<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 10 maggio 2019 n. 112</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La Corte ha dichiarato inammissibile una precedente questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 mirante a riconoscere «</em>all’autorità amministrativa (in sede di irrogazione) e al giudice (nell’ambito del giudizio di opposizione) il potere di “<em>graduare</em>” la misura “<em>in rapporto alla gravità in concreto della violazione commessa</em>”»,<em> in base alle stesse istanze di proporzionalità della sanzione che vengono invocate in questa sede: la Corte ritenne allora che il </em>petitum<em> assumesse «</em>il carattere di una “<em>novità di sistema</em>”: circostanza che lo colloca al di fuori dell’area del sindacato di legittimità costituzionale, per rimetterlo alle eventuali e future soluzioni di riforma, affidate in via esclusiva alle scelte del legislatore<em>» (sentenza n. 252 del 2012). Il carattere “</em>creativo<em>” della soluzione in quell’occasione prospettata dal giudice rimettente discendeva, in effetti, dalla richiesta di introdurre un elemento di flessibilità nel </em>quantum<em> confiscabile in relazione alla concreta gravità dell’illecito: soluzione reputata inconciliabile con la natura “</em>fissa<em>” della confisca, che – nel vigente sistema normativo – può essere obbligatoria o facoltativa, ma non consente graduazioni quantitative affidate alla valutazione discrezionale dell’autorità che dispone la misura (ancora, sentenza n. 252 del 2012). Il </em>petitum<em> delle odierne questioni di legittimità costituzionale è però del tutto diverso, essendo finalizzato a ottenere una pronuncia non già additivo-manipolativa, come quella cui mirava l’ordinanza di rimessione decisa con la sentenza n. 252 del 2012, bensì parzialmente ablativa: il giudice </em>a quo<em> chiede infatti, in sostanza, che dall’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 siano eliminati il riferimento ai «</em>mezzi impiegati<em> [recte: beni utilizzati] </em>per commetter<em>[e]» l’illecito, nonché al «</em>prodotto<em>» dell’illecito medesimo, con conseguente conservazione della sola parte della disposizione concernente il «</em>profitto<em>»; l’intervento sollecitato mira, dunque, semplicemente, a ridurre gli oggetti della confisca prevista dalla disposizione censurata; confisca che resterebbe però obbligatoria per la parte residua, relativa al profitto dell’illecito, che dovrebbe essere interamente confiscato (in via diretta o per equivalente). Nessuna manipolazione “</em>creativa<em>” deriverebbe, pertanto, dall’eventuale accoglimento delle questioni prospettate, che risultano pertanto – sotto questo profilo – ammissibili.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>In materia penale, la giurisprudenza dell aCorte considera costituzionalmente illegittime pene manifestamente sproporzionate per eccesso in relazione alla gravità del reato, in ragione del loro contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.. Sanzioni amministrative manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto alla gravità dell’illecito violano, dal canto loro, l’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione, nonché – nell’ambito del diritto dell’Unione europea – l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE. La confisca per equivalente del «</em>prodotto<em>» degli illeciti previsti dal Titolo I-bis, Capo III, del d. lgs. n. 58 del 1998 e dei «</em>beni utilizzati<em>» per commetterli conduce a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati per eccesso rispetto alla gravità degli illeciti in questione. Il rischio di eccessi punitivi conseguenti alla previsione dell’obbligatorietà della confisca del «</em>prodotto<em>» degli illeciti amministrativi in questione e dei «</em>beni utilizzati<em>» per commetterli era stato del resto da tempo rilevato dalla Corte e dalla stessa CONSOB, tanto che il legislatore – mediante la legge n. 163 del 2017 – aveva delegato il Governo a rivedere la disposizione qui censurata, prevedendo la confisca del solo «</em>profitto<em>» derivato dagli illeciti in questione. La dichiarazione di illegittimità costituzionale </em>in parte qua<em> della disposizione censurata non è, d’altra parte, in contrasto con gli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea, che impongono soltanto la confisca del profitto che l’autore abbia ricavato dagli illeciti in questione.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il nucleo essenziale delle censure sollevate dal giudice a quo concerne il carattere sproporzionato della sanzione costituita dalla confisca per equivalente del «</em>prodotto<em>» dell’illecito di </em>insider trading<em> e dei «</em>beni utilizzati<em>» per commetterlo, e la correlativa eccessiva incidenza sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito. La giurisprudenza della Corte ha avuto varie occasioni di confrontarsi con il quesito se, e in che limiti, sia possibile un sindacato di legittimità costituzionale sulle tipologie e sulla misura di sanzioni amministrative alla luce del criterio di proporzionalità della sanzione. Tuttavia, l’angolo visuale pressoché esclusivo dal quale tali questioni sono state affrontate è stato soltanto quello del divieto di automatismi legislativi nell’applicazione della sanzione: divieto che costituisce soltanto uno dei profili che vengono in considerazione nella questione oggi all’esame della Corte. Numerose – e assai più variegate nella tipologia di valutazioni effettuate dalla Corte – sono, invece, le pronunce che concernono la parallela questione del sindacato sulle scelte sanzionatorie del legislatore in materia penale, sulla quale conviene anzitutto brevemente soffermarsi. Nell’ambito del diritto penale, la costante giurisprudenza della Corte riconosce un’ampia discrezionalità al legislatore nella determinazione delle pene da comminare per ciascun reato; tale discrezionalità si estende in linea di principio al </em>quomodo<em> così come al </em>quantum<em> della pena, essendo riservata al legislatore – in forza dello stesso art. 25, secondo comma, Cost. – la scelta delle pene più adeguate allo scopo di tutelare i beni giuridici tutelati da ciascuna norma incriminatrice, nonché la determinazione dei loro limiti minimi e massimi. Tale discrezionalità è soggetta, tuttavia, a una serie di vincoli derivanti dalla Costituzione, tra i quali il divieto di comminare pene manifestamente sproporzionate per eccesso, che viene in questa sede in considerazione. Il sindacato sulla proporzionalità della pena si è storicamente affermato, nella giurisprudenza della Corte, anzitutto sotto il profilo del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. Da tale principio si è tratta la naturale implicazione relativa alla necessità che a fatti di diverso disvalore corrispondano diverse reazioni sanzionatorie; con conseguente atteggiarsi del giudizio di legittimità costituzionale sulla misura della pena secondo uno schema triadico, imperniato attorno al confronto tra la previsione sanzionatoria censurata e quella apprestata per altra figura di reato di pari o addirittura maggiore gravità, assunta quale </em>tertium comparationis<em> (sentenze n. 68 del 2012, n. 409 del 1989 e n. 218 del 1974, nonché – sotto il duplice profilo del contrasto con gli artt. 3 e 8 Cost. – sentenze n. 327 del 2002, n. 508 del 2000 e n. 329 del 1997). La valorizzazione, accanto all’art. 3 Cost., del parametro rappresentato dall’art. 27, terzo comma, Cost. – e in particolare del necessario orientamento alla rieducazione che la pena deve possedere – ha condotto in altre pronunce della Corte (a partire dalle sentenze n. 343 del 1993, n. 422 del 1993 e n. 341 del 1994) a estendere il proprio sindacato anche a ipotesi in cui la pena comminata dal legislatore appaia manifestamente sproporzionata non tanto in rapporto alle pene previste per altre figure di reato, quanto piuttosto in rapporto – direttamente – alla gravità delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta, senza che sia più necessaria l’evocazione di alcuno specifico </em>tertium comparationis<em> da parte del rimettente, se non al limitato fine di assistere la Corte nell’individuazione del trattamento sanzionatorio che possa sostituirsi, in attesa di un sempre possibile intervento del legislatore, a quello dichiarato incostituzionale (in questo senso, in particolare, sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del 2018 e n. 236 del 2016). Ciò nella consapevolezza che pene eccessivamente severe tendono a essere percepite come ingiuste dal condannato, e finiscono così per risolversi in un ostacolo alla relativ rieducazione (sentenza n. 68 del 2012). Nella stessa ottica debbono, d’altra parte, essere lette le numerose pronunce che hanno inciso sull’art. 69, ultimo comma, del codice penale, in ragione dell’esigenza di evitare l’irrogazione in concreto di pene sproporzionate per eccesso per effetto del divieto di prevalenza di talune circostanze attenuanti sulle aggravanti indicate in quella disposizione (sentenze n. 205 del 2017, nn. 106 e 105 del 2014 e n. 251 del 2012). La considerazione, accanto all’art. 3 Cost., del principio di personalità della responsabilità penale sancito dal primo comma dell’art. 27 Cost. – da leggersi anch’esso alla luce della necessaria funzione rieducativa della pena di cui al terzo comma dello stesso art. 27 Cost. – è inoltre alla base dell’ulteriore canone della necessaria individualizzazione della pena, pure enucleato da una risalente giurisprudenza della Corte, che si oppone in linea di principio alla previsione di pene fisse nel loro ammontare (sentenza n. 222 del 2018, che richiama in senso conforme le sentenze n. 50 del 1980, n. 104 del 1968 e n. 67 del 1963). Tale canone esige che – nel passaggio dalla comminatoria astratta operata dal legislatore alla relativa, concreta inflizione da parte del giudice – la pena si atteggi come risposta proporzionata anche alla concreta gravità, oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato; il che comporta, almeno di regola, la necessità dell’attribuzione al giudice di un potere discrezionale nella determinazione della pena nel caso concreto, entro un minimo e un massimo predeterminati dal legislatore.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La Corte ha esteso in molteplici occasioni alle sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente “</em>punitivo<em>” talune garanzie riservate dalla Costituzione alla materia penale. Ciò è accaduto, in particolare, in relazione ad una serie di corollari del principio </em>nullum crimen, nulla poena sine lege<em> enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost., quali il divieto di retroattività delle modifiche sanzionatorie </em>in peius<em> (sentenze n. 223 del 2018, n. 68 del 2017, n. 276 del 2016, n. 104 del 2014 e n. 196 del 2010), della sufficiente precisione del precetto sanzionato (sentenze n. 121 del 2018 e n. 78 del 1967), nonché della retroattività delle modifiche sanzionatorie </em>in mitius<em> (sentenza n. 63 del 2019). Una tale estensione non è avvenuta, invece, in relazione ai principi in materia di responsabilità penale stabiliti dall’art. 27 Cost. (sentenza n. 281 del 2013 e ordinanza n. 169 del 2013); tali principi – a cominciare dalla necessaria funzione rieducativa della pena – appaiono infatti strettamente connessi alla logica della pena privativa, o quanto meno limitativa, della libertà personale, attorno alla quale è tutt’oggi costruito il sistema sanzionatorio penale, e che resta sempre più o meno direttamente sullo sfondo anche nell’ipotesi in cui vengano irrogate pene di natura diversa, come rimedio di ultima istanza in caso di inadempimento degli obblighi da esse derivanti. Cionondimeno, non può dubitarsi che il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito sia applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative. Come anticipato, questa Corte ha già, in numerose occasioni, invocato tale principio – anche in relazione a misure delle quali veniva espressamente negata la natura “</em>punitiva<em>” (come nel caso deciso dalla sentenza n. 22 del 2018) – a fondamento di dichiarazioni di illegittimità costituzionale di automatismi sanzionatori, ritenuti non conformi al principio in questione proprio perché esso postula «</em>l’adeguatezza della sanzione al caso concreto<em>»; adeguatezza che «</em>non può essere raggiunta se non attraverso la concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito<em>» (sentenza n. 161 del 2018; nello stesso senso, ex multis, sentenze n. 268 del 2016 e n. 170 del 2015). Il principio di proporzionalità della sanzione possiede, peraltro, potenzialità applicative che eccedono l’orizzonte degli automatismi legislativi, come dimostra proprio la giurisprudenza relativa alla materia penale appena rammentata, e i cui principali approdi sono estensibili anche alla materia delle sanzioni amministrative, rispetto alla quale – peraltro – il principio in parola non trae la propria base normativa dal combinato disposto degli artt. 3 e 27 Cost., bensì dall’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione. Non erra, pertanto, il giudice rimettente nell’identificare nel combinato disposto degli artt. 3 e 42 Cost. il fondamento domestico del principio di proporzionalità di una sanzione che, come la confisca di cui è discorso, incide in senso limitativo sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito; né erra nell’identificare negli artt. 1 Prot. addiz. CEDU e nell’art. 17 CDFUE i fondamenti, rispettivamente, nel diritto della Convenzione e dell’Unione europea, del principio in questione, in quanto riferito a una sanzione patrimoniale. A tali basi normative parrebbe altresì affiancarsi, nell’ambito del diritto dell’Unione europea, l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE: ancorché il testo di tale disposizione faccia riferimento alle «</em>pene<em>» e al «</em>reato<em>», la Corte di giustizia dell’Unione europea ha recentemente considerato applicabile tale principio all’insieme delle sanzioni – penali e amministrative, queste ultime anch’esse di carattere “</em>punitivo<em>” – irrogate in seguito alla commissione di un fatto di manipolazione del mercato, ai fini della verifica del rispetto del diverso principio del </em>ne bis in idem<em> (Corte di giustizia, sentenza 20 marzo 2018, Garlsson Real Estate SA e altri, in causa C-537/16, paragrafo 56). Ciò in coerenza con la Spiegazione relativa all’art. 49 CDFUE, ove si chiarisce che «[i]</em>l paragrafo 3 riprende il principio generale della proporzionalità dei reati e delle pene sancito dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità<em>»: giurisprudenza, quest’ultima, formatasi esclusivamente in materia di sanzioni amministrative applicate dalle istituzioni comunitarie. Lo stesso art. 49, paragrafo 3, CDFUE è stato del resto recentemente invocato dalla Sezioni unite civili della Corte di cassazione a fondamento dell’affermazione secondo cui anche forme di risarcimento con funzione prevalentemente deterrente come i “</em>punitive damages<em>” eventualmente disposti da una sentenza straniera debbono comunque rispettare il principio di proporzionalità per poter essere riconosciuti nel nostro ordinamento (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 5 luglio 2017, n. 16601). La stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha, in alcune sentenze, ritenuto illegittime – al metro dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU – confische amministrative aventi ad oggetto l’intero ammontare di denaro che non era stato dichiarato alla dogana, e non soltanto l’importo dei diritti doganali evasi; e ciò proprio in relazione al carattere manifestamente sproporzionato di simili misure rispetto ai pur legittimi fini perseguiti dallo Stato, in relazione alla concreta gravità degli illeciti che di volta in volta venivano in considerazione, tenuto conto anche del fatto che le misure ablative in questione si sommavano alle sanzioni pecuniarie irrogate per l’omessa dichiarazione delle somme (Corte EDU, sentenze 31 gennaio 2017, Boljević contro Croazia; 26 febbraio 2009, Grifhorst contro Francia, paragrafi 87 e seguenti; 5 febbraio 2009, Gabrić contro Croazia paragrafi 34 e seguenti; 9 luglio 2009, Moon contro Francia, paragrafi 46 e seguenti; 6 novembre 2008, Ismayilov contro Russia). È, dunque, sulla base di tali principi che deve essere scrutinata la legittimità costituzionale della disposizione censurata, che impone la confisca alternativa, diretta o per equivalente, del «</em>prodotto<em>» o del «</em>profitto<em>» degli illeciti previsti dal Titolo I-bis, Capo III, del d.lgs. n. 58 del 1998, oltre che dei «</em>beni utilizzati<em>» per commettere gli illeciti medesimi.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Secondo le consolidate coordinate penalistiche, delle quali il lessico utilizzato nella disposizione censurata è debitrice, «</em>prodotto<em>» di un illecito è «</em>il risultato empirico dell’illecito, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquistate mediante il reato<em>» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 marzo 2008, n. 26654). In altre parole, costituiscono «</em>prodotto<em>» tutte le cose materiali che, in una prospettiva puramente causale, “</em>derivano<em>” dalla commissione dell’illecito medesimo. È pertanto «</em>prodotto<em>» del reato il documento contraffatto, il nastro contenente la registrazione di una conversazione illegittimamente intercettata, la cosa acquistata da chi ne conosceva l’origine delittuosa. In questa logica, il «</em>prodotto<em>» di un illecito come l’abuso di informazioni privilegiate – che consiste, nel relativo nucleo essenziale, nel compimento di operazioni di compravendita di strumenti finanziari da parte di chi possieda un’informazione ancora riservata, la cui successiva diffusione al pubblico potrebbe determinare una variazione del prezzo di tali strumenti – non può che essere rappresentato dall’insieme degli strumenti acquistati, ovvero dall’intera somma ricavata dalla loro vendita (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 6 aprile 2018, n. 8590). Il «</em>profitto<em>» è, invece, l’utilità economica conseguita mediante la commissione dell’illecito; nelle ipotesi di acquisto di strumenti finanziari, il profitto consiste dunque nel risultato economico dell’operazione valutato nel momento in cui l’informazione privilegiata della quale l’agente disponeva diviene pubblica, calcolato più in particolare sottraendo al valore degli strumenti finanziari acquistati il costo effettivamente sostenuto dall’autore per compiere l’operazione, così da quantificare l’effettivo “</em>guadagno<em>” (in termini finanziari, la “</em>plusvalenza<em>”) ovvero, come nel caso di specie, il “</em>risparmio di spesa<em>” che l’agente abbia tratto dall’operazione. Nelle ipotesi di vendita di strumenti finanziari sulla base di un’informazione privilegiata, il «</em>profitto<em>» conseguito non potrà invece che identificarsi nella “</em>perdita evitata<em>” in rapporto al successivo deprezzamento degli strumenti, conseguente alla diffusione dell’informazione medesima; e dunque andrà calcolato sulla base della differenza tra il corrispettivo ottenuto dalla vendita degli strumenti finanziari, e il loro successivo (diminuito) valore. Conclusione, questa, suggerita anche da un’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, avuto riguardo in particolare al Regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato (regolamento sugli abusi di mercato) e che abroga la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della Commissione: regolamento il cui art. 30, paragrafo 2, lettera b), impone agli Stati membri l’obbligo di prevedere «</em>la restituzione dei guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie alla violazione, per quanto possano essere determinati<em>». Quanto infine ai «</em>beni utilizzati<em>» per commettere l’illecito, in tema di abusi di mercato essi – lungi dal poter essere identificati nei tradizionali </em>instrumenta sceleris<em>, in genere rappresentati da cose intrinsecamente pericolose se lasciate nella disponibilità del reo, come negli esempi di scuola del grimaldello o della stampante di monete false – non possono che consistere nelle somme di denaro investite nella transazione, ovvero negli strumenti finanziari alienati dall’autore. Da tutto ciò consegue che, in tema di abusi di mercato, mentre l’ablazione del «</em>profitto<em>» ha una mera funzione ripristinatoria della situazione patrimoniale precedente in capo all’autore, la confisca del «</em>prodotto<em>» – identificato nell’intero ammontare degli strumenti acquistati dall’autore, ovvero nell’intera somma ricavata dalla loro alienazione – così come quella dei «</em>beni utilizzati<em>» per commettere l’illecito – identificati nelle somme di denaro investite nella transazione, ovvero negli strumenti finanziari alienati dall’autore – hanno un effetto peggiorativo rispetto alla situazione patrimoniale del trasgressore. Tali forme di confisca assumono pertanto una connotazione “</em>punitiva<em>”, infliggendo all’autore dell’illecito una limitazione al diritto di proprietà di portata superiore (e, di regola, assai superiore) a quella che deriverebbe dalla mera ablazione dell’ingiusto vantaggio economico ricavato dall’illecito. Muovendo da questa prospettiva, del resto, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha recentemente affermato la natura “</em>punitiva<em>” – e non meramente ripristinatoria – della misura, funzionalmente analoga a quella ora in considerazione, del «</em>disgorgement<em>» applicato dalla </em>Security Exchange Commission<em> (SEC) in materia di abusi di mercato; e ciò proprio in quanto tale misura – estendendosi all’intero risultato della transazione illecita – eccede, di regola, il valore del vantaggio economico che l’autore ha tratto dalla transazione stessa (Corte suprema degli Stati Uniti, sentenza 5 giugno 2017, Kokesh contro Security Exchange Commission). Nel vigente sistema sanzionatorio degli abusi di mercato, la (predominante) componente “</em>punitiva<em>” insita nella confisca del «</em>prodotto<em>» dell’illecito e dei «</em>beni utilizzati<em>» per commetterlo si aggiunge all’afflizione determinata dalle altre sanzioni previste dal d.lgs. n. 58 del 1998 e, in particolare, dalla sanzione amministrativa pecuniaria. Una sanzione, quest’ultima, la cui cornice edittale è essa pure di eccezionale severità, potendo giungere sino ad un massimo (oggi) di cinque milioni di euro, aumentabili in presenza di particolari circostanze fino al triplo, ovvero fino al maggiore importo di dieci volte il profitto conseguito ovvero le perdite evitate per effetto dell’illecito. A giudizio della Corte, la combinazione tra una sanzione pecuniaria di eccezionale severità, ma graduabile in funzione della concreta gravità dell’illecito e delle condizioni economiche dell’autore dell’infrazione, e una ulteriore sanzione anch’essa di carattere “</em>punitivo<em>” come quella rappresentata dalla confisca del prodotto e dei beni utilizzati per commettere l’illecito, che per di più non consente all’autorità amministrativa e poi al giudice alcuna modulazione quantitativa, necessariamente conduce, nella prassi applicativa, a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati. Simili risultati sono emblematicamente illustrati dal caso oggetto del giudizio a quo, in cui l’autore di una condotta di </em>insider trading<em> è stato punito con una sanzione pecuniaria di 200.000 euro, che si è aggiunta alla confisca per equivalente dell’intero valore delle azioni acquistate avvalendosi di un’informazione privilegiata, pari a ulteriori 149.760 euro, a fronte di un vantaggio economico di 26.580 euro conseguito dall’operazione. A conti fatti, la componente “</em>punitiva<em>” di tale complessiva sanzione – risultante dalla somma tra la sanzione pecuniaria e la confisca di ciò che eccede rispetto al profitto tratto dall’operazione – è qui pari a circa tredici volte tale profitto: un coefficiente che non può che apparire manifestamente eccessivo rispetto ai legittimi scopi di prevenzione generale e speciale perseguiti dalla norma che vieta l’insider trading.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Nel dichiarare inammissibile la questione di costituzionalità dell’art 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 all’epoca sollevata, la Corte aveva del resto già riconosciuto che quello delle «</em>conseguenze <em>ultra modum</em> che possono scaturire, in determinati contesti, dalla previsione della confisca obbligatoria, non solo del profitto, ma anche dei beni strumentali alla commissione dell’illecito<em>» costituisce un «</em>problema in sé reale e avvertito, da sottoporre all’attenzione del legislatore<em>» (sentenza n. 252 del 2012), al quale tuttavia la Corte non ritenne in quell’occasione di poter porre direttamente rimedio in considerazione della peculiare formulazione del </em>petitum<em> allora sottopostole. L’ammonimento della Corte non era sfuggito alla CONSOB, la quale aveva richiamato il legislatore, nella propria Relazione annuale per il 2012, all’opportunità di riformare «</em>l’attuale disciplina della confisca obbligatoria (art. 187-sexies), suscettibile di rivelarsi<em> […] </em>particolarmente afflittiva e non proporzionata all’effettiva gravità dell’illecito accertato<em>», auspicando l’introduzione di coefficienti di graduabilità del </em>quantum<em> della sanzione, in grado di assicurarne la commisurazione individualizzata in relazione alla gravità concreta dell’illecito medesimo. A tale sollecitazione il legislatore ha in effetti risposto con la legge n. 163 del 2017, che, all’art. 8, comma 3, lettera g), ha delegato il Governo a rivedere l’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 «</em>in modo tale da assicurare l’adeguatezza della confisca, prevedendo che essa abbia ad oggetto, anche per equivalente, il profitto derivato dalle previsioni del regolamento (UE) n. 596/2014<em>»: formulazione, questa, che non fa più alcuna menzione né del «</em>prodotto<em>» dell’illecito, né dei «</em>beni utilizzati<em>» per commetterlo, considerati evidentemente forieri di eccessi sanzionatori. A fronte poi della predisposizione da parte del Governo di uno schema di decreto che eliminava bensì la previsione della confisca dei «</em>beni utilizzati<em>» per commettere l’illecito, ma non quella del «</em>prodotto<em>» dell’illecito medesimo, il Commissario della CONSOB, sentito il 17 luglio 2018 in audizione dalle Commissioni riunite Giustizia e Finanze della Camera, auspicò l’accoglimento da parte del legislatore delegato della «</em>posizione già espressa dal Parlamento e fatta propria dalla CONSOB<em>», prevedendo «</em>la confisca limitatamente al profitto delle violazioni in materia di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione, di cui agli artt. 187-bis e 187-ter<em>» del d.lgs. 58 del 1998. Il legislatore delegato non ha, tuttavia, accolto tale auspicio, riconfermando nel novellato art. 187-sexies del d. lgs. n. 58 del 1998, come modificato dal d.lgs. n. 107 del 2018, la confiscabilità tanto del «</em>profitto<em>» quanto del «</em>prodotto<em>» dell’illecito, con ciò riproponendo nella nuova disposizione i vizi che affliggevano quella previgente. La diversa struttura dell’odierna questione di legittimità costituzionale rispetto a quella decisa con la menzionata sentenza n. 252 del 2012 consente, ora, alla Corte di porre rimedio a tali vizi di legittimità costituzionale, attraverso una pronuncia di carattere parzialmente ablativo in grado di ovviare alle conseguenze «</em>ultra modum<em>» che discendono dalla disciplina censurata. Né l’odierna pronuncia incontra alcun ostacolo nel diritto dell’Unione europea, il quale non impone la confisca del «</em>prodotto<em>» dell’illecito e dei «</em>beni utilizzati<em>» per commetterlo: infatti, il vigente Regolamento n. 596/2014 richiede soltanto agli Stati membri – all’art. 30, paragrafo 2, lettera b) – di prevedere «</em>la restituzione dei guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie alla violazione, per quanto possano essere determinati<em>». Come risulta anche dalle diverse versioni linguistiche del testo («</em>the disgorgement of the profits gained or losses avoided<em>», in inglese; «</em>la restitution de l’avantage retiré de cette violation ou des pertes qu’elle a permis d’éviter<em>», in francese; «</em>den Einzug der infolge des Verstoßes erzielten Gewinne oder vermiedene Verluste<em>», in tedesco; «</em>la restitución de los beneficios obtenidos o de las pérdidas evitadas<em>», in spagnolo), il regolamento in parola allude senza equivoco al solo “</em>vantaggio economico<em>” (in termini di guadagno o di perdita evitata) ottenuto dal compimento di un’operazione in condizioni di asimmetria informativa e in violazione di un dovere di astensione – per effetto del possesso di un’informazione privilegiata – rispetto alla generalità degli operatori nel mercato degli strumenti finanziari.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Da quanto precede consegue l’illegittimità costituzionale della previsione della confisca obbligatoria del «</em>prodotto<em>» dell’illecito amministrativo e dei «</em>beni utilizzati<em>» per commetterlo, in ragione del relativo contrasto con gli artt. 3, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, nonché degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 17 e 49, paragrafo 3, CDFUE. Il giudice a quo parrebbe, invero, circoscrivere il </em>petitum<em> alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della sola previsione della loro confisca per equivalente; al riguardo, va tuttavia considerato che l’effetto manifestamente sproporzionato della confisca in oggetto – esattamente posto in luce dall’ordinanza di rimessione – non dipende dal fatto che la misura abbia ad oggetto direttamente i beni o il denaro ricavati dalla transazione o utilizzati nella transazione stessa, ovvero beni o denaro di valore equivalente; quanto, piuttosto, dalla stessa previsione dell’obbligo di procedere alla confisca del «</em>prodotto<em>» dell’illecito e dei «</em>beni utilizzati<em>» per commetterlo. Va, pertanto, dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 187-sexies, del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del «</em>prodotto<em>» dell’illecito e dei «</em>beni utilizzati<em>» per commetterlo, e non del solo «</em>profitto<em>». La presente dichiarazione di illegittimità costituzionale deve essere estesa, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), all’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 4, comma 14, del d.lgs. n. 107 del 2018, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del «</em>prodotto<em>» dell’illecito, e non del solo profitto, per contrasto con tutti i parametri invocati nell’ordinanza di rimessione. Nonostante la già ricordata disposizione della legge delega n. 163 del 2017, che delegava il Governo a rivedere l’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 limitando l’oggetto della confisca ivi prevista al solo «</em>profitto derivato dalle previsioni del regolamento (UE) n. 596/2014<em>», il d.lgs. n. 107 del 2018 ha invece confermato la confisca obbligatoria, in via alternativa, del «</em>profitto<em>» o del «</em>prodotto<em>» dell’illecito, espungendo soltanto il riferimento ai «</em>beni utilizzati<em>» per commetterlo, presente nella versione previgente; in tal modo, il legislatore delegato ha riprodotto, seppure parzialmente, una disposizione che si espone ai medesimi vizi di legittimità costituzionale che affliggono la disciplina previgente. Anche tale disposizione deve pertanto essere dichiarata, in via consequenziale, costituzionalmente illegittima in parte qua.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto; va dichiarata, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 4, comma 14, del decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 107, recante «Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE», nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto.</em></p>