Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 23 luglio 2024, n. 20062
PRINCIPIO DI DIRITTO
Le Sezioni Unite Civili, con sentenza n. 20062 del 2024, hanno dichiarato l’inammissibilità del ricorso mediante il quale veniva dedotta, con riferimento agli artt. 24, 113, 103 Cost., 7 e 133, d.lgs. n. 104 del 2010 (“codice del processo amministrativo”), 12 delle ‘Preleggi’, 1360 cod.civ., 1 e 3, l. n. 689 del 1981, la violazione dei limiti esterni della giurisdizione e l’eccesso di potere per sconfinamento nella potestà del legislatore con violazione dell’art. 133, d.lgs. 104 del 2010. Deve, pertanto, escludersi che la sentenza impugnata abbia esorbitato dai limiti esterni della giurisdizione amministrativa sol perché il Consiglio di Stato ha ritenuto che è da sussumere nelle previsioni di cui all’art. 38, d.P.R. n. 380 del 2001, «come interpretato dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 17/2020», la fattispecie decadenziale, oggetto di giudizio, riferibile ai permessi di costruire rilasciati, ai sensi degli artt. 59 e 60, l. r. n. 12 del 2005, sotto la condizione del rispetto della destinazione agricola dei terreni vincolati.
TESTO RILEVANTE DELLA PRONUNCIA
Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 24, 113, 103 Cost., 7 e 133, d.lgs. n. 104 del 2010 (“codice del processo amministrativo”), 12 delle ‘Preleggi’, 1360 cod.civ., 1 e 3, l. n. 689 del 1981, violazione dei limiti esterni della giurisdizione, eccesso di potere per sconfinamento nella potestà del legislatore con violazione dell’art. 133, d.lgs. 104 del 2010.
Lamenta, in particolare, che il Consiglio di Stato ha ritenuto erroneamente l’esistenza di un vuoto normativo nella l. r. n. 12 del 2005 in punto di sanzioni da applicarsi nel caso in cui l’imprenditore agricolo o coltivatore edifichi una residenza e strutture funzionali all’attività di coltivazione del fondo ma poi interrompa tale attività, creando all’uopo una sanzione, mediante l’applicazione dell’analogia dell’art. 38 d.P.R. n. 380 del 2001, riguardante la ben diversa ipotesi dell’annullamento del permesso di costruire ab origine illegittimo, laddove nemmeno il Comune di Cambiago ha mai sostenuto che il titolo edilizio rilasciato fosse viziato sin dal momento del rilascio.
Evidenzia che nel 2004 l’impresa agricola esisteva ed era operante (quanto meno sino al 2008) e che il ricorrente aveva sottoscritto l’atto d’impegno richiesto dalla normativa regionale, la quale persegue unicamente l’interesse pubblico al mantenimento dell’uso agricolo dell’area interessata, non già quello al continuativo svolgimento dell’attività di coltivazione agricola, tanto è vero che se viene approvato un nuovo PGT che ne cambia la destinazione urbanistica, l’efficacia dell’impegnativa trascritta cessa ipso iure come testualmente previsto dall’art. 60, comma 2, lett. a), ultima parte, l. r. n. 12 del 2005.
Assume, ancora, il ricorrente che, diversamente opinando, il titolo edilizio legittimamente assentito risulterebbe precario, destinato a cadere non appena l’attività di coltivazione subisca una anche breve interruzione, che l’art. 31 del d.P.R. citato prevede la sanzione per il cambio della destinazione d’uso, che tuttavia il Comune non ha mai contestato che il fondo agricolo avesse subito un mutamento d’uso, ed insiste nella non sanzionabilità di una condotta (interruzione delle coltivazioni) che non frutto né di dolo, né di colpa, ma pienamente consentita dall’ordinamento e talvolta dovuta a cause di forza maggiore (morte, malattia, fallimento).
Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 24, 103, 113 Cost., 7 e 133, d.lgs. 104 del 2010, diniego di giurisdizione per omessa rimessione di questione interpretativa alla Corte di Giustizia. Lamenta, in particolare, che l’interpretazione seguita dal giudice amministrativo degli artt. 59 e 60, l. r. n. 12 del 2005, in combinato disposto con l’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui, in caso di sopravvenuta decadenza del permesso di costruire, l’opera nel frattempo realizzata sia destinata ad essere demolita, urta con le norme del Trattato UE (artt. 5 e 6), con quelle CEDU (artt. 1 e 6 del protocollo aggiuntivo della CEDU), con la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (art. 17), che impongono il rispetto del principio di proporzionalità, di legalità e tutela dei beni privati, per cui non essendo possibile accedere ad una soluzione normativa che imponga la demolizione di quanto regolarmente edificato per effetto di un titolo decaduto ex nunc il Consiglio di Stato ha errato nell’omettere di rimettere alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267, comma 3, T.F.U.E., la questione pregiudiziale al riguardo segnalata.
Il ricorrente sollecita la Corte a rimeditare l’orientamento maturato dopo la sentenza della Corte di Giustizia Europea, Grande Sezione, 21 dicembre 2021, C-497/20 Randstad – Italia (decisione sul rinvio pregiudiziale delle Sezioni Unite della Suprema Corte di cassazione della Repubblica Italiana con ord. n. 19598/2020).
I motivi di ricorso si appalesano entrambi inammissibili. Sulla prima questione devoluta alla disamina di queste Sezioni Unite, va osservato che il ricorrente si duole del fatto che il Consiglio di Stato avrebbe illegittimamente creato la regula iuris rilevante nel caso concreto, quanto al regime sanzionatorio applicabile, assimilando l’ipotesi – ritenuta nella specie sussistente – della decadenza del permesso di costruire, cioè la perdita di efficacia del provvedimento con effetti ex nunc, «patologia non espressamente contemplata dal D.P.R. n. 380/2001», all’ipotesi affatto diversa dell’annullamento del titolo edilizio ab origine illegittimo, dovendo in un caso come nell’altro qualificarsi come «abusive le opere realizzate» e «per analogia» entrambe «sanzionate in applicazione dei criteri enunciati dall’art. 38 del D.P.R. n. 380/2001.»
Il giudice amministrativo di appello, al riguardo, ha osservato che la decadenza «determina una situazione di fatto per molti aspetti identica a quella che si crea in caso di annullamento di un titolo edilizio, situazione – questa ultima – disciplinata all’art. 38 del D.P.R. n. 380/2001, caratterizzata dalla realizzazione di opere edilizie sulla base di un titolo edilizio che in un momento successivo perde efficacia: il dato che differenzia le due situazioni, in definitiva, deve essere individuato solo nel fatto che l’art. 38 presuppone un titolo edilizio viziato ad origine, mentre la decadenza del titolo, dipendente dall’inveramento di una condizione (risolutiva) o dalla violazione di un obbligo (dipendente da un atto d’impegno ‘che preveda il mantenimento della destinazione dell’immobile al servizio dell’attività agricola’), si ricollega ad una patrologia sopravvenuta al rilascio del titolo.»
L’odierno ricorrente, altresì, dissente dalla sentenza n. 17/2020 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, richiamata dal giudice amministrativo di appello, circa l’esatta delimitazione dei vizi (formali ovvero sostanziali) che consentono, in luogo della demolizione, l’applicazione del regime di cd. “fiscalizzazione” dell’abuso edilizio previsto dall’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. edilizia) e richiama, ad ulteriore conferma dell’iniquità della normativa regionale lombarda, così interpretata, «la legislazione di altre Regioni, che nel caso di cessazione dell’attività agricola consentirebbero il recupero abitativo del fabbricato previo pagamento degli oneri di urbanizzazione.»
E’ principio ormai consolidato (tra le altre, Cass., Sez. U., n. 1034/2019; n. 8311/2019; n. 36899/2021; n. 10078/2023) che l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata al legislatore, denunciato in sede di ricorso alle Sezioni Unite avverso sentenza di un giudice speciale (nella specie, del giudice amministrativo), è configurabile solo allorché detto giudice abbia applicato non la norma esistente, ma una norma da lui creata, esercitando un’attività di produzione normativa che non gli compete, e non invece quando si sia limitato al compito interpretativo che gli è proprio, anche se tale attività ermeneutica abbia dato luogo ad un provvedimento abnorme o anomalo ovvero abbia comportato uno stravolgimento delle norme di riferimento, atteso che in questi casi può profilarsi, eventualmente, un error in iudicando, ma non una violazione dei limiti esterni della giurisdizione.
L’ammissibilità del sindacato delle Sezioni Unite, dunque, non è da porre in rapporto con la gravità o intensità del presunto errore di interpretazione, il quale rimane confinato entro i limiti interni della giurisdizione amministrativa, attesa la evidente opinabilità della distinzione tra errore più grave, rivelatore della volontà di sostituire la legge, ed errore meno grave, che si sostanzia in una semplice violazione di legge (Cass., Sez. U., n. 31103/2018; n. 31023/2019).
Né, a tale proposito, appare superfluo rammentare come il sindacato della Corte di Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato per «motivi inerenti alla giurisdizione», ai sensi dell’art. 111, comma ottavo, Cost. e degli artt. 362 cod.proc.civ. e 110 cod.proc.amm., abbia indubbiamente risentito della lettura della norma costituzionale data dal Giudice delle leggi, con la sentenza n. 6/2018, lettura “vincolante” per il giudice regolatore della giurisdizione (v. Cass. Sez. U., n. 8311/2019).
Alla luce della predetta pronuncia della Corte Costituzionale, dunque, appare rafforzato il giudizio d’implausibilità dell’orientamento giurisprudenziale che faceva leva sulla rilevante gravità dell’errore interpretativo, sulla decisione “abnorme” o “anomala” o sullo “stravolgimento delle regole” desumibili dalle norme di riferimento, a volte definito “radicale”, allo scopo di fuoriuscire dall’ambito della violazione di legge e rendere sindacabili, per motivi inerenti alla giurisdizione, fattispecie concrete altrimenti non scrutinabili. Sicché, come di recente ha osservato la Corte (Cass., Sez. U., n. 8800/2024), «l’eccesso di potere per sconfinamento del giudice amministrativo nell’ambito riservato alla potestà del legislatore costituisce una evenienza estrema e al contempo marginale nell’esperienza del diritto, che è nella legge, ma anche nell’applicazione ed interpretazione che ne danno i giudici, ragion per cui se il giudice amministrativo ha compiuto un’attività ricostruttiva del sistema interpretando la norma in un certo senso, l’eventuale errore dallo stesso commesso non potrà trasmodare in eccesso di potere sindacabile da queste Sezioni Unite.
Con l’ulteriore precisazione, anch’essa patrimonio del diritto vivente, che la negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali nazionali o dei principi del diritto europeo da parte del giudice amministrativo, non concreta eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione così da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111, comma ottavo, Cost., atteso che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione (Cass., S.U., n. 32773/2018; Cass., S.U., 10087/2020; Cass., S.U., n. 19175/2020).»
Pertanto, non si è davanti ad una violazione dei limiti esterni della giurisdizione le volte in cui il giudice speciale od ordinario individui una regula iuris facendo uso dei poteri di rinvenimento della norma applicabile attraverso la consueta attività di interpretazione anche analogica del quadro delle norme (tra le altre, Cass. Sez. U., n. 24411/2011; n. 2068/2011; n. 20698/2013).
Si è paradigmaticamente osservato, con riguardo ai limiti al sindacato delle Sezioni Unite sulle decisioni del Consiglio di Stato, che «l’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore è figura di rilievo affatto teorico, in quanto – dovendosi ipotizzare che il giudice applichi, non già la norma esistente, ma una norma all’uopo creata – detto eccesso potrebbe ravvisarsi solo a condizione di poter distinguere un’attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice, da un’attività interpretativa; attività quest’ultima certamente non contenibile in una funzione meramente euristica, ma risolventesi in un’opera creativa della volontà della legge nel caso concreto» (Cass., Sez. U., n. 20698/2013, cit.).
Il ricorrente chiede alla Corte di superare questo orientamento e di ravvisare la figura dell’eccesso di potere legislativo, sul presupposto che la decisione del Consiglio di Stato qui impugnata, lungi dall’essersi limitata ad esercitare una consentita e doverosa attività di interpretazione della norma applicabile, abbia in realtà dato luogo alla creazione di una norma, per quanto detto, inesistente. La deduzione postula, quindi, che si definisca il limite della interpretazione, ovvero che si possa individuare un limite oltre il quale l’attività interpretativa trasmodi in attività creativa e, quindi, in una invasione della sfera riservata al legislatore.
L’odierno ricorrente, in buona sostanza, assume che il giudice amministrativo di secondo grado abbia applicato la sanzione amministrativa per illecito urbanistico-edilizio prevista dall’art. 38, TU edilizia, ad una fattispecie (patologica), quella rappresentata dalla decadenza del permesso di costruire, sostanzialmente diversa dall’annullamento del permesso di costruire, testualmente contemplata nella norma.
L’attività interpretativa, nel caso di specie, sarebbe irrimediabilmente segnata dal superamento del limite di tolleranza ed elasticità del significante letterale della disposizione di legge (“In caso di annullamento del permesso di costruire …”) in relazione ai possibili contenuti di cui è suscettibile in via d’interpretazione la norma, nonché dalla estensione, non consentita per via analogica, delle ipotesi di illecito amministrativo sanzionabile e, in ogni caso, dall’obiettiva incoerenza del risultato rispetto all’interesse tutelato.
Giova, a questo punto, esaminare la ratio dell’art. 38 del d. P.R. n. 380 del 2001, considerato che, quando la voluntas legis, come è accaduto nel caso in esame, sia stata individuata, in base non al tenore letterale delle singole disposizioni, ma alla ratio che esprime il loro coordinamento sistematico, l’attività del giudice rappresenta il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare, di per sé sola, la violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale potendo, tutt’al più, dare luogo ad un error in iudicando (Cass. Sez. U. n. 5589/2020).
La norma (riproduttiva del previgente art. 11 della l. n. 47 del 1985) prevede, in caso di costruzione realizzata in base ad atti annullati in sede giurisdizionale, due alternative possibili e cioè la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o l’applicazione di una sanzione pecuniaria quando non sia tecnicamente possibile la rimozione indicata.
Essa rappresenta una speciale norma di favore che differenzia sensibilmente la posizione di colui che ha realizzato l’opera abusiva sulla base di titolo annullato (c.d. “abusività sopravvenuta”) da quella di chi ha realizzato un’opera abusiva sin dall’inizio senza alcun titolo abilitativo (c.d. “abusività originaria”), per il quale ultimo l’art. 31 del TU edilizia, impropriamente evocato dal ricorrente, prevede sempre, senza eccezione alcuna, la sanzione della demolizione.
L’art. 38 in esame, dunque, non si pone in contraddizione con quanto stabilito dall’art. 31 dello stesso TU edilizia, andando a prendere in considerazione una fattispecie di abuso edilizio (derivante dall’annullamento del titolo edilizio) diversa da quella presa in esame dall’ultima disposizione menzionata (derivante dall’assenza originaria del titolo o dalla totale difformità dallo stesso delle opere edificate).
Se fosse mancata l’espressa previsione legislativa, come attenta dottrina ha evidenziato, la posizione del privato che realizza un’opera sulla base di un titolo edilizio annullato, non si sarebbe affatto differenziata da quella del privato che ha realizzato un’opera priva di titolo edilizio sin dall’origine.
Orbene, il Consiglio di Stato ha escluso, in prima battuta, che il procedimento avviato dal Comune, con nota del 29 ottobre 2019, «finalizzato alla decadenza, annullamento e inefficacia dei titoli edilizi rilasciati a suo tempo» al Rimoldi, in relazione al mancato rispetto degli impegni assunti con l’atto unilaterale sottoscritto nel 2005, alla sopravvenuta abusività delle opere realizzate in forza di essi ed alla conseguente necessità di demolirli, si fosse concluso con l’adozione di un provvedimento suscettibile di annullamento in quanto «perplesso», dovendosi considerare che «il venir meno della destinazione agricola, produce degli effetti del tutto conseguenziali – id est: la decadenza/perdita di efficacia dei titoli edilizi – sostanzialmente coincidenti con quelli prefigurati nel provvedimento impugnato, ragion per cui non sarebbe di alcuna utilità l’annullamento di esso solo in ragione della ricordata perplessità.»
Il giudice amministrativo, con riguardo al periodo posteriore al legittimo rilascio del permesso di costruire, ha rimarcato la perdurante vigenza dell’impegno «al mantenimento della destinazione dell’immobile al servizio dell’attività agricola», che condiziona, ai sensi dell’art. 60, l. r. n. 12 del 2005, le attività edificatorie in zone agricole, precisando che si tratta di impegno «che può essere assolto anche mediante l’insediamento di un’attività agricola diversa da quella originaria, purché di natura imprenditoriale e professionale e dunque facente capo ad un soggetto cui sia riferibile la qualifica di Imprenditore Agricolo a Titolo Professionale.»
Secondo siffatta lettura della norma, si osserva nella sentenza, non viene preclusa «la circolazione giuridica dei fondi vincolati ed è evitata, nel contempo, «la surrettizia apposizione di un termine di efficacia del titolo edilizio, che (altrimenti) rimarrebbe collegato invariabilmente alla durata della vita lavorativa del primo beneficiario.»
Il Consiglio di Stato, sulla base degli «elementi di informazione acquisiti», ha conclusivamente ritenuto integrata una causa di «decadenza-sanzione» del permesso di costruire, «conseguente alla violazione da parte dell’interessato di puntuali obblighi posti a suo carico» e, quindi, all’intervenuto avveramento, con effetti ex nunc, della condizione risolutiva prefigurata dal legislatore regionale, nel momento in cui è venuta a cessare l’attività agricola sul fondo asservito alla destinazione agricola, avuto riguardo alla perdita della qualifica di I.A.T.P. in capo al Rimoldi, evento comportante «l’impossibilità giuridica, per l’impresa agricola, di operare ed essere attiva quale attività imprenditoriale professionale», ai fini qui considerati, «non essendo sufficiente la coltivazione per uso personale» e neppure, la concessione in affitto «ad una impresa agricola terza (…) dei terreni vincolati» o la circostanza del conseguimento «in epoca successiva al provvedimento impugnato» della sopra detta qualifica di I.A.T.P., evento quest’ultimo, non in grado di determinare «la riviviscenza dei tioli edilizi decaduti, tenuto conto del fatto che l’inadempimento ovvero la condizione risolutiva si è inveterata in un momento anteriore.»
Non v’è chi non veda che il giudice amministrativo ha operato, in via interpretativa, una equiparazione quoad poenam tra l’ipotesi della «decadenza dei titoli edilizi da ascrivere a violazione di un obbligo o all’inveramento di una condizione», patologia non espressamente contemplata dal d.P.R. n. 380/2001, e quella dell’annullamento di un titolo edilizio, ipotesi espressamente contemplata e disciplinata dalla norma, sulla base della considerazione che nell’una come nell’altra fattispecie «la situazione di fatto» si «presenta per molti aspetti identica», in quanto «il dato che differenzia le due situazioni, in definitiva, deve essere individuato solo nel fatto che l’art. 38 presuppone un titolo edilizio viziato ab origine, mentre la decadenza del titolo, dipendente dall’inveramento della condizione o dalla violazione di un obbligo, si ricollega a una patologia sopravvenuta al rilascio del titolo (…).»
La questione controversa attiene, pertanto, alla possibilità per l’autorità giudiziaria di introdurre e di comminare sanzioni amministrative mediante l’utilizzo dell’argomento analogico, sulla base di una interpretazione che porti ad estendere l’applicazione della legge al di fuori delle fattispecie ivi specificamente previste, ed involge profili che attengono, più in generale, al principio di legalità. Com’è noto, dalla formulazione del comma 1 dell’art. 1, l. n. 689 del 1981 sono evincibili tre principi portanti della legislazione sull’illecito amministrativo, ovvero il principio della riserva assoluta di legge, il principio della tassatività e determinatezza della fattispecie, il principio di irretroattività della norma sanzionatoria.
Accanto all’enucleazione di questi tre principi si colloca, al comma 2 della medesima disposizione, la previsione del divieto di interpretazione analogica, che trova il suo corrispondente normativo nell’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile e nell’art. 25, comma secondo, Cost., il suo diretto riscontro per la materia penale.
Si tratta, a ben vedere, di aspetti propri della violazione o falsa applicazione della legge piuttosto che dell’invasione nelle competenze legislative, perché in tanto una decisione può ritenersi affetta dall’eccesso di potere giurisdizionale, in quanto contenga disposizioni eccedenti i poteri della giurisdizione medesima ed implicanti l’esercizio di potestà legislativa.
La compatibilità dell’operazione ermeneutica compiuta dal Consiglio di Stato è questione che va vagliata alla luce dei principi di legalità e di divieto di applicazione dell’analogia, in materia di illeciti amministrativi, previsti dal richiamato art. 1, l. n. 689 del 1981. Si tratta di disposizione, per l’appunto, posta a disciplinare l’attività dell’interprete, non a regolare direttamente fattispecie concrete, la quale non può che condurre ad un giudizio di legittimità/illegittimità dell’atto adottato, anche se l’intervento interpretativo del giudice speciale abbia dato luogo ad un provvedimento abnorme o anomalo, ovvero abbia comportato uno stravolgimento delle norme di riferimento, atteso che in questi casi si può eventualmente profilare un error in iudicando ma non di una violazione dei limiti esterni della giurisdizione (tra le altre, Cass., Sez. U., n. 1034/2019; n. 36899/2021; n. 10078/2023).
Il giudice amministrativo d’appello, infatti, ai fini dell’attribuzione al caso non regolato delle conseguenze proprie del caso “simile” disciplinato dall’ordinamento, ha ritenuto le fattispecie in questione, motivando sul punto (§ 21.3.2. e § 21.3.3. della sentenza impugnata), come connotate dal medesimo disvalore, per l’insanabile contrasto delle opere realizzate con le norme di programmazione e regolamentazione urbanistica.
Ha risolto, in tal modo, un dubbio interpretativo posto dalla disciplina della decadenza del permesso di costruire, e della conseguente ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, che presenta qualche affinità con quello che il Consiglio di Stato, di recente, ha rimesso all’Adunanza Plenaria, in materia di regime delle opere parzialmente eseguite in virtù di titolo decaduto, cui non faccia seguito il completamento dei lavori in virtù di nuovo titolo, nonché di applicazione analogica della sanzione espressamente prevista per le opere eseguite senza titolo o in difformità dello stesso (Cons. Stato, Sez. Seconda, sentenza non definitiva n. 2228/2024).
E la censura del ricorrente va dichiarata inammissibile perché mira a indurre queste Sezioni Unite ad un sindacato sulla esattezza degli esiti interpretativi ai quali è pervenuto il Consiglio di Stato, sulla base di una serie di elementi qualificatori d’ordine giuridico del fatto, che non è consentito dall’art. 111, comma ottavo, Cost., in quanto impingerebbe nei limiti interni della giurisdizione amministrativa. (Cass. Sez. U., n. 8800/2024).
Il secondo motivo di ricorso riguarda, invece, il lamentato rifiuto di esercizio del potere giurisdizionale, per non avere il Consiglio di Stato sollevato la questione, segnalata anche con i motivi di gravame, della compatibilità della misura demolitoria con i principi di proporzionalità, legalità e di tutela dei beni privati (artt. 5 e 6, Trattato UE, 7 e 8, CEDU, 1 e 2, protocollo aggiuntivo CEDU), mediante il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, come previsto dagli artt. 19, paragrafo 3, lett. b), del trattato sull’unione europea (TUE) e 267 del trattato sul funzionamento dell’unione europea (TFUE).
Queste Sezioni Unite (Cass. Sez. U. n. 8800/2024 cit.), in merito al vizio integrante il difetto di giurisdizione, con specifico riferimento alla giurisdizione della Corte di giustizia dell’Unione europea, hanno chiarito che occorre distinguere l’ipotesi in cui un giudice speciale di ultima istanza abbia omesso di adire la CGUE, ai sensi dell’art. 267 TFUE, mediante rinvio pregiudiziale di validità, ovvero mediante rinvio pregiudiziale di interpretazione.
Nella prima ipotesi, la censura concernente l’omesso rinvio pregiudiziale alla CGUE avente ad oggetto la questione circa la validità di atti del diritto dell’Unione è, in astratto, prospettabile ex art. 111, comma ottavo, Cost., dinanzi alla Corte regolatrice della giurisdizione in quanto ciò rientra nella competenza giurisdizionale esclusiva della Corte di giustizia decidere sulla validità degli atti dell’Unione di diritto secondario (v. Cass., Sez. U., n. 21641/2021).
Nell’altra ipotesi, che qui ricorre, la doglianza con cui sia prospettato l’eccesso di giurisdizione del giudice nazionale in caso di violazione dell’obbligo, ex art. 267 TFUE, di rimessione alla CGUE delle questioni concernenti l’interpretazione delle norme dell’Unione è, invece, inammissibile.
La Corte, con la sopra richiamata decisione, ponendosi in linea con un consolidato indirizzo giurisprudenziale di legittimità (Cass., Sez. U., n. 31226/2017; Cass., Sez. U., n. 29391/2018; Cass., Sez. U., n. 24107/2020), ha affermato che «una siffatta censura non integra un “motivo attinente alla giurisdizione”, rilevante ai sensi dell’art. 111, comma ottavo, Cost.: a) né secondo un’interpretazione statica di giurisdizione – intesa come riparto tra ordini giudiziari –, perché le norme sul riparto di giurisdizione, tipiche ed esclusive dell’ordinamento nazionale italiano, non contemplano la CGUE tra i destinatari del riparto stesso; b) né secondo un’interpretazione dinamica di giurisdizione – da intendersi come strumento di definizione della controversia prospettata, mediante l’applicazione del disposto normativo –, in quanto la CGUE, nell’esercizio del potere di interpretazione di cui all’art. 267 TFUE, non opera come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale, in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale.»
La Cassazione, a norma dell’art. 111, comma ottavo, Cost., quale supremo organo regolatore della giurisdizione, può soltanto vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione (v. Corte Cost. n. 77/2007; Cass., Sez. Un., n. 8311/2019 ed altre successive).
La Corte, infatti, è l’organo regolatore della giurisdizione, non il garante ultimo della nomofilachia, ossia della legittimità comunitaria, convenzionale e costituzionale delle norme (sia di rito che sostanziali) applicate dal giudice amministrativo e dal giudice contabile (Cass., Sez. Un., n. 1454/2022; n. 5121/2022; con riferimento alla ritenuta estraneità della violazione del diritto dell’UE ai motivi inerenti alla giurisdizione, v. Cass., Sez. Un., n. 2605/2021 e n. 26920/2021, con riferimento al mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, v. infine Cass., Sez. Un., n. 24107/2020).
Nell’ambito della giurisdizione amministrativa, quindi, spetta al Consiglio di Stato, in qualità di giudice di ultima istanza, il compito di garantire, nello specifico ordinamento di settore, la conformità del diritto interno a quello della Unione Europea, se del caso avvalendosi del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, mentre l’eventuale lesione del principio di effettività della tutela, derivante da decisioni adottate dal Giudice amministrativo in pregiudizio di situazioni giuridiche soggettive protette dal diritto dell’Unione, può essere fatta valere con altri strumenti, attivabili a fronte di una violazione del diritto comunitario che risulti grave e manifesta (cfr. Cass., Sez. U., n. 5365/2022; n. 32622/2018; n. 23460/2015; n. 2403/2014).
Va, peraltro, ricordato che l’apertura giurisprudenziale imperniata sulla mancata proposizione del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, non sulla mancata applicazione diretta del diritto sovranazionale, nonché sull’esigenza di evitare la formazione di un giudicato nazionale in contrasto con il diritto europeo, non ha avuto seguito.
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 21 dicembre 2021 in C-497/20, Randstad Italia (decisione sul rinvio pregiudiziale delle Sezioni Unite con l’ordinanza n. 19598/2020), infatti, ha affermato che “Il diritto dell’Unione non osta a che l’organo giurisdizionale supremo di uno Stato membro non possa annullare una sentenza pronunciata in violazione di tale diritto dal supremo organo della giustizia amministrativa di detto Stato membro”.
Il motivo proposto dal ricorrente pone, inammissibilmente, questioni di merito del tutto estranee all’ambito del ricorso ex artt. 111, comma 8, Cost., 360 comma 1, cod.proc. civ. e 110 cod.proc.amm., per cui va ribadito, anche alla luce della pronuncia Randstad, che non tutte le questioni concernenti l’interpretazione del diritto dell’Unione possono essere fatte valere come motivo di giurisdizione.
Al riguardo, è sufficiente richiamare il principio di diritto affermato dalla ordinanza n. 25503/2022, secondo cui «(l)’insindacabilità, da parte della Corte di cassazione a Sezioni Unite, per eccesso di potere giurisdizionale, ai sensi dell’art. 111, comma, 8 Cost., delle sentenze del Consiglio di Stato pronunciate in violazione del diritto dell’Unione europea, non si pone in contrasto con gli artt. 52, par. 1 e 47, della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea, in quanto l’ordinamento processuale italiano garantisce comunque ai singoli l’accesso a un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge, come quello amministrativo, non prevedendo alcuna limitazione all’esercizio, dinanzi a tale giudice, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione; costituisce, quindi, ipotesi estranea al perimetro del sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione la denuncia di un diniego di giustizia da parte del giudice amministrativo di ultima istanza, derivante dallo stravolgimento delle norme di riferimento, nazionali o unionali, come interpretate in senso incompatibile con la giurisprudenza della CGUE, risultando coerente con il diritto dell’Unione la riferita interpretazione in senso riduttivo degli art. 111, comma 8, Cost., 360, comma 1, n. 1, e 362, comma 1, cod.proc.civ..»
Deve, pertanto, escludersi che la sentenza in questa sede impugnata abbia esorbitato dai limiti esterni della giurisdizione amministrativa sol perché il Consiglio di Stato ha ritenuto che è da sussumere nelle previsioni di cui all’art. 38, d.P.R. n. 380 del 2001, «come interpretato dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 17/2020», la fattispecie decadenziale, oggetto di giudizio, riferibile ai permessi di costruire rilasciati, ai sensi degli artt. 59 e 60, l. r. n. 12 del 2005, sotto la condizione del rispetto della destinazione agricola dei terreni vincolati.
Il ricorso, in conformità delle conclusioni rassegnate dal Pubblico Ministero, va dichiarato inammissibile ed il ricorrente condannato a rimborsare al controricorrente le spese del giudizio di cassazione, nell’importo liquidato in dispositivo.