<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>CORTE COSTITUZIONALE – ordinanza 10 maggio 2019 n. 117</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Con riferimento alle norme della CDFUE, la Corte ha recentemente affermato la propria competenza a vagliare gli eventuali profili di contrarietà delle disposizioni di legge nazionali alle norme della Carta che il giudice rimettente ritenga di sottoporle; ciò in quanto «[i] </em>principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri). Sicché può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione<em>» (sentenza n. 269 del 2017, punto 5.2. del Considerato in diritto). In tali ipotesi, la Corte – che è essa stessa «</em>organo giurisdizionale<em>» nazionale ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) – potrà dunque valutare se la disposizione censurata violi le garanzie riconosciute, al tempo stesso, dalla Costituzione e dalla Carta, attivando rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ogniqualvolta ciò sia necessario per chiarire il significato e gli effetti delle norme della Carta; e potrà, all’esito di tale valutazione, dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, rimuovendo così la stessa dall’ordinamento nazionale con effetti </em>erga omnes<em>. Ciò fermo restando «</em>che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria<em>» (sentenza n. 20 del 2019, punto 2.3. del Considerato in diritto), anche al termine del procedimento incidentale di legittimità costituzionale; e fermo restando, altresì, il loro dovere – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al loro esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta (sentenza n. 63 del 2019, punto 4.3. del Considerato in diritto). La sentenza n. 20 del 2019 ha ulteriormente chiarito, in proposito, che «[i]</em>n generale, la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione italiana genera<em> […]</em>un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione<em>». Tale concorso di rimedi consente in effetti alla Corte costituzionale «</em>di contribuire, per la propria parte, a rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE)<em> […] </em>che i corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate anche dall’art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti<em>» (punto 2.3. del Considerato in diritto). Il tutto, come già evidenziato dalla sentenza n. 269 del 2017, «</em>in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia (da ultimo, ordinanza n. 24 del 2017), affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico (art. 53 della CDFUE<em>)» (punto 5.2. del Considerato in diritto).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Tutte le norme della Costituzione, della CEDU, del Patto internazionale sui diritti civili e politici e della CDFUE invocate dalla Corte di cassazione convergono nel riconoscimento – esplicito, nel caso dell’art. 14 del Patto internazionale; implicito, in tutti gli altri casi – del diritto della persona a non contribuire alla propria incolpazione e a non essere costretta a rendere dichiarazioni di natura confessoria (</em>nemo tenetur se ipsum accusare<em>). Secondo la Corte di cassazione, tale “</em>diritto al silenzio<em>” non potrebbe non estendersi anche ai procedimenti di carattere formalmente amministrativo, ma funzionali all’irrogazione di sanzioni di carattere sostanzialmente “</em>punitivo<em>”, come quello previsto dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 (Abuso di informazioni privilegiate), della cui violazione il X è stato ritenuto responsabile dalla CONSOB in esito a un procedimento conclusosi con l’irrogazione delle sanzioni. La Corte assume in proposito che il dubbio di legittimità costituzionale prospettato nel caso di specie si risolva essenzialmente nell’interrogativo se sia costituzionalmente legittimo sanzionare, ai sensi dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, chi si sia rifiutato di rispondere a domande dalle quali sarebbe potuta emergere la propria responsabilità, nell’ambito di un’audizione disposta dalla CONSOB nell’esercizio delle relative funzioni di vigilanza; non pare infatti alla Corte che il “</em>diritto al silenzio<em>”, fondato sulle norme costituzionali, europee e internazionali invocate, possa di per sé legittimare il rifiuto del soggetto di presentarsi all’audizione disposta dalla CONSOB, né il relativo indebito ritardo nel presentarsi alla stessa audizione, purché sia garantito – diversamente da quanto avvenuto nel caso di specie – il diritto a non rispondere alle domande che gli vengano rivolte durante l’audizione stessa. Di quest’ultima garanzia, peraltro, nel caso di specie X non disponeva: ciò che potrebbe essere valorizzato dal giudice del procedimento principale per concludere che egli non possa essere sanzionato né per il silenzio serbato nell’audizione, né per il ritardo nel presentarsi all’audizione stessa.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nella versione applicabile </em>ratione temporis<em> ai fatti di cui è causa nel procedimento </em>a quo<em>, l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 prevedeva: «[f]</em>uori dai casi previsti dall’articolo 2638 del codice civile, chiunque non ottempera nei termini alle richieste della CONSOB ovvero ritarda l’esercizio delle sue funzioni è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquantamila ad euro un milione<em>». Tra le funzioni attribuite alla CONSOB si annovera in particolare, ai sensi dell’art. 187-octies, comma 3, lettera c), del d.lgs. n. 58 del 1998, il potere di «</em>procedere ad audizione personale<em>» nei confronti di «</em>chiunque possa essere informato sui fatti<em>». Il tenore letterale dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione vigente all’epoca dei fatti, si estende anche all’ipotesi in cui l’audizione personale sia disposta nei confronti di colui che la CONSOB abbia già individuato, sulla base delle informazioni in proprio possesso, come il possibile autore di un illecito il cui accertamento ricade entro la sua competenza; in particolare, la norma consente che costui venga punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da cinquantamila euro a un milione per il fatto di essersi rifiutato di rispondere in sede di audizione personale disposta dalla CONSOB. A identica conclusione si deve pervenire oggi, sulla base dell’attuale formulazione dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, come modificata dal d.lgs. n. 129 del 2017, che al comma 1 prevede: «[f]</em>uori dai casi previsti dall’art. 2638 del codice civile, è punito ai sensi del presente articolo chiunque non ottempera nei termini alle richieste della Banca d’Italia e della CONSOB, ovvero non coopera con le medesime autorità al fine dell’espletamento delle relative funzioni di vigilanza, ovvero ritarda l’esercizio delle stesse<em>»; la novellata formulazione dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, infatti, si limita a esplicitare che l’illecito può essere commesso non solo da chi non ottempera nei termini alle richieste delle autorità ovvero ne ritarda l’esercizio delle funzioni, ma anche – più in generale – da chi non coopera con le autorità medesime al fine dell’espletamento delle relative funzioni di vigilanza; anche sulla base della nuova disposizione, tuttavia, nessuna facoltà di non rispondere è prevista per colui che sia già stato individuato dalla CONSOB come il possibile autore di un illecito, il cui accertamento rientri entro le competenze dell’autorità stessa. Occorre pertanto stabilire se il “</em>diritto al silenzio<em>” evocato dalla Corte di cassazione si applichi, oltre che nei procedimenti penali, anche nelle audizioni personali disposte dalla CONSOB nell’ambito della propria attività di vigilanza, che può preludere all’instaurazione di procedimenti sanzionatori di natura “</em>punitiva<em>” nei confronti di chi sia individuato come autore di un illecito; come osserva la Corte di cassazione, nel senso di una risposta affermativa a tale quesito depongono argomenti fondati sia sull’art. 24 della Costituzione italiana, sia sull’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La costante giurisprudenza della Corte ritiene che il “</em>diritto al silenzio<em>” dell’imputato – pur non godendo di espresso riconoscimento costituzionale – costituisca un «</em>corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa<em>», riconosciuto dall’art. 24 Cost. (ordinanze n. 202 del 2004, n. 485 e n. 291 del 2002). Tale diritto garantisce all’imputato la possibilità di rifiutare di sottoporsi all’esame testimoniale e, più in generale, di avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande del giudice o dell’autorità competente per le indagini. La Corte non è stata, sino ad oggi, chiamata a valutare se e in che misura tale diritto – appartenente al novero dei diritti inalienabili della persona umana (sentenze n. 238 del 2014, n. 323 del 1989 e n. 18 del 1982), che caratterizzano l’identità costituzionale italiana – sia applicabile anche nell’ambito di procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione di sanzioni di natura “</em>punitiva<em>” secondo i criteri Engel; tuttavia, in molteplici occasioni essa ha ritenuto che singole garanzie riconosciute nella materia penale dalla CEDU e dalla stessa Costituzione italiana si estendano anche a tale tipologia di sanzioni. Ciò è avvenuto, in particolare, in relazione alle garanzie del divieto di retroattività delle modifiche sanzionatorie </em>in peius<em> (sentenze n. 223 del 2018, n. 68 del 2017, n. 276 del 2016, n. 104 del 2014 e n. 196 del 2010), della sufficiente precisione del precetto sanzionato (sentenze n. 121 del 2018 e n. 78 del 1967), nonché della retroattività delle modifiche sanzionatorie </em>in mitius<em> (sentenza n. 63 del 2019). Inoltre, la Corte ha già più volte affermato che le sanzioni amministrative previste nell’ordinamento italiano in materia di abuso di informazioni privilegiate costituiscono, in ragione della loro particolare afflittività, misure di natura “</em>punitiva<em>” (sentenze n. 63 del 2019, n. 223 del 2018 e n. 68 del 2017), così come – peraltro – ritenuto dalla stessa Corte di giustizia UE (Grande sezione, sentenza 20 marzo 2018, in cause riunite C-596/16 e C-597/16, Di Puma e Consob, paragrafo 38). A tale conclusione la Corte è giunta valorizzando, in particolare, l’ammontare assai elevato delle sanzioni previste in materia di abuso di informazioni privilegiate, punibili oggi con una sanzione pecuniaria che può giungere, a carico di una persona fisica, sino all’importo di cinque milioni di euro, aumentabili in presenza di particolari circostanze fino al triplo, ovvero fino al maggiore importo di dieci volte il profitto conseguito ovvero le perdite evitate per effetto dell’illecito. Tali sanzioni pecuniarie sono, inoltre, affiancate dalle sanzioni di carattere interdittivo previste dall’art. 187-quater del d.lgs. n. 58 del 1998, che limitano fortemente le opzioni professionali dei soggetti colpiti dalla sanzione, e sono applicate congiuntamente alla confisca, diretta e per equivalente, del profitto dell’illecito. A fronte di simili scenari sanzionatori, secondo la Corte di cassazione parrebbe plausibile il riconoscimento, in favore di chi sia incolpato di un tale illecito, dei medesimi diritti di difesa che la Costituzione italiana riconosce alla persona sospettata di avere commesso un reato, e in particolare del diritto a non essere costretto – sotto minaccia di una pesante sanzione pecuniaria, come quella applicata al ricorrente nel giudizio a quo – a rendere dichiarazioni suscettibili di essere utilizzate successivamente come elementi di prova a proprio carico; e ciò anche in relazione al rischio che, per effetto dell’obbligo di cooperazione con l’autorità di vigilanza attualmente sancito dal diritto derivato dell’Unione europea, il sospetto autore di un illecito amministrativo avente natura “</em>punitiva<em>” possa altresì contribuire, di fatto, alla formulazione di un’accusa in sede penale nei propri confronti. Nell’ordinamento italiano, l’abuso di informazioni privilegiate è, infatti, previsto al tempo stesso come illecito amministrativo (art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998) e come illecito penale (art. 184 del d.lgs. n. 58 del 1998); e i relativi procedimenti possono essere attivati e proseguiti parallelamente (come è in effetti accaduto nei confronti del sig. D. B.), nei limiti in cui ciò sia compatibile con il diritto al ne bis in idem (Corte di giustizia, Grande sezione, sentenza 20 maggio 2018, in causa C-537/16, Garlsson Real Estate SA e altri, paragrafi 42-63). Infatti, per quanto nell’ordinamento italiano non sia consentito utilizzare nel processo penale le dichiarazioni rese all’autorità amministrativa senza le garanzie del diritto di difesa, tra cui segnatamente l’avvertimento circa la facoltà di non rispondere, è ben possibile che tali dichiarazioni – ottenute dall’autorità amministrativa mediante la minaccia di sanzione per il caso di mancata cooperazione – possano in concreto fornire all’autorità stessa informazioni essenziali in vista dell’acquisizione di ulteriori elementi di prova della condotta illecita, destinati a essere utilizzati anche nel successivo processo penale contro l’autore della condotta.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>I dubbi di costituzionalità sollevati dalla Corte di cassazione nel caso di specie sono confortati anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo concernente l’art. 6 CEDU. Nonostante l’assenza di un riconoscimento esplicito del diritto in questione nel testo della Convenzione (a differenza di quanto accade nell’art. 14, paragrafo 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici), la Corte di Strasburgo ha in plurime occasioni affermato che il «</em>diritto a restare in silenzio e a non contribuire in alcun modo alla propria incriminazione<em>» (Corte EDU, sentenza 25 febbraio 1993, Funke contro Francia, paragrafo 44) si colloca al cuore della nozione di “</em>equo processo<em>” proclamata dall’art. 6, paragrafo 1, CEDU (</em>ex multis<em>, Corte EDU, sentenza 5 aprile 2012, Chambaz contro Svizzera, paragrafo 52). Tale diritto è, infatti, finalizzato a proteggere l’accusato da indebite pressioni dell’autorità volte a provocarne la confessione (sentenza 8 febbraio 1996, John Murray contro Regno Unito, paragrafo 45). Nella valutazione della Corte EDU, inoltre, il diritto in questione è strettamente connesso alla presunzione di innocenza di cui all’art. 6, paragrafo 2, CEDU (sentenze 21 dicembre 2000, Heaney e McGuinnes contro Irlanda, paragrafo 40; 17 dicembre 1996, Saunders contro Regno Unito, paragrafo 68). Il diritto in esame è stato, d’altra parte, più volte ritenuto violato in relazione a soggetti sanzionati dall’ordinamento nazionale per non avere fornito risposte ad autorità amministrative nell’ambito di procedimenti di accertamento di violazioni di natura amministrativa (Corte EDU, 4 ottobre 2005, Shannon contro Regno Unito, paragrafi 38-41; sentenza 5 aprile 2012, Chambaz contro Svizzera, paragrafi 50-58). In particolare, è stata riscontrata la violazione dell’art. 6 CEDU in un caso in cui un soggetto, nei cui confronti era pendente un’indagine amministrativa relativa a illeciti tributari, aveva reiteratamente omesso di rispondere alle richieste di chiarimenti formulate dall’autorità che stava conducendo l’indagine, ed era stato punito per questa sua condotta con sanzioni pecuniarie (Corte EDU, sentenza 3 maggio 2001, J. B. contro Svizzera, paragrafi 63-71). In quest’ultimo caso, decisiva è stata la considerazione della natura “</em>punitiva<em>”, secondo i criteri Engel, delle sanzioni applicabili dall’autorità amministrativa alle violazioni tributarie oggetto dell’indagine. Secondo l’apprezzamento della Corte, tale natura “</em>punitiva<em>” chiamava infatti in causa l’intero spettro delle garanzie assicurate dalla CEDU per la materia penale, compresa quella del “</em>diritto al silenzio<em>” da parte di chi sia incolpato di avere commesso un illecito.Pare pertanto che, anche secondo la Corte EDU, il diritto a non cooperare alla propria incolpazione e a non essere costretto a rendere dichiarazioni di natura confessoria, riconducibile all’art. 6 CEDU, comprenda il diritto di chiunque sia sottoposto a un procedimento amministrativo, che potrebbe sfociare nella irrogazione di sanzioni di carattere “</em>punitivo<em>” nei propri confronti, a non essere obbligato a fornire all’autorità risposte dalle quali potrebbe emergere la propria responsabilità, sotto minaccia di una sanzione in caso di inottemperanza.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Ai fini della decisione dell’incidente di legittimità costituzionale sottoposto all’esame della Corte, occorre considerare – come correttamente messo in evidenza dalla Corte di cassazione – che l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, in questa sede censurato, è stato introdotto nell’ordinamento italiano in esecuzione di uno specifico obbligo posto dalla direttiva 2003/6/CE; e che tale disposizione costituisce, oggi, la puntuale attuazione di un’analoga disposizione del regolamento (UE) n. 596/2014, che ha abrogato la direttiva medesima. Più in particolare, l’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE prevedeva: «[g]li </em>Stati membri fissano le sanzioni da applicare per l’omessa collaborazione alle indagini di cui all’articolo 12<em>». A propria volta, l’art. 12, paragrafo 2, lettera b), della medesima direttiva prevedeva che alle autorità competenti dei singoli Stati membri fosse conferito quantomeno il potere, nell’esercizio della loro attività di vigilanza e di indagine, di «</em>richiedere informazioni a qualsiasi persona, incluse quelle che intervengono successivamente nella trasmissione degli ordini o nell’esecuzione delle operazioni in questione, e ai loro mandanti e, se necessario, convocare e procedere all’audizione di una persona<em>». Il combinato disposto degli artt. 12 e 14 della direttiva sembrava, dunque, imporre agli Stati il dovere di sanzionare in via amministrativa – e fatto salvo il possibile ricorso a sanzioni penali per la medesima condotta (art. 14, paragrafo 1, della direttiva in esame) – anche chi, avendo materialmente compiuto operazioni qualificabili come illecite, o avendo dato l’ordine di compierle, si rifiutasse di rispondere alle domande postegli dall’autorità di vigilanza in sede di audizione, dalle quali potesse emergere la propria responsabilità per un illecito il cui accertamento rientra nella sua competenza. Oggi, l’art. 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 stabilisce analogamente che, fatti salvi le sanzioni penali e i poteri di controllo delle autorità competenti a norma dell’art. 23, gli Stati membri provvedono affinché le autorità competenti abbiano il potere di adottare le sanzioni amministrative e altre misure amministrative adeguate per l’«</em>omessa collaborazione o il mancato seguito dato nell’ambito di un’indagine, un’ispezione o una richiesta di cui all’articolo 23, paragrafo 2<em>». A propria volta, l’art. 23, paragrafo 2, lettera b), del medesimo regolamento stabilisce che le autorità competenti debbano disporre dei poteri «</em>di richiedere o esigere informazioni da chiunque, inclusi coloro che, successivamente, partecipano alla trasmissione di ordini o all’esecuzione delle operazioni di cui trattasi, nonché i loro superiori e, laddove opportuno, convocarli allo scopo di ottenere delle informazioni<em>». Anche sulla base delle normative dell’Unione attualmente vigenti, dunque, parrebbe sussistere a carico dello Stato membro un dovere di sanzionare il silenzio serbato in sede di audizione da parte di chi abbia posto in essere operazioni che integrano illeciti sanzionabili dalla medesima autorità, ovvero da parte di chi abbia dato l’ordine di compiere tali operazioni. Da tutto ciò consegue che una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale in parte qua dell’art. 187-quinquiesdecies del d. lgs. n. 58 del 1998 rischierebbe di porsi in contrasto con il diritto dell’Unione, e in particolare con l’obbligo che discende oggi dall’art. 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014, obbligo di cui il menzionato art. 187-quinquesdecies costituisce attuazione. Peraltro, tale obbligo – così come quello che discendeva in passato dall’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE – potrebbe risultare di dubbia compatibilità con gli artt. 47 e 48 CDFUE, i quali pure sembrano riconoscere un diritto fondamentale dell’individuo a non contribuire alla propria incolpazione e a non essere costretto a rendere dichiarazioni di natura confessoria, nei medesimi limiti desumibili dall’art. 6 CEDU e dall’art. 24 della Costituzione italiana.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>A questa Corte è nota la copiosa giurisprudenza della Corte di giustizia UE formatasi in materia di diritto al silenzio e illeciti anticoncorrenziali. Tale giurisprudenza riconosce, in linea di principio, la necessità di tutelare i diritti della difesa dei soggetti che potrebbero essere incolpati di un illecito, ma al tempo stesso afferma la sussistenza di un «</em>obbligo di attiva collaborazione<em>» incombente su tali soggetti. Questi ultimi, secondo quanto affermato dalla Corte di giustizia, non solo devono «</em>tenere a disposizione della Commissione tutte le informazioni riguardanti l’oggetto dell’indagine<em>» (sentenza 18 ottobre 1989, in causa C-374/87, Orkem, paragrafo 27; nello stesso senso, sentenza 29 giugno 2006, in causa C-301/04 P, SGL Carbon AG, paragrafo 40) e «</em>soddisfare le richieste della stessa di produzione di documenti preesistenti<em>», ma sono altresì obbligati a «rispondere ai quesiti di mero fatto posti dalla Commissione» (Tribunale di primo grado, sentenza 20 febbraio 2001, in causa I-112/98, Mannesmannröhren-Werke AG, paragrafi 77-78; nello stesso senso, sentenza SGL Carbon AG, cit., paragrafi 44-49). Secondo tale giurisprudenza, l’obbligo di risposta ai quesiti posti dalla Commissione non sarebbe contrario al diritto di difesa, né al diritto a un processo equo, in quanto «</em>nulla impedisce al destinatario di dimostrare, in un momento successivo nell’ambito del procedimento amministrativo o nel corso di un procedimento dinanzi al giudice comunitario, nell’esercizio dei suoi diritti di difesa, che i fatti esposti nelle risposte<em> […] </em>hanno un significato diverso da quello considerato dalla Commissione<em>» (Tribunale di primo grado, sentenza 20 febbraio 2001, in causa I-112/98, Mannesmannröhren-Werke AG, paragrafi 77-78; nello stesso senso, Corte di giustizia, 29 giugno 2006, in causa C-301/04 P, SGL Carbon AG, paragrafi 44-49). L’unico limite al dovere di rispondere che incombe sulle imprese interessate è rappresentato dal divieto per la Commissione di «</em>imporre all’impresa l’obbligo di fornire risposte attraverso le quali questa sarebbe indotta ad ammettere l’esistenza della trasgressione, che deve invece essere provata dalla Commissione<em>» (Corte di giustizia, sentenza 18 ottobre 1989, in causa C-374/87, Orkem, paragrafo 35; nello stesso senso, sentenza 24 settembre 2009, nelle cause riunite C-125/07 P, C-133/07 P, C-135/07 P e C-137/07 P, Erste Group Bank AG, paragrafo 271; sentenza 25 gennaio 2007, in causa C-407/04 P, Dalmine, paragrafo 34; sentenza 29 giugno 2006, in causa C-301/04 P, SGL Carbon AG, paragrafo 42). In tal modo, la Corte di giustizia UE esclude che i diritti della difesa nell’ambito dei procedimenti sanzionatori in materia di concorrenza possano considerarsi lesi dall’obbligo a carico di un’impresa, che potrebbe successivamente essere incolpata dell’illecito, di fornire informazioni inerenti a circostanze di fatto suscettibili di essere utilizzate a fondamento di un’accusa formulabile nei suoi confronti. Secondo tale giurisprudenza, una violazione dei diritti della difesa parrebbe dunque sussistere soltanto laddove all’impresa vengano poste domande miranti, in sostanza, a ottenerne la confessione relativa alla commissione dell’illecito; fermo restando, però, il dovere dell’impresa, in linea di principio, di rispondere alle domande della Commissione. Tuttavia, tale giurisprudenza – formatasi con riguardo a persone giuridiche e non fisiche, e in larga misura in epoca antecedente all’adozione della CDFUE e all’attribuzione alla stessa del medesimo valore giuridico dei trattati – appare alla Corte difficilmente conciliabile con il carattere “</em>punitivo<em>” – riconosciuto dalla stessa Corte di giustizia nella già ricordata sentenza Di Puma – delle sanzioni amministrative previste nell’ordinamento italiano in materia di abuso di informazioni privilegiate, che parrebbe suggerire la necessità di riconoscere all’autore dell’illecito una garanzia analoga a quella che gli viene riconosciuta in materia penale. È evidente, infatti, che ritenere sussistente – al pari di quanto avviene nel diverso ambito degli illeciti concorrenziali – un obbligo del trasgressore di rispondere a quesiti di mero fatto, salva la possibilità di dimostrare successivamente che i fatti esposti «</em>hanno un significato diverso<em>» da quello considerato dall’autorità competente, si risolve in una limitazione significativa della portata del principio </em>nemo tenetur se ipsum accusare<em>, il quale implica normalmente, in materia penale, il diritto dell’interessato a non fornire alcun contributo dichiarativo – nemmeno indiretto – alla propria incolpazione. Tale giurisprudenza, inoltre, non appare alla Corte compiutamente in linea con la poc’anzi analizzata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che pare invece riconoscere un’estensione ben maggiore al diritto al silenzio dell’incolpato, anche nell’ambito di procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione di sanzioni di natura “</em>punitiva<em>”. D’altra parte, la questione se gli artt. 47 e 48 CDFUE, alla luce della rammentata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo concernente l’art. 6 CEDU, impongano di riferire tale diritto anche a procedimenti amministrativi suscettibili di sfociare nell’irrogazione di sanzioni di natura “</em>punitiva<em>”, non risulta essere stata mai affrontata dalla Corte di giustizia UE; né il diritto derivato dell’Unione europea ha offerto sinora una risposta a tale questione, che è anzi stata lasciata intenzionalmente (considerando n. 11) aperta dalla direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nello spirito di leale cooperazione tra corti nazionali ed europee nella definizione di livelli comuni di tutela dei diritti fondamentali – obiettivo questo di primaria importanza in materie oggetto di armonizzazione normativa, come quella all’esame – la Corte, prima di decidere sulla questione di legittimità costituzionale ad essa sottoposta, ritiene necessario sollecitare un chiarimento, da parte della Corte di giustizia UE, sull’esatta interpretazione ed eventualmente sulla validità, alla luce degli artt. 47 e 48 CDFUE, dell’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE in quanto tuttora applicabile </em>ratione temporis<em>, nonché dall’art. 30 paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014. Anzitutto, occorre chiarire se le disposizioni menzionate della direttiva 200376/CE e del regolamento (UE) n. 596/2014 debbano essere interpretate nel senso che consentono allo Stato membro di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la sua responsabilità per un illecito punito con sanzioni penali o con sanzioni amministrative di natura “</em>punitiva<em>”. Ciò anche in relazione all’inciso «</em>conformemente al[<em>l’]</em>ordinamento nazionale<em>» degli Stati membri di cui all’art. 14, paragrafo 1, della direttiva, e all’inciso «</em>conformemente al diritto nazionale<em>» di cui all’art. 30, paragrafo 1, del regolamento, incisi che parrebbero far salva in ogni caso la necessità di rispettare gli standard di tutela dei diritti fondamentali riconosciuti dagli ordinamenti degli Stati membri, nell’ipotesi in cui essi fossero più elevati di quelli riconosciuti a livello del diritto dell’Unione. Nel caso di una risposta affermativa a tale quesito, infatti, la dichiarazione di illegittimità costituzionale in parte qua dell’art. 187-quinquesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 sollecitata dalla Corte di cassazione – fondata sul diritto fondamentale della persona a non essere costretto a rendere dichiarazioni di natura confessoria – non si porrebbe in contrasto con il diritto dell’Unione. Nell’ipotesi, invece, di una risposta negativa da parte della Corte di giustizia a tale primo quesito, si chiede alla stessa Corte stessa se le disposizioni menzionate della direttiva 2003/6/CE e del regolamento (UE) n. 596/2014 siano compatibili con gli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di art. 6 CEDU e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, nella misura in cui impongono di sanzionare anche chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni penali e/o con sanzioni amministrative di natura “</em>punitiva<em>”.</em></p>