<p style="font-weight: 400; text-align: justify;"></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 6 giugno 2019 n. 139</strong></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., recante la stringente prescrizione della riserva di legge, che è assoluta (sentenza n. 180 del 2018), è parametro impropriamente evocato nel caso di specie perché riguarda le sanzioni penali, nonché quelle amministrative «</em>di natura sostanzialmente punitiva<em>» (sentenza n. 223 del 2018), e non già prestazioni personali e patrimoniali imposte per legge, alle quali fa invece riferimento l’art. 23 Cost.; l’obbligazione di corrispondere la somma prevista dalla disposizione di cui all’art.96 c.p.c. in tema di lite temeraria, pur perseguendo una finalità punitiva, costituendo un «</em>peculiare strumento sanzionatorio<em>» con una «</em>concorrente finalità indennitaria<em>» (sentenza n. 152 del 2016), non identifica una sanzione in senso stretto, espressione di un potere sanzionatorio, configurando invece un’attribuzione patrimoniale in favore della parte vittoriosa nella controversia civile e a carico della parte soccombente; prestazione che, in quanto istituita per legge, ricade nell’ambito dell’altro parametro evocato dal rimettente, l’art. 23 Cost., recante la prescrizione della riserva di legge, che è solo relativa (sentenze n. 269 e n. 69 del 2017, e n. 83 del 2015).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>L’art. 91 cod. proc. civ. prevede in generale che il giudice, con la sentenza che chiude il processo, condanni la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquidi l’ammontare insieme con gli onorari di difesa; se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave – aggiunge l’art. 96, primo comma, cod. proc. civ. – il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza. Per lungo tempo il regime della soccombenza si è retto su questo doppio binario: quello ordinario del rimborso delle spese di lite e quello aggravato del risarcimento del danno in caso di lite temeraria; nel 2006, in occasione di un intervento riformatore del giudizio civile di cassazione, il legislatore aveva introdotto, per la prima volta, una prescrizione inedita a corredo di tale regime della soccombenza: infatti, l’art. 385 cod. proc. civ., nel disciplinare le spese di lite con il richiamo dell’ordinario regime del codice di rito, aveva previsto, al quarto comma, aggiunto dall’art. 13 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della L. 14 maggio 2005, n. 80), che «[q]</em>uando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all’art. 375, la corte, anche d’ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave<em>»; disposizione questa che – «</em>diretta a disincentivare il ricorso per cassazione<em>» (ordinanza n. 435 del 2008) – era destinata ad avere vita breve perché abrogata dall’art. 46, comma 20, della legge 18 giugno 2009 n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile). La misura suddetta si traduceva in una somma diretta a sanzionare sia il ricorrente che, con colpa grave, avesse proposto il ricorso per cassazione, sia il resistente che parimenti versasse in colpa grave nel resistere con controricorso; somma che era sì determinata secondo un criterio equitativo, ma con un limite ben preciso parametrato al doppio del massimo delle tariffe professionali: in giurisprudenza (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 7 ottobre 2013, n. 22812) si è qualificata tale somma come «</em>una vera e propria sanzione processuale dell’abuso del processo perpetrato da una delle due parti<em>»; abuso che, nella specie, si è ritenuto sussistere, ad esempio, nella proposizione di un ricorso inammissibile perché tardivo. Le sezioni unite civili (Corte di cassazione, sentenza 4 febbraio 2009, n. 2636) hanno fatto applicazione di tale disposizione in un caso in cui il ricorso era inammissibile perché la procura non era stata rilasciata in epoca anteriore alla notificazione del ricorso; in entrambi questi precedenti la somma aggiuntiva è stata determinata secondo un criterio equitativo sì, ma nel rispetto del limite massimo di legge. Nel 2009 tale disposizione è stata abrogata, ma contestualmente una norma analoga, seppur non identica, è stata prevista nell’ordinaria disciplina delle spese di lite riferita a tutti i giudizi e non più solo al giudizio di cassazione; è stato così introdotto, dall’art. 45, comma 12, della legge n. 69 del 2009, il terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ. che prevede che «[i]</em>n ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata<em>». La funzione di questa somma è rimasta la stessa di quella prevista dal quarto comma dell’art. 385 cod. proc. civ.: una sanzione per l’abuso del processo a opera della parte soccombente mediante la condanna di quest’ultima, anche d’ufficio, al pagamento di tale somma in favore della controparte, oltre al (o indipendentemente dal) risarcimento del danno per lite temeraria; però, rispetto al quarto comma dell’art. 385 cod. proc. civ., il terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ. presenta un duplice elemento differenziale; da una parte, non si prevede più, come presupposto della condanna, la «</em>colpa grave<em>» della parte soccombente, perché l’</em>incipit<em> della disposizione censurata fa riferimento a «</em>ogni caso<em>», scilicet, di responsabilità aggravata che, come enunciato nella rubrica della disposizione, ne costituisce l’oggetto, sicché devono intendersi richiamati i presupposti del primo comma: aver la parte soccombente agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 20 aprile 2018, n. 9912); d’altra parte, soprattutto rileva, al fine della questione in esame, che il criterio di quantificazione della somma, oggetto della possibile condanna, è rimasto solo equitativo, non essendo più previsto il limite del doppio dei massimi tariffari.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>La nuova disposizione di cui all’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ. è stata inizialmente riprodotta – in termini analoghi, anche se non identici – nell’art. 26, secondo comma, dell’Allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) che ha parimenti previsto, nei giudizi innanzi al giudice amministrativo, la possibilità per il giudice, nel pronunciare sulle spese, di condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati; al pari dell’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ., anche l’art. 26 cod. proc. amm. prevedeva solo il criterio equitativo per la quantificazione della somma suddetta e, inizialmente, non conteneva alcun limite, diversamente dal quarto comma dell’art. 385 cod. proc. civ. Ciò è apparso al legislatore costituire una manchevolezza da emendare. È quanto emerge chiaramente dai lavori preparatori del disegno di legge 2486-A, di conversione in legge del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, in legge 11 agosto 2014, n. 114. Nel parere del Comitato per la legislazione si segnala l’opportunità di fissare criteri di quantificazione della somma in questione: si ha, allora, che l’art. 41 del d.l. n. 90 del 2014, recante una disposizione di contrasto dell’abuso del processo, nel testo formulato in sede di conversione in legge, ha novellato l’art. 26 cod. proc. amm., il cui secondo periodo del primo comma, nella formulazione attualmente vigente, prevede che «</em>il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati<em>». Mette conto anche ricordare che l’art. 31 del decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), recante disposizioni per la regolazione delle spese processuali nei giudizi innanzi alla Corte dei conti, contiene, al comma 4, una norma analoga a quella censurata: il giudice, quando pronuncia sulle spese, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte, o se del caso dello Stato, di una somma equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati. Quanto al processo tributario, l’art. 15, comma 2-bis, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nel testo da ultimo sostituito dall’art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156, recante «</em>Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli 6, comma 6, e 10, comma 1, lettere a) e b), della legge 11 marzo 2014, n. 23<em>», prevede che si applicano le disposizioni di cui all’art. 96, commi primo e terzo, cod. proc. civ. Tutte queste disposizioni – che integrano la disciplina delle spese di lite in sistemi processuali distinti (civile, amministrativo, contabile, tributario), ma ormai tra loro comunicanti dopo l’introduzione della </em>translatio iudicii<em> (art. 59 della legge n. 69 del 2009) – seppur declinate con alcune varianti, hanno una matrice comune: il contrasto dell’abuso del processo, sanzionato, in particolare, con la condanna della parte soccombente a favore della parte vittoriosa di una somma equitativamente determinata dal giudice. Questa obbligazione, che si affianca al regime del risarcimento del danno da lite temeraria, ha natura sanzionatoria dell’abuso del processo, commesso dalla parte soccombente, non disgiunta da una funzione indennitaria a favore della parte vittoriosa (sentenza n. 152 del 2016). Ciò perché l’attribuzione patrimoniale – a differenza di varie altre norme del codice di procedura civile che sanzionano con pene pecuniarie specifiche ipotesi di abuso del processo, quali quelle dell’inammissibilità o rigetto della ricusazione del giudice (art. 54, terzo comma, cod. proc. civ.) e dell’arbitro (art. 815, quinto comma, cod. proc. civ.), o dell’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza impugnata (artt. 283, secondo comma, e 431, quinto comma, cod. proc. civ.), o dell’inammissibilità, improcedibilità o rigetto dell’opposizione di terzo (art. 408 cod. proc. civ.) – è riconosciuta proprio in favore della parte vittoriosa, al di là del danno risarcibile per lite temeraria, e non già – come si sarebbe portati a ritenere – in favore dell’Erario, benché sia anche l’Amministrazione della giustizia a subire un pregiudizio come disfunzione e intralcio al suo buon andamento. Questa natura sanzionatoria della previsione censurata risulta, in tal modo, ibridata da una funzione indennitaria, realizzando complessivamente un assetto non irragionevole (sentenza n. 152 del 2016).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Va precisato che l’equità alla quale fa riferimento la disposizione censurata nel caso di specie non è assimilabile al parametro di valutazione, previsto in generale dall’art. 1226 del codice civile, come alternativo e sussidiario rispetto ai criteri legali di quantificazione del danno risarcibile. Secondo tale ultima disposizione, se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con «</em>valutazione equitativa<em>». Si tratta di un criterio di misurazione di qualcosa (il danno contrattuale o aquiliano) che esiste nell’</em>an<em>, ma che il danneggiato non riesce a provare come perdita subita e mancato guadagno secondo il canone legale degli artt. 1223 e 2056 cod. civ. Può supplire allora un criterio di liquidazione alternativo e sussidiario di tale grandezza predata, quale oggetto di un’obbligazione civile che trova la propria fonte nella generale disciplina della responsabilità contrattuale o extracontrattuale: la valutazione equitativa. Ciò che peraltro può occorrere proprio in ipotesi di risarcimento del danno da lite temeraria, ai sensi del primo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., che ben potrebbe essere determinato con valutazione equitativa del giudice ai sensi dell’art. 1226 cod. civ. Né, per la stessa ragione, la norma censurata è assimilabile alla «</em>valutazione equitativa delle prestazioni<em>» ai sensi dell’art. 432 cod. proc. civ., che parimenti presuppone che sia certo il diritto, ma non sia possibile determinare la somma dovuta dalla parte obbligata. Analoga può essere la valutazione equitativa del giudice nel caso di accoglimento dell’azione di classe prevista dall’art. 140-bis, comma 12, del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo, a norma dell’articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229). Invece, per la Corte il terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ, disposizione censurata, prevede che è il giudice a determinare l’</em>an<em> e il </em>quantum<em> della prestazione patrimoniale imposta alla parte soccombente, già obbligata </em>ex lege<em> al rimborso delle spese processuali e al risarcimento (integrale) del danno da lite temeraria. La valutazione equitativa del giudice non si limita a quantificare una grandezza predata, ma dà vita a una nuova obbligazione avente a oggetto una prestazione patrimoniale ulteriore e distinta. Né tampoco si tratta di una pronuncia “</em>secondo equità<em>”, alternativa, in via derogatoria, alla pronuncia “</em>secondo diritto<em>”, quale quella di cui all’art. 113 cod. proc. civ., ovvero quella richiesta dalle parti in caso di diritti disponibili ai sensi dell’art. 114 cod. proc. civ., in tal caso l’equità venendo in rilievo come canone di giudizio per la decisione della lite. È questo, in generale, il parametro valutativo che il giudice di pace è chiamato a utilizzare per la decisione di controversie di minor valore; parametro che peraltro deve ritenersi necessariamente integrato dai «</em>principi informatori della materia<em>» (sentenza n. 206 del 2004), divenuti «</em>principi regolatori della materia<em>» (art. 339, terzo comma, cod. proc. civ.) dopo la riforma processuale del 2006. Anche la decisione degli arbitri può essere pronunciata secondo equità (art. 822 cod. proc. civ.), mentre le regole di diritto relative al merito della controversia vengono in rilievo, all’opposto, solo se espressamente previste dalle parti, nel compromesso o nella clausola compromissoria, o dalla legge (art. 829, terzo comma, cod. proc. civ.). Ma in tutte queste ipotesi l’equità come canone di giudizio non dà luogo ad alcuna nuova prestazione patrimoniale, differentemente dalla disposizione attualmente censurata. Parimenti su un piano diverso operano le misure di coercizione indiretta, quale quella di cui all’art. 614-bis cod. proc. civ., che prevede che il giudice fissa, su richiesta della parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento, dove peraltro rileva, all’opposto, un criterio di non manifesta iniquità della somma così determinata. In breve, nel terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., oggetto della questione in esame, l’equità – lungi dall’essere criterio di misurazione di una grandezza predata ovvero parametro di giudizio alternativo alle regole di diritto o astreinte processuale – costituisce criterio integrativo di una fattispecie legale consistente – com’è appunto nella norma censurata – in una prestazione patrimoniale imposta in base alla legge, venendo allora allora in rilievo la riserva (relativa) di legge di cui all’art. 23 Cost., parametro correttamente evocato dal giudice rimettente nel solco della già richiamata pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione (Cassazione, sezioni unite civili, 5 luglio 2017, n.16601).</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Con riferimento al parametro di cui all’art.23 Cost. (prestazioni patrimoniali imposte e riserva di legge) va ribadito il principio secondo cui «[l]</em>a riserva di legge, di carattere relativo, prevista dall’art. 23 Cost. non consente di lasciare la determinazione della prestazione imposta all’arbitrio dell’ente impositore, ma solo di accordargli consistenti margini di regolazione delle fattispecie. La fonte primaria non può quindi limitarsi a prevedere una prescrizione normativa “<em>in bianco</em>”, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini, ma deve invece stabilire sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina, idonei a delimitare la discrezionalità dell’ente impositore nell’esercizio del potere attribuitogli, richiedendosi in particolare che la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dai pertinenti precetti legislativi<em>» (sentenza n. 69 del 2017). Il rispetto della riserva di legge, seppur relativa, prescritta dall’art. 23 Cost. richiede che la fonte primaria stabilisca sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina, richiedendosi in particolare che la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dalla legge (sentenze n. 83 del 2015 e n. 115 del 2011). Numerose sono le pronunce di illegittimità costituzionale di prestazioni imposte senza una sufficiente determinazione dei criteri per la loro quantificazione (</em>ex plurimis<em>, sentenze n. 174 del 2017, n. 83 del 2015, n. 33, n. 32 e n. 22 del 2012); si tratta però di fattispecie di prestazioni varie, essenzialmente di natura tributaria, la cui quantificazione era stata rimessa all’autorità amministrativa. Invece, l’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ. assegna al giudice, nell’esercizio della relativa funzione giurisdizionale, il compito di quantificare la somma da porre a carico della parte soccombente e a favore della parte vittoriosa sulla base di un criterio equitativo. Il legislatore, esercitando la propria discrezionalità particolarmente ampia nella conformazione degli istituti processuali (</em>ex plurimis<em>, sentenza n. 225 del 2018), ha fatto affidamento sulla giurisprudenza che, nell’attività maieutica di formazione del diritto vivente, soprattutto della Corte di cassazione (sentenza n. 102 del 2019), può specificare – così come ha già fatto – il precetto legale. Si ha, infatti, che nella fattispecie, la giurisprudenza di legittimità, anche recente, ha, appunto, precisato che il terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., rinviando all’equità, richiama il criterio di proporzionalità secondo le tariffe forensi e quindi la somma da tale disposizione prevista va rapportata «</em>alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa<em>» (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanze 11 ottobre 2018, n. 25177 e n. 25176). Questo criterio, ricavato in via interpretativa dalla giurisprudenza, è peraltro coerente e omogeneo rispetto sia a quello originariamente previsto dal quarto comma dell’art. 385 cod. proc. civ. (che contemplava il limite del doppio dei massimi tariffari), sia a quello attualmente stabilito dal primo comma dell’art. 26 cod. proc. amm. (che similmente prevede il limite del doppio delle spese di lite liquidate secondo le tariffe professionali). Può dirsi, pertanto, che la somma al cui pagamento il giudice può condannare la parte soccombente in favore della parte vittoriosa ha sufficiente base legale e quindi – ferma restando la discrezionalità del legislatore di calibrare meglio, in aumento o in diminuzione, la relativa quantificazione – è comunque rispettata la prescrizione della riserva relativa di legge di cui all’art. 23 Cost.</em></p> <p style="font-weight: 400; text-align: justify;"><em>Va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 96, terzo comma, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento all’art. 25, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Verona con l’ordinanza indicata in epigrafe; va dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ., sollevata, in riferimento all’art. 23 Cost., dal Tribunale ordinario di Verona.</em></p>