Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 28 ottobre 2024, n. 39950
PRINCIPIO DI DIRITTO
Il reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.) deve ritenersi configurabile anche quando l’agente sia titolare o con-titolare del domicilio, dà dove carpisca immagini o registri conversazioni della vita privata di chi nel domicilio si trovi, senza il consenso di tale persona.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
- Invertendo l’ordine dei motivi, si muove dall’analisi di quelli (il primo e il terzo) afferenti alla dedotta responsabilità dell’indagato per il delitto di maltrattamenti in famiglia, anteponendo due brevi premesse.
1.1. Innanzitutto, va precisato che il giudizio sull’integrazione di tale fattispecie è debitore, più ancora che in altre materie, di un apprezzamento delicato e in certa misura discrezionale da parte dei giudici di merito.
Questi, infatti, sono non di rado chiamati a valutare elementi della complessiva vicenda di vita dei protagonisti, che talvolta esulano dalle specifiche condotte contestate, per investire dinamiche interne alla coppia, se non addirittura caratteristiche personologiche: sempre che, beninteso, tali elementi illuminino la natura del rapporto e si mostrino quindi capaci di gettare luce sull’eventuale rilevanza, altrimenti indecifrabile, di comportamenti che, di per sé presi, possono, in ipotesi, essere penalmente neutri o comunque insuscettibili di integrare un tipo criminoso (quello dell’art. 572 cod. pen.) che richiede – per pacifica interpretazione – la produzione, nella persona offesa, di uno stato di vessazione.
1.2. Sotto altro profilo, si ricorda che gli standard probatori richiesti nel caso di ribaltamento delle pronunce rese in un precedente grado del giudizio divergono a seconda che si tratti di condanna o di assoluzione, e che, nel secondo caso, devono essere, se possibile, ancora più elevati che nel primo: vieppiù quando si tratti di c.d. “doppia conforme” assolutoria, perché in tal caso si esige un rigore affatto particolare nell’analitica confutazione di ogni elemento, di fatto e di diritto, su cui si è basata la decisione.
1.3. Ebbene, tale standard argomentativo non è raggiunto dal ricorso della Procura Generale che, al contrario, opera una indebita parcellizzazione dell’apparato motivazionale – come si dirà, completo ed esente da vizi logici -della sentenza impugnata. Ciò il ricorrente anche attraverso la citazione di una serie di massime di legittimità che, avulse dal contesto fattuale di riferimento, patiscono una “perdita di senso” e che appaiono solo in parte riferibili alla chiaroscurale vicenda oggetto del presente giudizio.
Così, è vero che, secondo l’insegnamento di questa Corte, la reciprocità delle offese non esclude la configurabilità del delitto di maltrattamenti (di recente, Sez. 1, n. 19769 del 10/04/2024, Rv. 286399; Sez. 6, n. 37978 del 03/07/2023, B., Rv. 285273).
Tuttavia, anche a non voler considerare che, come evidenziato nella sua requisitoria dal Procuratore Generale di questa Corte, la reciprocità non rappresenta un argomento dirimente nell’economia motivazionale della sentenza, va del pari rilevato che tale reciprocità ben può rappresentare un segnale della mancata produzione di quello stato di prostrazione psicologica della vittima (quando non, in ipotesi, di un pur inconsapevole suo mendacio): stato di prostrazione che, come ricordato, rappresenta elemento costitutivo, sebbene implicito, della fattispecie di maltrattamenti.
Ancora, è indubbio che il reato può configurarsi anche se il periodo di convivenza è stato breve: ciò, però, a condizione che le condotte vessatorie siano state realizzate in maniera continuativa o con cadenza ravvicinata (Sez. 6, n. 21087 del 10/05/2022, C. , Rv. 283271, in un caso in cui i comportamenti prevaricatori furono attuati in circa un mese di convivenza, con cadenza quasi quotidiana).
Quel che, nel caso di specie, non risulta. Infine, e come già incidentalmente ricordato, è pacifico che le condotte maltrattanti non necessariamente debbano integrare gli estremi di fattispecie penalmente rilevanti.
Ma è parimenti scontato che, in mancanza di lesioni ovvero di danni “certificati” o di chiara evidenza, la produzione di un evento psicologico nella vittima resta affidata, sul piano probatorio, alle dichiarazioni di quest’ultima, le quali possono sì essere poste alla base, da sole, dell’accertamento di responsabilità, ma a condizione che siano state verificate secondo criteri di particolare rigore, soprattutto ove la persona offesa – come nel caso di specie – si sia costituita parte civile (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253213).
Su ciascuno degli aspetti poc’anzi evidenziati – e particolarmente sul profilo di credibilità della persona offesa – la sentenza impugnata rende una motivazione esaustiva, non manifestamente illogica e tantomeno contraddittoria.
1.4. Muovendo dall’attendibilità del narrato della parte civile, il Giudice di secondo grado dà atto delle contraddizioni in cui questa incorre, nonché della mancanza di riscontri: le aggressioni fisiche lamentate non furono certificate; nessuno, neppure tra i familiari, assistette ad atti di violenza o alle altre condotte maltrattanti riferite dalla donna; a conforto delle sue dichiarazioni residuavano solo quelle dei familiari di lei o di suoi amici – a rigore, di “una” amica – cui la persona offesa confidò alcuni episodi tra quelli addebitati all’imputato.
In particolare, si rappresenta che la teste C.C. (cui fa riferimento il ricorso) riferì più specificamente di quanto accaduto durante il viaggio di nozze e di successive occasioni in cui l’imputato avrebbe usato violenza verso la moglie, aggiungendo, tuttavia, che, in ogni caso, si trattava di testimonianza de relato, poiché tali fatti furono appresi solo grazie alle dichiarazioni della persona offesa (non corrisponde al vero, dunque, che la Corte si sia limitata a mera enunciazione, come dedotto nel ricorso).
Per contro, i Giudici dell’appello precisano che dall’istruttoria era emerso il forte risentimento della persona offesa verso il coniuge, a causa della scoperta di pregresse relazioni sentimentali coltivate dall’uomo mentre i due erano fidanzati, e valorizza la reciprocità delle offese, derivanti dal fatto che entrambi (lei magistrato, lui medico) volevano imporre scelte fondamentali concernenti la vita familiare, quali il luogo ove risiedere e l’ospedale in cui la donna avrebbe dovuto partorire.
Il che, incidentalmente, sembra deporre nel senso di quella mera “litigiosità di coppia” che – come spiegato ancora di recente da questa Corte – si realizza ove le parti della relazione si confrontino, anche veementemente, ma su un piano paritetico, di reciproca accettazione del diritto di ciascuno ad esprimere il proprio punto di vista, e che sempre il medesimo arresto giurisprudenziale contrappone appunto alla “reciprocità delle offese”, invece insuscettibile di escludere la rilevanza penale dei comportamenti (così, Sez. 6, n. 37978 del 03/07/2023, cit.).
Soprattutto, la sentenza impugnata insiste sulla (preesistente) condizione di fragilità psicologica della persona offesa, attestata dal tenore dei messaggi prodotti e versati in atti, dai quali emerge anche il tentativo dell’imputato di rassicurarla con complimenti ed incoraggiamenti, a fronte delle autocritiche che la donna si infliggeva e che peraltro si alternavano, a distanza di giorni o addirittura di pochi attimi, ad atteggiamenti invece aggressivi.
Evidenzia l’insolita dipendenza della persona offesa dal padre e dalla sorella, nonché la sua volontà di escludere l’imputato, oggetto di frequenti provocazioni, dallo stretto nucleo familiare di appartenenza. Valorizza la circostanza che, seppur in costanza di matrimonio, i due coniugi convissero complessivamente solo qualche mese, a settimane alterne.
Ritiene, in conclusione, argomentatamente credibile che la denuncia della donna fosse dipesa dalla volontà di punire il coniuge perché lo riteneva responsabile del fallimento del rapporto.
1.5. Sul versante dell’imputato, i Giudici dell’appello ritengono che dalla corrispondenza telefonica tra i due emergesse non tanto un atteggiamento vessatorio del A.A., quanto lo stato ansioso della persona offesa, ingenerato dalla recente perdita della madre, oltre alla necessità che la donna aveva di ricorrere farmaci per riposare la notte e sedare vere e proprie crisi di panico.
Aggiungono che, quando l’imputato, per tranquillizzare la sorella della persona offesa, inoltrò una foto di quest’ultima che dormiva nel letto con una flebo attaccata al braccio (il A.A. è medico anestesista), ove la sorella della persona offesa fosse stata davvero allarmata dall’immagine, come da lei sostenuto, si sarebbe recata immediatamente sul posto a controllare la situazione, e che invece appariva tranquilla e ringraziava l’imputato.
Riportano la deposizione dell’ex cognato della persona offesa che, pur avendo escluso un particolare affiatamento all’interno della coppia, aveva riferito della volontà dell’imputato – secondo il teste, una “brava persona” – di riavvicinarsi alla moglie quando seppe della sua gravidanza, e riferì della dipendenza psicologica delle due sorelle dal padre.
Ancora, richiamano le dichiarazioni di un’amica, Ispettrice di Polizia, della persona offesa, la quale parlò della gelosia di quest’ultima, escludendo, nel contempo, di aver ricevuto confidenze riguardo a condotte maltrattanti. Riferiscono, infine, quanto dichiarato da un amico dell’imputato, il quale aveva personalmente assistito, in un’occasione, alle provocazioni della persona offesa e del padre di lei nei confronti del A.A.
1.6. Già alla luce di quanto fin qui riportato, va escluso che il ricorso sia idoneo a lacerare il fitto tessuto motivazionale della sentenza assolutoria di appello, così da giustificarne il ribaltamento.
- Infondato è poi anche il terzo motivo, apparendo anche sul punto la motivazione della pronuncia impugnata esente dai vizi dedotti nel ricorso.
2.2. In particolare, il ricorrente esclude che il consenso della vittima alla somministrazione della flebo di sedativo (Midazolan), da parte del marito, possa essere smentito dagli screenshots prodotti dall’imputato e relativi ad una conversazione intercorsa tra questi e la persona offesa, perché successivi di due anni rispetto all’episodio in oggetto. Ma dalla lettura della sentenza emerge come i Giudici non abbiano affatto messo in relazione il contenuto del messaggio con un evento occorso poco prima. Essi intendevano piuttosto dimostrare la scarsa linearità (non la falsità) del complessivo narrato della vittima.
Scrivono, in particolare, che le contraddizioni in cui è incorsa la parte civile emergono anche dalla lettura dei messaggi nei quali la donna ringraziava il marito per essersi sempre preso cura di lei, facendo riferimento anche “ad un “forte attacco di cefalea”, presumibilmente riferibile proprio all’episodio del 1 novembre 2019″: dove, peraltro, è evidente come nell’indicazione dell’anno (2019, e non 2017) sia stato commesso un errore materiale (d’altronde, la pronuncia prosegue, indicando, immediatamente dopo, “SMS delle ore 20:08 del 7/02/2019”, la quale sarebbe data antecedente, il che è impossibile).
Del pari frutto di travisamento appare l’asserzione che la sentenza impugnata si sarebbe limita a riportare la testimonianza di C.C. nell’elencazione, dal momento che i Giudici dell’appello ne danno, invece, compiutamente conto, seppur precisando che si trattava di testimonianza de relato.
Ancora, dalla lettura della sentenza emerge che tale deposizione è stata ritenuta recessiva rispetto a quella di altri testi, tra cui le dichiarazioni della amica della vittima, Ispettrice di polizia, che nulla disse di quanto attribuito dalla persona offesa all’imputato, riferendo, in sostanza, di generiche paturnie amorose: testimonianza il cui apprezzamento è comunque questione in fatto, evidentemente sottratta al sindacato di questa Corte.
- In conclusione, i motivi primo e terzo devono essere rigettati.
- Il secondo motivo di ricorso è, invece, fondato e va, pertanto, accolto.
4.1. Si trascuri qui di considerare come, secondo il ricorrente, la sentenza sarebbe incorsa in contraddizione, non avendo considerato la possibilità, pure emergente da una testimonianza, ritenuta immotivatamente inattendibile, che l’imputato avesse messo sotto controllo il cellulare della persona offesa: dalla motivazione emerge, infatti, che il dispositivo telefonico del A.A. fu sottoposto a perizia e che, a seguito della stessa, fu riscontrata soltanto la registrazione della conversazione, intercorsa tra la persona offesa e suo padre, a cui si riferisce l’addebito.
4.2. Quanto invece alla questione della configurabilità del delitto di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.) anche là dove la captazione sia realizzata da un soggetto non estraneo al domicilio, va innanzitutto dato atto dell’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, seppur in parte ridimensionabile.
4.3. Secondo un recente precedente – che ravvisa nell’avverbio ” indebitamente” un requisito di illiceità speciale (non espressa) della fattispecie e valorizza la collocazione topografica di quest’ultima (a seguire dei delitti di violazione di domicilio) – l’art. 615-bis cod. pen. tutela la riservatezza domiciliare, e non la libertà morale.
La conseguenza che se ne trae è che l’art. 615-bis, cod. pen. sanzioni soltanto la condotta dì chi risulti estraneo agli atti – oggetto di captazione – di vita privata, ossia agli atti o vicende della persona in luogo riservato: e non la condotta di chi sia stato ammesso, sia pure estemporaneamente, a farne parte. Sulla base di tale principio, è stato escluso il delitto in capo a colui che, ammesso ad accedere nell’abitazione del coniuge separato, provveda a filmare, senza consenso, gli incontri tra quest’ultimo e il figlio minore (Sez. 5, n. 24848 del 17/05/2023, N., Rv. 284871).
In precedenza, e con analoga motivazione, si era negata la configurabilità del reato anche quando l’agente avesse filmato scene di vita privata (sessuale) in casa propria (Sez. 5, n. 22221 del 10/01/2017, D.M., Rv. 270236; Sez. 5, n. 1766 del 28/11/2007, dep. 2008, Radicella, Rv. 239098) o in un’abitazione in cui fosse lecitamente presente (Sez. 5, n. 27160 del 02/05/2018, C., Rv. 273554, citata nella sentenza impugnata): situazioni nelle quali, però, l’autore della ripresa era, in modo inequivocabile, personalmente coinvolto nella stessa.
4.4. Un orientamento, per così dire, ” intermedio”, pur condividendo con il precedente la premessa per cui l’oggetto giuridico del reato è la riservatezza domiciliare (formula – si precisa – che identifica il diritto alla esclusiva conoscenza di quanto attiene alla sfera privata domiciliare, e cioè all’estrinsecazione della personalità nei luoghi di privata dimora), introduce una precisazione che si riverbera però in modo sostanziale sulla definizione dei confini della fattispecie e fors’anche sulla sostanziale individuazione del bene protetto.
Per un verso, infatti, ponendosi nel solco delle pronunce da ultimo citate, reputa non decisivo, per escludere la rilevanza penale della condotta, che il fatto avvenga nell’abitazione di chi ne sia autore, e a tal fine richiede, piuttosto, che il dominus loci non sia “estraneo al momento di riservatezza captato”. Ritiene, cioè, che risponda del reato anche chi predispone mezzi di captazione visiva o sonora nella propria dimora carpendo immagini o notizie attinenti alla vita privata degli altri soggetti che vi si trovino, siano essi stabili conviventi od occasionali ospiti.
E specifica che invece non ne risponde colui il quale condivide con i medesimi soggetti l’atto della vita privata, continuando ad individuare, dunque, il discrimine tra interferenze e lecita e illecita nella circostanza che il soggetto attivo sia stato o meno partecipe dell’atto ripreso o della conversazione tenuta.
Per altro verso, tuttavia – si tratta di precisazione tutt’altro che secondaria -, richiede altresì il consenso di tali soggetti (Sez. 5, n. 36109 del 14/05/2018, C., Rv. 273598, che ha confermato la condanna dell’imputato il quale aveva filmato la propria moglie, nuda o seminuda, all’interno del bagno o della camera da letto, intenta all’igiene del corpo o alla cura della persona, in assenza di elementi che dimostrassero che la donna volesse condividere con l’imputato detti momenti di intimità).
Ancor più di recente, sulla scia di tale precedente, ampiamente richiamato, questa Corte ha ravvisato gli estremi del reato in un caso – per molti versi assimilabili a quello oggetto del presente giudizio – in cui l’imputato, all’interno della propria abitazione, aveva carpito immagini o notizie attinenti alla vita privata di altri soggetti che vi si trovavano, senza tuttavia partecipare alla conversazione (in particolare, aveva registrato le conversazioni intercorse tra la ex compagna e il loro figlio minore, nel tentativo di provare l’asserita manipolazione di quest’ultimo contro di lui. Sez. 5, n. 12713 del 07/12/2023, dep. 2024, B., Rv. 286164), ritenendo irrilevante che si trattasse di stabili conviventi o di ospiti occasionali.
4.5. Tale indirizzo sembra dunque coincidere, negli esiti, con altro che, ai fini dell’esclusione del reato, già in precedenza insisteva sull’esigenza di un consenso quantomeno implicito da parte della persona coinvolta nelle captazioni (anche in tal caso si trattava di ripresa inconsapevole di rapporto sessuale consensuale) (vd. Sez. 5, n. 13384 del 20/12/2018, dep. 2019, L., Rv. 275236).
La pronuncia appena richiamata, a tal fine, precisava che la collocazione della fattispecie di cui all’art. 615-bis cod. pen. tra i delitti contro l’inviolabilità del domicilio non implica che sia stata apprestata tutela nei confronti di uno dei luoghi indicati nell’art. 614 cod. pen., si da proteggerli dalle aggressioni non fisiche (piuttosto che fisiche, come nell’art. 614 cod. pen.), e che il richiamo al domicilio compiuto in fattispecie valesse, piuttosto, a delimitare l’area della tutela penale degli aspetti della vita privata, confinandola a quelli che si svolgono all’interno della abitazione o in altri luoghi di privata dimora. Si ravvisava, dunque, pur con questa precisazione, il bene giuridico nella privacy.
- Il Collegio ritiene di aderire a tale impostazione.
5.1. Si prescinde, infatti, dalla considerazione che tra i delitti contro l’inviolabilità del domicilio (IV sezione, XII titolo, II libro del codice penale), a seguito delle varie interpolazioni legislative, risultano ormai compresi reati che poco hanno a che fare con la nozione originaria di domicilio afferendo, piuttosto, alla tutela del bene “riservatezza” (variamente declinato).
Piuttosto, va premesso come la collocazione topografica delle fattispecie abbia un valore meramente indicativo, in quanto orienta un’interpretazione c.d. sistematica che, insieme a quella teleologica (di cui si dirà immediatamente dopo) soccorre, ove necessario, in ausilio dell’ermeneusi letterale. In tale prospettiva, già a livello testuale, la fattispecie di cui all’art. 615-bis cod. pen. fa riferimento alla condotta di chi si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla “vita privata” svolgentesi nei “luoghi indicati nell’art. 614”.
Il tipo legislativo, in altri termini, richiama il domicilio al chiaro scopo di circoscrivere la tutela di altro bene, che la stessa disposizione espressamente individua nella vita privata. Né potrebbe essere diversamente, posto che la tutela offerta al domicilio, come luogo fisico, non può che essere strumentale alla protezione di un bene personale.
Che tale lettura, oltre ad essere corretta, sia (pure) preferibile emerge d’altronde, sempre in una prospettiva teleologica – ma, questa volta, assiologicamente orientata -, ove si pensi alle conseguenze della diversa tesi: da cui deriverebbe l’annientamento del bene “riservatezza” per effetto della mera (seppur voluta) condivisione di un luogo fisico con il coniuge, conviventi o, in ipotesi, con qualunque persona in precedenza ammessa al domicilio.
Ne deriva che l'”estraneità” al domicilio – cui fa sovente richiamo la giurisprudenza, ergendola a presupposto per l’integrazione del reato -, non può essere intesa nel senso, riduttivo, che l’agente non deve essere titolare dello ius excludendi e/o condividere, stabilmente o occasionalmente, il luogo fisico in cui la persona offesa estrinseca la sua personalità.
Il concetto va inteso in altra e più elevata accezione: richiedendosi, ai fini della configurabilità del reato, che il reo non partecipi a quella porzione di “vita privata” (registrata o ripresa) che si esplica all’interno del domicilio, quale esso sia: come indiscutibilmente accade ove difetti il consenso, espresso o implicito, della persona le cui conversazioni o immagini vengano (perciò: indebitamente) captate.
Sicché, in conclusione, il reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.) deve ritenersi configurabile anche quando l’agente sia titolare o con-titolare del domicilio, dà dove carpisca immagini o registri conversazioni della vita privata di chi nel domicilio si trovi, senza il consenso di tale persona. Dal che due precisazioni.
5.2. La prima concerne la natura, sul piano della teoria del diritto penale, dell’avverbio “indebitamente” che compare nella fattispecie e che, facendo riferimento all’assenza del consenso della persona la cui riservatezza domiciliare (nel senso precisato) è violata, rappresenta una specificazione (invero, una superfetazione) legislativa volta a ribadire la necessaria antigiuridicità del fatto tipico.
5.3. La seconda precisazione, collegata a quanto appena osservato e potenzialmente rilevante, è che, per la sola mancanza del consenso della persona ripresa o registrata, non giocoforza deve ritenersi sussistente il reato: non potendosi escludere la configurabilità, nel caso concreto, di ulteriori cause di giustificazione (quali l’esercizio di un diritto/adempimento di un dovere o la legittima difesa).
Il che richiama i giudici di merito alla necessità di esperire un prudente e delicato apprezzamento delle circostanze di contesto in cui è avvenuto il fatto e dei moventi dell’agente.
- Tornando, dunque, al caso di specie, la sentenza impugnata afferma che l’imputato, escusso in dibattimento, riferì di aver registrato la conversazione in cui la moglie e il di lei padre, rivolgendosi al bambino della coppia (che aveva un mese), lo denigravano, e di averlo fatto per precostituirsi una prova allo scopo di difendersi dalle accuse che la donna minacciava di muovere contro di lui.
- Non risultando corretto sostenere – come fatto dalla Corte d’Appello – che l’imputato era parte della “vita privata” captata semplicemente perché presente nel (comune) domicilio, la sentenza deve essere annullata sul punto. L’annullamento è disposto con rinvio, affinché i Giudici dell’appello verifichino la configurabilità del reato di interferenza illecita di cui all’art. 615-bis cod. pen. sulla scorta dei principi poc’anzi enunciati (sub par. 5).