Massima
Se nel diritto penale, stante la natura “rigida” della tipicità che connota il fatto inadempimento reato, le circostanze si atteggiano sempre ad elementi accidentali del reato medesimo, in ambito civilistico la distinzione tra elementi essenziali ed elementi “accidentali” appare netta e rigorosa solo muovendo da una concezione “astratta” della causa, facente perno sul “tipo” negoziale siccome forgiato dalla legge; se invece si prende l’abbrivio da una concezione “concreta” della causa stessa, l’”accidentalità” sfuma e tutti gli interessi che entrano in un negozio, quale scaturigine dell’autonomia privata, contribuiscono ad identificarlo in quanto tale, facendolo assurgere a “tipo concreto” ben delineato, come nelle ipotesi in cui gli effetti di tale negozio – per rispondere appunto ad un preciso interesse giuridicamente rilevante di una o di entrambe le parti – appaiano per volontà delle parti stesse (sospensivamente o risolutivamente) “condizionati”, ovvero soggetti a termine (iniziale o finale), ovvero ancora – se gratuiti – avvinti ad un obbligo ben definito gravante sul beneficiario, senza peraltro in tale ultimo caso che la gratuità trasmuti (giusta sinallagma) in onerosità.
Crono-articolo
Diritto romano (vedi articolo dedicato in Cittadinanza consapevole)
1865
Il 25 giugno viene varato il R.D. n.2358, codice civile del Regno d’Italia, di impianto liberale, che nel libro III, dedicato ai modi di acquisto e trasmissione di proprietà e diritti sulle cose, prevede innanzi tutto – nella materia successoria – la possibilità di disposizioni condizionali o a termine agli articoli 848 e seguenti. Se per l’art.848 le disposizioni mortis causa a titolo universale o particolare possono farsi anche sotto condizione, per il successivo art.850, pur essendo contraria alla legge la condizione che impedisca al beneficiario della disposizione tanto le prime nozze quanto le ulteriori (comma 1), nondimeno il legatario di un usufrutto od uso, di una abitazione o pensione, o d’altra prestazione periodica per caso o pel tempo del celibato o della vedovanza, non può goderne che durante il celibato o la vedovanza (e dunque entro un tempus definito dal testatore). Ancora, stando all’art.856 se a taluno è lasciato un legato sotto condizione o dopo un certo tempo, chi è gravato del legato può essere costretto a darne cauzione od altra sufficiente cautela al legatario. Interessante anche l’art.855 alla cui stregua se il testatore ha lasciata l’eredità o il legato sotto obbligo all’erede o al legatario di non fare o non dare, l’erede o il legatario è tenuto a dare cauzione o altra sufficiente cautela per l’esecuzione di tale volontà a favore di quelli ai quali l’eredità o il legato dovrebbe devolversi in caso di non adempimento (di tale onere o modus).
Interessante anche la disciplina della donazione: più in specie, è nulla qualunque donazione fatta sotto condizioni impossibili o contrarie alla legge ed al buon costume (art.1065), oltre che qualunque donazione fatta sotto condizioni la cui esecuzione dipenda dalla sola volontà del donante (art.1066). E’ poi parimenti nulla – alla stregua dell’art.1067 – la donazione che sia stata fatta sotto la condizione di soddisfare altri debiti o pesi fuori da quelli che esistevano al tempo della donazione, o specificamente designati dalla medesima: qui il regime della condizione si intreccia con quello del modus apposto all’atto di liberalità, che si palesa tecnicamente per tale – al cospetto di una liberalità immediatamente efficace e tuttavia sottoposta a condizione risolutiva – al successivo art.1080, onde se la condizione (appunto) risolutiva, espressa o tacita, si verifica per causa di inadempimento dei pesi imposti al donatario, il donante può proporre la domanda di revocazione della donazione, senza pregiudizio tuttavia dei terzi che hanno acquistato diritti sugli immobili (donati) anteriormente alla trascrizione della domanda pertinente.
Più in generale poi, al di fuori della disciplina del testamento e della donazione, la condizione e il termine, quali elementi accidentali del negozio, vengono in realtà significativamente riferiti all’obbligazione e identificano due particolari modelli obbligatori, quello delle “obbligazioni condizionali” (articoli 1157-1171) e quello delle “obbligazioni a tempo determinato” (articoli 1172-1176).
Alla stregua dell’art.1157, è condizionale l’obbligazione la cui sussistenza o risoluzione dipende da un avvenimento futuro ed incerto; più in specie, ai sensi dell’art.1158 è sospensiva la condizione che fa dipendere l’obbligazione da un avvenimento futuro ed incerto (comma 1), mentre è risolutiva quella che, verificandosi, rimette le cose nello stato in cui erano, come se l’obbligazione non avesse mai avuto luogo (comma 2). Per l’art.1159 è casuale la condizione che dipende da un evento fortuito, il quale non è come tale in potere né del creditore né del debitore; è potestativa quella il cui adempimento dipende dalla volontà di uno dei “contraenti”, con passaggio terminologico dall’obbligazione al contratto; è infine mista quella che dipende ad un tempo dalla volontà di una delle parti contraenti e dalla volontà di un terzo o dal caso.
In tema di effetti, qualunque condizione contraria al buon costume od alla legge, o che impone di fare una cosa impossibile, è per l’art.1160 nulla e rende ad un tempo nulla l’obbligazione da essa dipendente, mentre la condizione di non fare una cosa impossibile, all’opposto, non rende nulla l’obbligazione contratta sotto la medesima (art.1161). E’ invece nulla alla stregua dell’art.1162 la obbligazione contratta sotto una condizione (c.d. meramente potestativa) che la fa dipendere dalla mera volontà di colui che si è obbligato, e dunque del debitore. Un particolare ed articolato regime viene poi previsto all’art.1163 per l’ipotesi in cui l’obbligazione sia contratta sotto condizione sospensiva e, prima che questa si verifichi, la cosa che ne forma oggetto perisca o si deteriori.
Per quanto concerne la condizione risolutiva, essa alla stregua dell’art.1164 non sospende ex latere debitoris l’esecuzione dell’obbligazione, obbligando soltanto il creditore a restituire ciò che ha ricevuto laddove poi si verifichi l’avvenimento dedotto in condizione. Essa (art.1165) è sempre sottintesa nei contratti bilaterali, per il caso in cui una delle parti “non soddisfaccia la sua obbligazione”, ipotesi nella quale il contratto non è sciolto di diritto, ma la parte verso cui non fu eseguita l’obbligazione ha la scelta di costringere l’altra all’adempimento del contratto, quando sia possibile, o di domandarne lo scioglimento, oltre il risarcimento dei danni in ambedue i casi, la risoluzione del contratto dovendo essere chiesta giudizialmente e potendo essere concessa al convenuto una dilazione secondo le circostanze: la disciplina della “condizione risolutiva sottintesa” assorbe dunque quella della risoluzione per inadempimento nei contratti a prestazioni corrispettive.
In termini più ampi e generali, qualunque condizione deve essere adempiuta nel modo verosimilmente voluto ed inteso dalle parti (art.1166), con ciò prefigurandosi implicitamente una interpretazione secondo buona fede dell’evento dedotto in condizione; quando poi una obbligazione è contratta sotto la condizione che un avvenimento segua in un tempo determinato (un mix dunque tra condizione e termine), tale condizione si reputa mancata se il tempo è spirato senza che l’avvenimento sia seguito, mentre se non vi è un tempo determinato, la condizione può sempre essere adempiuta e non si ha per mancata se non quando sia certo che l’avvenimento non seguirà (art.1167); quando invece un’obbligazione è contratta sotto la condizione che un avvenimento non abbia luogo in un determinato tempo, la condizione si intende verificata allorché questo tempo sia spirato senza che sia seguito l’avvenimento divisato; essa è verificata egualmente se, prima dello spirare del termine, sia certo che non seguirà l’avvenimento divisato; se vi è un tempo determinato, essa è verificata solo quando sia certo che l’avvenimento non seguirà più (art.1168). Significativo l’art.1169, alla cui stregua la condizione si ha per adempiuta quando lo stesso debitore obbligato sotto condizione ne abbia impedito l’adempimento (così sottraendo effetti al proprio obbligo).
La condizione, una volta “adempiuta”, ha effetto retroattivo al giorno in cui fu contratta l’obbligazione e qualora il creditore sia morto prima che si verifichi la ridetta condizione, le relative ragioni creditorie passano all’erede (art.1170); proprio stante l’effetto retroattivo della condizione, il creditore può, prima che “siasi verificata” la condizione, esercitare tutti gli atti che tendono a conservare i propri diritti (art.1171).
Articolata anche la disciplina delle “obbligazioni a tempo determinato”, chiarendosi da subito (art.1172) che il termine apposto alle obbligazioni differisce dalla condizione in questo, che non sospende l’obbligazione, ma ne ritarda soltanto l’esecuzione. Allorché un termine non sia apposto, per l’art.1173 l’obbligazione deve subito eseguirsi, sempre che la qualità dell’obbligazione o il modo in cui essa deve essere eseguita o il luogo convenuto per la relativa esecuzione non porti seco la necessità di un termine da stabilire da parte dell’autorità giudiziaria; alla quale ultima spetta pure di stabilire per l’adempimento dell’obbligazione un termine conveniente laddove questo sia stato rimesso alla volontà del debitore.
Ciò che si deve a tempo determinato non si può esigere prima della scadenza del termine (art.1174) e tuttavia non si può ripetere quello che si è pagato anticipatamente, ancorché il debitore ignorasse il termine; quest’ultimo si presume sempre stipulato in favore del debitore (art.1175) se non risulta dalla stipulazione o dalle circostanze che si è stipulato egualmente in favore del creditore. Infine, alla stregua dell’art.1176 il debitore non può più reclamare il “benefizio” del termine se è divenuto non solvente, o se per fatto proprio ha diminuito le cautele date al creditore, ovvero non gli ha dato le cautele promesse.
Il termine dunque – come del resto, lo si è visto testé, la condizione – afferisce al rapporto obbligatorio ed alla relativa esecuzione, non già all’atto fonte (massime, al contratto) ed alla pertinente efficacia.
1923
Il 18 novembre viene varato il R.D. n.2440, recante nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato (la c.d. legge di contabilità di Stato), secondo il cui art.19, comma 1, gli atti di aggiudicazione definitiva ed i contratti che hanno come parte la PA, anche se stipulati per corrispondenza ai sensi del precedente articolo 17, non sono obbligatori per l’Amministrazione finché non sono approvati dal Ministro o dall’ufficiale all’uopo delegato e non sono eseguibili che dopo l’approvazione.
Si tratta di uno dei più rilevanti casi di condizione sospensiva c.d. ex lege, non avendo i contratti che coinvolgono una parte pubblica alcuna operatività effettuale fino al momento in cui, per l’appunto, essi non sono approvati dall’organo competente.
1930
Il 19 ottobre viene varato il R.D. n.1398, nuovo codice penale, secondo il cui art.44 quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto; la norma – che configura le c.d. condizioni obiettive di punibilità – sembra in talune fattispecie sottoporre la punibilità dei pertinenti reati alla condizione (sospensiva) di avveramento di un determinato evento.
Sotto altro profilo, gli articoli 163 e seguenti del codice disciplinano la c.d. sospensione condizionale della pena, onde è possibile – in date e specifiche circostanze – la sospensione dell’esecuzione di una condanna penale; tale sospensione dell’esecuzione della pena può tuttavia essere fatta oggetto di revoca (obbligatoria o facoltativa) ai sensi del successivo art.168, onde gli effetti della sospensione esecutiva penale sono assoggettati nella sostanza, quando la revoca è obbligatoria, ad una condizione risolutiva (commissione di un reato della stessa indole di quello già commesso e per il quale la pena è stata sospesa; mancato adempimento da parte del condannato agli obblighi impostigli in sede di condanna con pena sospesa).
1942
Il 16 marzo viene varato il R.D. n.267, nuovo codice civile (entrato in vigore il 21 aprile), nel cui contesto la condizione esce dall’ambito delle obbligazioni per accedere a quello del contratto: secondo l’art.1353 infatti, significativamente rubricato “contratto condizionale”, le parti possono subordinare l’efficacia o la risoluzione del contratto o di un singolo patto (o, nei limiti della compatibilità, di un negozio unilaterale, ai sensi dell’art.1324) ad un avvenimento futuro ed incerto. Secondo il successivo art.1354 è tuttavia nullo il contratto al quale sia apposta una condizione, sospensiva o risolutiva, contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (comma 1), mentre la condizione impossibile rende nullo il contratto solo se è sospensiva, se è risolutiva avendosi piuttosto per non apposta (comma 2); se la condizione illecita o impossibile è apposta a un patto singolo del contratto, si osservano, riguardo all’efficacia del patto, le disposizioni menzionate, fermo quanto è disposto dall’articolo 1419 (sulla c.d. nullità parziale).
Si occupa della condizione meramente potestativa l’art.1355, alla cui stregua è nulla l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un obbligo subordinata a una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell’alienante (alienazione di un diritto) o, rispettivamente, da quella del debitore (assunzione di un obbligo).
Sul crinale degli effetti, stando all’art.1356 in pendenza della condizione sospensiva l’acquirente di un diritto può compiere atti conservativi, mentre laddove si tratti di acquirente di un diritto sotto condizione risolutiva questi può, in pendenza, esercitarlo, ma è l’altro contraente – e dunque l’alienante – a poter compiere atti conservativi. D’altra parte, chi ha un diritto subordinato a condizione sospensiva o risolutiva può disporne in pendenza di questa; ma gli effetti di ogni atto di disposizione sono subordinati alla medesima condizione (art.1357). Gli effetti poi dell’avveramento della condizione retroagiscono al tempo in cui è stato concluso il contratto, salvo che, per volontà delle parti o per la natura del rapporto, gli effetti del contratto o della risoluzione debbano essere riportati a un momento diverso (art.1360, comma 1: naturale retroattività della condizione); se però la condizione risolutiva è apposta a un contratto ad esecuzione continuata o periodica, l’avveramento di essa, in mancanza di patto contrario, non ha effetto riguardo alle prestazioni già eseguite (comma 2). Inoltre l’avveramento della condizione non pregiudica la validità degli atti di amministrazione compiuti dalla parte a cui, in pendenza della condizione stessa, spettava l’esercizio del diritto (art.1361, comma 1); salvo diverse disposizioni di legge o diversa pattuizione, i frutti percepiti sono dovuti dal giorno in cui la condizione si è avverata (comma 2).
Importante quanto dispone l’art.1358 alla cui stregua colui che si è obbligato o che ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva, ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte: il nuovo codice menziona dunque esplicitamente, a differenza del codice del 1865, il canone della buona fede assumendolo rilevante anche per quanto concerne i comportamenti delle parti in pendenza della condizione. Ciò affiora anche in modo palmare dal disposto del successivo art.1359 sulla c.d. finzione di avveramento della condizione, onde essa si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al pertinente avveramento.
In tema di c.d. actus legitimi, stando all’art.108, comma 1, la dichiarazione degli sposi di prendersi rispettivamente in marito e in moglie non può essere sottoposta né a termine né a condizione; del pari, ai sensi dell’art.257, è nulla ogni clausola diretta a limitare gli effetti del riconoscimento del figlio naturale; sul crinale successorio è nulla la dichiarazione di accettare l’eredità sottoposta a condizione o a termine (art.475) e così la relativa rinuncia (art.520).
Stando poi all’art.1521, la vendita a prova si presume fatta sotto la condizione sospensiva che la cosa abbia le qualità pattuite o sia idonea all’uso a cui è destinata, onde essa (presuntivamente) non produce effetti fino alla verifica delle ridette qualità pattuite ovvero dell’idoneità all’uso di destinazione (comma 1), la prova dovendosi peraltro eseguire nel termine e secondo le modalità stabiliti dal contratto o dagli usi (comma 2).
Rilevante – nel prisma della condizione risolutiva – l’art.1372 c.c., secondo il cui comma 1 il contratto ha forza di legge tra le parti e non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge e, dunque, “tipiche”.
Significative altresì le fattispecie di c.d. condizione legale o condicio iuris, come nel caso del testamento, i cui effetti sono subordinati alla morte del testatore disponente (art.587 c.c.); del contratto concluso dal falsus procurator, i cui effetti sono subordinati alla ratifica del dominus interessato (art.1399 c.c.); del contratto per persona da nominare, laddove gli effetti nei confronti del nominato sono subordinati alla dichiarazione di nomina (art.1404 c.c.).
Secondo l’art.647 c.c., emblematicamente rubricato “onere”, tanto all’istituzione di erede quanto al legato può essere apposto, per l’appunto, un onere (comma 1); se il testatore non ha diversamente disposto, l’autorità giudiziaria, qualora ne ravvisi l’opportunità, può imporre all’erede o al legatario gravato dall’onere una cauzione (comma 2); l’onere impossibile o illecito si considera non apposto; rende tuttavia nulla la disposizione, se ne ha costituito il solo motivo determinante (comma 3). Stando poi al successivo art.648, per l’adempimento dell’onere può agire qualsiasi interessato (comma 1) e, nel caso d’inadempimento dell’onere, l’autorità giudiziaria può pronunziare la risoluzione della disposizione testamentaria, se la risoluzione è stata prevista dal testatore, o se l’adempimento dell’onere ha costituito il solo motivo determinante della disposizione (comma 2).
Del pari, in tema di “donazione modale”, stando all’art.793 la donazione può essere per l’appunto gravata da un onere (comma 1) ed il donatario è tenuto all’adempimento dell’onere entro i limiti del valore della cosa donata (comma 2); per l’adempimento dell’onere può agire, oltre il donante, qualsiasi interessato, anche durante la vita del donante stesso (comma 3) e la risoluzione per inadempimento dell’onere, se preveduta nell’atto di donazione, può essere domandata dal donante o dai relativi eredi (comma 4); inoltre, ai sensi del successivo art.794, l’onere illecito o impossibile si considera non apposto, rendendo tuttavia ancora una volta nulla la donazione se ne ha costituito il solo motivo determinante.
1948
La Costituzione repubblicana, sul crinale dei rapporti economici, prevede all’art.41, comma 1 e 2, che da un lato l’iniziativa economica privata è libera e dall’altro che essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Ancora, stando all’art.42, comma 2, la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale, oltre che di renderla accessibile a tutti.
Si tratta di norme che fondano il potere dell’autonomia privata di dare rilevanza a determinati motivi innestandoli nei pertinenti negozi giuridici; sempre tuttavia nell’osservanza di determinati limiti legati fondamentalmente alla buona fede ed al rispetto dell’altro contraente, conformemente all’art.2 della Carta alla cui stregua è notoriamente richiesto – quale principio fondamentale – l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, disposizione che consente di illuminare di luce nuova lo stesso principio di buona fede e correttezza.
Sotto altro profilo, ed in apicibus, ai sensi dell’art.3, comma 2, della Carta è compito della Repubblica (si tratta in primo luogo – ai sensi del successivo art.114 – dell’Amministrazione nelle relative articolazioni territoriali: Stato, Regioni, Provincie, Comuni) rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini – con effetto dunque “condizionante” – impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Ai sensi del successivo art.4, il diritto al lavoro viene riconosciuto dalla Carta a tutti i cittadini, impegnando ad un tempo la Repubblica a promuovere le “condizioni” che rendano effettivo questo diritto, il quale ultimo si atteggia dunque a diritto sostanzialmente “condizionato”, nella relativa effettualità, alla congiuntura economica e alle conseguenti contromisure prese in sede di decisore pubblico.
1972
Il 6 ottobre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.2889 alla cui stregua la parte che sia “controinteressata” all’avveramento della condizione non ha un obbligo “positivo” di adoperarsi attivamente perché la condizione si avveri, palesandosi tenuta soltanto ad un contegno meramente negativo, che le impone di astenersi da azioni tali da pregiudicare o impedire l’avverarsi della condizione.
1974
L’8 marzo esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.624 alla cui stregua la norma di cui all’art. 1355 c.c. limita la nullità del negozio alla sola ipotesi della condizione sospensiva meramente potestativa a parte debitoris, il cui avveramento è rimesso alla “nuda” volontà di uno dei soggetti, e cioè ad un relativo atto puramente arbitrario, tale da implicare l’effettiva negazione del vincolo. Nel caso, invece, della condizione potestativa semplice, la volontà dei contraenti è determinata da elementi estrinseci (avvinti ad un interesse giuridicamente rilevante di colui della cui volontà si tratta), onde, pur se la relativa valutazione è sempre riservata all’interessato, vien meno ogni carattere di arbitrio e conseguentemente essa, operando secondo il meccanismo descritto dagli artt. 1356 e ss. c.c., non influisce in alcun modo sulla validità del negozio.
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Il 18 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.2504 onde la differenza fra il recesso dal contratto e la condizione (anche meramente) potestativa risolutiva, la cui validità si desume dall’art. 1355 c.c. (che vieta la sola condizione sospensiva meramente potestativa), consiste nell’effetto retroattivo di quest’ultima rispetto a quello del recesso. Deve pertanto per la Corte ravvisarsi la ipotesi della condizione risolutiva potestativa solo se risulti che la caducazione della efficacia di un contratto sia stata accettata, al momento della pattuizione, da entrambe le parti con efficacia ex tunc.
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Il 22 novembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.3783 onde costituiscono condizioni improprie, come tali non soggette alla disciplina prevista dagli artt. 1353-1361 c,c., quegli eventi che sono basati su presupposti i quali non hanno carattere di evento futuro e non sono oggettivamente incerti, ovvero che siano connessi con l’adempimento di obblighi, legali o convenzionali, incidenti sulle parti. Viene dunque assunta quale “condizione impropria” anche la c.d. “condizione di adempimento”, laddove l’evento dedotto in condizione corrisponde con l’adempimento di un obbligo gravante su una delle parti.
1975
Il 14 febbraio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.566 alla cui stregua non può essere inteso quale condizione, alla quale è subordinata l’efficacia del contratto di compravendita immobiliare, il pagamento del pertinente prezzo da parte del compratore, costituendo tale pagamento l’obbligazione principale (e, dunque, un elemento essenziale del contratto).
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Il 4 aprile esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.1204 alla cui stregua è da assumersi ammissibile la risoluzione per inadempimento del contratto condizionato sospensivamente ad una condicio juris e rimasto inefficace per il mancato avveramento della pertinente condizione — nel caso di specie, diniego di concessione di licenza d’importazione della merce, la cui necessità era nota ai contraenti — qualora la parte abbia determinato col fatto proprio il mancato avveramento della condizione stessa, realizzando tale condotta una violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede in pendenza della condizione, al fine di mantenere integre le ragioni dell’altra parte.
La violazione di detto obbligo infatti, che costituisce una specificazione di quello più generale imposto dalla legge ai contraenti di comportarsi secondo correttezza nell’esecuzione delle obbligazioni, dà luogo per la Corte a responsabilità contrattuale.
1977
Il 18 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.737 alla cui stregua è da assumersi lecito il modus apposto alla donazione di una somma di danaro, in base al quale il donatario è tenuto a servirsi della somma stessa per pagare il riscatto del proprio padre, sequestrato da malviventi, poiché per la Corte l’immoralità non concerne colui che deve versare il danaro per ottenere detto risultato, ma soltanto chi ne sarà l’accipiens.
* * *
Il 5 agosto esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.3559 onde mentre la condizione propriamente detta (condicio facti) è un avvenimento futuro e incerto dal quale le parti fanno dipendere l’efficacia di un contratto (condizione sospensiva) o la risoluzione di esso (condizione risolutiva), la condizione impropria (condicio juris) consiste in un requisito essenziale o in un presupposto logico di un negozio giuridico, senza il quale questo non esiste, ovvero in un requisito per la relativa efficacia. Le condiciones juris della prima specie (requisiti essenziali) – precisa la Corte – non hanno alcuna affinità con la condizione vera e propria, mentre quelle della seconda, laddove l’avveramento del requisito richiesto condiziona la sola efficacia (e non già la perfezione) del negozio, sono perfettamente parificabili alle condiciones facti e suscettibili, quindi, non ostandovi limiti legali, di essere pattiziamente regolamentate.
1982
Il 15 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.934 onde, in virtù dell’autonomia contrattuale loro riconosciuta, le parti possono apporre una determinata condizione al contratto nell’esclusivo interesse di uno solo dei contraenti (c.d. condizione unilaterale), nella quale ipotesi — il cui accertamento è rimesso al giudice del merito, con apprezzamento incensurabile in sede di legittimità, se congruamente e correttamente motivato — tale contraente “interessato” può ben rinunziare ad avvalersi della condizione, sia prima che dopo il non avveramento della stessa (e, dunque, anche quando il contratto sia ormai definitivamente inefficace), senza che la controparte possa, comunque ostacolarne la volontà.
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Il 19 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2412 alla cui stregua il contraente a cui favore sia stata pattuita una condizione ha facoltà di rinunziarvi sia prima sia dopo l’avveramento della condizione risolutiva o il non avveramento della condizione sospensiva; per la Corte siffatta rinunzia (che rende operativo un contratto ormai definitivamente inefficace) – anche quando trattasi di condizione apposta a un contratto traslativo o costitutivo di diritti reali immobiliari – non deve necessariamente risultare da atto scritto potendo quindi essere desunta anche da facta concludentia.
1983
Il 16 febbraio esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n.1181 onde nei contratti bilaterali – di regola – le reciproche prestazioni integrano gli elementi essenziali del contratto medesimo, l’accordo in ordine ad esse non potendo dunque essere assunto come condizione in senso tecnico, dato che questa costituisce un elemento accidentale estraneo alla struttura tipica del negozio, mentre le prestazioni reciproche attengono all’esistenza stessa del negozio, in quanto ne costituiscono la causa in senso tecnico-giuridico.
Ciò tuttavia, precisa la Corte, non esclude che, in particolari ipotesi (da accertare sulla base dell’allegazione di una precisa volontà contrattuale in tal senso), il concreto adempimento di una delle prestazioni concordate possa essere dedotto ex professo quale condizione sospensiva, cui sia consensualmente subordinata la produzione degli effetti giuridici del negozio.
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Il 24 febbraio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.1432 alla cui stregua nessuna incompatibilità di principio può assumersi sussistente fra condizione ed esecuzione di una prestazione essenziale, quale è il pagamento del prezzo rispetto al contratto di compravendita, talché per la Corte è ben ammissibile la deducibilità di quest’ultima come evento condizionante, per accordo fra le parti o per volontà di legge, fermo restando peraltro che – anche qualora una incompatibilità fosse concretamente ravvisabile – rientrerebbe comunque nella discrezionalità del legislatore superarla o comporla, erigendo a condizione sospensiva il concreto adempimento di una delle obbligazioni essenziali.
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Il 15 settembre esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.5575 onde la condizione propriamente detta (condicio facti) è da assumersi caratterizzata dall’incertezza dell’evento futuro dal quale si fa dipendere l’efficacia o la risoluzione del negozio e per tale ragione si distingue dal termine ancorché le parti abbiano fatto riferimento non all’evento in sé, ma alla data del relativo avverarsi; essendo anche in tal caso per la Corte sufficiente il requisito dell’incertezza del ridetto termine (“quando accadrà che…”) – da accertare con indagine che, involgendo apprezzamento di fatti è riservata al giudice di merito e sottratta al controllo di legittimità, in presenza di una motivazione logicamente e giuridicamente corretta — perché la clausola abbia solo l’apparenza del termine e sia invece da ricondurre sotto l’ipotesi della condizione.
1985
Il 16 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.5631 alla cui stregua, nel solco dell’orientamento maggioritario, con riguardo alle condizioni meramente potestative, l’art. 1355 c.c. commina la nullità soltanto per le condizioni sospensive e non anche per le condizioni risolutive, delle quali pertanto va riconosciuta la validità anche se meramente potestative.
1989
Il 7 agosto esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.3626 alla cui stregua si ha una condizione risolutiva — il cui verificarsi comporta lo scioglimento di diritto del rapporto ed i cui effetti retroagiscono al tempo di conclusione del contratto, salvo che sia stata stabilita una diversa decorrenza — allorquando le parti abbiano ancorato la risoluzione ad un evento futuro, incerto ed indipendente dalla loro volontà, mentre è da ravvisare il diritto di recesso quando ad una delle parti è attribuita la facoltà di sciogliere unilateralmente il contratto in base ad una libera dichiarazione di volontà.
1990
L’8 agosto esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.8009 alla cui stregua il principio per cui la condizione volontaria unilaterale, quale elemento accidentale del negozio giuridico finalizzato a tutela dell’interesse di una sola parte, può essere oggetto di rinuncia, espressa o tacita, ad opera della parte interessata, non solo prima, ma anche dopo il verificarsi dell’evento, senza che la controparte possa ostacolare tale volontà abdicativa, opera anche con riguardo alla proposta di concordato fallimentare.
Ne consegue per la Corte che, ove il proponente un concordato fallimentare ne abbia risolutivamente condizionato l’efficacia — a tutela di un proprio interesse — all’avverarsi di un evento futuro ed incerto (nella specie, presentazione di domande di insinuazione tardiva da parte di altri creditori), l’accettazione di tale proposta (con annessa conclusione del concordato) non attribuisce agli originari creditori accettanti il potere di far valere gli effetti risolutivi di siffatto avveramento, laddove ciò si palesi in contrasto con la volontà dell’interessato che vi abbia, per facta concludentia, rinunciato.
1992
Il 2 giugno esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.6676 alla cui stregua laddove una parte venga meno all’obbligo di comportarsi secondo buona fede in pendenza di una condizione, ex art.1358 c.c., la controparte può invocare il risarcimento del danno che abbia eventualmente sofferto dal pertinente inadempimento.
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Il 30 ottobre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.11816 alla cui stregua, quando il contratto presenta una condizione unilaterale (apposta dunque nell’interesse di una sola delle parti, sia che essa condizioni sospensivamente gli effetti del contratto, sia che condizioni risolutivamente il cessare di tali effetti) tale contratto è sempre collegato ad una opzione per la conclusione del medesimo contratto in forma pura, e dunque non condizionata, onde anche nel momento in cui tale contratto è ormai definitivamente inefficace, il soggetto nell’interesse del quale è stata apposta la condizione unilaterale può rinunciare a quest’ultima, contestualmente esercitando l’opzione orientata a concludere il medesimo contratto in forma pura, che prende a spiegare effetti proprio mentre il contratto originario (condizionato) non può più spiegarne.
2000
Il 12 giugno esce la sentenza della Sezione II della Cassazione n.7973 alla cui stregua, nel silenzio delle parti, la condizione apposta ad un negozio si presume bilaterale e, dunque, rispondente all’interesse di entrambe le parti; tale presunzione è superabile soltanto dalla presenza di una clausola contrattuale che sancisca in modo espresso la natura unilaterale della condizione stessa, ovvero laddove tale natura unilaterale sia ritraibile dalla presenza di un insieme concordante di elementi che suffragano tale conclusione.
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Il 20 giugno esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.8390 che si occupa della condizione c.d. meramente potestativa. Per la Corte essa non si configura – e la conseguente sanzione di nullità di cui all’art. 1355 c.c. non opera – quando l’impegno che la parte si assume (in termini di obbligazione o di trasferimento di un diritto) non è rimesso al relativo mero arbitrio ma è piuttosto collegato ad un gioco di interessi e di convenienza e si presenta dunque come alternativa capace di soddisfare anche un proprio interesse, mentre la condizione potestativa invalidante il negozio è quella che dipende dal mero arbitrio del soggetto obbligato, sì da presentarsi come effettiva negazione di ogni e qualsivoglia vincolo.
Deve dunque escludersi per la Corte che la condizione sia “meramente” potestativa quando l’evento dedotto in condizione dipenda anche dal concorso di fattori estrinseci, capaci di influire sulla determinazione della volontà di chi è chiamato a farlo accadere, seppure la pertinente valutazione sia rimessa all’esclusivo apprezzamento di tale interessato.
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Il 17 agosto esce la sentenza della sezione lavoro della Cassazione n.10921 alla cui stregua , al fine di qualificare una condizione apposta dalle parti ad un contratto come condizione sospensiva ovvero come condizione risolutiva, occorre avere riguardo non già alle determinazioni delle parti stesse, ma alla disciplina che esse abbiano previsto per la pendenza della divisata condizione (esclusi ovviamente i casi in cui sia la legge stessa a prevederla come sospensiva o risolutiva, come accade nella vendita a prova che, ex art.1521 c.c., si presume fatta sotto condizione sospensiva di superamento della prova).
2002
Il 18 marzo esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.3942 onde, in tema di contratto sottoposto a condizione sospensiva, ove la condizione non si verifichi, non è configurabile un inadempimento delle obbligazioni rispettivamente assunte dalle parti con il contratto, giacché l’inadempimento contrattuale è verificabile solo in relazione ad un contratto efficace; ne consegue che, in tale ipotesi, non può farsi luogo a risoluzione per inadempimento delle obbligazioni contrattuali, ma, eventualmente, solo per inadempimento dell’obbligazione prevista dall’art. 1358 c.c., norma che fa obbligo a ciascun contraente, in pendenza della condizione, di osservare i doveri di lealtà e correttezza in modo da non influire sul verificarsi dell’evento condizionante pendente.
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Il 2 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.9568 onde chi conclude un patto di prelazione relativo alla vendita di un proprio bene immobile sotto la condizione sospensiva del rilascio di una determinata autorizzazione amministrativa, ha il dovere, in pendenza dell’avveramento della condizione, di comportarsi secondo buona fede astenendosi dal compiere atti pregiudizievoli degli interessi dell’altro contraente (il prelazionario), sia con riferimento all’oggetto della prestazione, che con riferimento all’avveramento della condizione
Tra tali atti pregiudizievoli può rientrare – per la Corte – la vendita a terzi dell’immobile, in quanto atto compiuto sull’oggetto della prestazione del negozio prelatizio sottoposto a condizione e tale da vanificare il possibile futuro esercizio del diritto di prelazione da parte del terzo prelazionario.
2003
*Il 22 aprile esce la sentenza della sezione I della Cassazione n.6423 alla cui stregua, nel silenzio delle parti, la condizione apposta ad un negozio si presume bilaterale e, dunque, rispondente all’interesse di entrambe le parti; tale presunzione è superabile soltanto dalla presenza di una clausola contrattuale che sancisca in modo espresso la natura unilaterale della condizione stessa, ovvero laddove tale natura unilaterale sia ritraibile dalla presenza di un insieme concordante di elementi che suffragano tale conclusione.
2005
Il 19 settembre esce la sentenza delle SSUU n.18450, alla cui stregua il contratto sottoposto a condizione potestativa mista è soggetto alla disciplina di cui all’art. 1358 c.c., che impone alle parti l’obbligo giuridico di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione, la sussistenza di tale obbligo dovendo essere riconosciuta anche per l’attività connessa alla realizzazione dell’elemento potestativo (e, dunque, volontaristico) della condizione mista.
Per la Corte va dunque cassata la sentenza di merito che abbia escluso l’applicabilità dell’art. 1358 c.c. ad un contratto di progettazione di un’opera pubblica in cui il professionista aveva accettato di condizionare il diritto al compenso al conseguimento, da parte dell’Amministrazione pubblica (committente), del finanziamento dell’opera divisata, dovendo essere la causa rinviata al giudice di merito affinché proceda ad un penetrante esame della clausola recante la condizione e del comportamento delle parti ad essa avvinto onde verificare, alla stregua degli elementi probatori acquisiti, se corrispondano ad uno standard esigibile di buona fede le iniziative poste in essere nel caso di specie dall’Ente locale per ottenere il finanziamento dell’opera.
Quando dunque l’avveramento dell’evento dedotto in condizione dipende – in tutto o anche solo in parte – dalla volontà di uno dei contraenti, resta per quest’ultimo l’obbligo di comportarsi secondo buona fede, trattandosi di un canone che costituisce ad un tempo criterio di valutazione e limite del comportamento discrezionale proprio di tale contraente, che non può sconfinare nell’arbitrio pena la trasformazione di una condizione potestativa valida in condizione “meramente” potestativa nulla. Anzi, precisa la Corte, quello di buona fede si atteggia ad obbligo sommamente pregnante proprio al cospetto di una condizione potestativa (o mista), laddove uno dei contraenti detiene il potere (almeno in parte) di determinare il verificarsi della condizione.
Per il Collegio non può dunque accedersi all’opposto orientamento che assume non configurabile l’obbligo di buona fede ex art.1358 c.c. in presenza di una condizione potestativa o mista, né tampoco la connessa sanzione di cui all’art.1359 c.c. compendiantesi nella finzione di avveramento della condizione stessa, proprio per essere la stessa strutturata in modo da rimettere alla volontà di una delle parti la scelta volontaristica se far realizzare o meno l’evento condizionante, con dirette ricadute sugli effetti del divisato negozio e con risoluzione ex ante e una volta per tutte dell’eventuale conflitto tra le parti negoziali, dacché sarebbe lo stesso regolamento contrattuale a prevedere, per una delle parti appunto, la scelta volontaristica di sottrarre effetti al divisato negozio, senza che ciò possa ridondare in violazione della regola della buona fede.
2006
Il 9 febbraio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.2863 onde la condizione legale, o condicio iuris, ha natura di requisito essenziale o presupposto logico del negozio giuridico (rectius: di requisito necessario di efficacia del contratto); essa dunque, al pari di quella volontaria, opera sul crinale degli effetti del negozio considerato, e tuttavia – senza mediazione della volontà delle parti – direttamente sulla scorta di una valutazione di necessarietà ex lege.
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Il 13 novembre esce la sentenza della sezione II della Cassazione n.24299 alla cui stregua la c.d. condizione di adempimento ha natura di condizione potestativa unilaterale, essendo essa prevista nell’interesse di una sola delle parti del negozio, che ha come tale la possibilità di scegliere (giusta dichiarazione di volontà all’uopo) se rinunziare agli effetti del negozio stesso in caso di inadempimento dell’altra.
2007
Il 21 maggio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.11774 onde la condizione è “meramente potestativa” quando consiste in un fatto volontario il cui compimento o la cui omissione non dipendono da seri o apprezzabili motivi, ma piuttosto dal mero arbitrio della parte, mentre essa si qualifica “potestativa” quando la volontà del debitore dipende da un complesso di motivi connessi ad apprezzabili interessi che, pur essendo rimessi all’esclusiva, discrezionale valutazione della stessa parte, agiscano sulla relativa volontà determinandola in un certo senso.
2010
Il 3 giugno esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.13469 alla cui stregua anche il contratto che sia sottoposto ad una condizione potestativa mista è da assumersi soggetto alla disciplina di cui agli articoli 1358 e 1359 c.c. in tema di obbligo di buona fede in fase di pendenza e di finzione di avveramento della condizione stessa, collegandosi anche all’elemento potestativo (oltre che, ovviamente, a quello casuale) di tale condizione.
Per la Corte il principio di buona fede, da intendersi come requisito della condotta dei contraenti, costituisce criterio di valutazione e limite anche del comportamento discrezionale del contraente dalla cui volontà dipende (almeno in parte) l’avveramento della condizione in parola; comportamento che non può essere assunto scevro da qualsivoglia foggia di doverosità, sia perché a ragionare diversamente la condizione finirebbe con il risolversi nell’attribuzione ad una delle parti di un potere meramente arbitrario in ordine alla determinazione dell’efficacia del contratto, così ponendosi in frizione con l’art.1355 c.c. in tema di nullità della condizione meramente potestativa; e sia anche perché in tal modo si verrebbe ad introdurre nel precetto di cui all’art.1358 c.c., e nell’obbligo di buona fede in esso cristallizzato, una restrizione che esso non prevede e che, piuttosto, svuoterebbe di contenuto la pertinente norma col limitarla al mero elemento casuale della condizione mista e dunque ad un elemento sul quale la condotta della parte considerata ha scarse possibilità di incidenza, con contestuale privazione di ogni tutela della posizione giuridica (di aspettativa) dell’altra parte.
Proprio l’elemento potestativo, prosegue il Collegio, è invece quello in relazione al quale il dovere di comportarsi in buona fede ha più ragion d’essere, essendo con riguardo a tale elemento che la discrezionalità contrattualmente attribuita alla parte deve essere esercitata entro il perimetro segnato dal canone della correttezza. Peraltro, precisa la Corte, se è vero che l’omissione di una attività in tanto può costituire fonte di responsabilità in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, deve assumersi che tale obbligo, in casi come quello all’esame, discenda direttamente dall’art.1358 c.c., che lo impone come requisito della condotta da tenere durante lo stato di pendenza della condizione, onde la sussistenza di un siffatto obbligo va riconosciuta anche per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista, quale effetto “legale” del pertinente contratto.
2011
Il 6 luglio viene varato il decreto legge n.98, recante disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, il cui art.34,comma 1, introduce nel D.p.R. 327.01, Testo Unico in materia espropriativa, l’art.42 bis e, con esso, la “nuova” acquisizione sanante, dopo il pronunciamento della Corte costituzionale che ha caducato la precedente fattispecie di cui all’art.43.
Per quanto di interesse, il provvedimento di acquisizione, recante l’indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell’area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, e’ – in forza del comma 4 – specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla pertinente adozione; nell’atto e’ liquidato l’indennizzo dovuto al privato e ne e’ disposto il pagamento entro il termine di 30 giorni. L’atto va notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito (effettuato ai sensi dell’articolo 20, comma 14 del testo unico); e’ soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente ed e’ trasmesso in copia all’ufficio istituito ai sensi dell’articolo 14, comma 2 del testo unico ridetto.
2012
Il 14 dicembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.23014 alla cui stregua la condizione “potestativa mista” – il cui avveramento dipende in parte dal caso o dal terzo ed in parte dalla volontà di uno dei contraenti – è soggetta alla disciplina degli artt. 1358 e 1359 c.c., da intendersi riferita anche al segmento non casuale, onde va cassata con rinvio la decisione del giudice di merito che, qualificando come “casuale” la condizione sospensiva dell’erogazione di un finanziamento da parte di terzi, apposta al contratto di compravendita di un autocarro, abbia omesso di valutare, agli effetti degli artt. 1358 e 1359 c.c., se il compratore ha correttamente agito per ottenere il prestito divisato.
2014
Il 2 gennaio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.12, che si pronuncia in tema di compenso del professionista per l’elaborazione di un progetto di opera pubblica, la cui corresponsione sia subordinata al finanziamento dell’opera da parte della Regione e alla presentazione della richiesta di finanziamento e gestione della relativa pratica da parte del Comune beneficiario dell’opera stessa.
Per la Corte l’affidamento – nelle more dell’elaborazione del progetto da parte del divisato professionista – dell’opera ridetta ad altro soggetto privato costituisce comportamento contrario a buona fede, in violazione dell’art. 1358 cod. civ., tale da determinare l’avveramento fittizio della condizione, ai sensi dell’art. 1359 cod. civ., in quanto cagionato dal comportamento della parte portatrice di un interesse contrario all’avveramento stesso.
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Il 28 marzo esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.7405 alla cui stregua il Comune che, per la progettazione della propria rete fognaria, abbia agito “iure privatorum” (piuttosto che avvalersi dei propri poteri autoritativi), stipulando un contratto di prestazione d’opera professionale e subordinando il pagamento del compenso dei professionisti nominati all’avverarsi della condizione “potestativa mista” del conseguimento di un finanziamento da parte di enti terzi, è tenuto, in pendenza di condizione, a comportarsi secondo buona fede ai sensi dell’art. 1358 cod. civ. e, dunque, a richiedere il finanziamento per il quale è stata apposta la clausola sfavorevole alla controparte, al fine di non frustrare le possibilità di avveramento della condizione, non potendo più sortire alcun rilievo le questioni relative alla attualità ovvero alla persistenza di un interesse pubblico alla redazione del pertinente progetto, già valutato al momento della stipula del negozio privatistico.
Ne consegue che l’eventuale comportamento omissivo del Comune con riguardo al conseguimento dei ridetti finanziamenti da parte di enti terzi implica, ex art. 1359 cod. civ., l’avveramento della pertinente condizione, con conseguente responsabilità contrattuale dello stesso, tenuto al pagamento del compenso in favore dei professionisti incaricati del pertinente progetto.
2016
Il 19 maggio esce la sentenza della I sezione della Cassazione n.10326 alla cui stregua la causa di mancato avveramento della condizione imputabile alla parte che avrebbe un interesse contrario a tale avveramento va individuata in un contegno attivo e non può ravvisarsi in un semplice comportamento omissivo o comunque inattivo, a meno che questo non compendi la violazione di un obbligo di agire imposto dal contratto o dalla legge.
2017
Il 17 novembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.27320 alla cui stregua le parti, nell’ambito della loro autonomia privata, possono apporre al contratto una condizione sospensiva o risolutiva convenuta nell’interesse esclusivo di uno solo dei contraenti (c.d. condizione unilaterale); in tal caso, per la Corte il contraente “interessato” resta libero di avvalersene o di rinunciarvi, tanto prima quanto dopo il non avveramento della stessa (in tale ultimo caso, conferendo al contratto una effettualità che non potrebbe più avere), senza possibilità per la controparte di ostacolarne la volontà.
2018
Il 9 marzo esce l’ordinanza delle SSUU n.5790 secondo la quale va affermata la giurisdizione del GO in ordine alla controversia instaurata per accertare il mancato avveramento di una condizione sospensiva – nella specie, compendiantesi nell’adozione di una variante al p.r.g. – apposta al contratto di cessione di aree di privati ad un Comune
Per la Corte la giurisdizione esclusiva del GA in materia urbanistica ed edilizia presuppone che il comportamento della p.a. non sia semplicemente occasionato dall’esercizio del potere ma si traduca piuttosto, in virtù della pertinente norma attributiva, in una relativa manifestazione diretta, ciò risultando necessario in relazione all’oggetto del potere e al risultato da perseguire; il tutto per la Corte non si verifica quando la condotta omissiva imputata al Comune debba essere accertata esclusivamente al fine di verificare il mancato avveramento della condizione cui le parti avevano rimesso il perfezionamento dell’atto negoziale.
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Il 18 aprile esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 9550, onde la clausola che preveda la risoluzione di un contratto preliminare di compravendita immobiliare in caso di mancata approvazione di un progetto di lottizzazione deve essere qualificata come condizione risolutiva e non come condizione potestativa (c.d. unilaterale), in quanto la prima si limita a subordinare l’efficacia del contratto ad un evento, futuro e incerto, il cui verificarsi priva automaticamente il negozio di effetti ab origine, mentre la seconda (condizione potestativa unilaterale) esige una specifica ed inequivoca, pertinente pattuizione, senza che rilevi il mero interesse della parte alla relativa realizzazione.
Più nel dettaglio, la pertinente clausola non è qualificabile nel caso di specie come condizione cosiddetta unilaterale, e perciò non implica – a differenza di quanto sostiene il ricorrente, il quale sottolinea la propria permanente disponibilità all’operazione immobiliare nonostante l’adozione della variante urbanistica – la possibilità per il promissario acquirente di reclamare la stipulazione del definitivo indipendentemente dal relativo verificarsi (rinunciando dunque alla “condizione”), in relazione al solo interesse del promissario medesimo rispetto all’evento, atteso che la suddetta condizione unilaterale esige una specifica ed inequivoca pattuizione, che nel caso in esame mancava (per un analogo precedente, Cass. Sez. 2, 30/10/1992, n. 11816; arg. anche da Cass. Sez. 2, 17/11/2017, n. 27320). La pattuizione della condizione risolutiva del contratto preliminare di compravendita di un terreno in caso di mancata approvazione del piano di lottizzazione, con l’obbligo di restituzione del prezzo, realizza in effetti, per la Corte, un equilibrio tra le prestazioni e le aspettative economiche dei contraenti frutto dell’autonomia privata (vedi Cass. Sez. 2, 27/11/2009, n. 25047).
La ricorrenza di una c.d. condizione unilaterale può essere affermata – prosegue il Collegio – solo sulla base di una inequivoca formulazione del contratto, non potendosi desumere dal semplice fatto che una sola delle parti possa essere interessata al verificarsi dell’evento dedotto in condizione. L’avverarsi dell’evento dedotto in condizione opera, invero, automaticamente sull’efficacia del negozio originariamente stipulato e soltanto la previsione in favore di una parte di un diritto potestativo, che consenta di dar vita, successivamente al verificarsi dell’evento dedotto in condizione, ad un nuovo negozio di contenuto identico (previa rinuncia agli effetti della condizione), consente di ravvisare una condizione (ad interesse) unilaterale.
Si è al cospetto dunque per la Corte, nel caso di specie, di una condizione – avendo le parti espressamente previsto di attribuire efficacia risolutiva ad un evento futuro e incerto, quale la mancata approvazione del progetto di lottizzazione – e non di “presupposizione“, la quale è configurabile, piuttosto, quando, da un lato, una obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi che sia stata tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso – pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali – come presupposto condizionante la validità e l’efficacia del negozio (cosiddetta condizione non sviluppata o inespressa), e, dall’altro, il venir meno o il verificarsi della situazione stessa sia del tutto indipendente dall’attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all’oggetto di una specifica obbligazione dell’uno o dell’altro (cfr. Cass. Sez. 2, 23/09/2004, n. 19144; Cass. Sez. 2, 28/08/1993, n. 9125; Cass. Sez. 2, 17/12/1991, n. 13578; Cass. Sez. 2, 11/08/1990, n. 8200).
Spetta, per il Collegio, all’attività interpretativa del giudice di merito individuare entro quale termine dovesse intendersi risolutivamente condizionata l’efficacia del contratto preliminare di vendita immobiliare alla mancata approvazione del piano di lottizzazione (si veda Cass. Sez. 2, 05/02/2015, n. 2119). Si spiega dalla Corte, invero, che pure nel caso in cui le parti abbiano condizionato l’efficacia di un contratto al verificarsi di un evento senza indicare espressamente il termine entro il quale questo possa utilmente avverarsi, può essere ottenuta la dichiarazione giudiziale di inefficacia del contratto stesso per l’avveramento della condizione risolutiva, senza che neppure ricorra l’esigenza della previa fissazione di un termine, ai sensi dell’art. 1183 c.c., quando il giudice (come appunto ha fatto la Corte d’Appello di Venezia al fine di accogliere la domanda di risoluzione, perciò non incorrendo in alcuna ultrapetizione) assuma essere comunque trascorso un lasso di tempo congruo entro il quale l’evento previsto dalle parti si sarebbe dovuto verificare (cfr. Cass. Sez. 3, 10/11/2010, n. 22811; Cass. Sez. 2, 16/12/1991, n. 13519).
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Il 19 aprile esce la sentenza della IV sezione del Consiglio di Stato n. 2366 onde è da assumersi illegittimo il permesso di costruire che subordina la produzione dei propri effetti al verificarsi di una condizione, di carattere sospensivo, futura ed incerta, come accaduto nel caso di specie in cui il Comune ha assunto necessaria – in via alternativa – o la predisposizione di una relazione congiunta della persona giuridica titolare del permesso di costruire e dei terzi che si opponevano al rilascio del permesso medesimo, ovvero la conclusione di un accordo tra le parti stesse, entrambi eventi condizionanti futuri ed incerti.
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Il 20 aprile esce la sentenza delle SSUU n.9909 onde si ha “presupposizione” quando una determinata situazione di fatto o di diritto – comune ad entrambi i contraenti ed avente carattere obiettivo – essendo il relativo verificarsi indipendente dalla loro volontà e attività – e certo – sia stata elevata dai contraenti stessi a presupposto condizionante il negozio, in modo da assurgere a fondamento – pur in mancanza di un espresso riferimento – dell’esistenza ed efficacia del contratto.
Per la Corte, nella specie, con riguardo ad una convenzione stipulata nel 1959 tra un Comune ed un Consorzio intercomunale di acquedotto che consentiva la captazione e l’utilizzo delle acque delle fonti site nel territorio comunale, in cambio dell’erogazione di sei litri di acqua al secondo, di cui due gratuiti, va escluso che la gestione diretta del servizio di acquedotto da parte del Comune sia stata «presupposto indefettibile» dell’intesa.
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Il 31 luglio esce la sentenza della II sezione della Cassazione n.20226 alla cui stregua nel rapporto giuridico che si costituisce per effetto della sentenza di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto preliminare di compravendita, il pagamento del prezzo ancora dovuto dal promissario acquirente, pur conservando la propria originaria natura di prestazione essenziale del compratore, assume anche il valore e la funzione di una condizione sospensiva dell’effetto traslativo, destinata ad avverarsi, nel caso di adempimento, o a divenire irrealizzabile, precludendo l’effetto condizionato, nell’ipotesi opposta di omesso pagamento del prezzo medesimo nel termine fissato dalla sentenza o, in mancanza, nel congruo lasso di tempo necessario perché la mora del promissario acquirente assuma i caratteri dell’inadempimento di non scarsa importanza per il (promettente venditore) creditore, rendendo non più possibile l’adempimento tardivo contro la volontà di quest’ultimo.
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L’11 settembre esce la sentenza della II sezione della Cassazione n. 22046 alla cui stregua la condizione apposta al contratto preliminare di compravendita immobiliare subordinato alla concessione di un mutuo da parte dell’istituto bancario è qualificabile come mista, poiché la concessione del mutuo dipende anche dal comportamento del promissario acquirente nell’approntare la relativa pratica.
Per la Corte, in sostanza, ove le parti subordinino gli effetti di un contratto preliminare di compravendita immobiliare alla condizione che il promissario acquirente ottenga da un istituto bancario un mutuo per potere pagare in tutto o in parte il prezzo stabilito, tale condizione è qualificabile come “mista”, dipendendo la concessione del mutuo anche dal comportamento del promissario acquirente nell’approntare la pertinente pratica; la mancata erogazione del prestito, però, comporta le conseguenze previste in contratto, senza che rilevi, ai sensi dell’art. 1359 c.c., un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente, sia perché questa disposizione è inapplicabile qualora la parte tenuta condizionatamente ad una data prestazione abbia interesse (e non già “controinteresse”) all’avveramento della condizione (c.d. condizione bilaterale), sia perché l’omissione di un’attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità, in quanto essa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, e la sussistenza di un siffatto obbligo per il Collegio deve escludersi con riguardo all’attività di attuazione dell’elemento potestativo in una condizione mista.
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Il 5 ottobre esce l’ordinanza della III sezione della Cassazione n. 24532 onde, posto che la clausola risolutiva espressa è invocabile solo in presenza di un inadempimento della controparte da parte di chi se ne avvale, ove tale inadempimento della controparte non si configuri, la clausola può rilevare alla stregua di condizione risolutiva, purché l’evento cui tale condizione si riferisce sia sufficientemente determinato da entrambe le parti e non rimesso alla mera volontà di una di esse.
2019
Il 22 gennaio esce la sentenza della III sezione della Cassazione n.1547 onde l’indagine del giudice del merito diretta ad accertare se un contratto sia stato sottoposto o meno a condizione sospensiva non può essere sindacata in sede di legittimità, se condotta nel rispetto delle regole che disciplinano l’interpretazione dei contratti, trattandosi di una indagine di mero fatto.
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Il 18 aprile esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n. 10844 alla cui stregua in tema di contratti con una PA in cui il pagamento del compenso per l’opera professionale pattuita sia stato subordinato all’ottenimento di un finanziamento dell’opera progettata da parte di un soggetto terzo, il creditore che lamenti il mancato avveramento di tale circostanza ha l’onere di provarne l’imputabilità, ai sensi dell’art. 1359 c.c., a titolo di dolo o colpa, al debitore pubblico, mentre quest’ultimo è tenuto a dimostrare di avere adempiuto ai doveri nascenti dall’art. 1358 c.c.
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Il 6 settembre esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n.22343 che premette come i ricorrenti pretendano nel caso di specie, qualificandolo come atto conservativo, il trasferimento ope iudicis, ai sensi dell’art. 2932, cod. civ., in relazione a un contratto preliminare la cui esecuzione è per volontà delle parti sospesa fino all’avveramento di una condizione sospensiva, costituita dall’avvenuto decesso di entrambi i genitori della promittente alienante.
Per la Corte è da escludersi, per la contraddizione che non lo consente, che possa costituirsi, e, quindi, trasferirsi per sentenza costitutiva del giudice, un diritto ancora sottoposto a condizione sospensiva o ancora sottoposto a termine, per la ragione che l’aspettativa della parte non può essere mutata prima del tempo nel diritto anelato, così frustrando la volontà negoziale; cosa ben diversa è che possa farsi luogo per sentenza del consenso mancante per il trasferimento di un bene (trasferimento, ovviamente del quale il promittente alienante si è reso inadempiente, perché appunto non sottoposto, o non più sottoposto, a termine o condizione), anche nell’ipotesi in cui il tempo per la controprestazione non sia ancora scaduto (come nel caso in cui tutto o parte del prezzo debba corrispondersi in epoca successiva), condizionando l’effetto traslativo al pagamento dell’intero prezzo (giurisprudenza pacifica, cfr., ex multis, Sez. 2, n. 1940/1982), stante come in questo caso si sia in presenza di un contratto che, per volontà delle parti, nel momento in cui la vicenda viene davanti al giudice, è pienamente efficace (il promittente alienante, perché scaduto il termine, o consumatasi l’attesa della condizione, è inadempiente, mentre il promissario acquirente, che ha diritto all’immediato trasferimento, conserva il diritto ad effettuare il pagamento al tempo previsto ed è quindi logico e del tutto rispettoso della volontà contrattuale che il trasferimento debba essere condizionato dal giudice all’effettivo integrale pagamento del prezzo).
Non può poi ipotizzarsi per la Corte, perché tratterebbesi di spendita giudiziaria inutile, l’emissione di una sentenza che si limitasse a riaffermare quel che già prescrive il contratto preliminare, e cioè che, come nel caso al vaglio, il trasferimento resti condizionato sospensivamente all’avveramento di quella che le parti hanno qualificato come condizione sospensiva; affermazione che, in disparte, è appena il caso di soggiungere, non assolverebbe neppure a quella funzione cautelare alla quale i ricorrenti ambiscono, funzione cautelare che l’ordinamento assicura con ben altri strumenti.
In linea con quanto esposto si colloca la giurisprudenza della Corte secondo la quale il giudice adito ai sensi dell’art.2932 cod. civ. deve emettere la sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso quando l’evento previsto come condizione sospensiva nel contratto preliminare, pur insussistente al momento della proposizione della domanda, risulta essersi verificato al momento della decisione (Sez. 2, n. 628, 17/01/2003, Rv. 559822; conf. Sez. 1, n. 8388, 20/6/2000).
* * *
Il 7 ottobre esce l’ordinanza della sezione Lavoro della Cassazione n. 24970 che ribadisce il consolidato orientamento secondo cui il carattere essenzialmente gratuito del comodato non viene meno per effetto della apposizione di un “modus”, posto a carico del comodatario, di consistenza tale da non poter integrare le caratteristiche di corrispettivo del godimento della “res”, come nel caso in cui venga stabilito, in relazione al godimento di un immobile, il versamento di una somma periodica, a carico del beneficiario, a titolo di rimborso spese, la cui entità lasci ragionevolmente escludere la dissimulazione di un sottostante contratto di locazione; al contrario, viene meno ove l’entità dell’onere economico posto a carico del comodatario e la consistenza del vantaggio a carico del comodante assumano natura di reciproci impegni negoziali, connotandosi in termini di vera e propria sinallagmaticità.
In particolare, ricorda la Corte che in materia di interpretazione del contratto, l’accertamento della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto del negozio, si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito, onde la possibilità di censurare tale accertamento in sede di legittimità, a parte l’ipotesi in cui la motivazione sia così inadeguata da non consentire la ricostruzione del percorso logico seguito da quel giudice per giungere ad attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, è limitata al caso di violazione delle norme ermeneutiche, violazione da dedursi, peraltro, con la specifica indicazione nel ricorso per cassazione del modo in cui il ragionamento del giudice si sia da esse discostato, poiché, in caso contrario, la critica alla ricostruzione del contenuto della comune volontà si sostanzia nella proposta di un’interpretazione diversa. In altri termini, il ricorso in sede di legittimità, riconducibile, in linea generale, al modello dell’argomentazione di carattere confutativo, laddove censuri l’interpretazione del contratto accolta dalla sentenza impugnata, non può assumere tutti i contenuti di cui quel modello è suscettibile, dovendo limitarsi ad evidenziare l’invalidità dell’interpretazione adottata attraverso l’allegazione – con relativa dimostrazione dell’inesistenza o dell’assoluta inadeguatezza dei dati tenuti presenti dal giudice di merito o anche solo delle regole giustificative – anche implicite – che da quei dati hanno condotto alla conclusione accolta, e non potendo, invece, affidarsi alla mera contrapposizione di un risultato diverso sulla base di dati asseritamente più significativi o di regole di giustificazione prospettate come più congrue.
2020
Il 28 agosto esce l’ordinanza della II sezione della Cassazione n. 18031 secondo la quale, nel caso in cui un Comune abbia subordinato il pagamento del compenso di un professionista all’erogazione di finanziamenti da parte dell’UE, l’ente locale in parola non può rinunciare alla condizione avveratasi (nel caso di specie essendo già stato concesso il finanziamento), trattandosi di condizione cd. bilaterale (sussistente qualora la parte tenuta condizionatamente a una data prestazione abbia interesse all’avveramento della condizione) e non unilaterale. Nella sentenza in parola, inoltre, la Suprema Corte richiama il proprio costante orientamento secondo cui una condizione può ritenersi apposta nell’interesse di uno solo dei contraenti solo in presenza di una clausola espressa in tal senso o di elementi che inducano a ritenere che l’altra parte non abbia alcun interesse al suo verificarsi.
Questioni intriganti
In cosa consistono i c.d. elementi accidentali del negozio giuridico e, più in specie, del contratto?
- occorre muovere dalla struttura del negozio giuridico, e del contratto in specie;
- accanto ai c.d. elementi essenziali, il cui difetto impedisce la giuridica configurabilità di un negozio e di un contratto, esistono elementi “accidentali”, che dunque non sono come tali essenziali per poter configurare un modello negoziale o contrattuale;
- con riguardo al contratto le parti, nell’ambito dell’autonomia negoziale loro riconosciuta dall’ordinamento giuridico, sono messe nelle condizioni di adattare il contenuto contrattuale ai rispettivi interessi aggiungendo agli indefettibili elementi essenziali, per l’appunto, degli elementi accidentali orientati al miglior perseguimento di tali interessi;
- l’accordo delle parti è allora scaturigine della volontà negoziale delle stesse, che si compone di elementi indispensabili (necessari) e di elementi accidentali (eventuali) e che, una volta consacrata nel contratto, va intesa come volontà negoziale unitaria;
- proprio il fatto che il risultato è sempre una volontà negoziale “unitaria” delle parti fa sì che il rapporto tra essenzialità ed accidentalità, ben definito se si muove da una concezione astratta della causa (massime, del contratto), siccome forgiata dal legislatore (nel penale, il reato come fatto inadempimento è astrattamente e rigidamente predefinito), sfuma decisamente laddove si approdi ad un modello “concreto” di causa negoziale, laddove ciascun elemento è “essenziale” per le parti che, dovendo soddisfare specifici interessi meritevoli di tutela ed avvinti all’elemento pseudo-accidentale, in realtà non avrebbero posto in essere “quel” negozio in difetto di quell’elemento (una condizione sospensiva o risolutiva; un termine iniziale o finale; limitatamente ai negozi gratuiti, un onere o modus, e dunque un obbligo, gravante sul relativo beneficiario).
Quali sono, nel dettaglio, gli elementi accidentali del contratto secondo la corrente ricostruzione dottrinale?
- sono certamente elementi accidentali del negozio – e del contratto – la condizione, il termine ed il modo (o onere);
- per parte della dottrina lo sarebbe anche la c.d. presupposizione, quale condizione tacita ed inespressa, che altra parte della dottrina ricollega invece ad altre figure (causa, motivo, interpretazione secondo buona fede e così via) e che, proprio per questo, merita una trattazione autonoma;
- una porzione della dottrina assume elementi accidentali anche la clausola penale e la caparra penitenziale, che tuttavia la dottrina maggioritaria identifica in tipi negoziali autonomi, seppure “accessori” rispetto al contratto principale in forza di un collegamento a carattere necessario.
Perché la condizione riveste una straordinaria importanza dal punto di vista giuridico?
- in primo luogo per il relativo valore tipicamente “trasversale”, qualificandosi come meccanismo presente in ogni settore dell’ordinamento;
- in proposito, il civile non meriterebbe specifiche menzioni esemplificative; volendone accennare una tra le tante possibili, nel contesto della doppia alienazione immobiliare, secondo una accreditata tesi della dottrina, l’acquisto del c.d. primo acquirente che non abbia ancora trascritto è soggetto a condizione risolutiva di mancata prima trascrizione da parte del secondo acquirente del medesimo bene immobile;
- per quanto riguarda il penale la figura della sospensione aleggia in istituti quali le “condizioni” obiettive di punibilità (art.44 c.p.) e la sospensione “condizionale” della pena (art.163 e seguenti c.p.), solo a voler citare quelli di più marcata evidenza;
- nell’amministrativo, l’approvazione dei contratti in cui sia parte una PA (ex art.19 del R.D. 2440.23) rappresenta uno dei più classici esempi di condizione sospensiva ex lege;
- più in generale, lo stesso interesse legittimo si atteggia a diritto “condizionato”, onde si realizza la soddisfazione dell’interesse materiale ad esso sotteso, in capo al relativo portatore privato, solo laddove la PA – giusta dispiego del potere ad essa all’uopo attribuito dalla legge, normalmente all’esito di un procedimento “partecipato” – verifichi l’accadimento del pertinente “evento condizionante”, ovvero l’accertata compatibilità del ridetto interesse materiale privato con l’interesse pubblico; si tratta dell’”evento” di una condizione di tipo “risolutivo” e non già “sospensivo”, sol che si pensi alla circostanza onde, ai sensi dell’art.3 della Costituzione, è compito della Repubblica (e dunque, massime, dei Comuni, delle Provincie, delle Città metropolitane, delle Regioni e dello Stato: art.114 Cost.) rimuovere quegli ostacoli che si frappongono ai valori fondamentali della libertà, dell’eguaglianza e della partecipazione effettive di tutti i cittadini “lavoratori”, questi ultimi potendo dunque pretendere – all’occorrenza – beni e servizi dall’Amministrazione Pubblica, salvo che essa accerti per l’appunto che la singola pretesa, e l’interesse materiale che vi è sotteso, è incompatibile con l’interesse pubblico.
Cosa occorre ricordare in generale della condizione?
- occorre muovere da un avvenimento futuro ed incerto, che le parti hanno tenuto presente all’atto della stipula del contratto o del negozio giuridico; esso deve essere, oltre che per l’appunto futuro ed incerto, anche lecito e possibile (art.1353 e 1354 c.c.);
- a tale avvenimento futuro ed incerto le parti hanno condizionato la produzione di effetti del negozio (condizione sospensiva: il negozio è inefficace fino al giorno in cui avrà luogo l’evento futuro ed incerto) o il venir meno di tali effetti (condizione risolutiva: il negozio è efficace fino al giorno in cui avrà luogo l’evento futuro ed incerto);
- si parla in proposito di contratto “condizionato”, quale contratto perfetto i cui effetti nel caso di pendenza della condizione sospensiva sono inibiti e in quello della condizione risolutiva (potenzialmente) provvisori, potendo nel primo caso iniziare e nel secondo cessare al prodursi dell’evento futuro ed incerto divisato dalle parti;
- l’evento dedotto in condizione deve essere futuro, e dunque deve essere tale da non aver avuto ancora luogo quando le parti perfezionano il contratto;
- esso deve essere incerto, giacché se fosse un evento certo si configurerebbe non già una condizione, quanto piuttosto un termine a decorrere dal quale il contratto (o più in genere il negozio) produce effetti o cessa di produrli; in sostanza, se è incerto l’an dell’evento si è in presenza di una condizione, mentre se l’an è certo ed è certo o incerto il quando dell’evento stesso, si configura piuttosto un termine;
- l’evento futuro ed incerto deve poi essere possibile, tanto dal punto di vista naturalistico quanto da quello giuridico, gli impegni negoziali assunti dalle parti dovendo atteggiarsi a ragionevolmente seri, e non già rimessi in termini effettuali ad un fatto che non può verificarsi naturalisticamente o che sia giuridicamente inconcepibile (ad esempio la vendita di un bene demaniale);
- l’evento futuro, incerto e possibile deve poi essere lecito, in modo omogeneo a quanto l’art.1343 c.c. prevede per la causa del contratto, e dunque deve essere un evento non contrario a norme imperative, né all’ordine pubblico, né al buon costume; il fatto dedotto in condizione può peraltro essere pienamente lecito e tuttavia – incidendo in modo indebito sulla libertà personale di una delle parti, con particolare riguardo alle relative convinzioni individuali (ad esempio, religiose o politiche) – capace di rendere illecita la condizione; in tema di condizione illecita occorre distinguere: g.1) gli atti mortis causa, laddove – in forza del c.d. favor testamenti e della necessità, per quanto possibile, di dar seguito alla volontà del defunto – la condizione illecita si considera come non apposta, senza viziare l’intero negozio successorio, salvo che essa abbia rappresentato l’unico motivo che ha determinato il testatore a disporre (art.634 c.c.); g.2) gli atti inter vivos, laddove la condizione illecita vitiatur et vitiat, travolgendo dunque di norma l’intero negozio giuridico (art.1354 c.c.), salva la sola ipotesi in cui essa sia stata apposta non già all’intero contratto quanto, piuttosto, solo ad una clausola del medesimo, circostanza al cospetto della quale, per esplicito richiamo dell’art.1354 c.c., opera la disciplina della nullità parziale, onde la nullità di una singola clausola non reca seco la nullità dell’intero contratto laddove la parte colpita da nullità non sia essenziale, affiorando che le parti avrebbe concluso il contratto in parola anche senza quella clausola.
Sul piano strutturale, cosa distingue la condizione casuale da quella (anche solo “meramente”) potestativa e da quella “mista”?
- il perno della distinzione ruota attorno alla tipologia di evento dedotto in condizione dalle parti del negozio;
- la condizione è casuale quando l’evento dedotto in condizione non dipende dalla volontà di nessuna delle parti, rimanendone estraneo ed atteggiandosi per l’appunto a “casuale”, ovvero dipendente dal caso;
- la condizione è potestativa quando l’evento dedotto in condizione, lungi dall’essere affidato al caso, dipende dalla volontà di almeno una delle parti del negozio stesso, palesandosi collegata ad un relativo interesse giuridicamente rilevante; un caso peculiare di condizione potestativa è quello della condizione sospensiva “meramente” potestativa, che fa dipendere dunque gli effetti del pertinente negozio dalla “mera” volontà di una delle parti, e dunque dal relativo “mero arbitrio”, senza che la parte titolare della potestà sopporti alcun sacrificio apprezzabile in conseguenza della realizzazione o della mancata realizzazione dell’evento dedotto in condizione, e senza dunque che ne venga coinvolto in modo apprezzabile un qualche relativo interesse; nelle fattispecie di condizione meramente potestativa, interviene la nullità del pertinente patto ex art.1355 c.c., tanto laddove esso abbia un’efficacia reale (alienazione di un diritto) quanto che si atteggi ad effetti obbligatori (assunzione di un obbligo), dacché in entrambi i casi si è al cospetto di una prestazione (traslativa o non traslativa) che dipende dalla mera volontà dell’obbligato (nel primo caso, detto “alienante”), con atto di disposizione non caratterizzato da serietà, e dunque non giuridicamente vincolante; si tratta di una di quelle fattispecie nelle quali si superano i confini del “giuridico” per la non riconoscibilità di un sotteso interesse, per l’appunto, giuridicamente rilevante di una delle parti da perseguire e soddisfare (secondo una fenomenologia che affiora anche in tema di contratti c.d. “atipici” ex art.1322 c.c. e di obbligazioni “naturali” ex art.2034 c.c.); l’art.1355 c.c. configura peraltro come “meramente potestativa” la sola condizione sospensiva, per quanto concerne quella risolutiva fronteggiandosi 2 tesi: c.1) tesi maggioritaria: poiché l’art.1355 c.c. parla solo di condizione sospensiva nulla, la condizione risolutiva meramente potestativa deve assumersi all’opposto pienamente valida e non già nulla; c.2) tesi minoritaria: anche la condizione risolutiva meramente potestativa è nulla, in forza dell’art.1372 c.c. alla cui stregua il contratto ha forza di legge tra le parti, onde – non essendosi al cospetto di un recesso – a diversamente opinare si assisterebbe ad una causa unilaterale di scioglimento del contatto atipica, diversa da quelle previste dalla legge (e dunque “tipiche”);
- la condizione è mista quando a determinare l’evento dedotto in condizione concorrono tanto il caso quanto la volontà di almeno una delle parti;
Sul piano funzionale, cosa distingue la condizione unilaterale da quella bilaterale?
- si definisce unilaterale la condizione (evento futuro, incerto, possibile e lecito) apposta al negozio nell’interesse di una sola delle parti; si tratta di una tipologia di condizione che può essere fatta oggetto di rinuncia, durante la relativa pendenza, da parte del contraente nel cui esclusivo interesse essa è stata convenzionalmente apposta al negozio (e che pretende che i relativi effetti restino “condizionati”), onde il negozio sospensivamente condizionato diviene subito efficace e quello risolutivamente condizionato perde la possibilità di divenire inefficace; è dibattuto se tale rinuncia possa intervenire da parte del soggetto interessato (che vi è legittimato) anche nella fase successiva alla pendenza, quando la condizione sospensiva non è più realizzabile (e dunque il negozio non potrà più avere effetti) o quando la condizione risolutiva si è già realizzata (il negozio, del pari, non può ormai più avere effetti), giacché in entrambe queste ipotesi detta rinuncia alla “condizione” significa rendere efficace (in qualche modo, far “risorgere” sul piano degli effetti) un negozio ormai definitivamente inefficace, possibilità che viene spiegata, sul crinale sistematico, attraverso 2 distinte opzioni ricostruttive: a.1) quando il contratto presenta una condizione unilaterale, esso è sempre collegato ad una opzione per la conclusione del medesimo contratto in forma pura, e dunque non condizionata, onde anche nel momento in cui tale contratto è ormai definitivamente inefficace, il soggetto nell’interesse del quale è stata apposta la condizione unilaterale, col rinunciare a quest’ultima, contestualmente esercita l’opzione orientata a concludere il medesimo contratto in forma pura, che prende a spiegare effetti proprio mentre il contratto originario (condizionato) non può più spiegarne; a.2) quando il contratto presenta una condizione unilaterale, si è al cospetto di una condizione complessa di tipo misto, casuale e potestativa, dacché l’efficacia del negozio è contemporaneamente condizionata tanto dal caso quanto dalla volontà del soggetto “interessato” onde, allorché non si realizza la condizione sospensiva o si realizza la condizione risolutiva, non è detto che il negozio non produca più effetti, potendo intervenire la volontà del soggetto interessato che, azionando la componente “potestativa” della ridetta condizione complessa attraverso la propria volontà, può attribuire efficacia al contratto (o all’opposto, non azionandola, escluderne la produzione di qualsivoglia effetto); secondo questa ricostruzione, più in specie, quando la condizione unilaterale “complessa” è sospensiva, la relativa componente potestativa avrebbe connotazione alternativa rispetto a quella casuale (operando la volontà del soggetto “interessato” in alternativa rispetto al caso, assicurando al negozio quegli effetti che il caso gli ha negato), mentre quando essa è risolutiva, la relativa componente potestativa sarebbe cumulativa rispetto a quella casuale (operando la volontà del soggetto “in aggiunta” rispetto al caso e paralizzandone l’operatività, così rendendo efficace un negozio che sarebbe ormai inefficace);
- si definisce bilaterale la condizione (evento futuro, incerto, possibile e lecito) apposta al negozio nell’interesse di entrambe le parti; nel silenzio delle parti, secondo la giurisprudenza la condizione si presume bilaterale.
Sul piano sistematico, cosa distingue la condizione volontaria da quella legale?
- la condizione volontaria è quella prevista dall’art.1353 c.c., laddove l’efficacia del negozio viene condizionata ad un evento futuro ed incerto dalla volontà, per l’appunto, di una o di entrambe le parti;
- la condizione legale, o condicio iuris, è quella che subordina direttamente, e dunque ex lege, gli effetti del negozio all’avverarsi di un evento futuro ed incerto, senza dunque la mediazione della volontà delle parti, come avviene – esemplificativamente (e limitandosi a talune figure presenti nel codice civile) – nelle fattispecie del testamento, i cui effetti sono subordinati alla morte del testatore disponente (art.587 c.c.); del contratto concluso dal falsus procurator, i cui effetti sono subordinati alla ratifica dell’interessato (art.1399 c.c.); del contratto per persona da nominare, laddove gli effetti nei confronti del nominato sono subordinati alla dichiarazione di nomina (art.1404 c.c.).
Cosa si intende per condizione di adempimento?
- il fatto storico dell’adempimento o dell’inadempimento di una delle parti potrebbe a rigore essere dedotto quale evento di una condizione cui subordinare gli effetti del negozio intercorso tra le parti stesse;
- si parla in simili fattispecie di “condizione di adempimento”; più in specie, si ha: b.1) condizione sospensiva di adempimento, onde il contratto o comunque il negozio non è efficace fino a che una delle parti non adempia; b.2) condizione risolutiva di inadempimento, onde il contratto o comunque il negozio, produttivo di effetti, cessa di essere efficace in presenza di inadempimento di una parte;
- in sostanza, la prestazione dedotta in contratto – in termini di pertinente esecuzione – diviene l’evento di una condizione alla quale sono subordinati gli effetti del negozio divisato dalle parti;
- si tratta di una condizione unilaterale, in quanto risponde all’interesse di una delle parti, ovvero quella che scegliendo di non adempiere sottrae efficacia ex ante (condizione sospensiva) o ex post (condizione risolutiva) al divisato negozio;
- si tratta inoltre di una condizione potestativa, dacché l’efficacia del negozio viene rimessa alla parte del cui adempimento/inadempimento si tratta, che può in sostanza recedere dal contratto giusta ponderata valutazione di propri interessi meritevoli di tutela, circostanza che sottrae la potestatività della condizione alle maglie di nullità dell’art.1355 c.c., configurandosi essa appunto come condizione potestativa, e non già meramente potestativa;
- sul crinale dell’ammissibilità si contendono il campo: f.1) una tesi contraria, tradizionale ma ormai recessiva, onde l’adempimento di una prestazione dedotta in contratto costituisce un elemento essenziale, e non già accidentale, del contratto stesso; peraltro la prestazione divisata è ragionevolmente “certa”, e non già incerta ex art.1353 c.c., configurandosi come comportamento dovuto, come tale ottenibile in via coattiva; accedendo inoltre alla tesi dell’ammissibilità si ammetterebbe, ad un tempo, la configurabilità di una clausola di esclusione della responsabilità del debitore nulla ex art.1229 c.c., stante la natura retroattiva della condizione, il venire meno degli effetti del contratto ex tunc e, in ultima analisi, la impossibilità per il creditore che subisce l’inadempimento di invocare la tutela risarcitoria (il contratto è come se non ci fosse mai stato); f.2) una tesi favorevole, più recente ed ormai prevalente, che sostiene come la clausola sia essenziale – e non accidentale – solo laddove non venga superata, eliminandola, la c.d. prova di resistenza (senza quella clausola il contratto non sarebbe stato concluso), circostanza che nella fattispecie (massime laddove si sia al cospetto di contratti con prestazioni plurime reciproche) in realtà normalmente trova luogo; né potrebbe parlarsi di evento davvero “certo”, essendo noto come la spontanea e tempestiva esecuzione di una prestazione si atteggi, all’opposto, ad evento “incerto”, alimentando l’eventuale interesse della controparte a tutelarsi configurando l’adempimento o l’inadempimento quale evento che condiziona le sorti del divisato contratto; infine, anche a voler ammettere la retroattività del meccanismo condizionale, il fatto storico dell’inadempimento resta, non supera la fictio iuris e dà titolo al risarcimento del danno da parte di chi lo subisce, non configurandosi dunque veruna limitazione di responsabilità capace di friggere con l’art.1229 c.c..
Cosa occorre rammentare della fase di c.d. “pendenza” della condizione?
- la relativa caratteristica qualificante è l’incertezza, dacché non si sa ancora se l’evento dedotto in condizione “pendente” si verificherà o meno; solo all’esito di tale verifica l’assetto degli interessi delle parti sottesi al negozio da essi posto in essere potrà dirsi infatti definitivo;
- ciò reca seco la necessità di preservare le ragioni di ciascuna delle parti, dovendosi distinguere: b.1) il soggetto che potrebbe diventare titolare di un diritto laddove si verifichi l’evento dedotto in condizione, e che è attualmente titolare di una aspettativa che si incastona in una fattispecie a formazione progressiva la quale potrebbe appunto sfociare nell’acquisto del pertinente diritto; si tratta dell’acquirente sotto condizione sospensiva o dell’alienante sotto condizione risolutiva, che come tale può ai sensi dell’art.1356 c.c. esercitare atti conservativi di natura cautelare al fine di preservare il proprio interesse a conseguire materialmente o giuridicamente il diritto oggetto di possibile acquisto; tali atti conservativi sono normalmente identificati nell’azione surrogatoria ex art.2900 c.c., nell’azione revocatoria ex art.2901 c.c., nel sequestro conservativo ex art.2905 c.c. e nell’apposizione di sigilli ex art.84 della c.d. legge fallimentare; b.2) il soggetto che potrebbe perdere un diritto laddove si verifichi l’evento dedotto in condizione, ne è tuttavia ancora titolare e può come tale disporne sia sul piano materiale che giuridico, tenendo tuttavia presente, ex art.1357 c.c., che i pertinenti atti dispositivi vivono una sorte “condizionata” al verificarsi, o al non verificarsi, di un dato evento futuro ed incerto; in questo caso infatti gli effetti di ogni atto posto in essere dal titolare “incerto” del diritto sono anch’essi “condizionati”; dovendosi assumere per titolare “incerto”, secondo la dottrina più illuminata, tanto chi ha il diritto e potrebbe perderlo quanto chi non ha un diritto e vive una situazione di aspettativa, in entrambi i casi gli acquisti degli eventuali terzi aventi causa potendo dirsi definitivi solo al momento della definitività dell’acquisto (o del mantenimento) del diritto stesso in capo al relativo dante causa; altro obbligo che grava su chi è titolare di un diritto “incerto” perché “condizionato”, potendone dunque in futuro perderne la titolarità a vantaggio della controparte, è quello di comportarsi secondo buona fede ex art.1358 c.c., sì da non pregiudicare le ragioni della controparte medesima, potenziale successore nella titolarità del diritto in parola; l’eventuale inadempimento legittima quest’ultimo, ancora in fase di “aspettativa”, sia a compiere gli eventuali atti conservativi sia, nei casi più estremi, ad avvalersi della c.d. finzione di avveramento della condizione ex art.1359 c.c., ottenendo per il contratto o comunque per il negozio quei medesimi, divisati effetti che avrebbero trovato luogo laddove la condizione – non avveratasi per contegno scorretto della controparte – si fosse realmente avverata, quando non voglia piuttosto, secondo la giurisprudenza, attivare gli ordinari rimedi contrattuali demolitori, chiedendo la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno;
- discussa è l’applicabilità del combinato disposto degli articoli 1358 e 1359 c.c. in tema di obbligo di buona fede in fase di pendenza e di finzione di avveramento della condizione quando quest’ultima si atteggi a potestativa o a mista, fronteggiandosi in proposito 2 tesi: c.1) la prima, abbracciata dalle SSUU nel 2005, onde anche quando l’avveramento dell’evento dedotto in condizione dipende – in tutto o in parte – dalla volontà di uno dei contraenti, resta per quest’ultimo l’obbligo di comportarsi secondo buona fede, trattandosi di un canone che costituisce ad un tempo criterio di valutazione e limite del comportamento discrezionale proprio di tale contraente, che non può sconfinare nell’arbitrio pena la trasformazione di una condizione potestativa in condizione meramente potestativa nulla. Anzi, precisa la Corte, quello di buona fede si atteggia ad obbligo sommamente pregnante proprio al cospetto di una condizione potestativa (o mista), laddove uno dei contraenti detiene il potere (almeno in parte) di determinare il verificarsi della condizione; c.2) la seconda, opposta, onde non è configurabile l’obbligo di buona fede ex art.1358 c.c. in presenza di una condizione potestativa o mista, né tampoco la connessa sanzione di cui all’art.1359 c.c. compendiantesi nella finzione di avveramento della condizione stessa, proprio per essere tale tipologia di condizione strutturata in modo da rimettere alla volontà di una delle parti la scelta volontaristica se far realizzare o meno l’evento condizionante, con dirette ricadute sugli effetti del divisato negozio e con risoluzione ex ante e una volta per tutte dell’eventuale conflitto tra le parti, dacché sarebbe lo stesso regolamento contrattuale a prevedere, per una delle parti appunto, la scelta volontaristica di sottrarre effetti al divisato negozio, senza che ciò possa ridondare in violazione della regola della buona fede.
Cosa occorre rammentare della fase di avveramento della condizione?
- la situazione di incertezza tipica della condizione viene meno quando si realizza l’evento che la connota, fenomeno che tecnicamente si designa come avveramento della condizione stessa, laddove peraltro sussista piena corrispondenza tra l’evento dedotto in condizione dalle parti e quello poi effettivamente realizzatosi;
- con l’avveramento della condizione, l’incertezza diviene certezza ed il negozio acquista definitivamente i propri effetti (condizione sospensiva) o definitivamente essi cessano (condizione risolutiva);
- una situazione particolare si configura quando la condizione è “negativa”, facendo dunque perno su un “non evento”; in questa peculiare fattispecie si ha avveramento: c.1) se l’evento non si realizza; c.2) se l’evento è ragionevolmente certo che non si realizzerà (e dunque anche allorché residuino minime chances di realizzazione);
- una volta realizzato l’evento ed avveratasi la condizione, l’evento stesso può venire meno ex post, fattispecie al cospetto della quale occorre distinguere: d.1) si tratta di evento materiale: normalmente il relativo venire meno ex post è irrilevante, a meno che le parti non abbiano esplicitamente attribuito significatività alla relativa permanenza di effetti; d.2) si tratta di evento giuridico: qui, all’opposto, normalmente il venire meno ex post rileva ed incide sull’avveramento della condizione, che deve dunque assumersi non avverata;
- la condizione si assume “mancante” allorché – sulla scorta di una valutazione operata in base alle concezioni e alle conoscenze proprie di un determinato contesto cronologico e sociale – è ormai esclusa la possibilità che l’evento si realizzi, non potendo dunque essa più avverarsi; ciò sempre che la “mancanza” prescinda da comportamenti scorretti della parte disinteressata all’avveramento, scattando altrimenti l’art.1359 c.c. e la finzione di avveramento ivi prevista;
- poiché l’avveramento della condizione coincide con la cessazione dell’incertezza, e poiché tale incertezza potrebbe perpetuarsi per un periodo indefinito di tempo, sovente le parti del negozio prevedono un termine per la realizzazione dell’evento “condizionante”, decorso il quale l’evento stesso si considera non realizzato e, dunque, la condizione “mancante”; laddove tale termine non sia esplicitato, si fronteggiano 2 tesi giustapposte: f.1) ciascuna delle parti, ex art.1183 c.c., può chiedere al giudice la fissazione del termine (c.d. actio interrogatoria), ricorso che tuttavia non sarebbe orientato ad ottenere dal giudice un vero e proprio termine, quanto piuttosto l’accertamento se la condizione possa ancora assumersi pendente o debba ormai ritenersi definitivamente non avverabile; f.2) le parti non possono adire il giudice ex art.1183 c.c., tale norma essendo prevista solo per la fissazione di un termine di adempimento (svincolato dunque da qualsivoglia evento condizionante), onde la situazione di incertezza può dipanarsi solo facendo riferimento ad un termine ritraibile dalla natura dell’affare o dagli usi;
- un caso peculiare di “avveramento” della condizione è quello di cui all’art.1359 c.c., laddove nessun evento in realtà si realizza materialmente, ma per fictio iuris lo si considera realizzato al fine di sanzionare il comportamento scorretto di quella tra le parti che non ha interesse all’avveramento ridetto; sempre che tuttavia quest’ultima abbia fatto luogo ad un comportamento positivo di ostacolo all’avveramento naturale, un contegno negativo e meramente inerte rilevando solo laddove (secondo la tesi più accreditata) siano previsti precisi obblighi di attivazione che siano stati, giusta inerzia, disattesi; mentre ormai secondo la giurisprudenza successiva alle SSUU del 2005 e per la gran parte della dottrina la finzione di avveramento ex art.1359 c.c. opera anche in presenza di una condizione potestativa o mista, dubbi sussistono per la condicio iuris o condizione legale, fronteggiandosi ancora una volta 2 tesi: g.1) si tratta di una condizione prevista dalla legge in via immediata e diretta, atteggiandosi ad elemento essenziale (e non già accidentale) del negozio, con conseguente inapplicabilità della c.d. finzione di avveramento; resta sempre la possibilità per la parte interessata all’avveramento (e vulnerata dal mancato avveramento) di invocare la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno (tesi maggioritaria); g.2) si è comunque al cospetto di una condizione, seppure “legale”, onde il comportamento scorretto della parte disinteressata all’avveramento produce la fictio di cui all’art.1359 c.c. (tesi minoritaria);
- per comprendere bene come opera il meccanismo di cui agli articoli 1358 e 1359 c.c. occorre muovere dalla circostanza onde una o entrambe le parti di un dato negozio, al momento in cui lo pongono in essere, non intendono assumersi un determinato elemento di rischio riconnesso ad un fatto futuro ed incerto; il comportamento scorretto di una delle parti, e segnatamente di quella che ha interesse contrario all’avveramento della condizione, finisce con l’alterare la “distribuzione” di tale fattore di rischio, che a propria volta incide sul sinallagma contrattuale; in sostanza, colui che ha interesse contrario all’avveramento di una condizione si identifica in colui che resterebbe liberato dal proprio obbligo in caso di mancato avveramento, e che contribuisce a tale mancato avveramento, che è dunque a lui imputabile;
- con riguardo alle condizioni di applicabilità dell’art.1359 c.c., significativo come si atteggia il riparto dell’onere della prova, dovendosi muovere dalla premessa onde un contratto sottoposto a condizione sospensiva (come nel classico caso della PA che si sia obbligata a pagare un compenso per l’opera professionale spiegata da un privato sotto condizione di ottenimento di un finanziamento dell’opera progettata dal professionista da parte di terzi) si perfeziona immediatamente, ma è inefficace fino all’avveramento della condizione; lo stesso contratto cessa di esistere laddove la condizione non si avveri; durante il periodo di pendenza del contratto ridetto (perfetto ma inefficace) le parti si trovano in una condizione di aspettativa che spiega effetti preliminari, dovendo ciascuna di esse – laddove il contratto sia a prestazioni corrispettive – puntualmente ed esattamente adempiere alle obbligazioni rispettivamente assunte, con particolare riferimento a quelle strumentali rispetto al verificarsi della condizione e nascenti dall’applicazione dei canoni di correttezza e buona fede di cui all’art.1358 c.c. la cui violazione può dare la stura a risoluzione per inadempimento della specifica obbligazione di ciascun contraente di comportarsi, in pendenza per l’appunto della condizione, secondo buona fede; in quest’ultimo caso si è al cospetto di una responsabilità contrattuale disciplinata dai relativi principi, ed in particolare quello affermato dalle SSUU nel 2001 onde il creditore (nell’esempio fatto, il professionista) che agisca, in sede demolitoria, per la risoluzione di un contratto e il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento, deve solo provare la fonte del proprio diritto limitandosi al contempo a meramente allegare l’inadempimento della controparte, dovendo piuttosto quest’ultima, in veste di debitore (nell’esempio fatto, la PA committente), provare l’adempimento della propria obbligazione e dunque, nel caso di specie, di quella ex art.1358 c.c., dovendo dunque dimostrare di essersi comportata secondo buona fede;
- una volta avverata la condizione, gli effetti del contratto o comunque del negozio retroagiscono, ex art.1360 c.c., al momento in cui esso è stato concluso, salvo che per esplicita volontà delle parti ovvero per la natura del rapporto, gli effetti del contratto stesso (condizione sospensiva) o della relativa risoluzione (condizione risolutiva) debbano essere ricollocati ad un momento diverso da quello della stipula; in presenza di una condizione sospensiva dunque l’avveramento implica per il contratto il prodursi dei relativi effetti sin da quando esso è stato stipulato, mentre in presenza di una condizione risolutiva il contratto in parola si considera come inefficace, del pari, fin dal giorno della relativa stipula; anche gli acquisti dei terzi in pendenza della condizione “dipendono” dal relativo avveramento, seguendone le sorti in senso positivo o negativo; quando tuttavia la condizione è risolutiva e il contratto è ad esecuzione continuata o periodica, gli effetti (risolutivi, per l’appunto) del relativo avveramento non sono retroattivi con riguardo alle prestazioni eventualmente già eseguite dalle parti (art.1360, comma 2, c.c.); del pari, la retroattività non travolge, ex art.1361 c.c., gli atti di amministrazione posti in essere dalla parte cui spettava il pertinente diritto durante la fase di pendenza.
Che cosa è e come si atteggia il c.d. “termine”?
- si tratta di un altro dei 3 c.d. elementi accidentali o accessori “classici” del contratto, che incide anch’esso – come la condizione – sul momento effettuale di un negozio;
- le parti fissano un termine per stabilire da quando il contratto o comunque il negozio – già perfetto – inizierà a produrre i propri effetti (termine iniziale) o fino a quando li produrrà, per poi smettere di produrli (termine finale);
- il termine corrisponde ad un evento futuro che certamente si verificherà, ed in questo differisce dalla condizione; non esiste dunque un “se”, un “an”, perché l’evento dal quale gli effetti del negozio decorreranno o cesseranno di prodursi certamente si verificherà; potrebbe, nondimeno, rimanere incerto il “quando” della realizzazione dell’evento in parola; si parla allora: c.1) di c.d. termine determinato (dies certus an et quando); di c.d. termine indeterminato (dies certus an et incertus quando); di c.d. condizione determinata (dies incertus an et certus quando); di c.d. condizione indeterminata (dies incertus an et incertus quando); mentre dunque al termine può corrispondere una semi-incertezza relativa al “quando”, alla condizione corrisponde sempre una incertezza assoluta che investe l’”an”;
- predicato indefettibile del termine è il relativo essere futuro rispetto alla stipula del negozio al quale accede; non è ammesso dunque un termine collocato nel passato, che implicherebbe una retroazione degli effetti del negozio principale;
- il termine futuro deve poi essere possibile, tanto dal punto di vista materiale (il 30 febbraio sarebbe un termine impossibile) quanto da quello giuridico, circostanza quest’ultima che si verifica quando viene fissato per un contratto un termine che, rispetto ad esso, si palesa come giuridicamente irrealizzabile;
- la certezza nel “quando” del termine reca seco la determinatezza o comunque la determinabilità del termine stesso, quale evento futuro e possibile: il momento in cui il contratto prende effetti o li perde – in presenza di un termine – si individua in via diretta (termine determinato) o anche indiretta (termine indeterminato), allorché le parti facciano riferimento ad un evento che è comunque certo che si verificherà;
- il termine futuro, possibile, determinato o determinabile deve poi essere lecito: in proposito, mentre è concepibile un termine illecito per violazione di norme imperative – tanto nel caso in cui queste vietino la fissazione di un termine, quanto nell’ipotesi in cui ne prevedano uno diverso rispetto a quello divisato dalle parti – appare di assai più complessa configurabilità un termine illecito perché contrario all’ordine pubblico o al buon costume;
- con riguardo al regime giuridico, il codice civile non detta una disciplina espressa, non dovendosi confondere il termine di efficacia del negozio con il termine di adempimento, previsto dall’art.1183 e seguenti c.c. (da questo punto di vista, il codice del 1865 parlava invece di obbligazioni “condizionali” e di obbligazioni “a tempo determinato”, riconducendo anche la condizione alle obbligazioni, e non già ai negozi-fonte); la dottrina ritiene applicabili in via estensiva, e nei limiti della compatibilità, le norme dettate per la condizione, come nel caso dell’eventuale termine impossibile o illecito che, ex art.1354 c.c., laddove si configuri quale vizio di un termine iniziale rende nullo il negozio, mentre laddove si configuri come vizio del termine finale lascia valido il contratto, considerandosi il termine finale impossibile o illecito come non apposto; del pari, in pendenza del termine si assumono applicabili le norme che disciplinano la pendenza della condizione (specie gli articoli 1356-1358 c.c.), con la specificazione onde un diritto che trovi fonte in un contratto sottoposto a termine iniziale non può essere esercitato, e tuttavia qualora il debitore esegua in ogni caso la prestazione, essa – palesandosi in ogni caso come dovuta, seppure “de futuro” – secondo la tesi più accreditata non può essere ripetuta, salvo il diritto del debitore adempiente anzitempo di ripetere dal creditore il vantaggio che questi ha ritratto dalla anticipata esecuzione della prestazione in parola.
Che cosa è e come si atteggia il c.d. “onere” o “modus”?
- si tratta di un terzo elemento accidentale o accessorio di un negozio, ed in particolare di un negozio a titolo gratuito;
- il soggetto che beneficia della prestazione gratuita può essere, ad un tempo, gravato da un peso od onere, compendiantesi nella sostanza nell’obbligo di eseguire una prestazione nei confronti del soggetto dal quale egli riceve la prestazione a titolo gratuito (ad esempio, del donante), ovvero nei confronti di terzi indicati da esso;
- il modus o onere si assume incompatibile con i negozi a titolo oneroso, stante come l’eventuale obbligo previsto nel contesto di una simile tipologia di negozio entrerebbe inevitabilmente a far parte del sinallagma ad esso sotteso, atteggiandosi in sostanza a controprestazione di una parte rispetto all’altra; solo in presenza di un atto gratuito, chi se ne arricchisce, al di fuori da qualunque corrispettività onerosa, può essere gravato dal “peso” di utilizzare in tutto o in parte ciò che ha ricevuto per “praestare” (dare, facere o non facere) nei confronti del disponente a proprio favore, ovvero di un terzo da quegli indicato; non si tratta dunque mai di una controprestazione rispetto ad una prestazione ricevuta quanto piuttosto di un “peso”, per l’appunto, che riduce la consistenza economica di tale prestazione ricevuta (a titolo gratuito), dovendo il “praestare” divisato essere per l’appunto suscettibile di valutazione economica, atteggiandosi a pretesa giuridicamente azionabile della quale si può dunque pretendere l’adempimento (financo, ex art.648, comma 1, c.c., da parte di “qualunque interessato”, che all’uopo può agire in giudizio);
- non esiste una disciplina generale del modus o onere nel contesto delle norme sui contratti in generale, mentre se ne trova una disciplina specifica con riguardo al testamento (articoli 647 e 648 c.c.) e della donazione (articoli 793 e 794 c.c.);
- è discussa la natura giuridica del modus o onere: e.1) si tratta di un elemento accidentale del negozio, al pari della condizione o del termine, quand’anche riguardi solo negozi gratuiti e non incida direttamente ed immediatamente sui relativi effetti (come invece tipicamente fanno tanto la condizione quanto il termine), ponendo solo l’obbligo di una prestazione a carico del soggetto beneficiario della gratuità; e.2) proprio il fatto che esso non incide in via immediata e diretta sugli effetti del negozio cui “accede” fa dire a parte della dottrina che si è in realtà al cospetto di un negozio autonomo, strutturalmente e funzionalmente collegato al negozio (gratuito) principale, che implica la nascita di obbligazioni di tipo aggiuntivo rispetto al negozio base, poste a carico del beneficiario di quest’ultimo, peraltro necessariamente gratuito;
- il praestare oggetto del modus od onere deve essere possibile e lecito, come si ricava ad esempio dall’art.794 c.c. in tema di donazione; ma deve anche essere futuro (essendo la prestazione dovuta prevista dal disponente a carico del beneficiario, per l’appunto, “de futuro”), oltre che determinato o determinabile, non essendo dovuto nulla che non abbia, quanto meno indirettamente, una certa riconoscibile consistenza;
- l’eventuale inadempimento del modus od onere da parte del beneficiario del negozio gratuito non reca seco in via automatica l’inefficacia del negozio principale; ciò avviene solo alla duplice condizione: g.1) che le parti abbiano espressamente previsto, in sede di stipula del negozio gratuito principale, la perdita di effetti per quest’ultimo in caso di inadempimento del modus imputabile al beneficiario; g.2) che intervenga una pronuncia giudiziale di natura costitutiva, che dichiari la risoluzione del negozio gratuito principale per inadempimento dell’onere o modus da parte del relativo beneficiario, siccome espressamente previsto dalle parti nel contesto del negozio gratuito principale.