Consiglio di Stato, Sez. III, ordinanza 13 luglio 2022 n. 5921
QUESTIONE RIMESSA
Va sottoposta all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la questionese l’appello proposto dinanzi al Consiglio di Stato avverso una sentenza del Tar Sicilia (sede di Palermo o Sezione staccata di Catania) configuri una ipotesi di inammissibilità dell’impugnazione e di conseguente passaggio in giudicato della impugnata sentenza, ovvero valga ad instaurare un valido rapporto processuale suscettibile di proseguire dinanzi al competente Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana attraverso il meccanismo della riassunzione a norma dell’art. 50 cod. proc. civ..
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- L’appello, avente ad oggetto l’impugnazione di una sentenza del Tar Sicilia, Sezione staccata di Catania, avrebbe dovuto essere proposto dinanzi al Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana (d’ora in poi, anche C.g.a.) ai sensi dell’art. 100 c.p.a..
Si tratta di disposizione questa non innovativa atteso che, già prima dell’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, l’art. 40, comma 2, l. 6 dicembre 1971, n. 1034 prevedeva che “L’appello contro le sentenze di tale tribunale [Tar Sicilia] è portato al Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana”.
Analoga disposizione è contenuta nell’art. 4, comma 3, r.d. 24 dicembre 2003, n. 373 (Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana concernenti l’esercizio nella regione delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato).
La costante giurisprudenza del Consiglio di Stato, già a partire dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 21 del 4 luglio 1978, ha affermato che l’appello contro una sentenza del Tar Sicilia, erroneamente proposto innanzi al Consiglio di Stato, deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza impugnata, non essendo applicabile l’istituto della translatio iudicii né riconoscibile l’errore scusabile ex art. 37 c.p.a..
Tali conclusioni sono state confermate dalla stessa Adunanza Plenaria con l’ordinanza 19 novembre 2012, n. 34 e con la sentenza 22 aprile 2014, n. 12, nonché dalle Sezioni del Consiglio di Stato, con orientamento maggioritario (sez. III, 1 giugno 2018, n. 3304; 3 maggio 2016, n. 1710; sez. IV, 9 novembre 2015, n.5088; sez. V, 17 giugno 2014, n. 3062).
Peraltro, nonostante l’intervento dell’Adunanza plenaria n. 21 del 1978 si registravano ancora due diversi orientamenti giurisprudenziali in ordine alle conseguenze derivanti da tale inammissibilità.
Secondo un primo, prevalente orientamento (Cons. St., sez. IV, 21 ottobre 1993, n. 898; id. 19 febbraio 1990, n. 103), più risalente nel tempo, dalla radicale inammissibilità dell’appello consegue il passaggio in giudicato della sentenza del Tar Sicilia impugnata erroneamente avanti al Consiglio di Stato, in ragione del fatto che, con la proposizione di un appello inammissibile, il potere di impugnazione si è definitivamente consumato.
Un orientamento minoritario (Cons. St., sez. IV, 18 dicembre 2013, n 6091; id., sez. III, 16 aprile 2011, n. 2340) riteneva, invece, che l’inammissibilità dell’impugnazione proposta avanti al Consiglio di Stato, incompetente funzionalmente a conoscere gli appelli contro le sentenze del Tar Sicilia, non preclude la riassunzione del giudizio di appello avanti al Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione siciliana.
La declaratoria di inammissibilità dell’appello per difetto di competenza, secondo tale orientamento, non produrrebbe la consumazione del potere di impugnare, perché la parte appellante potrebbe, nel termine di legge, riassumere il giudizio avanti al C.g.a.. Seguendo tale indirizzo ermeneutico, nel vigore della precedente disciplina processuale, Cons. St., sez. V, 21 luglio 2009, n. 4580 aveva affermato che, in mancanza di una qualsiasi contraria previsione, dovrebbe trovare applicazione la disposizione contenuta nell’art. 50 cod. proc. civ., a mente del quale, in caso di incompetenza del giudice adito, la causa prosegue davanti al giudice competente, qualora sia tempestivamente riassunta nel termine fissato dalla sentenza (di incompetenza) o, comunque, di sei mesi dalla sua pubblicazione.
Proprio al fine di dirimere tale contrasto giurisprudenziale Cons. St., sez. III, ord., 15 novembre 2013, n. 5443 aveva rimesso all’Adunanza plenaria la questione se il principio generale, secondo il quale dopo la declaratoria d’incompetenza del giudice adito il giudizio prosegue innanzi al giudice competente se riassunto nel termine di trenta giorni, possa trovare applicazione anche nel giudizio di appello, nel caso di ricorso proposto dinanzi al Consiglio di Stato in luogo del Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana e viceversa, o se, invece, questo deve arrestarsi di fronte alla regola generale secondo cui l’impugnazione dichiarata inammissibile, anche se per difetto di competenza, comporta il passaggio in giudicato della sentenza gravata.
Aveva chiarito che l’irreversibilità e irrimediabilità degli effetti processuali, conseguente alla declaratoria di inammissibilità dell’appello non assistita dalla translatio iudicii, appare questione di estrema delicatezza, in un’ottica orientata al rispetto dei principi degli artt. 24 e 111 Cost., ove si consideri che la riassunzione del processo avanti al giudice competente è regola, anche nel nuovo processo amministrativo, intesa a salvaguardare la parte ricorrente dalla decadenza che inevitabilmente discenderebbe, altrimenti, dall’error in procedendo compiuto nella scelta del giudice territorialmente incompetente.
Sotto quest’ultimo profilo, peraltro, potrebbe emergere anche la considerazione che, quando si tratti dell’esercizio dell’azione in primo grado, l’individuazione del giudice competente è regolata (tanto in sede civile quanto in quella amministrativa) da norme relativamente complesse e in varie fattispecie di non sicura applicazione, il che giustifica la scelta del legislatore di conservare comunque gli effetti utili dell’atto introduttivo, quasi per una presunzione ope legis di “scusabilità dell’errore”; laddove in secondo grado l’individuazione del giudice competente è assolutamente univoca e l’eventuale errore della parte non presenta alcun margine di scusabilità.
L’Adunanza plenaria 22 aprile 2014, n. 12 ha risolto il contrasto, richiamando l’allora prevalente orientamento della Corte di cassazione.
Ha dato atto di un orientamento minoritario della Corte di Cassazione (sez. I, 30 agosto 2004, n. 17395), secondo cui l’appello proposto davanti ad un giudice incompetente non configura una ipotesi di inammissibilità dell’impugnazione, con conseguente possibilità di riassumere il processo nella sola ipotesi di incompetenza territoriale, mentre ha negato la riassunzione per i casi di incompetenza funzionale del giudice adito.
Ha ritenuto però di aderire al contrario, e maggioritario, orientamento secondo cui l’individuazione del giudice dell’appello non può ricondursi alla nozione di competenza risultante dal Codice di procedura civile, Capo primo, Titolo primo, Libro primo. Le attribuzioni dei poteri in primo e in secondo grado non hanno, infatti, eadem ratio e, dunque, non si possono applicare analogicamente, per l’individuazione della cognizione in grado di appello, gli artt. 50 e 38 cod. proc. civ..
Ne deriva che l’erronea individuazione del giudice legittimato a decidere dell’impugnazione non è inquadrabile quale questione di competenza, ma di ammissibilità del gravame, da dichiararsi preclusa se prospettata a un giudice diverso da quello individuato per legge dall’art. 341 cod. proc. civ., determinandosi la consumazione del potere di impugnare, ove siano decorsi i termini per il gravame, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza impugnata (Cass., sez. I, 7 dicembre 2011, n. 26375).
Tale orientamento restrittivo si fonda su un argomento testuale, ossia la mancata attribuzione delle funzioni ai giudici delle impugnazioni in termini espressi di “competenza”, e su uno sistematico, ovverosia l’incoerenza fra l’affermare un principio di favore per chi esercita il diritto di impugnazione, sbagliando ad individuare il giudice, e il rispetto delle regole in materia di inammissibilità e improcedibilità, cui il legislatore ha subordinato l’esercizio di impugnazione (Cass., sez. un., 22 novembre 2010, n. 23594; id., sez. III, 10 febbraio 2005, n. 2709).
L’Adunanza Plenaria ha motivato l’adesione alla conclusione in ordine alla impossibilità di estendere al giudizio di appello le disposizioni dettate per il primo grado in materia di translatio iudicii in ragione della diversità strutturale del ricorso al Giudice in primo e in secondo grado, ritenendo le stesse estensibili anche al processo amministrativo atteso che anche in tale rito l’erronea individuazione del giudice di appello da parte del ricorrente non determina un problema di competenza territoriale.
- Il Collegio rileva però che l’orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione, sul quale si è fondato l’arresto della Adunanza plenaria n. 12 del 2014, risulta ormai pressoché superato, essendo nettamente prevalente la tesi secondo cui l’appello proposto dinanzi a un giudice diverso da quello indicato per legge non determina l’inammissibilità della impugnazione ai sensi dell’art. 358 cod. proc. civ. (secondo cui “L’appello dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto, anche se non è decorso il termine fissato dalla legge”), ma è idoneo a instaurare un valido rapporto processuale suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della translatio iudicii, nell’ipotesi sia di appello proposto dinanzi a un giudice territoriale non corrispondente a quello indicato dalla legge, che di appello proposto dinanzi a un giudice di grado diverso rispetto a quello dinanzi al quale avrebbe dovuto essere proposto il gravame.
In particolare, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione 14 settembre 2016, n. 18121, intervenute a comporre il contrasto tra le Sezioni semplici sulla applicabilità o meno della translatio iudicii nel caso di proposizione dell’appello dinanzi a un giudice diverso da quello indicato dall’art. 341 cod. proc. civ., non hanno ritenuto condivisibile l’assunto da cui muove l’orientamento giurisprudenziale restrittivo che esclude l’applicabilità dell’art. 50 cod. proc. civ., e ciò in quanto il vizio derivante dall’individuazione di un giudice di appello diverso rispetto a quello determinato ai sensi dell’art. 341 cod. proc. civ. non rientra tra i casi per i quali è espressamente prevista dalla legge la sanzione della inammissibilità del gravame e nemmeno tra quelli in cui non sia configurabile il potere di impugnare: il vizio in esame, infatti, non incide sull’esistenza del potere di impugnazione, ma solo sul suo legittimo esercizio, essendo stato tale potere esercitato dinanzi ad un giudice diverso da quello al quale andava proposto il gravame.
Hanno chiarito le Sezioni Unite che una volta ricondotta nella nozione di “competenza” la regola che individua il giudice legittimato a conoscere dell’appello, sembra difficile escludere l’applicabilità anche al relativo giudizio del principio della translatio iudicii previsto dall’art. 50 cod. proc. civ., ove solo si consideri che tale norma è collocata tra le disposizioni generali contenute nel Titolo primo del Libro primo, e non opera alcuna distinzione tra competenza di primo e secondo grado.
Orbene, la giurisprudenza, che propende per la tesi della non estensibilità della disposizione in esame al giudizio di appello, si basa su un giudizio di incompatibilità che, a ben vedere, non è richiesto dall’art. 359 cod. proc. civ..
Tale norma, infatti, nello stabilire che per il giudizio di appello davanti al tribunale o alla Corte di appello si osservano le norme che regolano il procedimento di primo grado davanti al tribunale, purchè non siano “incompatibili” con le disposizioni proprie del giudizio di impugnazione, si riferisce alle norme contemplate nel Titolo primo del Libro secondo del Codice di rito (artt. 163 ss.), e non anche a quelle contenute nel Titolo primo del Libro primo, aventi di per sè una portata generale ed applicabili, quindi, in via di principio anche al giudizio di appello, salvo specifiche limitazioni.
La Corte di Cassazione n. 18121 del 2016 ha poi chiarito che non potrebbe pervenirsi a diversa conclusione ove si intendesse aderire all’indirizzo, ricorrente in dottrina, che tende ad accostare l’ipotesi della competenza funzionale al fenomeno della giurisdizione, piuttosto che a quello della competenza vera e propria.
Tali argomentazioni sono ritenuti utili dal Collegio per controdedurre su quanto l’Adunanza plenaria n. 12 del 2014 aveva affermato in ordine alla “competenza funzionale inderogabile” di cui è titolare il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana in relazione alla impugnazione degli atti proposti contro le sentenze del Tar Sicilia, con la conseguenza che le norme che individuano il giudice dell’appello, avendo carattere funzionale, non atterrebbero alla competenza territoriale in senso tecnico, ma al luogo dove ha sede il giudice naturale e non sarebbe quindi possibile estendere le disposizioni che, in primo grado, disciplinano la riassunzione del processo avanti al giudice competente.
Ha condivisibilmente affermato la Corte di Cassazione che il legislatore, con gli artt. 59, l. n. 69 del 2009 e 11 c.p.a., ha esteso l’applicabilità della translatio iudicii al caso di errore nell’individuazione del giudice munito di giurisdizione e che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 2013, analogo effetto conservativo è riconosciuto anche nei rapporti tra giudici e arbitri; non si vede dunque per quali ragioni non potrebbe ritenersi sanabile con lo stesso meccanismo l’atto di appello proposto in violazione delle norme sulla competenza funzionale.
Diversamente opinando, si finirebbe con l’attribuire all’errore nella individuazione del giudice territorialmente competente per l’appello conseguenze ben più rilevanti rispetto all’ipotesi di errore nella individuazione del giudice munito di giurisdizione; il che, alla luce dell’evoluzione subita dal nostro ordinamento processuale, si tradurrebbe in una incoerenza del sistema difficilmente giustificabile.
Le Sezioni Unite hanno poi richiamato i principi dell’effettività della tutela giurisdizionale, corollario del diritto di difesa, di cui all’art. 24 Cost., e del giusto processo, di cui all’art. 6, par. 1, della Cedu, immanenti nel nostro sistema processuale, ai quali si deve ispirare l’interpretazione delle norme processuali in generale e, più in particolare, di quelle volte all’individuazione del giudice munito di giurisdizione e di competenza (Corte cost. n. 77 del 2007); seguendo gli insegnamenti del giudice delle leggi (sentenza n. 220 del 1986, ma v. anche sentenze n. 123 del 1987 e n. 579 del 1990) “Il giusto processo civile viene celebrato non già per sfociare in pronunce procedurali che non coinvolgono i rapporti sostanziali delle parti che vi partecipano – siano esse attori o convenuti – ma per rendere pronuncia di merito rescrivendo chi ha ragione e chi ha torto: il processo civile deve avere per oggetto la verifica della sussistenza dell’azione in senso sostanziale di chiovendiana memoria, nè deve, nei limiti del possibile, esaurirsi nella discettazione sui presupposti processuali, e per evitare che ciò si verifichi si deve adoperare il giudice”.
Da ultimo la stessa Corte costituzionale (sentenza 9 luglio 2021, n. 148) ha affermato che le disposizioni processuali non sono fini a se stesse, ma funzionali alla miglior qualità della decisione di merito; a tale principio “si ispira pressoché costantemente – nel regolare questioni di rito – il vigente codice di procedura civile, ed in particolare vi si ispira la disciplina che all’individuazione del giudice competente – volta ad assicurare, da un lato, il rispetto della garanzia costituzionale del giudice naturale e, dall’altro lato, l’idoneità (nella valutazione del legislatore) a rendere la migliore decisione di merito – non sacrifica il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita oggetto della loro contesa”.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18121 del 2016 ha, quindi, concluso che la nozione di “competenza funzionale” propria del giudice di appello, nella quale si intrecciano criteri di competenza “orizzontale” e “verticale”, induce a ritenere applicabile il principio della translatio iudicii non solo nella ipotesi di erronea individuazione del giudice territorialmente competente, ma anche in quella di erronea individuazione del giudice competente per grado. In entrambi i casi, infatti, si è in presenza di un errore che cade esclusivamente sulla individuazione del giudice dinanzi al quale deve essere proposto l’appello avverso la decisione di primo grado, e che, quindi, non incide sulla esistenza del potere di impugnazione, ma solo sul modo di esercizio di tale potere.
Pertanto, una volta che si riconosca effetto conservativo all’atto di appello proposto dinanzi a un giudice territorialmente incompetente, non si vede per quale ragione debba escludersi il medesimo effetto nel caso di gravame (sempre che la scelta del mezzo di impugnazione sia corretta) proposto ad un giudice non corrispondente per grado a quello indicato dall’art. 341 cod. proc. civ..
Se è vero, infatti, che nell’uno o nell’altro caso, si è in presenza di un vizio che attiene alla “competenza funzionale” del giudice di appello, non possono che derivarne, per ragioni di coerenza del sistema, identiche conseguenze, rinvenibili, sul piano del diritto positivo, nel meccanismo delineato dall’art. 50 cod. proc. civ..
- Come si è detto, a seguito dell’arresto delle Sezioni Unite n. 18121 del 2016 sono pressoché isolate le pronunce ancora ancorate alla tesi secondo cui l’appello erroneamente proposto ad un giudice diverso da quello legittimato a riceverlo esula dalla nozione di competenza dettata dal codice di procedura civile per il giudizio di primo grado, con la conseguente esclusione dell’applicabilità dell’art. 50 cod. proc. civ. e della regola della translatio iudicii (Cass. civ., sez. VI, 5 marzo 2018, n.5092).
La giurisprudenza maggioritaria della Corte di cassazione (sez. un., 18 giugno 2020, n. 11866; sez. III, 15 maggio 2018, n. 11740; id. 16 ottobre 2017, n. 24274) si è conformata alle Sezioni Unite n. 18121, chiarendo che l’effetto conservativo e la traslatio iudicii presuppongono che il mezzo di impugnazione sia quello ammesso dalla legge, rimanendo gli stessi esclusi quando sia stato esperito un rimedio diverso da quello concesso dalla legge, quale il ricorso per cassazione invece che l’appello (sez. VI, 20 luglio 2020, n. 15395).
Alla luce di tale nuovo orientamento, sembra al Collegio non conforme ai principi che regolano il processo la declaratoria di inammissibilità dell’appello, con conseguente passaggio in decisione della sentenza di primo grado, avverso una sentenza del Tar Sicilia, solo perché proposto dinanzi al Consiglio di Stato e non al C.g.a..
- Pare al Collegio che a rendere ancora più evidente la non conformità al principio del giusto processo la conclusione in ordine alla non applicabilità della traslatio iudicii è la natura del Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione siciliana, le cui due Sezioni (con funzioni, rispettivamente, consultive e giurisdizionali) costituiscono, ai sensi dell’art. 1, comma 2, 24 dicembre 2003, n. 373, “Sezioni staccate del Consiglio di Stato”, con la conseguenza che più che di impugnazione erroneamente proposta “ad un giudice diverso da quello legittimato a riceverlo” si tratterebbe di appello proposto a diversa Sezione dello stesso giudice.
Il rapporto che sussiste tra Consiglio di Stato e C.g.a. è stato ben delineato dal parere della sez. I del Consiglio di Stato 11 febbraio 2021, n. 186, che ha riconosciuto la possibilità per il Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione siciliana di deferire l’affare consultivo all’Adunanza generale del Consiglio di Stato e, per le controversie in sede giurisdizionale, di rimettere la decisione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in esatta corrispondenza all’analoga facoltà delle altre Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, “in considerazione del carattere unitario del complesso costituito dal Consiglio in questione e dal Consiglio di Stato”.
Giova infine aggiungere come, in effetti, l’art. 100 c.p.a. individua il giudice competente a decidere le impugnazioni delle sentenze del Tar Sicilia (“Avverso le sentenze dei tribunali amministrativi regionali è ammesso appello al Consiglio di Stato, ferma restando la competenza del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana per gli appelli proposti contro le sentenze del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia”) ma non gli effetti derivanti dall’erronea proposizione dell’appello (dinanzi al Consiglio Stato in luogo del C.g.a.), con la conseguenza che una lettura costituzionalmente orientata della norma impone di ritenere applicabile anche in appello l’istituto della translatio iudicii, pena la violazione del principio del giusto processo e dell’effettività della tutela, che sarebbero sacrificati solo perché il ricorso è stato proposto ad una Sezione diversa dello stesso giudice di appello
- Il Collegio – considerato che l’Adunanza plenaria n. 12 del 2014 aveva assunto come base del proprio argomentare l’allora prevalente orientamento della Corte di cassazione che escludeva l’applicabilità dell’istituto della translatio iudicii – alla luce del mutato quadro giurisprudenziale della stessa Corte di cassazione ritiene di dover nuovamente investire l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ai sensi del comma 3 dell’art. 99 c.p.a., anche in considerazione della rilevanza della questione, che incide sul diritto di difesa costituzionalmente garantito, in materie toccanti diritti fondamentali della persona, come nell’appello all’esame del Collegio, ma anche in materie economicamente sensibili come gli appalti o rilevanti nella vita di ogni cittadino, quale l’edilizia (è il caso affrontato dal Cons. St., sez. V, 17 giugno 2014, n. 3062).
- Il Collegio sottopone dunque all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato il quesito “se l’appello proposto dinanzi al Consiglio di Stato avverso una sentenza del Tar Sicilia (sede di Palermo o Sezione staccata di Catania) configuri una ipotesi di inammissibilità dell’impugnazione e di conseguente passaggio in giudicato della impugnata sentenza, ovvero valga ad instaurare un valido rapporto processuale suscettibile di proseguire dinanzi al competente Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana attraverso il meccanismo della riassunzione a norma dell’art. 50 cod. proc. civ.”.
Valuterà l’Adunanza plenaria, ove ritenga di aderire alla tesi della applicabilità della translatio iudicii, se decidere l’appello nel merito o restituirlo alla Sezione rimettente per l’ulteriore corso.