Corte Costituzionale, sentenza 14 febbraio 2025, n. 19
PRINCIPIO DI DIRITTO
Vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», sollevate, in riferimento agli artt. 1, primo comma, 3, primo comma, 4, secondo comma, 23, 36, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana,;
Vanno altresì dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 309, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025), sollevate in riferimento, complessivamente, agli artt. 1, primo comma, 3, 4, secondo comma, 23, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., dalla Corte dei conti, sezioni giurisdizionali per le Regioni Campania e Toscana, con le ordinanze indicate in epigrafe.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- Le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti per la Regione Toscana (r.o. n. 182 e n. 238 del 2024) e per la Regione Campania (r.o. n. 185 del 2024) sollevano questioni di legittimità costituzionale, complessivamente, dell’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022 (legge di bilancio per il 2023) e dell’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000 (legge finanziaria per il 2001), entrambe disposizioni che incidono sui meccanismi di adeguamento degli assegni pensionistici alle variazioni del costo della vita.
In particolare, l’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022, stabilisce che, per l’anno 2023, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici è riconosciuta integralmente solo per quelli complessivamente pari o inferiori a quattro volte il minimo INPS; per quelli superiori, invece, la rivalutazione viene accordata in misura decrescente: 85 per cento per gli assegni pari o inferiori a cinque volte il minimo; 53 per cento per quelli di importo compreso tra cinque e sei volte tale soglia; 47 per cento per i trattamenti inclusi in una forbice tra le sei e le otto volte il suddetto limite; 37 per cento per quelli rientranti nell’intervallo tra le otto e le dieci volte il medesimo livello; 32 per cento per i trattamenti superiori a dieci volte il minimo.
L’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000, dal suo canto, prevede che, a decorrere dal 1° gennaio 2001, l’indice di rivalutazione automatica delle pensioni è applicato per fasce di importo dei trattamenti pensionistici: a) nella misura del 100 per cento per quelle fino a tre volte il trattamento minimo INPS; b) nella misura del 90 per cento per quelle comprese tra tre e cinque volte tale soglia; c) nella misura del 75 per cento per quelle superiori a cinque volte il suddetto limite minimo.
2.– In tutti i giudizi principali, i ricorrenti hanno chiesto al giudice delle pensioni – per gli anni dal 2022 al 2024, nei giudizi di cui al r.o. n. 182 e n. 185 del 2024, e a decorrere dal 1° gennaio 2023, nel giudizio di cui al r.o. n. 238 del 2024 – l’accertamento del diritto (disconosciuto in sede amministrativa) alla rivalutazione integrale dell’assegno in godimento, nei primi due casi superiore a dieci volte il trattamento minimo e, nel terzo, di importo compreso tra le sei e le otto volte tale soglia di riferimento.
3.– Per i rimettenti, esclusivamente l’accoglimento delle questioni sollevate consentirebbe l’integrale rivalutazione dei trattamenti pensionistici richiesta dai ricorrenti.
La sola ordinanza iscritta al r.o. n. 182 del 2024 ritiene che, in caso di accoglimento delle questioni sollevate sull’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022, la rivalutazione dei trattamenti pensionistici per l’anno 2023 tornerebbe a essere disciplinata dall’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000, asseritamente già applicato per l’anno 2022. Di conseguenza, viene censurata pure tale disposizione, nel suo escludere anch’essa la completa indicizzazione delle pensioni medio-alte.
4.– In punto di non manifesta infondatezza, l’articolazione delle doglianze avanzate dai diversi rimettenti segue percorsi solo parzialmente sovrapponibili.
4.1.– In relazione all’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022, tutte le ordinanze ne sospettano il contrasto con gli artt. 3,36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.
Specifiche doglianze sono avanzate dalla sezione giurisdizionale per la Regione Toscana della Corte dei conti, in riferimento anche agli artt. 1, primo comma, 4, secondo comma, e 23 Cost.
4.2.– La sola ordinanza iscritta al r.o. n. 182 del 2024 ritiene che pure l’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000 (legge finanziaria per il 2001) contrasti con tutti i parametri innanzi indicati.
5.– Poiché i suddetti atti introduttivi mirano al medesimo risultato ed evocano parametri largamente coincidenti, i tre giudizi possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.
6.– Con ordinanza dibattimentale, allegata a questa pronuncia, è stato dichiarato inammissibile l’intervento spiegato dalla Sezione autonoma magistrati a riposo dell’Associazione nazionale magistrati nel giudizio iscritto al r.o. n. 185 del 2024.
7.– Per comprendere la portata dei dubbi di legittimità costituzionale qui sollevati, nonché per rispondere alle eccezioni preliminari avanzate dall’INPS, è necessario ripercorrere, sia pur sinteticamente, l’evoluzione degli interventi legislativi che hanno inciso sulla dinamica rivalutativa degli assegni pensionistici.
Come ricordato, da ultimo, dalla sentenza n. 234 del 2020, la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici, disciplinata inizialmente dall’art. 10 della legge n. 903 del 1965, nacque come meccanismo volto ad adeguare le pensioni ai mutamenti del potere di acquisto della moneta, ben presto agganciato all’aumento percentuale dell’indice del costo della vita calcolato dall’ISTAT ai fini della “scala mobile” delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria.
Sopravvenuta l’abolizione della scala mobile (per effetto del protocollo d’intesa del 31 luglio 1992), allo scopo di compensare l’eliminazione dell’aggancio alle dinamiche salariali e collegare l’adeguamento delle pensioni all’evoluzione del livello medio del tenore di vita nazionale, l’art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 503 del 1992, stabilì che gli aumenti a titolo di perequazione fossero calcolati sul valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati.
Già in epoca risalente, tuttavia, il legislatore cominciò a intervenire per “rallentare” la dinamica perequativa.
L’art. 59, comma 13, della legge n. 449 del 1997, per la prima volta e per il solo anno 1998, azzerò l’applicazione della perequazione automatica ai trattamenti di importo medio-alto, ossia superiori a cinque volte il trattamento minimo.
In seguito, con l’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, vennero fissate le regole di applicazione che, a tutt’oggi governano la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici, in virtù del costante rinvio a tale disposizione operato dai successivi interventi legislativi, inclusi quelli oggetto dell’odierno scrutinio. La rivalutazione si applica, per ogni singolo beneficiario, «in funzione dell’importo complessivo dei trattamenti» percepiti, con la precisazione che l’aumento dovuto viene attribuito «in misura proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare complessivo».
Poco dopo, il qui censurato art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000 previde il sistema di “raffreddamento” della perequazione pensionistica illustrato al precedente punto 1, rendendolo permanente in quanto destinato a operare «[a] decorrere dal 1° gennaio 2001».
Nel tempo, tale regola generale è stata più volte oggetto di deroghe, nella maggior parte dei casi finalizzate a moderare ulteriormente, per periodi limitati, la progressione rivalutativa degli assegni pensionistici. E su tali deroghe si è ripetutamente espressa questa Corte.
Così, per il solo anno 2008, l’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007 escluse la rivalutazione automatica per i trattamenti pensionistici superiori a otto volte quello minimo, superando indenne lo scrutinio di legittimità costituzionale (sentenza n. 316 del 2010).
Ancora, per il biennio 2012-2013, l’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, riconobbe la rivalutazione automatica per i soli trattamenti pensionistici fino a tre volte quello minimo, escludendola per tutti quelli di importo superiore.
Sopravvenuta la declaratoria d’illegittimità costituzionale di tale esclusione per effetto della sentenza di questa Corte n. 70 del 2015, il d.l. n. 65 del 2015, come convertito, sostituì il citato comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, riconoscendo, per il biennio 2012-2013, la rivalutazione automatica anche in favore dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte e pari o inferiori a sei volte quello minimo, secondo un meccanismo – scrutinato positivamente dalla sentenza n. 250 del 2017 – decrescente in relazione inversa rispetto alla misura delle pensioni, ma confermando il blocco totale della perequazione per i trattamenti di ammontare superiore.
Il modello dell’indicizzazione decrescente in base all’importo dell’assegno pensionistico era stato già introdotto, per gli anni successivi al 2013, dalla legge n. 147 del 2013, il cui art. 1, comma 483, lo aveva applicato, per il periodo 2014-2016, a tutti i trattamenti pensionistici, ancora una volta salvaguardando integralmente solo quelli pari o inferiori a tre volte il trattamento minimo INPS, con un meccanismo uscito indenne dalle censure di illegittimità costituzionale pure sollevate (sentenza n. 173 del 2016) e quindi prorogato, in forma sostanzialmente invariata, fino al 2018 dalla legge n. 208 del 2015.
In seguito, l’art. 1, comma 260, della legge n. 145 del 2018, per il periodo 2019-2021, riconobbe la rivalutazione automatica mediante un modulo del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio: ferma la rivalutazione integrale dei trattamenti pensionistici pari o inferiori a tre volte il trattamento minimo INPS, gli indici vennero ridotti al 97 per cento (per gli assegni pari o inferiori a quattro volte il minimo), al 77 per cento (per quelli tra quattro e cinque volte la suddetta soglia), al 52 per cento (per quelli tra cinque e sei volte il limite INPS), al 47 per cento (per quelli tra sei e otto volte il minimo INPS), al 45 per cento (per quelli tra otto e nove volte il livello minimo), per giungere infine al 40 per cento riconosciuto alle pensioni complessivamente superiori a nove volte il trattamento minimo INPS.
Al contempo, l’art. 1, comma 478, della legge n. 160 del 2019 introdusse una nuova regola generale di raffreddamento della rivalutazione pensionistica, destinata a operare dal 1° gennaio 2022. A partire da tale data, si prevede che l’indice di rivalutazione automatica delle pensioni venga applicato per fasce di importo: a) nella misura del 100 per cento per quelle fino a quattro volte il trattamento minimo INPS; b) nella misura del 90 per cento per quelle comprese tra quattro e cinque volte tale soglia; c) nella misura del 75 per cento per quelle superiori a cinque volte il suddetto limite minimo.
Si giunge, quindi, all’altra disposizione oggi censurata (art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022), in origine destinata a operare per il biennio 2023-2024, ma poi modificata dall’art. 1 della legge n. 213 del 2023, che ne ha ridotto l’ambito applicativo al solo anno 2023 (comma 134), riproducendo, per il 2024, il medesimo meccanismo, a parte un’ulteriore riduzione al 22 per cento (rispetto al 32 per cento vigente per il 2023) dell’indice di rivalutazione dei trattamenti pensionistici superiori a dieci volte quello minimo.
8.– Così ricostruito il quadro normativo, e prima di affrontare il merito delle questioni sollevate, occorre definire con precisione il thema decidendum.
8.1.– Nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, infatti, non possono essere presi in esame questioni o profili di costituzionalità dedotti solo dalle parti e diretti quindi ad ampliare o modificare il contenuto dell’ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenze n. 144, n. 140 e n. 112 del 2024).
Nel caso di specie, le parti private hanno prospettato una lesione dei principi di uguaglianza e di progressività del prelievo tributario, presidiati dagli artt. 3 e 53 Cost., perché la limitata indicizzazione delle pensioni superiori a un certo importo si configurerebbe come: «una tassazione impropria ed aggiuntiva, una vera “patrimoniale”», priva però dei requisiti di generalità, proporzionalità e progressività del prelievo (nel giudizio di cui al r.o. n. 182 del 2024); «una prestazione patrimoniale di natura tributaria posta a carico di una sola categoria di contribuenti, in violazione del principio dell’universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva e del principio di eguaglianza», con conseguente disparità di trattamento anche rispetto ai lavoratori «ancora in servizio» (nel giudizio di cui al r.o. n. 185 del 2024).
Si tratta di profili che i rimettenti non hanno inteso fare oggetto di specifiche questioni, sicché essi, in quanto diversi da quelli individuati dalle ordinanze di rimessione, non devono essere oggetto di valutazione da parte di questa Corte.
8.2.– Tutti i rimettenti, inoltre, limitano l’oggetto dello scrutinio demandato a questa Corte alla disciplina della rivalutazione per l’anno 2023 (in un caso – ordinanza iscritta al r.o. n. 182 del 2024 – prospettando possibili ricadute anche in riferimento all’anno 2022), riservando all’esito del giudizio costituzionale l’esame dell’ammissibilità della domanda, avanzata nei giudizi a quibus, di riconoscimento della rivalutazione integrale anche per il 2024. Ciò perché, come innanzi ricordato (precedente punto 7), la disciplina applicabile a tale anno, non censurata in questa sede, è stata modificata dall’art. 1, comma 135, della legge n. 213 del 2023, successiva al deposito dei ricorsi introduttivi dei giudizi principali.
9.– Ancora in via preliminare, devono essere esaminate le eccezioni formulate dall’INPS.
9.1.– In primo luogo, l’ente previdenziale ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate, nel giudizio di cui al r.o. n. 182 del 2024, in riferimento all’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000, non ritenendolo applicabile nel giudizio principale, neppure in caso di accoglimento delle questioni sollevate sull’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022.
L’eccezione è fondata.
Al precedente punto 7 si è già rilevato come la regola generale di raffreddamento della dinamica rivalutativa delle pensioni che il suddetto art. 69, comma 1, aveva introdotto a far data dal 1° gennaio 2001, già più volte derogata dalla legislazione successiva, è stata sostituita, a partire dal 1° gennaio 2022, dal meccanismo limitativo previsto dall’art. 1, comma 478, della legge n. 160 del 2019. Quest’ultima, dunque, è l’unica disposizione che, già applicata nell’anno 2022, sarebbe chiamata a governare la perequazione dei trattamenti pensionistici per l’anno 2023, nel caso di accoglimento delle questioni sollevate sull’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022.
Le questioni riferite all’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000 sono dunque inammissibili per difetto di rilevanza, avendo a oggetto disposizioni delle quali la Corte dei conti rimettente non sarebbe mai chiamata a fare applicazione nel giudizio principale (ex plurimis, sentenza n. 103 del 2023).
9.2.– Inoltre, nell’ambito del giudizio di cui al r.o. n. 185 del 2024, l’INPS ha eccepito l’irrilevanza della questione di legittimità costituzionale riferita all’asserito carattere non transitorio della misura limitativa dell’indicizzazione, per effetto della reiterazione nel tempo di meccanismi analoghi: essendo il ricorrente pensionato dal settembre 2021, si afferma, gli interventi normativi precedenti non avrebbero avuto alcun effetto sulla sua posizione pensionistica.
L’eccezione non è fondata.
La complessiva critica del rimettente si incentra anche sull’effetto di “trascinamento”, che si produce pure in conseguenza della sola mancata rivalutazione annuale prevista dalla disposizione censurata, certamente applicabile nel giudizio a quo, sicché la contestazione sembra impingere il merito della censura, piuttosto che la sua ammissibilità.
10.– Nel merito, tutte le questioni sollevate non sono fondate, alla luce dei precedenti di questa Corte, esaustivamente compendiati, da ultimo, dalla sentenza n. 234 del 2020.
Tale pronuncia ha ricordato che la perequazione automatica è uno strumento di natura tecnica volto a garantire nel tempo l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici a fronte delle spinte inflazionistiche (come già chiarito dalle sentenze n. 250 del 2017 e n. 70 del 2015), nel rispetto dei principi di sufficienza e proporzionalità della retribuzione, che però non implicano un rigido parallelismo tra la garanzia di cui all’art. 38, secondo comma, Cost. e quella di cui all’art. 36, primo comma, Cost. (così anche le sentenze n. 250 del 2017 e n. 173 del 2016).
La garanzia della perequazione non annulla la discrezionalità del legislatore nella determinazione in concreto del quantum di tutela di volta in volta necessario (come già affermato dalla sentenza n. 70 del 2015), alla luce delle risorse effettivamente disponibili (sentenza n. 316 del 2010 e ordinanza n. 256 del 2001). Non sussiste, del resto, un imperativo costituzionale che imponga l’adeguamento annuale di tutti i trattamenti pensionistici (sentenze n. 250 del 2017 e n. 316 del 2010), purché la scelta contraria superi uno scrutinio di “non irragionevolezza” (sentenza n. 70 del 2015), calato nel contesto giuridico e fattuale nel quale la misura si inserisce (ordinanza n. 96 del 2018).
La sentenza n. 234 del 2020 ha poi ribadito che il principale indicatore della “non irragionevolezza” dell’opzione legislativa è costituito dalla considerazione differenziata dei trattamenti di quiescenza in base al loro importo, atteso che le pensioni più elevate presentano margini più ampi di resistenza all’erosione inflattiva (come affermato sin dalla sentenza n. 316 del 2010 e ribadito dalla sentenza n. 250 del 2017).
È sempre indispensabile, tuttavia, da un lato, che sia adeguatamente e dettagliatamente illustrato il quadro economico-finanziario che giustifica la scelta del legislatore, in base a dati oggettivi (sentenze n. 250 del 2017 e n. 70 del 2015) e, dall’altro, che le misure di sospensione e di blocco del meccanismo perequativo siano limitate nel tempo (secondo un monito risalente alla sentenza n. 316 del 2010), ferma restando la necessità di scrutinare ciascun provvedimento nella sua singolarità e in relazione al quadro storico in cui esso si inserisce (sentenza n. 250 del 2017).
11.– In linea con quanto ora esposto, anche la misura introdotta dall’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022 non risulta rompere gli argini fissati da questa Corte a garanzia dei principi presidiati dai parametri costituzionali evocati.
12.– Tutti i rimettenti reputano la disposizione contrastante con gli artt. 3,36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., innanzitutto perché il modulo perequativo imposto per il 2023 – in deroga alla regola generale individuata in quella contemplata dall’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000 – avrebbe ingiustificatamente, e dunque irragionevolmente, peggiorato i trattamenti pensionistici di importo più elevato, senza una chiara illustrazione delle esigenze finanziarie sottese alla scelta legislativa.
Inoltre, aggiungendosi a ripetuti meccanismi limitativi della rivalutazione delle pensioni imposti negli ultimi quindici anni, la misura avrebbe determinato la sostanziale definitività della perdita connessa alla pur temporanea riduzione degli indici di recupero del potere di acquisto, con un conseguente effetto di “trascinamento” intollerabilmente lesivo dei margini di resistenza all’inflazione anche dei trattamenti medio-alti; ciò in frontale contrasto con le garanzie di proporzionalità e adeguatezza di cui gli evocati parametri circondano l’assegno pensionistico, per la sua natura di retribuzione differita.
12.1.– Al contrario, va evidenziato che il modulo di “raffreddamento” qui in esame si rivela meno severo della maggior parte di quelli oggetto degli interventi legislativi, elencati al precedente punto 7, che pure hanno già superato il vaglio di legittimità costituzionale da parte di questa Corte.
In particolare, rispetto a quello relativo al triennio 2019-2021, ritenuto dalla sentenza n. 234 del 2020 compatibile con lo statuto costituzionale dei diritti previdenziali, l’odierno meccanismo risulta: più favorevole per le pensioni di importo da quattro a sei volte il trattamento minimo; invariato per le pensioni di ammontare superiore a sei volte e fino a otto volte tale soglia; certamente meno favorevole per le pensioni di consistenza economica superiore alle quali, tuttavia, non è stato applicato (come invece avvenuto nella precedente occasione, secondo quanto previsto dall’art. 1, comma 261, della legge n. 145 del 2018) alcun “contributo di solidarietà” aggiuntivo.
Il congegno normativo in discorso salvaguarda l’integrale rivalutazione delle pensioni di più modesta entità, di cui anzi allarga l’ambito, ricomprendendo in esso quelle di importo pari a quattro volte (e non più a tre) il trattamento minimo INPS. Inoltre, nel disporre un “rallentamento” della dinamica perequativa dei trattamenti di importo superiore, segue la tecnica della progressione inversa rispetto all’entità degli assegni, senza escluderne nessuno dalla rivalutazione. Quest’ultima, infatti, viene prevista – sebbene in percentuali ridotte, ma non certo simboliche – anche per i trattamenti di più elevata entità, in ossequio a un criterio di razionalità che trova riscontro nei maggiori margini di resistenza delle pensioni di importo più elevato rispetto agli effetti dell’inflazione.
12.2.– A differenza di quanto sostenuto dai rimettenti, le ragioni delle scelte legislative in rapporto alla situazione generale della finanza pubblica emergono chiaramente dalle relazioni, sia illustrativa sia tecnica, che accompagnano il disegno di legge di bilancio per il 2023 (A.C. n. 643).
In particolare, la relazione illustrativa del Governo evidenzia che l’iniziativa legislativa «si colloca in uno scenario macroeconomico di incertezza che risente delle tensioni geopolitiche e dell’aumento dell’inflazione, dovuto principalmente all’incremento dei prezzi dei prodotti energetici e delle materie prime». A fronte di ciò, si chiarisce che «l’impostazione della politica di bilancio è diretta a limitare quanto più possibile l’impatto del caro energia sui bilanci delle famiglie, specialmente quelle più fragili».
Il documento conferma che la manovra di finanza pubblica comporta «un peggioramento del saldo tendenziale del bilancio dello Stato di circa 23,7 miliardi di euro nel 2023» e che, quindi, le misure adottate per raggiungere gli obiettivi indicati sono assunte in deficit (ossia con il ricorso ad ulteriore indebitamento), come consentito dalla temporanea sospensione delle regole europee del patto di stabilità.
In questo complessivo contesto – di cui pure i rimettenti paiono pienamente consapevoli – si collocano anche gli interventi nel settore della previdenza.
Sempre la relazione illustrativa specifica che il meccanismo di indicizzazione delle pensioni qui scrutinato consente una minore spesa che «al netto degli effetti fiscali» è «pari a circa 2,1 miliardi nel 2023, 4,1 miliardi nel 2024 e 4 miliardi nel 2025».
A sua volta, la relazione tecnica chiarisce che «[t]ali economie strutturali concorrono al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, alla progressiva riduzione dell’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e alla progressiva ricostituzione di un adeguato livello di avanzo primario, secondo quanto programmato in relazione al percorso di riduzione del debito pubblico».
Alla luce di tale carattere “strutturale”, gli effetti della misura, pur se di applicazione limitata (originariamente ad un biennio e poi) ad un anno, si proiettano anche al di là dell’orizzonte triennale della manovra, come è reso evidente dall’indicazione delle «economie in termini di minore spesa pensionistica» previste fino all’anno 2032 e ammontanti, al lordo degli effetti fiscali, a circa 54 miliardi di euro.
La stessa relazione, inoltre, illustra in dettaglio la distribuzione del “monte pensioni” in relazione alle soglie introdotte dalla normativa in esame.
Da tali dati emerge che le pensioni che subiscono un trattamento peggiorativo rispetto al modulo perequativo positivamente scrutinato dalla sentenza n. 234 del 2020 – ossia quelle di importo pari o superiore a otto volte il trattamento minimo – rappresentano l’11,7 per cento del totale complessivo, mentre le restanti vedono invariato o addirittura migliorato il tasso di “elasticità” rispetto alle spinte inflazionistiche, a conferma della precisa scelta legislativa di redistribuire il complesso delle risorse disponibili a vantaggio dei trattamenti di importo più basso.
La relazione illustrativa del disegno di legge, peraltro, individua anche ulteriori interventi che la misura in esame contribuisce a finanziare.
Alcuni di essi si collocano nel medesimo ambito previdenziale, quali: la proroga di istituti che favoriscono il pensionamento anticipato, come la cosiddetta “quota 103” (commi da 283 a 285 dell’art. 1 della legge n. 197 del 2022); l’indennità cosiddetta “ape sociale” (commi da 288 a 291) e la cosiddetta “opzione donna” (comma 292). A ciò si aggiunge il sussidio una tantum per le pensioni minime, al fine di contrastare gli effetti negativi delle tensioni inflazionistiche (comma 310).
Altri interventi, pur estranei al circuito previdenziale, rientrano comunque nel più ampio settore “lavoro, famiglia e politiche sociali” (di cui al Titolo IV dell’originario disegno di legge, comprendente anche la misura oggetto dell’odierno scrutinio): la maggiorazione del 50 per cento, a decorrere dal 1° gennaio 2023, dell’assegno unico universale, al ricorrere di certe condizioni (commi 357 e 358); l’incremento dell’indennità per congedo parentale (comma 359); il riordino delle misure di sostegno alla povertà e dirette all’inclusione lavorativa (commi da 313 a 321), eccetera.
Si tratta di interventi che non possono essere qualificati «di minore pregnanza costituzionale» (come sostenuto nei giudizi di cui al r.o. n. 182 e n. 238 del 2024). Essi perseguono finalità che rientrano nella piena discrezionalità del legislatore, il quale può «stabilire nel concreto le variazioni perequative dell’ammontare delle prestazioni, attraverso un bilanciamento di valori che tenga conto anche delle esigenze di bilancio, poiché l’adeguatezza e la proporzionalità del trattamento pensionistico incontrano pur sempre il limite delle risorse disponibili» (sentenza n. 234 del 2020).
12.3.– La misura in esame, per come congegnata, risulta rispettosa dei parametri evocati, anche se costituisce l’ultimo anello di una catena di interventi analoghi che ha registrato poche soluzioni di continuità nel tempo.
La lettura offerta dai rimettenti del monito lanciato da questa Corte con la sentenza n. 316 del 2010 – secondo cui «la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità» – collide con il dato di fatto che il meccanismo qui scrutinato non comporta «l’effetto di paralizzare, o sospendere a tempo indeterminato, la rivalutazione dei trattamenti pensionistici, neanche di quelli di importo più elevato, risolvendosi viceversa in un mero raffreddamento della dinamica perequativa, attuato con indici graduali e proporzionati», come già rilevato dalla sentenza n. 234 del 2020, in relazione a previsioni legislative di analogo tenore.
12.3.1.– Con particolare riguardo all’effetto di “trascinamento”, normalmente conseguente a ogni limitazione dell’indicizzazione, questa Corte ha già affermato che «il principio di adeguatezza enunciato nell’art. 38, secondo comma, Cost. non determina la necessità costituzionale dell’adeguamento annuale di tutti i trattamenti pensionistici, né d’altronde la mancata perequazione per un solo anno incide, di per sé, sull’adeguatezza della pensione (sentenze n. 250 del 2017 e n. 316 del 2010)» (ancora sentenza n. 234 del 2020).
A maggior ragione i parametri evocati risultano rispettati allorquando anche i trattamenti più elevati beneficiano di una sia pur ridotta perequazione.
Nulla esclude, peraltro, che il legislatore possa tener conto della perdita subita, nel calibrare la portata di eventuali successive misure incidenti sull’indicizzazione dei trattamenti pensionistici.
12.4.– Questa Corte, pur nella consapevolezza che ogni bilanciamento tra interessi finanziariamente condizionati risente inevitabilmente del mutamento della congiuntura economica, non può tuttavia esimersi – in sintonia con l’auspicio espresso dalle sezioni riunite della Corte dei conti nella delibera adottata in sede di controllo sul bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e sul bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025 (n. 40/SSRRCO/AUD/2022) – dal sottolineare i vantaggi che deriverebbero da una «disciplina più stabile e rigorosa» del meccanismo di perequazione delle pensioni. Del resto, l’art. 1, comma 478, della legge n. 160 del 2019 ha già dettato una regola che, in ossequio alla durata indeterminata espressamente conferitale, dovrebbe essere interessata con estrema prudenza da cambiamenti improvvisi, incidenti in senso negativo sui comportamenti di spesa delle famiglie.
13.– Inoltre, la sezione giurisdizionale per la Regione Toscana della Corte dei conti denuncia la medesima disposizione sotto ulteriori profili, con censure che si rivelano del pari non fondate.
13.1.– Si sostiene, in primo luogo, che – sempre in lesione dei parametri innanzi indicati – il freno all’incremento automatico delle pensioni più alte, inserito nel contesto di una «manovra espansiva ed “in deficit”», sarebbe strumentale al finanziamento di altri obiettivi «di minore pregnanza costituzionale», che dovrebbero essere finanziati con «risorse provenienti dalla fiscalità generale»: ciò sarebbe irragionevole, in confronto alla preponderante necessità di assicurare proporzionalità e adeguatezza di tutti i trattamenti pensionistici, al lume del «fondamento lavoristico della Repubblica» (art. 1, primo comma, Cost.).
Orbene, se si può certamente convenire sul fatto che si sia al cospetto di una manovra espansiva quanto alle spese «ed “in deficit”», tuttavia non erra l’INPS nell’evidenziare che l’intervento legislativo non può essere letto come distribuzione di risorse derivanti da «fortunate condizioni economiche generali”», che avrebbe perciò irragionevolmente penalizzato solo i percettori di pensioni medio-alte.
Le opzioni politiche sottese alla manovra, come illustrato negli atti parlamentari in precedenza indicati, mirano invero a rispondere alle difficoltà sociali cagionate da una forte e imprevedibile spinta inflazionistica causata da tensioni geopolitiche, che ha portato a un brusco innalzamento dei prezzi di servizi irrinunciabili connessi al mercato dell’energia, in un contesto economico generale ancora caratterizzato dalla necessità di uscire dalla grave crisi economica determinata dalla pandemia da COVID-19.
Una realtà economico-sociale – di cui anche i pensionati devono essere «partecipi e consapevoli» (sentenza n. 173 del 2016) – che esclude qualsivoglia connotato di arbitrio delle scelte legislative tese a neutralizzare gli effetti prodotti sulle classi sociali meno agiate.
13.2.– Il modulo perequativo in esame non può qualificarsi manifestamente irragionevole neppure alla luce della sua inidoneità – postulata dai rimettenti con ulteriore censura – a contenere l’inflazione, il cui elevato aumento nel biennio 2022-2023 non sarebbe dipeso dalla «dinamica retributiva» interna, ma dai fattori esogeni appena ricordati.
La doglianza, infatti, presuppone erroneamente che, per non risultare arbitrario, ogni provvedimento di raffreddamento della dinamica perequativa debba necessariamente mirare a combattere la pressione inflazionistica.
In realtà, tale scopo non appare affatto necessario (come dimostra il contesto di inflazione marginale in cui è stata adottata la misura positivamente scrutinata dalla sentenza n. 234 del 2020), bastando che il legislatore illustri in dettaglio le finalità di politica economica che intende di volta in volta perseguire, selezionandole alla luce delle risorse disponibili, e che le misure adottate appaiano coerenti con tali finalità.
13.3.– Evocando anche l’art. 4, secondo comma, Cost., si afferma, poi, che l’intervento legislativo censurato, aggiungendosi ai precedenti, avrebbe determinato una progressiva assimilazione dei trattamenti pensionistici alle prestazioni di carattere assistenziale, parametrate «esclusivamente o prevalentemente, allo stato di bisogno».
Ma coglie ancora nel segno la difesa dell’INPS, secondo cui «pare sufficiente scorrere i valori degli scaglioni previsti della norma per rilevare che una tale eventualità è del tutto esclusa nei fatti».
13.4.– Per i rimettenti sarebbe lesa, altresì, la «dignità del lavoratore in quiescenza», la cui pensione più alta rispetto alla media verrebbe considerata «alla stregua di un mero privilegio».
A questo proposito, è invece da escludere che i moduli di rallentamento dell’indicizzazione in progressione inversa rispetto al crescere degli importi dei trattamenti disconoscano il valore della qualità del lavoro prestato.
L’attenzione a quest’ultimo profilo è già espressa, invero, nella liquidazione in misura più elevata del trattamento pensionistico al momento del collocamento a riposo. Si tratta di un meritato riconoscimento dell’impegno e della capacità dimostrati durante la vita economicamente attiva, secondo un apprezzamento che non può mutare neppure in considerazione dei vantaggi maturati dai pensionati soggetti al sistema retributivo – come i ricorrenti nei giudizi principali – rispetto a quelli interamente attratti nell’orbita del sistema contributivo.
A tale proposito, fermo restando che il nesso di certo sussistente tra ammontare dei contributi versati e liquidazione della pensione non deve necessariamente condizionare anche i meccanismi perequativi del trattamento, pur tuttavia è auspicabile che, in un futuro ormai sempre più prossimo, per la categoria di pensionati da ultimo citata l’approccio legislativo possa essere diversamente calibrato.
13.5.– Ancora, con ulteriore censura, i rimettenti prospettano che, come conseguenza del rallentamento della rivalutazione delle pensioni, la popolazione più giovane, con particolare riferimento alla componente femminile, sarebbe disincentivata a impegnarsi nell’attività lavorativa – soprattutto in quella «regolare» – che consente la maturazione di pensioni di più elevato importo.
La tesi non convince, risolvendosi in una mera petizione di principio l’affermazione secondo cui la rivalutazione integrale delle pensioni più alte, di per sé sola, produrrebbe l’effetto di disincentivare il lavoro “in nero” e di incrementare finanche l’occupazione femminile.
La censura non si confronta, infatti, in alcun modo con il peso che normalmente rivestono altri motivi che possono sorreggere scelte individuali di questo tipo. Queste ultime possono essere legate, ad esempio, alla difficoltà delle giovani generazioni a trovare occupazioni corrispondenti alle proprie aspirazioni e retribuite in modo adeguato ai propri percorsi di vita, nonché all’intollerabile ritardo con il quale si va colmando il divario di genere (gender gap) proprio in materia retributiva. Preoccupazioni che attengono, quindi, allo sviluppo della stessa vita lavorativa attiva, più che al destino pensionistico.
13.6.– Infine, i principi di ragionevolezza e di proporzionalità retributiva sarebbero mortificati dalle disposizioni contenute nei numeri 2), 4) e 5) della lettera b) del comma 309 in esame, che non rispetterebbero il divieto di lesione ultra dimidium e l’obbligo di riconoscere incrementi monetari non inferiori al tasso d’interesse legale nel periodo di riferimento, intesi come principi generali dell’ordinamento ricavabili, rispettivamente, dall’art. 1448 cod. civ. e dal combinato disposto degli artt. 1282, comma 1, e 1284, comma 1, cod. civ.
Per considerare destituita di fondamento la censura, è sufficiente evidenziare l’assoluta inidoneità dei principi asseritamente generali che i rimettenti hanno ritenuto di distillare da disposizioni del codice civile attinenti al diritto delle obbligazioni e dei contratti (artt. 1282, comma 1, 1284, comma 1, e 1448 cod. civ.) ad assumere il ruolo di criteri di valutazione della ragionevolezza delle scelte del legislatore in materia previdenziale.