa invoca un preteso affidamento, che in nessun caso potrebbe dirsi legittimo in quanto in aperto conflitto con il pertinente paradigma normativo.
L’impugnato provvedimento del 5 giugno 2017 (al pari dell’originario provvedimento caducatorio del 13 ottobre 2014 e degli atti connessi a entrambi) si rivela peraltro congruamente e correttamente motivato anche sotto il profilo dell’interesse pubblico, atteso che alle determinazioni dirette al recupero di somme indebitamente erogate è sempre sotteso un indefettibile interesse pubblico in re ipsa, per certo prevalente su ogni eventuale contrapposto interesse dei privati (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. II, 17 luglio 2024, n. 6418: “… Non è dunque predicabile alcuna violazione dell’art. 21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241/1990, non vertendosi in tema di revoca e di annullamento d’ufficio ed essendo l’interesse pubblico in re ipsa (ovverosia il recupero di risorse pubbliche indebitamente erogate) a fronte di un’attività normativamente vincolata e necessitata dell’amministrazione in cui non è nemmeno in astratto configurabile un legittimo affidamento dell’interessato alla stabilità del beneficio, essendo il potere di controllo e di eventuale revoca in mancanza dei requisiti fisiologicamente delineati a livello ordinamentale. …”).
Contrariamente a quanto sostenuto da MPE, dunque, nell’azione spiegata dal GSE non è dato evincere alcun difetto di motivazione, essendo state evidenziate sin dal principio le ragioni a suffragio della necessità di recuperare gli incentivi.
D’altra parte, le attività di verifica del GSE costituiscono una fase ordinaria nel procedimento di riconoscimento dei benefici, rispetto al quale l’iniziale provvisoria ammissione non è suscettibile di legittimare alcun affidamento in capo al privato.
7.3. – Con il motivo di appello sub III la ditta MPE ripropone le censure attinenti alla “compensazione” opposta dal GSE. Secondo la prospettazione di MPE, il T.a.r. avrebbe errato, in quanto l’operato del GSE risulterebbe illegittimo sia ove considerato quale esercizio di un pubblico potere, sia se rapportato alle norme di diritto privato.
Il motivo va disatteso.
In ordine al primo aspetto, va rilevato che il provvedimento amministrativo è assistito dal connotato della esecutorietà, ossia dalla sua attitudine a essere portato ad esecuzione coattivamente anche contro la volontà del destinatario e senza bisogno di una preventiva pronuncia giurisdizionale (al riguardo si rinvia a quanto stabilito dall’art. 21-ter della legge n. 241/1990 secondo cui “1. Nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato. Qualora l’interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all’esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge. 2. Ai fini dell’esecuzione delle obbligazioni aventi ad oggetto somme di denaro si applicano le disposizioni per l’esecuzione coattiva dei crediti dello Stato”).
Ciò premesso, l’art. 42, comma 3, del decreto legislativo n. 28/2011 stabilisce che “Nel caso in cui le violazioni riscontrate nell’ambito dei controlli di cui ai commi 1 e 2 siano rilevanti ai fini dell’erogazione degli incentivi, il GSE in presenza dei presupposti di cui all’articolo 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241 dispone il rigetto dell’istanza ovvero la decadenza dagli incentivi, nonché il recupero delle somme già erogate …”.
Ancora, l’art. 3, comma 11, del D.M. 24 ottobre 2005 (recante “Direttive per la regolamentazione dell’emissione dei certificati verdi alle produzioni di energia di cui all’articolo 1, comma 71, della L. 23 agosto 2004, n. 239”) prevede che “Nel caso in cui l’impianto, per qualsiasi motivo, non produca effettivamente energia in quantità pari o superiore ai certificati verdi emessi, ed il produttore non sia in grado di restituire per l’annullamento i certificati verdi emessi, il Gestore della rete compensa la differenza trattenendo certificati verdi di competenza del medesimo produttore relativi ad eventuali altri impianti per il medesimo anno. La compensazione, in mancanza di certificati verdi per l’anno di riferimento, può essere fatta anche per i due anni successivi.” (cfr. altresì l’art. 11, comma 7, del D.M. 18 dicembre 2008 recante “Incentivazione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, ai sensi dell’articolo 2, comma 150, della legge 24 dicembre 2007, n. 244” di analogo tenore).
Le disposizioni richiamate, attributive del potere di verifica e controllo, riconoscono al GSE il potere di recuperare gli incentivi corrisposti in difetto dei requisiti prescritti dalla normativa di riferimento.
Se ne deduce che se il GSE, potendo in virtù del carattere di esecutorietà che contraddistingue ogni provvedimento amministrativo portare a esecuzione coattiva le proprie determinazioni, ha titolo per recuperare integralmente gli importi indebitamente ricevuti dal privato, lo stesso Gestore è a fortiori certamente titolare – in forza delle disposizioni sopra richiamate – di un potere volto a trattenere e compensare somme prescindendo dall’adesione del destinatario, dalle contrapposte ragioni delle parti e da qualsivoglia accertamento giudiziale.
Ciò premesso, va evidenziato che la compensazione è istituto di carattere generale che contempla la possibilità di estinguere obbligazioni reciproche, per quantità corrispondenti, dal giorno della loro coesistenza e può avere natura volontaria, giudiziale o legale.
In quest’ultimo caso, la compensazione opera automaticamente fin dal momento della coesistenza di reciproci rapporti di debito e credito quando questi attengano a somme di denaro (o a beni fungibili) e siano egualmente liquidi ed esigibili (cfr. artt. 1242 e 1243 del codice civile).
Non è revocabile in dubbio che, nel caso di specie, il credito vantato dal GSE sia perfettamente liquido ed esigibile, in quanto determinato nel suo ammontare e privo di termini e condizioni.
A ben vedere, non v’è alcuna ragione di dubitare né della certezza, né della liquidità e dell’esigibilità delle somme derivanti dalla indebita erogazione di certificati verdi, delle quali è stato correttamente disposto il recupero con il provvedimento impugnato.
A tal riguardo, si segnala che con l’atto impugnato di definizione di un determinato assetto di interessi il GSE ha compiuto un accertamento delle somme da recuperare, individuate nel loro esatto ammontare, che in virtù dell’efficacia tipica dei provvedimenti amministrativi sono immediatamente esigibili.
A differenza di quanto avviene nei meri rapporti privatistici, rispetto ai quali è sufficiente la contestazione in sede giurisdizionale per escludere (ovvero almeno ridimensionare) la certezza di un determinato credito, il persistere dell’efficacia del provvedimento amministrativo (cfr. art. 21 ter della legge n. 241/1990 in tema di “Esecutorietà”) – anche a fronte della impugnazione dello stesso – osta alla esclusione del carattere della certezza, per i crediti delineati nel provvedimento stesso, per effetto della mera contestazione di quest’ultimo in sede giurisdizionale.
D’altra parte, deve rilevarsi che, contrariamente a quanto sostenuto da MPE, le operazioni di elisione tra contrapposte partite di dare e avere, operate dal GSE nell’ambito dei rapporti di incentivazione ai fini del recupero dei benefici indebitamente percepiti (in corretta estrinsecazione della doverosa funzione di controllo e ripetizione prevista dall’art. 42 del decreto legislativo n. 28/2011), sono riconducibili all’istituto della cd. compensazione impropria (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 2 febbraio 2015, n. 487 e Cons. Stato, Sez. VI, 2 maggio 2016, n. 1672).
Conseguentemente, non venendo in rilievo alcuna ipotesi di compensazione in senso tecnico, non sono pertinenti e non trovano applicazione le disposizioni civilistiche (così come quelle fallimentari [i.e. artt. 56 e 169 del regio decreto n. 267/1942]) riferibili al richiamato istituto giuridico (cfr. Cass. civ., Sez. II, 29 agosto 2014, n. 18452 secondo cui “… Tale accertamento (cd. compensazione “impropria”), pur potendo dare luogo ad un risultato analogo a quello della compensazione propria, non per questo è soggetto alla relativa disciplina tipica, sia processuale (sostanziantesi nel divieto di applicazione d’ufficio da parte del giudice ex art. 1242 c.c., comma 2) che sostanziale (concernente essenzialmente l’arresto della prescrizione ex art. 1242 c.c., comma 2 e la incompensabilità del credito ex art. 1246, cod. civ.). …” e Cass. civ., Sez. I, 9 ottobre 2023, n. 28232 secondo cui “… è configurabile la fattispecie della c.d. compensazione impropria, e non quindi la compensazione in senso stretto di cui agli artt. 1241 c.c. e ss. (disciplinata nella procedura fallimentare dalla L.Fall., art. 56) che presuppone l’autonomia dei rapporti cui si riferiscono i contrapposti crediti delle parti. In particolare, in caso di compensazione impropria, la valutazione delle reciproche pretese delle parti comporta soltanto un semplice accertamento contabile di dare ed avere, con elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza, ed a ciò il giudice può procedere senza incontrare ostacolo nelle limitazioni vigenti per la compensazione in senso tecnico giuridico (vedi Cass. n. 30220/2019; Cass. n. 4825/2019). …”).
Più in dettaglio non sono suscettibili di assumere rilievo alcuno, nella vicenda oggetto del presente giudizio, l’art. 56 della legge fallimentare (in virtù del quale “I creditori hanno diritto di compensare coi loro debiti verso il fallito i crediti che essi vantano verso lo stesso, ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento. Per i crediti non scaduti la compensazione tuttavia non ha luogo se il creditore ha acquistato il credito per atto tra i vivi dopo la dichiarazione di fallimento o nell’anno anteriore”) e le altre previsioni della legge fallimentare (art. 169 che rende applicabile l’art. 56 alla procedura di concordato preventivo), a più riprese richiamate da MPE a sostegno delle proprie censure. Ciò anche avuto riguardo alla pretesa efficacia vincolante del decreto di omologa del concordato preventivo.
A tale ultimo proposito, si evidenzia, altresì, che per costante giurisprudenza all’omologa del concordato preventivo si riconosce unicamente natura meramente delibativa e funzionale al calcolo delle maggioranze, costituendo un accertamento non giurisdizionale ma unicamente amministrativo, di carattere delibativo e volto al solo scopo di consentire il calcolo delle maggioranze richieste ai fini dell’approvazione della proposta (cfr. ex multis Cass. civ., Sez. I, 25 settembre 2014, n. 20298: “… Tale affermazione si pone in contrasto con l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la sentenza di omologazione del concordato preventivo, per le particolari caratteristiche della procedura che ad essa conduce, determina un vincolo definitivo in ordine alla riduzione quantitativa dei crediti, ma non comporta la formazione di un giudicato in ordine all’esistenza, all’entità ed al rango (privilegiato o chirografario) dei crediti ed agli altri diritti implicati nella procedura; essa, infatti, non presuppone un accertamento giurisdizionale dei crediti, ma una verifica amministrativa, avente carattere meramente delibativo e volta esclusivamente a consentire il calcolo delle maggioranze richieste ai fini dell’approvazione della proposta, e non esclude quindi la possibilità di promuovere successivamente un ordinario giudizio di cognizione nei confronti dell’impresa in concordato, al fine di far accertare il proprio credito ed il privilegio che eventualmente lo assiste (cfr. Cass., Sez. 1, 14 febbraio 2002, n. 2104; 22 settembre 2000, n. 12545; 17 giugno 1995, n. 6859). …”).
Ciò è peraltro trova conferma nello stesso decreto di omologa del 23 settembre 2019, nel quale si precisa che “… le contestazioni svolte da G.S.E spa che si è opposta alla omologa devono essere fatte oggetto di apposito giudizio a cognizione ordinaria essendo estranea alla procedura di concordato la verifica del credito e la formazione di uno stato passivo con effetti vincolanti, per cui la valutazione giudiziale è sommaria e finalizzata ai soli fini dell’ammissione al voto e del calcolo delle maggioranze (Cassazione 14.6.2016 n. 12265 tra le molte in tal senso)” (cfr. documento n. 88 di MPE depositato in primo grado, pag. 2 del file digitale).
Nel caso di specie il giudizio di cognizione era peraltro già stato incardinato, avendo il GSE articolato eccezione riconvenzionale di compensazione nel giudizio di primo grado dinanzi al T.a.r.
D’altro canto, il decreto di omologa non contiene in alcun modo il preteso accertamento del credito del Gestore.
Dalle argomentazioni in precedenza esposte discende la legittimità dell’operazione di “compensazione” (impropria o atecnica) svolta dal GSE nella fattispecie in esame, operazione che, pertanto, non può essere ostacolata (o aggirata) mediante il richiamo alla disciplina fallimentare, ivi incluso l’art. 56 della legge fallimentare (e, più in dettaglio, i limiti temporali previsti da tale disposizione, peraltro del tutto irrilevanti ai fini della vicenda per cui è causa).
Non a caso, anche il Consiglio di Stato, circa la “asseritamente non consentita compensazione, annunciata dal GSE, … tra i certificati verdi percepiti in modo indebito … e i ricavi ex CIP 6/92 conseguiti dal produttore”, ha confermato essere “giustificata, alla stregua della disciplina civilistica di cui all’art. 1243 cod. civ. (comma 1: la compensazione si verifica solo tra due debiti che hanno per oggetto una somma di danaro o una quantità di cose fungibili dello stesso genere e che sono egualmente liquidi ed esigibili), l’annunciata, dal GSE, compensazione tra importi da recuperare come ricavi CIP 6/92 e certificati verdi” (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 2 maggio 2016, n. 1672).
Più in dettaglio – rileva il Consiglio di Stato nella citata sentenza n. 1672/2016 – “… Al riguardo è stato in particolare puntualizzato, con affermazione che questo Collegio condivide e fa propria, che il profilo differenziale evidenziato attiene al regime dei benefici, non già alla natura delle contrapposte obbligazioni, entrambe pecuniarie (semmai, può rilevarsi come il doppio regime incentivante abbia titolo in un comune fatto generatore, ossia la produzione di energia; ciò che consentirebbe di ipotizzare addirittura la possibilità di una compensazione c.d. impropria o atecnica; cfr. Cass. civ., sez. un., 16 novembre 1999, n. 775; v. anche Cass. civ., sez. lav., 9 maggio 2006, n. 10629)… la deduzione … della questione dell’esistenza della pretesa creditoria del GSE, e dunque del correlativo debito della ricorrente, consente di conoscere anche della questione concernente le modalità di soddisfazione della pretesa stessa… attraverso l’estinzione per compensazione del (riconosciuto) debito del Gestore nei confronti della ricorrente “per le quantità corrispondenti” (cfr. art. 1241 cod. civ.), sicché alla soluzione positiva del primo punto (esistenza del debito della ricorrente) segue analoga risposta al secondo (estinzione del corrispondente debito del GSE) (così, testualmente, Tar Lazio, III, n. 3762 del 2013 cit. ; conf. , da ultimo, Tar Lazio, III, n. 12128 del 2015). …”.
Deve aggiungersi che, diversamente da quanto osservato da MPE, quand’anche si volesse qualificare l’elisione tra partite contabili invocata dal Gestore come vera e propria compensazione, ciononostante la stessa sarebbe pienamente legittima in virtù delle previsioni della convenzione GRIN n. 1707 in essere tra le parti (sottoscritta senza riserva e con piana accettazione in data 24 maggio 2018, ossia in piena pendenza del concordato, con validità ed efficacia dal 1° gennaio 2016 e sino al 23 agosto 2019, cfr. art. 2 della convenzione) e delle convenzioni RID nn. 528 e 13636 (concernenti il cd. ritiro dedicato dell’energia ex art. 13 del decreto legislativo n. 387/2003).
Invero, l’art. 14 della convenzione GRIN n. 1707 (rubricato “Recupero degli importi indebitamente percepiti”) – a conferma del generale principio di cui all’art. 42, comma 3, del decreto legislativo n. 28/2011 in tema di “recupero” di incentivi indebitamente erogati – prevede che “fatto salvo il diritto al risarcimento degli eventuali danni subiti, il GSE si riserva di recuperare gli eventuali importi indebitamente percepiti dal Produttore ai sensi della presente Convenzione, anche mediante compensazione tra le partite economiche afferenti ai diversi rapporti contrattuali in corso tra le Parti” (alla compensazione si riferiscono espressamente anche gli artt. 7.4 e 8.3, inerenti alla cessione e retrocessione dei crediti, non censurati da MPE).
Tenore analogo riveste l’art. 14 delle convenzioni RID.
A sua volta, l’art. 6.5 della convenzione GRIN – peraltro non contestato da MPE – dispone che “il GSE si riserva la facoltà di trattenere dal pagamento delle somme dovute al Produttore eventuali crediti vantati nei confronti dello stesso soggetto per diverso titolo”.
È allora evidente che le convenzioni in esame contengono un precipuo pactum de compensando, circostanza di per sé idonea a rendere irrilevanti i limiti (anche temporali) stabiliti dalla legge fallimentare, incluso l’art. 56.
Sul punto Cass. civ., Sez. I, 19 febbraio 2016, n. 3336 ha osservato:
«… In proposito la giurisprudenza costante di legittimità è nel senso che in tema di anticipazione su ricevute bancarie regolata in conto corrente, se le relative operazioni siano compiute in epoca antecedente rispetto all’ammissione del correntista alla procedura di amministrazione controllata, è necessario accertare, qualora il fallimento (successivamente dichiarato) del correntista agisca per la restituzione dell’importo delle ricevute incassate dalla banca, se la convenzione relativa all’anticipazione su ricevute regolata in conto contenga una clausola attributiva del diritto di “incamerare” le somme riscosse in favore della banca (c.d. “patto di compensazione” o, secondo altra definizione, patto di annotazione ed elisione nel conto di partite di segno opposto). Solo in tale ipotesi, difatti, la banca ha diritto a “compensare” il suo debito per il versamento al cliente delle somme riscosse con il proprio credito, verso lo stesso cliente, conseguente ad operazioni regolate nel medesimo conto corrente, a nulla rilevando che detto credito sia anteriore alla ammissione alla procedura concorsuale ed il correlativo debito, invece, posteriore, poiché in siffatta ipotesi non può ritenersi operante il principio della “cristallizzazione dei crediti”, con la conseguenza che né l’imprenditore durante l’amministrazione controllata, né il curatore fallimentare – ove alla prima procedura sia conseguito il fallimento – hanno diritto a che la banca riversi in loro favore le somme riscosse (anziché porle in compensazione con il proprio credito) (Sez. 1, Sentenza n. 7194/1997; Sez. 1, Sentenza n. 2539/1998; Sez. 1, Sentenza n. 17999/2011; Sez. 1, Sentenza n. 8752/2011). …».
Va, altresì, evidenziato che il richiamato orientamento ermeneutico della Corte di Cassazione condiviso da questo Collegio è idoneo superare anche le censure di MPE tese a stigmatizzare le convenzioni RID e GRIN per asserita violazione della legge fallimentare.
E infatti – si ribadisce – è pacifica l’ammissibilità del pactum de compensando, a conferma della circostanza che le previsioni in materia fallimentare non recano un vincolo imperativo rispetto a preesistenti pattuizioni negoziali.
Nessuna violazione della legge fallimentare, dunque, può dirsi integrata per effetto delle previsioni negoziali in commento (e, ancor prima, delle delibere AEEG che ne sono alla base).
Deve, inoltre, sottolinearsi che la ditta MPE – diversamente da altri produttori – ha accettato e sottoscritto la convenzione GRIN senza procedere alla sua tempestiva impugnazione o comunque contestazione in giudizio (e senza alcuna riserva).
Ne consegue che tale convenzione, contrariamente a quanto sostenuto dalla appellante, è pienamente valida ed efficace e comunque non è più censurabile dalla stessa MPE.
Né è suscettibile di assumere formale rilevanza la sentenza del T.a.r. Lazio, Roma, Sez. III Ter, 20 novembre 2018, n. 11228 di annullamento della convenzione GRIN (sentenza invocata dalla difesa MPE), atteso che la giurisdizione amministrativa non ha carattere oggettivo (bensì soggettivo; cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 5 dicembre 2019, n. 8331, in cui si sottolinea la “connotazione di giurisdizione soggettiva propria del processo amministrativo”, par. 5.3, terzo cpv.; v. anche Cons. Stato, Sez. IV, 26 ottobre 2020, n. 6520, parr. 23 e 23.2, e precedenti ivi richiamati) e dunque dell’annullamento pronunciato nei confronti di altri soggetti non possono beneficiare coloro che abbiano omesso di attivare gli opportuni rimedi giudiziali (secondo il canone res inter alios iudicata tertio neque nocet neque prodest).
La riferita incontestabilità si estende, per le medesime ragioni, alle convenzioni RID (risalenti al 2008 e al 2012), le quali peraltro corrispondono alle condizioni legittimamente stabilite dall’allora AEEG e allo schema di convenzione legittimamente definito dal GSE per la disciplina dei relativi rapporti.
Deve rimarcarsi, al riguardo, che tardivamente (con i quinti motivi aggiunti di gravame in primo grado) l’impugnazione di MPE è stata estesa anche alla delibera AEEG 6 novembre 2007, n. 280/07.
Parimenti tardiva è anche l’impugnazione della delibera AEEG 16 maggio 2013, n. 207/2013/R/efr (a sua volta veicolata da MPE per la prima volta a mezzo del quinto ricorso per motivi aggiunti).
A nulla valgono le deduzioni articolare in merito da MPE, atteso che – in disparte l’accettazione senza riserve delle convenzioni RID e GRIN – l’impugnazione delle delibere alla loro base è senz’altro soggetta a termine decadenziale, di talché la relativa contestazione sarebbe dovuta intervenire al più tardi entro 60 giorni dalla relativa stipula, venendo in rilievo nel caso di specie una ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lett. o), del codice del processo amministrativo (secondo cui “Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori previsioni di legge: … o) le controversie, incluse quelle risarcitorie, attinenti alle procedure e ai provvedimenti della pubblica amministrazione concernenti la produzione di energia, i rigassificatori, i gasdotti di importazione, le centrali termoelettriche e quelle relative ad infrastrutture di trasporto ricomprese o da ricomprendere nella rete di trasmissione nazionale o rete nazionale di gasdotti …”).
Con precipuo riferimento alla convenzione GRIN, va precisato che la richiamata sentenza del T.a.r. Lazio n. 11228/2018 (così come le altre, parallele, di portata analoga) è stata, integralmente riformata dal Consiglio di Stato con sentenza 21 novembre 2022, n. 10236 con consequenziale reiezione del ricorso proposto in primo grado.
Del resto, la legittimità delle convenzioni GRIN è stata a più riprese confermata dal Consiglio di Stato. Pertanto, a comprova dell’infondatezza dell’argomento di MPE, si rinvia alle numerose pronunce in subiecta materia (ex plurimis Cons. Stato, Sez. II, 14 novembre 2022, n. 9969, 15 novembre 2022, n. 9981 e n. 10014, con le quali il Consiglio di Stato ha integralmente confermato e reiterato i principi enucleati dalle sentenze del Consiglio di Stato, Sez. IV, 20 luglio 2020, n. 4640, e 31 luglio 2020, n. 4881).
D’altro canto, l’art. 6, comma 5, della convenzione GRIN è conforme all’art. 7, comma 5, del contratto-tipo AEEG di riferimento, di cui alla delibera n. 207/2013/R/efr cit. (cfr. anche art. 14 della convenzione GRIN e l’art. 13, comma 5, ultimi due incisi, del medesimo contratto-tipo; altrettanto è a dirsi per i richiamati artt. 7.4 e 8.3 della convenzione GRIN, sovrapponibili agli artt. 8.3 e 8.6 del contratto-tipo AEEG).
Del resto si è già evidenziato che la possibilità per il GSE di procedere alla compensazione (propria e/o impropria) è stata corroborata dall’indirizzo ermeneutico confermato dal Consiglio di Stato (rispetto ai canoni espressi dal T.a.r. Lazio, Roma), di talché la cristallizzazione del relativo principio nelle previsioni convenzionali, (tardivamente) impugnate da MPE, non può in sé considerarsi illegittima.
Inoltre, la legittimità dell’inclusione di un pactum de compensando nell’ambito di un regolamento contrattuale è riconosciuta dal richiamato indirizzo interpretativo enucleato dalla Corte di Cassazione.
Deve poi sottolinearsi come l’apparente discrasia tra l’importo di € 722.119,82 (indicato quale sorte capitale residua da recuperarsi nelle note del 25 settembre 2017, 24 ottobre 2017 e 26 marzo 2019, menzionato altresì nella nota del 14 marzo 2018) e l’importo di € 328.461,48 (indicato nella nota del 14 marzo 2018) sia dovuta, in realtà, a un mero errore di carattere contabile.
Invero, il Gestore ha erroneamente imputato a copertura del residuo di sorte capitale oggetto di recupero importi che, in realtà, erano da imputarsi in conto interessi.
In proposito, va rammentato il principio generale per cui i pagamenti ricevuti devono essere imputati prima a copertura degli interessi (cfr. art. 1194 del codice civile: “Il debitore non può imputare il pagamento al capitale, piuttosto che agli interessi e alle spese, senza il consenso del creditore. Il pagamento fatto in conto di capitale e d’interessi deve essere imputato prima agli interessi”).
Ora, a seguito dei pagamenti ricevuti da MPE e delle trattenute operate, come visto il GSE ha segnalato – sin dal settembre del 2017 – che la rimanente sorte capitale da restituire ammontava ad € 722.119,82.
Tale ammontare è stato ovviamente produttivo di interessi sino a integrale rimborso.
Non avendo MPE proceduto a restituire il residuo dovuto (né essendovi certezza alcuna o anche solo potenziali indicazioni in ordine alle tempistiche del rimborso), il GSE non ha potuto fare altro che continuare a imputare gli importi ricevuti a titolo di interessi a tale medesima voce (a copertura degli interessi che, appunto, la sorte capitale residua continuava a far maturare).
Infatti, solo allorché MPE avesse provveduto a saldare il residuo dovuto per sorte capitale, sarebbe stato possibile computare con esattezza l’ammontare degli interessi maturati e da corrispondersi.
Ne discende che, come evidenziato dal Gestore, l’importo che doveva essere recuperato ammontava effettivamente ad € 722.119,82 – da cui scomputare gli importi trattenuti nel primo semestre del 2019, nell’ambito della convenzione GRIN – oltre i relativi interessi.
Sul punto soccorrono le corrette e condivisibili considerazioni svolte in primo grado in sede di verificazione (cfr. pagg. 9 e ss.).
Non può, quindi, condividersi l’affermazione da cui muove l’appellante MPE secondo cui per effetto del censurato provvedimento del 5 giugno 2017 il piano di rientro a suo tempo concluso con il GSE deve necessariamente considerarsi come venuto meno.
La non condivisibilità di tale assunto è comprovata dalla sua contraddittorietà con le risultanze della perizia versata in giudizio dalla stessa MPE (cfr. pag. 5) che, di contro, sottolinea come “… l’annullamento dei precedenti provvedimenti, ha modificato il valore nominale del debito presunto e di conseguenza degli interessi, ma non ha portato modifiche nella durata dell’accordo stipulato tra le parti, per cui ne consegue che i valori delle rate e dei relativi interessi sono … rideterminati, con effetto fin dall’origine …”.
E, in effetti, la rideterminazione in riduzione dell’importo da recuperarsi conseguente all’esercizio del potere di autotutela, lungi dal determinare una caducazione automatica del piano di rientro, ha comportato semplicemente la rimodulazione dell’originario piano, secondo le necessarie proporzioni, in quanto la minor somma era senz’altro comunque dovuta in restituzione sin dall’origine. E ciò anche in applicazione del generale principio di conservazione degli atti giuridici.
In proposito, premesso che la ragione di un’eventuale scioglimento del piano di rientro dovrebbe se del caso essere individuata nell’essersi MPE resa inadempiente rispetto alle relative obbligazioni, va osservato come la stessa società appellante (cfr. pagg. 21 e 22 del quarto ricorso per motivi aggiunti proposto nel giudizio di primo grado e pagg. 22 e 23 del quinto ricorso per motivi aggiunti proposto nel giudizio di primo grado) confermi che, per effetto della rimodulazione del piano di rientro conseguente alla ridefinizione dell’importo da restituirsi successiva al provvedimento del 5 giugno 2017, al GSE sarebbero spettati (almeno) € 2.237.101,00, importo dato dalla somma della sorte capitale (€ 1.899.885,28), degli interessi per dilazione (€ 271.551,01) e degli interessi di mora (€ 65.664,62).
Al riguardo, va ribadito che il GSE, al tempo della sentenza di primo grado, aveva trattenuto importi incassati o compensati per complessivi € 2.041.124,42 (secondo i dettagli ricavabili anche dalla relazione di verificazione effettuata nel corso del giudizio di primo grado [cfr. pagg. 10 e ss.]).
Ciò fermo restando che le scadenze e le tempistiche di rimborso previste dal piano di rientro non sono state rispettate dalla società MPE, con la conseguenza che l’ammontare degli interessi dovuti era superiore a quello sopra indicato.
Va, inoltre, sottolineato che, in disparte il profilo della rimodulazione del piano di rientro, la perizia di MPE non è condivisibile, atteso che i computi circa gli asseriti saldi tra le (pretese) partite di dare e avere tra il GSE e MPE paiono imperniati sul presunto carattere dirimente dell’avvenuta ammissione al concordato preventivo e dei limiti cronologi contemplati dall’art. 56 della legge fallimentare, tema, questo, la cui rilevanza ai fini che interessano in questa sede si è già avuto modo di escludere, stante l’inapplicabilità nella fattispecie per cui è causa della citata disposizione del regio decreto n. 267/1942.
Si deve poi ribadire che le osservazioni di MPE, in merito alla asserita erroneità (e indeterminatezza) dei computi svolti dal GSE nelle note nel tempo inoltrate alla società, non possono trovare positivo apprezzamento.
Con la nota del 25 settembre 2017, a seguito della trasmissione a opera del produttore della documentazione volta al riconoscimento dei certificati verdi per gli anni di produzione 2014 e 2015, il GSE ha comunicato a MPE, a fronte dell’importo iniziale da recuperarsi (pari a € 5.576.584,14), un importo aggiornato da restituire pari a € 1.899.885,28 per quota capitale.
Tale importo è stato determinato come differenza tra l’importo di € 3.143.259,59 (derivante dal ricalcolo dei certificati verdi spettanti per il periodo 2007-2013) e l’ammontare di € 1.243.374,28 (pari al controvalore dei certificati verdi riconosciuti per gli anni di produzione 2014 e 2015 e trattenuti, rispettivamente € 521.197,00 ed € 722.177,28).
Con la medesima comunicazione il GSE ha evidenziato a MPE che quanto precedentemente incassato e trattenuto per quota capitale (€ 1.177.765,46, come dettagliatamente confermato anche dalla nota del GSE del 24 ottobre 2017) era stato decurtato dal suddetto importo di € 1.899.885,28, cristallizzando, pertanto, un importo residuo da recuperare pari a € 722.119,82.
Va preliminarmente evidenziata l’erronea illustrazione da parte di MPE, nel quarto e quinto ricorso per motivi aggiunti proposti in primo grado, del controvalore dei certificati verdi per il 2014 ed il 2015 (i cui importi di dettaglio sono stati all’evidenza invertiti, peraltro richiamandosi un errato importo di € 522.197,00, in luogo di € 521.197,00 indicato dal GSE con la nota in esame).
Ciò premesso, deve osservarsi che anche i successivi computi descritti da MPE nei gravami e nelle successive difese non colgono nel segno.
In primo luogo, la ditta MPE tenta di dimostrare che il GSE avrebbe trattenuto (per quota capitale) una somma superiore ad € 1.177.765,46, conteggiando erroneamente (di fatto, per una seconda volta) gli importi corrispondenti al controvalore dei certificati verdi per gli anni 2014 e 2015.
Come visto, il Gestore ha individuato l’ammontare capitale residuo da recuperarsi detraendo contabilmente “a monte”, dall’importo complessivo dovuto in restituzione, il controvalore dei certificati verdi da riconoscersi per il biennio 2014-2015.
Le trattenute in “compensazione”, correttamente indicate dal GSE nelle note del 25 settembre 2017 e 24 ottobre 2017 in € 1.177.765,46 (e confermate nella nota del 26 marzo 2019), si riferiscono quindi, all’evidenza, a voci diverse dal controvalore dei certificati verdi per il 2014 e 2015 (che era già stato contabilmente scomputato dal GSE al momento della iniziale rideterminazione delle somme da recuperarsi).
Non è, pertanto, condivisibile l’osservazione di MPE tesa a far constare una asserita “compensazione” maggiore di quella indicata dal GSE nelle note del 2017 e rimarcata in quella del 2019.
Non a caso, escluso dal computo il controvalore dei certificati verdi per il 2014 e 2015, la ditta MPE perviene ad un importo trattenuto in “compensazione” di € 1.136.024,30, per giunta inferiore a quello correttamente indicato dal GSE.
È comunque privo di rilievo il generico richiamo operato dalla società ricorrente (cfr. pag. 14 del quinto ricorso per motivi aggiunti proposto in primo grado) a presunti ulteriori pagamenti, asseritamente pari ad almeno € 46.952,42, atteso che tale ammontare non trova alcun riscontro con il documento (n. 75) richiamato da MPE a preteso sostegno della sua affermazione (non solo il documento n. 75 non reca l’importo indicato da MPE, ma i diversi importi desumibili dallo stesso si riferiscono a interessi).
All’opposto, ciò costituisce riprova dell’errore di fondo sotteso alla prospettazione di MPE, ossia quello di tentare di contrastare i computi, svolti dal GSE, in tema di sorte capitale da recuperarsi e importi trattenuti in “compensazione” a titolo di quota capitale, invocando asseriti importi riferibili anche alla quota interessi.
Sul punto va rimarcato che la nota di MPE del 24 febbraio 2016 (inclusa a pag. 3 del documento n. 75 di MPE) reca l’esplicita e manifesta volontà dell’appellante di procedere a (parziale) compensazione di quanto dovuto al GSE per un rateo del piano di restituzione con l’importo residuo di una precedente fattura (a dimostrazione, quantomeno, della contraddittorietà della posizione poi assunta da MPE nel presente giudizio rispetto al proprio precedente contegno).
Infine, deve evidenziarsi che anche le considerazioni di MPE, circa la pretesa omessa indicazione – da parte del GSE – degli importi versati dalla stessa società a titolo di interessi, sono smentite per tabulas.
A tal riguardo va rilevato che nella menzionata nota del 24 ottobre 2017 il GSE ha specificato che gli “incassi riscontrati e” le “trattenute effettuate, al 31 dicembre 2016”, determinavano un “importo complessivamente recuperato” pari a “euro 1.698.326,45, di cui euro 1.177.765,46 imputati alla quota capitale ed euro 520.560,98 imputati alla quota interessi”.
Come si vede, la società MPE è sin dall’ottobre del 2017 pienamente al corrente dei titoli di imputazione degli importi e di nessun “oscuro riferimento agli interessi” (cfr. pag. 13 del quarto ricorso per motivi aggiunti proposto nel giudizio di primo grado e pag. 14 del quinto ricorso per motivi aggiunti proposto nel giudizio di primo grado) può dolersi rispetto alla nota del Gestore del 26 marzo 2019 (la quale, con evidenza, non può che dare per assodato quanto già in precedenza comunicato alla ditta ricorrente).
Ne discende, dunque, l’infondatezza delle doglianze di MPE sul punto.
Inoltre, il richiamato importo di € 1.698.326,45 (costituito da “incassi riscontrati” e “trattenute effettuate, al 31 dicembre 2016”) era dato dalla somma tra pagamenti effettuati da MPE (per € 270.233,76) e importi compensati dal GSE pari a (€ 1.428.092,69) (cfr. pag. 11 della relazione di verificazione espletata nel corso del giudizio di primo grado).
Più in dettaglio, l’importo dei pagamenti effettuati da MPE derivava dai bonifici ricevuti, con le relative valute di accredito.
Parallelamente, l’ammontare degli importi compensati dal GSE corrispondeva alle fatture emesse da MPE desumibili anche dalla citata relazione di verificazione.
È appena il caso di segnalare che di tali dati MPE non poteva non essere a conoscenza, atteso che essi corrispondono a fatture dalla stessa emesse e rimaste non incassate (poiché oggetto di compensazione a opera del GSE).
Come già accennato, il complessivo ammontare pari a € 1.698.326,45 (dato dalla somma tra importi incassati e importi compensati) è stato imputato per € 520.560,99 in conto interessi di mora e di dilazione, sulla base delle correlative fatture emesse dal GSE (cfr. pagg. 11 e ss. della relazione di verificazione espletata nel corso del giudizio di primo grado).
Anche tali dati non potevano essere ignorati da parte di MPE, in quanto corrispondono a fatture formalizzate dal GSE che non sono state saldate dall’appellante con specifici versamenti (e in relazione alle quali, per tale ragione, il Gestore ha dovuto procedere mediante compensazione).
Non a caso, nella perizia depositata dalla ricorrente in primo grado (cfr. pag. 7) vengono esplicitamente richiamate tre delle fatture di rilievo (n. 76230 del 12 febbraio 2016, n. 479250 del 9 marzo 2016 e n. 889933 del 1° giugno 2016).
L’importo residuo, dato dalla differenza tra il complessivo ammontare di importi incassati e importi compensati (€ 1.698.326,45) e importi imputati a interessi (€ 520.560,99), differenza come visto pari a € 1.177.765,46, è stato utilizzato per la riduzione dell’importo richiesto con la lettera del 25 settembre 2017 (€1.899.885,28), cristallizzandosi un importo ancora da recuperare pari a € 722.119,82 (cfr. pag. 27 della relazione di verificazione espletata nel corso del giudizio di primo grado).
Nel primo semestre 2019, infine, il GSE ha provveduto a trattenere dal pagamento degli incentivi GRIN complessivi € 342.797,97, con la conseguenza che l’importo residuo da recuperarsi risultava pari a € 379.321,85 (cfr. pag. 27 della relazione di verificazione espletata nel corso del giudizio di primo grado).
Va, altresì, disattesa la domanda formulata da MPE di condanna del Gestore al pagamento degli interessi di mora come stabiliti dal decreto legislativo n. 231/2002 (recante “Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”).
Invero, tali interessi ex decreto legislativo n. 231/2002 nel caso di specie non sono dovuti.
In forza dell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo n. 231/2002, infatti, le relative previsioni si applicano unicamente nell’ambito delle “transazioni commerciali” (per tali intendendosi ex art. 2, comma 1, lett. a), del decreto legislativo n. 231/2002 “i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo”), alle quali non sono certamente ascrivibili le convenzioni GRIN (e, ancor prima, il riconoscimento dei certificati verdi).
Sul punto ha evidenziato T.a.r. Lazio, Roma, Sez. III Ter, 18 ottobre 2021, n. 10635, con argomentazioni condivise da questo Giudice:
«… Non può, invece, essere accolta la domanda inerente l’applicazione a tali interessi del saggio di cui al d.lgs. 231/2002, come integrato e modificato dal d.lgs. 192/2012, avendo quest’ultimo l’obiettivo – di matrice comunitaria – di “garantire il corretto funzionamento del mercato unico evitando che transazioni commerciali transfrontaliere comportino rischi maggiori di quelli propri delle operazioni circoscritte al singolo mercato nazionale”, così che “l’ambito di applicazione di tale normativa comprende le pubbliche amministrazioni quando queste siano “aggiudicatrici” cioè stipulino transazioni commerciali frutto di una procedura di evidenza pubblica, non invece quando le spese sostenute dalle p.a. si connotino per il loro rilievo pubblicistico e si collochino al di fuori della libera contrattazione” (Cass. Civ. sez. I, 9 gennaio 2020, n. 208; in termini anche Cass. Civ. SSUU, 20 novembre 2020 n. 26496).
La convenzione stipulata tra la ricorrente ed il GSE per la corresponsione dell’incentivo non è, infatti, un negozio giuridico oggetto di libera contrattazione, avendo piuttosto natura di contratto accessivo a provvedimento (in termini, TAR Lazio, questa sez. III ter, che sul punto richiama i propri precedenti 11 novembre 2015 n. 12812 e 9 novembre 2015 n. 12583, nonché Corte Cost., sent. n. 16 del 2017 secondo cui i detti contratti costituiscono “strumenti di regolazione, volti a raggiungere l’obiettivo dell’incentivazione di certe fonti energetiche”), il contenuto del quale è predeterminato dal provvedimento cui accede, a sua volta emanato nel vincolato rispetto delle norme legislative e regolamentari disciplinanti l’incentivazione, così che non può essere considerata una “transazione commerciale” ai sensi e per gli effetti di cui agli art. 1 e 2 e seguenti del citato decreto.
Ne consegue che gli interessi dovuti alla ricorrente per il ritardo nel pagamento dovranno essere liquidati al tasso legale. …».
Tali convenzioni devono, infatti, essere considerate alla stregua di accordi integrativi di provvedimenti amministrativi (i.e. le determinazioni di ammissione agli incentivi), il che esclude in radice una loro riconducibilità nell’alveo delle “transazioni commerciali” ex decreto legislativo n. 231/2002 (anche in considerazione dell’interesse pubblico, naturalmente sotteso e intrinsecamente connesso alla promozione dello sviluppo della produzione di energia da fonte rinnovabile, che all’evidenza osta alla qualificazione degli accordi in esame nei termini di un mero negozio giuridico commerciale).
D’altra parte, le convenzioni GRIN non possono evidentemente rientrare nel novero dei “contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo” (cfr. art. 2, comma 1, lett. a), del decreto legislativo n. 231/2002, in precedenza richiamato), atteso che le stesse non sono riducibili a meri contratti tesi alla semplice acquisizione di un bene o di un servizio, rivestendo all’opposto una natura e una portata radicalmente differenti.
In proposito, va ribadito che non si è in presenza di una transazione commerciale, bensì, piuttosto, di “… un negozio di diritto privato accessorio a provvedimenti di concessione degli incentivi e strumento di regolazione volto a raggiungere l’obiettivo dell’incentivazione delle fonti alternative (in tal senso Corte costituzionale, sentenza n. 16 del 2017) …” (così Cons. Stato, Sez. IV, 20 luglio 2020, n. 4640/2020 e Cons. Stato, Sez. IV, 31 luglio 2020, n.4881).
Si aggiunge che nella convenzione GRIN in essere con MPE (cfr. documento n. 3 del GSE depositato in data 8 novembre 2019 e documento n. 68 di MPE depositato sempre nel corso del giudizio di primo grado) è espressamente pattuita l’applicazione del tasso d’interesse nella misura legale (cfr. art. 10, rubricato “Ritardato pagamento”, secondo cui: “Fatto salvo il rimborso delle maggiori spese di esazione sostenute, nel caso di ritardato pagamento totale o parziale, sugli importi spettanti, sono dovuti interessi moratori per ogni giorno di effettivo ritardo, calcolati al tasso legale di interesse, fissato ex art. 1284 c.c.”), con la conseguenza che i tassi contemplati dal decreto legislativo n. 231/2002 neppure potrebbero trovare ingresso nella presente controversia per via indiretta, tramite l’applicazione dell’art. 1284, comma 4, del codice civile.
Va, inoltre, osservato che le condivisibili conclusioni raggiunte in sede di verificazione disposta nel corso del giudizio di primo grado (cfr. pagg. 34 e 35) hanno confermato il credito del GSE verso MPE, a titolo di recupero di incentivi indebitamente versati e relativi accessori, per € 280.534,28.
Ciò comprova la legittimità della sentenza appellata (e, prima ancora, del contegno del GSE), che si appalesa del tutto immune dalle censure articolate dalla società MPE.
7.4. – Ritiene questo Collegio che non sono parimenti meritevoli di positivo apprezzamento le doglianze di MPE relative al preteso travalicamento, da parte del verificatore incaricato nel corso del giudizio di primo grado, del perimetro proprio della sua attività.
Infatti – come emerge dalla lettura della relazione di verificazione – l’approfondimento istruttorio condotto si è limitato alla ricognizione, constatazione, presa d’atto e illustrazione di quanto desumibile dagli atti e dalla documentazione di causa (ivi inclusa quella fornita dalle parti nell’ambito della verificazione stessa).
Sul punto, peraltro, si evidenzia che la verificazione ha visto lo svolgimento di un contraddittorio (esteso anche a una bozza provvisoria dell’elaborato, per poi dar conto nella stesura definitiva delle osservazioni delle parti [cfr. pag. 6 della relazione di verificazione]).
Diversamente da quanto sostenuto dalla difesa di MPE, il Gestore ha adeguatamente illustrato e documentato in corso di causa (e di verificazione) la consistenza del proprio credito residuo (poi confermata in sede di verificazione).
Non è poi condivisibile il rilievo di MPE circa l’afferenza del tecnico incaricato dal Giudice di primo grado alla Ragioneria Generale dello Stato (operante presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze che partecipa al capitale sociale del GSE).
In primis va rilevato che l’incarico di verificatore è stato svolto in totale autonomia e indipendenza, non avendo MPE allegato alcuna circostanza specifica che facesse dubitare di ciò.
In secondo luogo, non pare validamente revocabile in dubbio la chiara competenza contabile di un soggetto istituzionale qualificato come la Ragioneria Generale dello Stato (e dei dirigenti alla stessa afferenti).
Infine, l’appellante MPE ha omesso di articolare qualsivoglia rilievo o eccezione circa l’avvenuta investitura, per lo svolgimento delle attività di verificazione, di un Ispettorato della Ragioneria Generale dello Stato (così come in ordine alla persona del dirigente in concreto delegato), il che rende tardiva e inammissibile l’osservazione di MPE al riguardo.
L’esito della disposta verificazione, peraltro, conferma che il GSE non ha mai inteso applicare interessi nella irragionevole misura riferita da MPE (che insiste nel lamentare un preteso superamento del cd. tasso soglia ex artt. 2 della legge n. 108/1996 e 1815 del codice civile), i cui conteggi risultano evidentemente inficiati – a tutto voler concedere – quantomeno da un fraintendimento del contenuto delle comunicazioni nel tempo ricevute dal GSE.
Come emerge dall’indagine del verificatore, infatti, il Gestore non ha mai sostenuto che agli importi già incassati a titolo d’interessi occorresse aggiungere gli ulteriori importi descritti nel corso della verificazione, essendosi all’opposto limitato a rappresentare che, stante la perdurante situazione debitoria della società MPE rispetto alla sorte capitale da recuperarsi, l’importo già incassato a titolo d’interessi veniva (cautelativamente) imputato in conto a tale voce, atteso che gli interessi continuavano a maturare in ragione della mancata restituzione dell’intera sorte capitale.
Va, inoltre, evidenziato che l’ammontare degli interessi cristallizzato nel piano di rientro si correlava alla prospettiva di poter conseguire, mediante la sollecita collaborazione della ditta MPE, il recupero dei benefici indebitamente percepiti entro un ragionevole e certo lasso di tempo.
In difetto di una simile prospettiva (per mancata collaborazione originaria o sopravvenuta della MPE, nella pronta restituzione dei benefici in ossequio al piano di rientro condiviso), ben si giustifica la determinazione degli interessi moratori nella maggiore misura individuata dal tecnico incaricato dal T.a.r. (secondo i criteri all’epoca vigenti, con applicazione di un tasso dell’8,05% [cfr. pag. 31 della relazione di verificazione]).
Al contrario di quanto riferisce l’appellante MPE, tale voce di interessi è senz’altro dovuta, quantomeno nella misura individuata nella relazione di verificazione.
Più in generale, con riferimento all’asserito sconfinamento dal cd. tasso soglia, deve sottolinearsi che MPE addiviene a simile conclusione per effetto di una non corretta individuazione della data di decorrenza degli interessi.
Detta data – come visto – deve coincidere quantomeno con quella dell’originario provvedimento di decadenza, atteso che, all’evidenza, anche la minor somma poi rideterminata è senz’altro dovuta almeno da quella data.
È, infatti, chiaro che il riconoscimento di una decorrenza degli interessi più risalente nel tempo determina un volume complessivo di interessi maggiore; a ciò non corrisponde, per converso, alcun incremento del tasso d’interesse applicato (che permane quello, del tutto corretto, utilizzato dal verificatore).
Quanto al saggio d’interesse da riconoscersi al GSE, come già visto in precedenza, è condivisibile il rilievo del tecnico incaricato dal T.a.r. secondo cui in sostanza il piano di rientro mediante dilazione a suo tempo sottoscritto non può stimarsi venuto meno sic et simpliciter, per mero effetto della rideterminazione del capitale dovuto in restituzione, conseguente alla parziale revisione dell’originario provvedimento di integrale decadenza.
Ciò premesso, va sottolineato che, ove mai dovesse ritenersi superato il piano di rientro, ciò comunque non determinerebbe le conseguenze indicate da MPE.
Infatti, in un simile scenario dovrebbe concludersi che le parti non abbiano convenuto un precipuo tasso d’interesse.
Tuttavia, a fronte dell’azione incardinata da MPE per il pagamento di quanto asseritamente dovutole dal Gestore (introdotta dalla società a partire dal quarto ricorso per motivi aggiunti promosso in primo grado), il GSE ha correttamente dedotto in giudizio l’eccezione di compensazione (impropria), traslando in sede giurisdizionale quella già sollevata e opposta a MPE sul piano sostanziale e stragiudiziale.
Poiché l’eccezione di compensazione amplia il thema decidendum, ai fini quantomeno della paralisi della domanda della ditta MPE, è evidente che ad essa sono ricollegati effetti equivalenti, pur in tale limitato profilo, a quelli di una domanda giudiziale (non a caso, tale eccezione è qualificata come eccezione riconvenzionale di compensazione: cfr. Cass. civ., Sez. I, 7 giugno 2013, n. 14418 e Cass. civ., Sez. III, 10 gennaio 2012, n. 64).
Ne consegue che, in difetto di pattuizione consensuale (scenario che si concreterebbe ove si considerasse ipoteticamente venuto meno in radice il piano di rientro), dovrebbe comunque trovare applicazione il disposto dell’art. 1284, comma 4, del codice civile, in forza del quale “Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali” (ossia, la misura dettata dal decreto legislativo n. 231/2002).
Tuttavia, sul punto va osservato che, laddove si dovesse ritenere venuto meno il piano di rientro, ciò non determinerebbe affatto la (pretesa) riconoscibilità, in favore di MPE, degli interessi dalla stessa domandati ai sensi del medesimo decreto legislativo n. 231/2002.
E invero, come sopra rilevato, le convenzioni GRIN non costituiscono “transazioni commerciali” e, pertanto, rispetto alle stesse non trova diretta applicazione la disciplina sugli interessi di cui al decreto legislativo n. 231/2002.
Nelle medesime convenzioni GRIN – come visto – è espressamente pattuito tra il GSE e il produttore (MPE) il saggio d’interesse dovuto in caso di ritardato versamento degli incentivi.
L’appellante MPE ne era ben consapevole, tanto è vero che nella propria domanda, in via residuale, chiedeva il pagamento degli interessi nella misura stabilita nella medesima convenzione (cfr., ex multis, lett. b) e c) delle conclusioni del sesto ricorso per motivi aggiunti, pag. 37, “nella misura di cui alla convenzione”; v. anche ibidem, nell’epigrafe “… per la condanna del GSE alla restituzione delle somme versate da Marcopolo o compensate dal GSE a titolo di interessi moratori e di interessi di dilazione, oltre interessi di mora ex d. lgs. 231/2002 o nella misura di cui alla convenzione per tempo vigente o nella misura legale dal dì del dovuto all’effettivo soddisfo”, pag. 2).
Come visto, l’art. 1284, comma 4, del codice civile stabilisce che unicamente “se le parti non ne hanno determinato la misura”, a decorrere dalla domanda giudiziale, trovi applicazione l’indice di interessi stabilito per le transazioni commerciali (ossia, la misura dettata dal decreto legislativo n. 231/2002).
In ragione di ciò – attesa la descritta, pacifica pattuizione del saggio di interesse nella convenzione GRIN intercorsa tra il Gestore e la ditta MPE – in favore dell’appellante non può operare il citato disposto dell’art. 1284, comma 4, del codice civile (e, con esso, l’applicabilità degli interessi ex decreto legislativo n. 231/2002).
7.5. – A pag. 19 dell’atto di appello la ricorrente MPE insiste nel contestare la legittimità della sospensione dell’erogazione degli incentivi disposta dal GSE con la nota del 6 agosto 2014.
La doglianza va disattesa.
In proposito, va evidenziato che, ai sensi dell’art. 21-quater, comma 2, della legge n. 241/1990 (“L’efficacia ovvero l’esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell’atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze. La sospensione non può comunque essere disposta o perdurare oltre i termini per l’esercizio del potere di annullamento di cui all’articolo 21-nonies”), è sempre possibile per l’Amministrazione – nell’esercizio delle proprie prerogative generali – adottare provvedimenti cautelari volti a inibire, interinalmente, gli effetti di un proprio precedente provvedimento.
Del resto, proprio il disposto dell’art. 42 del decreto legislativo n. 28/2011, pure richiamato dalla difesa di MPE, attribuisce al GSE il potere di dichiarare la “decadenza dagli incentivi” e disporre il recupero delle somme indebitamente erogate (cfr. comma 3).
Ne consegue che il potere di sospensione dell’erogazione degli incentivi – espressione della generale potestà di autotutela della P.A. e diretto a garantire il conseguimento di un effetto utile in sede di eventuale esercizio della medesima potestà – ben si concilia con il descritto potere del GSE di disporre la “decadenza dagli incentivi” e procedere al “recupero delle somme” indebitamente erogate (di cui al citato art. 42, comma 3, del decreto legislativo n. 28/2011), così come con quello di annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies della legge n. 241/1990 e di sospensione dell’efficacia o dell’esecuzione di un provvedimento amministrativo ai sensi dell’art. 21-quater, comma 2, della legge n. 241/1990.
Del tutto legittima e ragionevole si rivela, dunque, la sospensione cautelare del provvedimento di ammissione ai benefici (e, di conseguenza, del versamento degli incentivi) in attesa dell’esito dell’attività di verifica e controllo ovvero della conclusione del procedimento teso all’annullamento d’ufficio.
Come anticipato, infatti, nell’attribuire al GSE il potere di verifica e controllo, l’art. 42 del decreto legislativo n. 28/2011 affida al Gestore – a fronte degli esiti della verifica – il potere di dichiarare il beneficiario decaduto dagli incentivi e di recuperare i benefici corrisposti in difetto dei requisiti di legge.
Ora se il GSE ha titolo per dichiarare la decadenza e recuperare integralmente quanto indebitamente percepito dal privato, è a maggior ragione certamente titolare di un potere volto a sospendere in via cautelare l’erogazione degli incentivi nelle more della definizione del procedimento di verifica.
Analoghe osservazioni posso essere estese, naturalmente, alle fattispecie in cui la sospensione cautelare si correli all’esercizio del potere di annullamento d’ufficio.
E, d’altra parte, l’art. 21-quater della legge n. 241/1990 è previsione di carattere generale che si estende a tutta l’attività amministrativa. L’esercizio di tale potere inibitorio, quale strumento per l’utile esercizio del più ampio potere delineato dall’art. 42, comma 3, del decreto legislativo n. 28/2011 (e nell’ambito del relativo procedimento), è dunque pienamente ammissibile.
D’altro canto, non potrebbe validamente sostenersi che il GSE sia dotato di un potere di decadenza dai benefici (o di annullamento officioso delle pertinenti determinazioni), senza tuttavia poterli sospendere interinalmente.
All’opposto, un’eventuale inapplicabilità dell’art. 21-quater della legge n. 241/1990 all’attività del GSE rischierebbe di determinare un netto svuotamento dell’efficacia e utilità del potere decadenziale, attribuito al Gestore, connesso e conseguente a quello di verifica (così come di quello di cui all’art. 21-nonies della legge n. 241/1990), atteso che dalla mancata sospensione del riconoscimento degli incentivi (e dalla perdurante erogazione di questi ultimi) può derivare un deterioramento delle ragioni di tutela dell’interesse pubblico (a evitare l’indebita erogazione degli incentivi e l’eventuale difficoltà o impossibilità di recuperare quanto indebitamente erogato).
È, quindi, chiaro che al Gestore è attribuito il potere di inibire, in via cautelare, il riconoscimento degli incentivi nelle more della conclusione del procedimento di verifica e controllo, ovvero di annullamento d’ufficio (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 4 dicembre 2024, n. 9691).
7.6. – Quanto alle asserite violazioni delle garanzie procedimentali, deve rilevarsi che “… la violazione dell’art.10 bis della legge generale sul procedimento non produce ex se la invalidità del provvedimento finale, dovendo la disposizione di preavviso di rigetto essere interpretata alla luce dell’art. 21 octies della legge n.241/90 , per cui occorre valutare il contenuto sostanziale della determinazione conclusiva, allorché questa risulti non incisa dal vizio formale (in tal senso, ex multis, Cons. Stato Sez. V 10 ottobre 2007 n. 5321) …” (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4448).
In ogni caso dal punto di vista della sopravvenienza normativa rappresentata dall’art. 12, comma 1, lett. i), del decreto legge n. 76/2020, che ha novellato l’art. 21 octies della legge n. 241/1990, Cons. Stato, Sez. II, 4 aprile 2024, n. 3086 ha osservato:
«… il terzo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, legge n. 241/1990 (“La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis”), introdotto dall’art. 12, comma 1, lett. i), decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, non incide sulle considerazioni in precedenza esposte poiché la novella del 2020 ha ad oggetto unicamente il secondo periodo della disposizione in commento (“Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”).
Pertanto, in presenza di un’attività amministrativa vincolata (fattispecie ricorrente nel caso di specie) ai sensi del primo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, legge n. 241/1990 rimane comunque non annullabile il provvedimento adottato in violazione di una norma sul procedimento (quale appunto l’art. 10-bis legge n. 241/1990) qualora sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. …».
In tal senso si è espresso anche Cons. Stato, Sez. II, 14 marzo 2025, n. 2129.
Nel caso di specie può, dunque, trovare applicazione l’art. 21-octies, comma 2, prima parte, della legge n. 241/1990 (in virtù del quale “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”), venendo in rilievo un’attività amministrativa vincolata poiché è evidente che, a fronte della mancanza del titolo abilitativo con riferimento al secondo gruppo di generazione, non vi sarebbe potuto essere alcun riconoscimento della qualifica IAFR.
Va, peraltro, rilevato che si versa in ambito di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. o), del codice del processo amministrativo e che le note del GSE, tese a quantificare gli importi da restituire e a sollecitarne la corresponsione, non rivestono ex se valore provvedimentale.
Tale ordine di considerazioni rinviene conforto nell’indirizzo giurisprudenziale in forza del quale “… La richiesta di restituzione dei benefici già erogati non è … espressione di una distinta ed automa volontà provvedimentale rispetto a quella oggetto dei provvedimenti impugnati in primo grado, bensì rappresenta un atto esecutivo, conseguente alla qualifica di indebito oggettivo assunta dalle somme erogate per effetto della determinazione di decadenza. …” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 15 ottobre 2020, n. 6240).
Ne discende l’infondatezza del rilievo della ricorrente MPE (anche avuto riguardo al preteso difetto di motivazione).
7.7 . – È, inoltre, infondata la pretesa di MPE in relazione ad un asserito ritardo con cui le sarebbero state erogate le tariffe incentivanti GRIN, con suo connesso (preteso) diritto a vedersi riconosciuti gli interessi sulle relative somme.
Sul punto va rimarcato che la convenzione GRIN è stata pacificamente sottoscritta e conclusa in data 24 maggio 2018 (con conseguente immediato versamento dei relativi incentivi maturati, secondo le previste tempistiche).
Si rammenta in merito che la società MPE non aveva all’epoca in alcun modo contestato la convenzione GRIN, sottoscrivendo l’accordo in esame senza spiegare riserva alcuna.
Inoltre, diversamente da quanto riferisce l’appellante, immediatamente dopo l’adozione del provvedimento di autotutela del 5 giugno 2017 il GSE si è attivato (anche) per consentire la formalizzazione della convenzione GRIN.
La ditta MPE, tuttavia, non aveva proceduto ad aggiornare i dati presenti sul portale Gaudì di Terna, essendo ciò indispensabile, anche in considerazione della necessità di escludere dal perimetro dell’incentivazione il secondo gruppo elettrogeno (nel menzionato portale, difatti, persisteva il richiamo alla potenza ascrivibile a entrambi i generatori).
Nella specie – comunicata la (parziale) riammissione agli incentivi in data 5 giugno 2017 – tra il 4 e il 6 luglio 2017 il GSE ha contattato la società MPE, al fine di fornire indicazioni circa le azioni da intraprendere onde consentire l’erogazione degli incentivi (vale a dire, inoltrare le richieste di riconoscimento dei conguagli relativi ai certificati verdi per il 2014 e il 2015, ed effettuare la procedura abilitante sul portale GRIN – come da specifici chiarimenti e relativa Procedura pubblicati dal GSE sul proprio sito internet già dal 2016 [cfr. documenti nn. 6 e 7 prodotti 9).
Più in particolare, nello scambio di corrispondenza del 6 luglio 2017 il Gestore ha ricordato che “in merito all’impianto di Taranto” aveva “sbloccato l’incentivazione a seguito dell’istanza di riesame”, precisando che “per proseguire con l’incentivazione” MPE avrebbe dovuto “procedere a richiedere su ECV i conguagli per gli anni 2014 e 2015” e, “in seguito … abilitare l’impianto sul portale GRIN” (cfr. documento n. 9 prodotto in primo grado dalla difesa del GSE in data 8 novembre 2019).
Ricevute le richieste di conguaglio in data 31 luglio 2017, nell’agosto del 2017 il GSE ha proceduto all’emissione dei relativi certificati verdi mensili in sospeso e alla lavorazione dei conguagli (accettati in data 3 agosto 2017 per il 2014 e in data 4 settembre 2017 per il 2015).
Come risulta dall’estratto dello storico dei movimenti e degli aggiornamenti registrati sul portale GRIN in relazione all’impianto di MPE oggetto della qualifica IAFR n. 2945 (documento n. 11 prodotto in primo grado dalla difesa del GSE in data 8 novembre 2019), a partire dal luglio 2017 a sino al 10 maggio 2018 MPE non ha mai posto in essere gli adempimenti propedeutici alla stipula della convenzione GRIN.
Inoltre, come si evince dallo scambio di corrispondenza del 9 maggio 2018 (documento n. 10 depositato in primo grado dalla difesa del GSE in data 8 novembre 2019), la stessa MPE ha confermato che è stato il Gestore a sollecitare la chiusura dell’iter di attivazione della convenzione GRIN da parte del medesimo produttore.
Infatti, con propria e-mail (delle ore 16:40) la ditta MPE ha riscontrato il contatto telefonico da parte del GSE “… in merito al completamento dell’iter riconoscimento GRIN dell’impianto in oggetto …”, all’uopo trasmettendo “… in allegato quanto a Voi inviato nel mese di dicembre 2017 in riferimento all’impianto TARANTO 1 IAFR 2945 …” e precisando che “… per poter terminare l’inserimento sul portale GSE relativo alla procedura GRIN, avremmo necessità di ricevere alcuni chiarimenti, così come riportato nella lettera allegata …”.
A tale messaggio il GSE ha fornito riscontro (con propria e-mail delle ore 17:00) chiarendo di aver “… acquisito la documentazione allegata alla mail in calce già al momento del vostro invio ed abbiamo allineato le anagrafiche …” e ribadendo che tuttavia, “… per completare l’iter di sottoscrizione della convenzione …”, MPE avrebbe dovuto “… terminare la validazione dell’impianto, portando l’impianto in stato «da validare» dall’attuale stato «confermato» …”. In proposito, veniva ulteriormente chiarito che, “… come descritto nelle procedure pubblicate sul … sito, per fare ciò …” MPE avrebbe dovuto “… associare la qualifica IAFR ai gruppi di produzione così come importati da GAUDI’ di TERNA …”, rendendosi il GSE disponibile a eventuali ulteriori interlocuzioni “nel caso” MPE avesse incontrato “ulteriori difficoltà”.
Come risulta dal già richiamato estratto dello storico del portale GRIN (documento n. 11 cit.) MPE ha proceduto a far transitare il proprio impianto nello stato “da validare” in data 10 maggio 2018 e, a fronte di ciò, il successivo 16 maggio 2018 – secondo tempistiche del tutto fisiologiche e ordinarie – il Gestore ha proceduto a validare l’impianto.
A seguito degli adempimenti posti in essere da MPE tra il 16 e il 21 maggio 2018, in quest’ultima data il GSE ha reso disponibile la convenzione GRIN che è stata poi sottoscritta da MPE il 24 maggio 2018.
Va, altresì, evidenziato che l’iter per la formalizzazione della convenzione GRIN, descritto nella Procedura di gestione pubblicata sul sito GSE già nel 2016, prevede una prima fase di registrazione e validazione dell’impianto sul portale (contemplata nelle colonne evidenziate in azzurro nel documento n. 11 cit.); una volta intervenuta la validazione dell’impianto, a seguito degli specifici adempimenti ad opera del produttore, è possibile transitare nella fase di vera e propria formalizzazione e stipula della convenzione (secondo gli stati d’avanzamento di cui alle colonne evidenziate in blu nel medesimo estratto).
Sulla scorta delle considerazioni che precedono, pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante MPE, non sussiste alcuna colpa del Gestore in ordine ad un preteso ritardo nella stipula della convenzione GRIN e nell’erogazione dell’incentivo economico ivi disciplinato.
- – In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte l’appello deve essere respinto con consequenziale conferma della sentenza appellata.
- – Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.