Corte di Cassazione, Sez. Unite Penali, sentenza 15 dicembre 2022 n. 47502
PRINCIPIO DI DIRITTO
La sentenza che abbia omesso di applicare una pena accessoria è ricorribile per cassazione per violazione di legge da parte sia del Procuratore della Repubblica che del Procuratore Generale a norma dell’art. 608 cod. proc. pen. La Corte di Cassazione, ove rilevi l’illegittima applicazione di pena accessoria predeterminata nella durata, pronuncia l’annullamento senza rinvio ex art. 620 lett. I) della sentenza impugnata. Resta impregiudicato il potere del pubblico ministero, una volta passata in giudicato la sentenza, di attivare, a norma degli artt. 662 e 183 disp. att. cod. proc. pen., nei casi di pena accessoria predeterminata nella durata, il procedimento di esecuzione, da tenersi nelle forme dell’art. 676 cod. proc. pen., non trovando applicazione l’art. 130 cod. proc. pen.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
- La questione rimessa alle Sezioni Unite può essere formulata nei seguenti termini: “Se il pubblico ministero possa ricorrere per cassazione avverso la sentenza che, all’esito di giudizio ordinario, abbia omesso l’applicazione di una pena accessoria, ovvero debba investire il giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 676 cod. proc. pen.”
- La trattazione del tema dell’ammissibilità del ricorso per cassazione del pubblico ministero, nella fattispecie che costituisce specificamente oggetto del suddetto quesito, rende opportuna una preliminare ricognizione delle fonti normative del potere di proporre detto ricorso.
Va osservato innanzitutto che la chiara dizione dell’art. 593, comma 1, cod. proc. pen., come recentemente modificato dall’art. 2, lett. a), d. Igs. 6 febbraio 2018, n. 11, non avrebbe consentito nel caso di specie l’appello del pubblico ministero avverso la sentenza del Tribunale di Cremona.
Secondo la citata previsione, infatti, il pubblico ministero può appellare una sentenza di condanna in primo grado — salvo che la stessa sia pronunciata all’esito di giudizio abbreviato o in applicazione di pena richiesta dall’imputato sulla quale il pubblico ministero abbia dissentito, ovvero delle disposizioni della sentenza in materia di misure di sicurezza — solo quando essa modifichi il titolo del reato, escluda la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o disponga una pena di specie diversa da quella prevista per il reato contestato; casi nessuno dei quali ricorre nella situazione esaminata.
Ne segue che l’impugnazione in discussione non si qualifica come ricorso immediato per cassazione ai sensi dell’art. 569 cod. proc. pen., richiamato per il giudizio di legittimità dall’art. 608, comma 4, cod. proc. pen.
Il presupposto che legittima la parte processuale ad esperire tale mezzo di impugnazione, secondo la citata disposizione normativa, è infatti il diritto di appellare la sentenza di primo grado. Non essendo nel caso di specie titolare di questo diritto, per quanto detto in precedenza, il pubblico ministero poteva proporre ricorso per cassazione solo in quanto unico mezzo di impugnazione consentitogli dall’ordinamento.
Il ricorso in esame deve pertanto essere inquadrato in questa esatta cornice procedurale.
Tanto premesso, considerato che il ricorso è stato in concreto presentato dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Brescia, questo ufficio del pubblico ministero riceve la sua diretta legittimazione a proporre il ricorso per cassazione dall’art. 608, comma 1, cod. proc. pen.
Detta norma, infatti, attribuisce testualmente e inequivocabilmente al Procuratore generale la facoltà di proporre tale ricorso avverso ogni sentenza di condanna o di proscioglimento pronunciata in grado di appello ovvero — come per l’appunto nel caso in esame — inappellabile.
A parte il suo chiaro tenore letterale, la norma appena menzionata si inserisce del resto in un contesto normativo, con riguardo alla generale facoltà di impugnazione del pubblico ministero, indiscutibilmente orientato nel senso dell’attribuzione indifferenziata di tale facoltà, salvi casi diversamente disciplinati, al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale e al Procuratore generale presso la Corte di appello.
L’art. 570, comma 1, cod. proc. pen., nel disporre che l’esercizio della predetta facoltà di impugnazione prescinde dalle conclusioni assunte dal rappresentante del pubblico ministero nell’udienza in esito alla quale è stato pronunciato il provvedimento impugnato, conferisce espressamente tale facoltà sia al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale che al Procuratore generale presso la Corte di appello.
Come osservato dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 22531 del 31/05/2005, Campagna, Rv. 231056), la formulazione della norma indicata è onnicomprensiva, in quanto tale riferibile senza limitazioni ad entrambi gli uffici giudiziari; è di conseguenza consentita al Procuratore generale l’impugnazione dei provvedimenti emessi da tutti i giudici del distretto.
Limitazioni a questa facoltà sono escluse dalla norma con la espressa previsione della possibilità, per il Procuratore generale, di proporre l’impugnazione qualunque sia stata la posizione del Procuratore della Repubblica in proposito, sia che lo stesso abbia quindi a sua volta impugnato il provvedimento, sia che vi abbia prestato acquiescenza.
Per quest’ultimo aspetto, la norma fa salva la deroga di cui all’art. 593-bis cod. proc. pen., successivamente introdotto dall’art. 3 d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, per effetto della quale il Procuratore generale può appellare la sentenza di primo grado solo nei casi di avocazione o qualora vi sia stata acquiescenza del Procuratore della Repubblica.
Eccettuando tale fattispecie processuale, chiaramente riferita al solo appello, la previsione conferma tuttavia ulteriormente la piena legittimazione del Procuratore generale alla proposizione del ricorso per cassazione in tutti i casi in cui la stessa è consentita dalla legge al pubblico ministero.
La citata giurisprudenza di questa Corte Suprema ha del resto puntualizzato che questa legittimazione è ribadita dalle disposizioni sugli adempimenti processuali strettamente funzionali all’esercizio del diritto di impugnazione, segnatamente quelle di cui agli artt. 548, comma 3, e 585, comma 2, lett. d) cod. proc. pen., che prevedono rispettivamente la comunicazione al Procuratore generale dell’avviso di deposito della sentenza di primo grado e la decorrenza dalla data di tale comunicazione del termine per la tempestiva impugnazione di tale ufficio. Queste previsioni, infatti, presuppongono necessariamente l’ampia possibilità di impugnazione del Procuratore generale.
E’ peraltro significativo, in tal senso, l’espresso riferimento della seconda norma indicata all’impugnazione, da parte del Procuratore generale, dei «provvedimenti emessi in udienza da qualsiasi giudice della sua circoscrizione diverso dalla Corte di appello».
Nessun dubbio sussiste, in conclusione, sulla legittimazione del Procuratore generale ricorrente alla presentazione del ricorso in discussione.
- Si tratta ora di esaminare il tema della possibilità di esercitare la predetta legittimazione nella concreta fattispecie oggetto della rimessione del procedimento a queste Sezioni Unite. Come rammentato nell’ordinanza di rimessione, sulla questione si registrano due contrastanti orientamenti nella giurisprudenza di legittimità.
3.1. Secondo il primo di tali orientamenti, nel caso in cui sia omessa l’applicazione di una pena accessoria, l’esperibilità del ricorso per cassazione da parte del pubblico ministero — e quindi, per quanto detto, del Procuratore generale presso la Corte di appello — sarebbe preclusa dalla previsione, quale unico rimedio processuale per l’omissione in esame, della richiesta al giudice dell’esecuzione.
Il principale argomento a sostegno di questa tesi si radica, in pressoché tutte le pronunce che vi aderiscono, nel contenuto dell’art. 183 disp. att. cod. proc. pen., dove si prevede che «quando alla condanna consegue di diritto una pena accessoria predeterminata dalla legge nella specie e nella durata, il pubblico ministero ne richiede l’applicazione al giudice dell’esecuzione se non si è provveduto con la sentenza di condanna».
La sequenza letterale del testo normativo, nella quale all’omessa applicazione della pena accessoria nella sentenza è direttamente collegata la richiesta del pubblico ministero al giudice dell’esecuzione, è invero letta dalle decisioni di cui sopra (Sez. 5, n. 47604 del 28/10/2019, Cagnoli, Rv. 277547; Sez. 5, n. 51390 del 21/06/2018, Suddin, Rv. 274453; Sez. 2, n. 5691 del 15/01/2013, Di Leonardo; Sez. 2, n. 42112 del 27/09/2012, Affinita; Sez. 6, n. 13789 del 20/01/2011, Fiorito, Rv. 249908; Sez. 5, n. 32158 del 24/04/2009, Rossi; Sez. 7, n. 5742 del 11/12/2008, dep. 2009, Celentano; Sez. 7, n. 24969 del 03/04/2008, Ciavatta; Sez. 3, n. 10199 del 08/10/1997, Aprile, Rv. 209636) nel senso della previsione del procedimento di esecuzione come esclusivo rimedio previsto dalla legge per sanare l’omissione.
In questa stessa prospettiva, altra pronuncia (Sez. 1, n. 22385 del 12/05/2009, De Pieri) richiama il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, che nella specie condurrebbe ad attribuire carattere di esclusività al procedimento di esecuzione, in quanto unico mezzo di impugnazione oggetto di espressa previsione normativa in materia.
Delle decisioni citate, la sentenza Aprile aggiunge peraltro, all’argomento tratto dalla disposizione dell’art. 183 disp. att. cod. proc. pen., la conformità della soluzione processuale indicata a ragioni di economia processuale.
3.2. Un difforme indirizzo ritiene viceversa ammissibile il ricorso per cassazione, con il quale il pubblico ministero intenda chiedere al giudice di legittimità l’applicazione della pena accessoria omessa nel giudizio di merito, in base ad un’argomentazione diametralmente opposta a quella delle pronunce appena riportate, con riguardo alla previsione normativa della possibilità di chiedere l’applicazione della pena accessoria in sede di esecuzione.
Il contrasto verte in particolare sull’ostatività di questa previsione rispetto alla praticabilità del ricorso per cassazione, affermata dal precedentemente orientamento e invece esclusa dalle decisioni che ci si accinge a commentare.
Secondo queste ultime, l’indiscutibile praticabilità del procedimento di esecuzione non impedisce che già nel giudizio di cognizione possa provvedersi all’applicazione della pena accessoria omessa attivando i normali mezzi di impugnazione.
Sotto questo profilo, nella giurisprudenza di legittimità si è colto un elemento in realtà già evidente dal dato testuale dell’art. 183 disp. att. cod. proc. pen., in precedenza riportato. La disposizione esordisce, infatti, con l’indicazione di due necessari presupposti applicativi della relativa procedura: la pena accessoria deve conseguire di diritto alla condanna; la pena accessoria deve essere predeterminata dalla legge nella specie e nella durata.
Questa osservazione ha condotto a ritenere inevitabilmente ammissibile il ricorso per cassazione quanto meno in tutti i casi nei quali, di contro, l’applicazione della pena accessoria richieda una valutazione discrezionale del giudice, anche relativamente all’individuazione della natura e della durata della pena stessa (Sez. 6, n. 46089 del 9/11/2021, De Luca, Rv. 282399).
Già per questo aspetto si pone in luce una prospettiva di compatibilità e non di esclusività della richiesta in fase esecutiva rispetto al ricorso per cassazione. Ma, in termini più generali, la coesistenza dei due mezzi nell’ordinamento è stata affermata con riguardo all’intera categoria delle pene accessorie, differenziandosene l’operatività in base alla diversa fase processuale nella quale è possibile ricorrere all’uno o all’altro degli interventi.
Si è osservato in particolare che il procedimento di esecuzione previsto dall’art. 183 disp. att. cod. proc. pen. presuppone, in quanto tale, il passaggio in giudicato della sentenza nella quale sia stata omessa l’applicazione di una pena accessoria, con il conseguente passaggio alla fase esecutiva. La conseguente limitazione a questa fase della praticabilità di detta procedura non consente, pertanto, di attribuire alla relativa previsione il carattere di esclusività ravvisato dall’opposto orientamento, dovendosi intendere invece la stessa come disposizione che consente di intervenire sull’omissione in fase esecutiva, rimanendo non preclusa la possibilità di provvedervi prima del passaggio in giudicato della sentenza con gli ordinari mezzi di impugnazione e, quindi, anche con il ricorso per cassazione (Sez. 6, n. 1578 del 26/11/2020, Touimi, Rv. 280582).
Per altro profilo, nelle pronunce che aderiscono all’indirizzo in esame, l’esperibilità del ricorso per cassazione è stata ritenuta in base all’esistenza, nella disciplina del giudizio di legittimità, di norme che consentono alla Corte di cassazione di applicare direttamente la pena accessoria omessa.
In tal senso, il riferimento è in primo luogo all’art. 620, lett. 0, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 1, comma 67, legge 23 giugno 2017, n. 103, che prevede quale caso di annullamento senza rinvio quello in cui la Corte ritiene, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, di adottare nello stesso giudizio di cassazione i provvedimenti necessari a sanare il vizio rilevato (Sez. 5, n. 16162 del 17/01/2022, Aragon, Rv. 283013; Sez. 2, n. 42003 del 24/09/2021, Mahmood Arshad, Rv. 282206; Sez. 6, Touimi, in precedenza citata).
Altre, più risalenti decisioni, hanno considerato applicabile nella fattispecie la procedura di rettificazione prevista per il giudizio di cassazione dall’art. 619 cod. proc. pen., con specifico riguardo alla rettificazione della pena di cui al comma 2 (Sez. 2, n. 38713 del 24/06/2015, Manzo, Rv. 264801; Sez. 6, n. 4300 del 10/01/2013, Grossi, Rv. 254486; Sez. 6, n. 48443 del 20/11/2008, Funari, Rv. 242427; Sez. 4, n. 23134 del 14/05/2008, Di Girolamo, Rv. 240304).
In entrambe le soluzioni proposte, la disposizione richiamata — l’art. 620 ovvero l’art. 619 cod. proc. pen. — è individuata come fonte normativa di legittimazione dell’intervento della Corte di cassazione, e quindi del ricorso alla stessa da parte del pubblico ministero, operante nel giudizio di cognizione in corrispondenza con quanto previsto invece per la fase esecutiva dal più volte menzionato art. 183 disp. att. cod. proc. pen.
Le due interpretazioni concordano pertanto sull’ammissibilità del ricorso per cassazione quale rimedio praticabile per l’omessa applicazione della pena accessoria fino al passaggio in giudicato della sentenza.
Devono peraltro essere menzionate, nell’ambito di questo orientamento giurisprudenziale, talune pronunce, concernenti in particolare la mancata disposizione della pena accessoria in sentenze di applicazione di pena emesse ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., le quali, pur non affrontando il tema dell’alternativa percorribilità dell’incidente di esecuzione e quello della norma legittimante il ricorso per cassazione sul punto, hanno comunque ritenuto tale ricorso ammissibile (Sez. 3, n. 30285 del 19/04/2021, Shtogaj, Rv. 281858; Sez. 6, n. 20108 del 24/01/2013, Derjaj, Rv. 256224; Sez. 4, n. 39065 del 5/07/2012, Salillari, Rv. 253725).
- Le Sezioni Unite ritengono condivisibile il secondo degli orientamenti in contrasto, nei termini e con le precisazioni che saranno di seguito esposti.
- Nelle pronunce a sostegno della tesi dell’ammissibilità del ricorso per cassazione del pubblico ministero, segnatamente in quelle che sembrano articolare essenzialmente il loro ragionamento sul potere attribuito alla Corte Suprema dall’art. 620, lett. /), cod. proc. pen., è in realtà sotteso un ulteriore e più incisivo argomento.
Esso era stato per il vero espresso in una precedente decisione (Sez. 1, n. 7909 del 22/01/2013, Imberbe, Rv. 254916), e richiamato in altra di poco successiva (Sez. 6, n. 3253 del 21/01/2016, Rebai, Rv. 266501), quale elemento determinante per giungere alla conclusione della praticabilità del ricorso in sede di legittimità.
Si tratta di una considerazione che valorizza in termini logico-sistematici proprio la previsione, ai sensi dell’art. 183 disp. att. cod. proc. pen., della possibilità di adire il giudice dell’esecuzione per rimediare all’omessa applicazione della pena accessoria.
Se tanto è consentito in fase esecutiva dopo che la sentenza è divenuta irrevocabile — si osservava nelle decisioni appena citate — non vi è alcuna ragione per ritenere che analoga richiesta non possa essere proposta nel giudizio di cognizione, con i mezzi di impugnazione ivi previsti, prima che sulla decisione si sia formato il giudicato.
Orbene, lo stesso percorso argomentativo è esplicitamente riproposto in una delle più recenti pronunce dell’orientamento favorevole all’ammissibilità del ricorso per cassazione, ossia la sentenza Touimi, unitamente ai riferimenti alla facoltà della Corte di cassazione di provvedere all’applicazione della pena accessoria con annullamento senza rinvio ai sensi dell’art. 620, lett. I), cod. proc. pen.
Questo conferma che tale disposizione è intesa, nell’indirizzo giurisprudenziale in esame, come lo strumento normativo che consente, prima del passaggio alla fase esecutiva ed alla conseguente esperibilità del rimedio di cui all’art. 183 disp. att. cod. proc. pen., di svolgere una funzione correttiva dell’omissione già esistente ed operante nel giudizio di cognizione.
Siffatta funzione, o per meglio dire la sua sussistenza nella fase della cognizione fino al giudizio di legittimità, logicamente presupposta dalla possibilità di esercitarla anche nella fase dell’esecuzione, è pertanto sostanzialmente individuata come il reale fondamento della facoltà del pubblico ministero di proporre il ricorso per cassazione in materia.
Questa ricostruzione è logicamente rafforzata dalla considerazione, pure svolta dalla giurisprudenza di legittimità come detto in precedenza, per la quale la proponibilità della richiesta al giudice dell’esecuzione è limitata dall’art. 183 disp. att. cod. proc. pen. ai casi nei quali la pena accessoria omessa consegue di diritto alla condanna e ne sono predeterminate la specie e la durata. Si tratta di condizioni evidentemente ritenute dal legislatore necessarie per l’intervento in fase esecutiva, in quanto comportano l’insussistenza di alcuna valutazione discrezionale sull’applicabilità e la commisurazione della pena accessoria.
Ma la presenza di queste limitazioni dell’accesso al giudice dell’esecuzione rende coerente la conclusione nei termini dell’esistenza di una ampia e completa facoltà di intervento riparatorio nella precedente fase della cognizione, nella quale è compresa la possibilità di far rilevare l’omissione, sfuggita al giudizio di merito, con il ricorso per cassazione.
La previsione della possibilità di disporre l’applicazione della pena accessoria omessa con il procedimento di esecuzione, indicata quale dato di diritto positivo che dovrebbe sostenere l’orientamento contrario all’ammissibilità del ricorso per cassazione nella fattispecie in esame, si rivela in altre parole come il principale argomento che milita per la soluzione opposta.
Per la stessa sede esecutiva alla quale l’art. 183 disp. att. cod. proc. pen. riserva l’esperibilità di tale rimedio, ma anche, e soprattutto, per i limiti nei quali la stessa è consentita dalla norma citata, la richiesta al giudice dell’esecuzione manifesta la sua inidoneità ad esaurire l’ambito tassativo dei mezzi di impugnazione con i quali l’omissione può essere rilevata.
Tale delimitazione nella fase procedimentale e nei casi di operatività definisce invece detta richiesta come strumento con il quale la particolare disposizione attuativa rende proponibile la questione “anche”, ma non “esclusivamente” in sede esecutiva, prolungando anzi eccezionalmente a quest’ultima sede, a determinate condizioni, una possibilità di rimediare all’omissione nell’applicazione della pena accessoria che trova la sua naturale collocazione, in primo luogo, nel giudizio di cognizione.
Anche l’altro argomento speso, sia pure in una pronuncia isolata, a favore della tesi dell’esclusiva ammissibilità della richiesta al giudice dell’esecuzione, ossia la conformità di questa soluzione a ragioni di economia processuale, evoca del resto un aspetto dalla cui prospettiva la soluzione contraria appare in realtà più coerente con tali ragioni.
In effetti, a fronte di un giudizio di condanna nel merito, nel quale non è stata applicata la pena accessoria che ne segue per legge, è semmai la possibilità di rilevare l’omissione con il ricorso per cassazione a rispondere ad esigenze di economia processuale, consentendo di risolvere il problema prima che la sentenza divenga irrevocabile ed evitando un successivo passaggio procedimentale in sede esecutiva.
- Queste considerazioni delineano complessivamente una visione sistematica nella quale il rimedio all’omessa applicazione della pena accessoria è innanzitutto quello fornito dalle ordinarie impugnazioni praticabili nel giudizio di cognizione, fino al ricorso per cassazione. Qualora la sentenza di condanna divenga definitiva senza che la pena accessoria sia stata disposta, il sistema consente tuttavia di intervenire sull’omissione anche nella fase esecutiva, purché ricorrano le condizioni che rendono tale intervento compatibile con detta fase, con riguardo all’automaticità della pena accessoria ed alla predeterminazione della sua specie e della sua durata in conseguenza della condanna.
Contrariamente a quanto sostenuto dal primo dei due orientamenti in conflitto, questa possibilità non preclude il ricorso per cassazione sul punto.
I due rimedi sono anzi complementari, nelle diverse e successive fasi nelle quali si collocano, nel garantire la più ampia opportunità che la pena accessoria, prevista dalla legge, sia effettivamente applicata ove ne sussistano i presupposti.
Tale obiettivo, in primo luogo, risponde indubbiamente alla necessità di assicurare la piena realizzazione del contributo alla funzione di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, riconosciuto alla pena accessoria dalla Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 222 del 2018) con riguardo alla commisurazione non rigida della durata delle pene accessorie previste dalla legge fallimentare.
Dal punto di vista applicativo, il sistema in tal modo configurato è per altro verso conforme ai principi individuati dalle Sezioni Unite in tema di eseguibilità, in caso di annullamento parziale della sentenza di condanna impugnata con ricorso per cassazione, delle disposizioni sanzionatorie della sentenza relative a capi divenuti irrevocabili e non essenzialmente connessi con quelli oggetto dell’annullamento (Sez. U, n. 3423 del 29/10/2020, Gialluisi, Rv. 280261).
Viene in rilievo a questo proposito, in particolare, quanto osservato nella decisione appena menzionata sulle caratteristiche di eseguibilità della pena accessoria, quale effetto penale della sentenza di condanna, in qualsiasi momento successivo alla formazione del giudicato. Ma rilevano, altresì, le osservazioni formulate in quella sede sull’ininfluenza della pena accessoria rispetto all’esecuzione della pena principale, rimarcata dal non essere la prima soggetta alla prescrizione, e sulla mancanza di alcun profilo di interferenza, con l’esecuzione della pena principale, delle modalità esecutive della pena accessoria, che trovano il loro specifico statuto nella disciplina dettata dall’art. 662 cod. proc. pen.
In questa cornice sistematica, la risposta al quesito sull’ammissibilità del ricorso per cassazione, al fine di far rilevare in sede di legittimità l’omessa applicazione di una pena accessoria, non può che essere positiva.
- Detto questo, la completa definizione del quadro degli strumenti processuali, previsti per integrare la lacuna nella disposizione della pena accessoria derivante dalla sentenza di condanna, richiede alcune ulteriori precisazioni in ordine alle modalità esecutive degli stessi.
Con riguardo, in primo luogo, al ricorso per cassazione, tali precisazioni sono rese necessarie dalla circostanza, di cui si è detto in sede di illustrazione dei contrapposti indirizzi giurisprudenziali sull’ammissibilità del ricorso, per la quale parte dell’orientamento favorevole a tale ammissibilità individua la norma applicativa del conseguente intervento della Corte di cassazione nell’art. 619, comma 2, cod. proc. pen. Tale norma, nel prevedere la procedura di rettificazione, in sede di legittimità, delle statuizioni sanzionatorie oggetto del ricorso, dispone che «quando nella sentenza si deve soltanto rettificare la specie o la quantità della pena per errore di denominazione o di computo, la Corte di cassazione vi provvede senza pronunciare annullamento».
Occorre a questo punto, una volta verificata l’ammissibilità del ricorso per cassazione in tema di omessa applicazione della pena accessoria, stabilire se lo strumento normativo di intervento della Corte di legittimità, in accoglimento del ricorso, sia l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, previsto dall’art. 620 lett. I) cod. proc. pen., ovvero la rettificazione di cui all’art. 619, comma 2, cod, proc. pen.
E’ preliminare e determinante, a tal proposito, la questione della effettiva applicabilità della seconda norma al caso di specie; e quindi della sussumibilità o meno, nelle ipotesi normative di rettificazione pocanzi enunciate, della fattispecie concreta in cui la pena accessoria, prevista dalla legge quale effetto penale della condanna, non sia disposta.
Orbene, già alla immediata lettura, il testo dell’art. 619, comma 2, appare descrittivo di situazioni che non comprendono la fattispecie in esame. Presupposto della norma, innanzitutto, è la necessità di rettificare la specie o la quantità della pena. Non di questo si tratta nel caso in cui una sanzione autonoma, quale la pena accessoria, sia totalmente assente nella disposizione di condanna, e non sia semplicemente indicata in termini o in misura difformi dalla previsione legislativa.
Ma, oltre a questo, la norma attribuisce a tale presupposto una precisa qualificazione: l’essere, cioè, la difformità nella specie o nella quantità della pena dovuta ad un errore di denominazione o di computo. Questa qualificazione delimita non solo l’origine eziologica della difformità, ma anche la sua natura.
Il requisito applicativo della rettificazione è complessivamente definito, in sostanza, nei limiti di un mero errore materiale, terminologico quanto al nomen juris della sanzione, ovvero aritmetico nella determinazione della stessa.
Il caso dell’omessa applicazione della pena accessoria esorbita chiaramente da questi limiti. Esso costituisce, in realtà, un vero e proprio vizio della sentenza di condanna, che ne risulta privata di una sua disposizione necessaria per legge. In quanto tale, lo stesso non è pertanto emendabile con una procedura di rettificazione che, nella stessa dizione normativa, si pone come alternativa al normale esito dell’accertamento di un vizio, ossia l’annullamento della sentenza impugnata, proprio in quanto destinata a rimediare a quelli che si presentano invece come meri errori materiali.
In questo senso è, del resto, la giurisprudenza di legittimità. Con specifico riguardo all’art. 619 cod. proc. pen., le Sezioni Unite hanno infatti individuato la ratio della norma nell’esigenza di evitare l’annullamento della decisione impugnata in tutte le occasioni nelle quali si possa rimediare a errori o cadute di attenzione del giudice a quo lasciando inalterato il contenuto decisorio essenziale della sentenza impugnata (Sez. U, n. 9973 del 24/06/1998, Kremi, Rv. 211072).
La Suprema Corte ha peraltro sottolineato in altre decisioni che la norma in esame, nel prevedere la rettificazione nel giudizio di legittimità, costituisce disposizione speciale e derogatoria della più generale disciplina della correzione di errori materiali dettata dall’art. 130 cod. proc. pen., nella parte in cui consente alla Corte di cassazione di procedere direttamente alla correzione anche in presenza della condizione ostativa posta dall’art. 130 cod. proc. pen. nel precludere tale facoltà al giudice competente a conoscere dell’impugnazione, ove la stessa sia dichiarata inammissibile (Sez. 3, n. 30286 del 09/03/2022, Nardelli, Rv. 283650; Sez. 3, n. 19627 del 04/03/2003, Rv. 224846; Sez. 1, n. 2149 del 27/11/1998, dep. 1999, Rv. 212532).
A prescindere da quest’ultimo aspetto, l’art. 619 cod. proc. pen. riprende pertanto dall’art. 130 cod. proc. pen. il fondamento definitorio dell’errore che giustifica la mera correzione in luogo dell’annullamento.
Questi tratti fondamentali sono stati nitidamente delineati, ancora dalle Sezioni Unite, nella definizione dell’errore correggibile quale divergenza evidente e casuale fra la volontà del giudice e il correttivo mezzo di espressione, della quale costituiscono manifestazioni tipiche l’errore linguistico e quello immediatamente rilevabile dal contesto interno della sentenza (Sez. U, n. 7945 del 31/01/2008, Boccia, Rv. 238426).
Il limite dell’errore rilevabile con la procedura di correzione e, nel giudizio di legittimità, di rettificazione, rispetto al vizio che impone viceversa l’annullamento della sentenza impugnata, viene ad esserne ricostruito, in negativo, nell’ininfluenza sul contenuto decisorio della sentenza impugnata; e, in positivo, nell’evidente divergenza fra il dato testuale e l’effettiva volontà del decidente.
Entrambe queste condizioni risultano assenti nel caso dell’omessa applicazione della pena accessoria. Tale omissione incide infatti, per un verso, sul contenuto decisorio della sentenza, rendendola carente di una disposizione necessaria; per altro verso, non è immediatamente rilevabile come effetto di una resa testuale difforme dalla volontà del decidente. L’omissione in esame non è quindi rimediabile procedendo ai sensi dell’art. 619, comma 2, cod. proc. pen.
- Una volta esclusa la possibilità di considerare l’omissione in esame come un errore materiale correggibile con lo strumento offerto al giudice di legittimità, a questi fini, dal citato art. 619, non rimane che considerare la stessa come un vizio rimediabile con l’ordinario esito dell’annullamento della sentenza impugnata in accoglimento del ricorso.
Questo esito può di conseguenza assumere la forma dell’annullamento senza rinvio, ove ricorrano i requisiti previsti per tale provvedimento dall’art. 620, lett. I), cod. proc. pen., nell’attuale formulazione introdotta dall’art. 1, comma 67, legge 23 giugno 2017, n. 103. Tali requisiti sono stati definiti dalle Sezioni Unite come sussistenti in tutti i casi nei quali il rinvio sia superfluo, potendo la Corte di cassazione decidere anche con valutazioni discrezionali, purchè condotte sulla base degli elementi di fatto accertati e delle statuizioni adottate dal giudice di merito, e a condizione che non siano necessari ulteriori accertamenti (Sez. U, n. 3464 del 30/11/2017, dep. 2018, Matrone, Rv. 271831).
Orbene, non vi è dubbio che siffatte condizioni siano ravvisabili ove, come nel caso di specie, la pena accessoria omessa segua di diritto alla condanna e sia predeterminata nella specie e nella durata. In questa fattispecie concreta, infatti, la statuizione di condanna, già pronunciata dal giudice di merito, implica l’irrogazione di una determinata pena accessoria per una durata altrettanto determinata, e nessun ulteriore accertamento è necessario. In base a quella statuizione, non può giungersi pertanto ad altro risultato che all’applicazione della pena accessoria, annullando senza rinvio la sentenza impugnata nella parte in cui tale applicazione non sia stata disposta.
Diversamente deve concludersi, naturalmente, nelle situazioni in cui l’applicazione della pena accessoria non sia automatica per effetto della sola condanna, o la pena abbia una durata non fissa, ma determinabile in concreto dal giudice. In questi casi, se gli accertamenti e le statuizioni del giudice di merito non consentono di assumere in sede di legittimità determinazioni sull’applicazione della pena accessoria, o sulla quantificazione della sua durata, in base ad una valutazione discrezionale che sia vincolata in senso univoco dal contenuto di tali accertamenti e statuizioni, l’annullamento della sentenza impugnata non potrà che essere pronunciato con rinvio, affidando al giudice a quo tali determinazioni.
- Venendo ora al procedimento di esecuzione, esperibile ai sensi dell’art. 183 disp. att. cod. proc. pen. dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna priva della disposizione della pena accessoria, è opportuno precisare quale sia lo strumento procedurale con il quale il giudice dell’esecuzione può provvedere sul punto.
Anche per questa fase processuale, in effetti, parte della giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che in tal caso il giudice dell’esecuzione possa valersi della procedura della correzione di errore materiale ai sensi dell’art. 130 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 23661 del 29/04/2014, Anselmi, Rv. 259689; Sez. 1, n. 43085 del 17/10/2012, Alberghina, Rv. 253701).
Tale orientamento è stato tuttavia superato dalle Sezioni Unite, riconducendo l’intervento in materia alle competenze specificamente attribuite al giudice dell’esecuzione dall’art. 676, comma 1, cod. proc. pen. con l’esplicito riferimento, fra le stesse, alla facoltà di decidere «in ordine alle pene accessorie» (Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B.).
Questa conclusione, successivamente riproposta nell’ambito dell’indirizzo tendente a ravvisare nel procedimento di esecuzione l’unico rimedio consentito all’omessa applicazione della pena accessoria (Sez. 5, n. 47604 del 28/10/2019, Cagnoli, Rv. 277547), è stata recentemente ribadita — con riguardo all’omessa disposizione della sanzione amministrativa accessoria della revoca dell’indennità di disoccupazione e della pensione sociale o di indennità civile — sottolineando che la richiamata previsione dell’art. 676 cod. proc. pen. individua il procedimento di esecuzione come esclusivo mezzo di esercizio del potere di applicare la pena accessoria nella fase successiva al giudicato, escludendo di contro la possibilità di ricorrere in quella fase alla procedura di correzione dell’errore materiale (Sez. 1, n. 3627 del 11/01/2022, Nicosia, Rv. 282497).
Il principio deve senz’altro essere riaffermato da queste Sezioni Unite. Va premesso che l’ammissibilità del ricorso in sede esecutiva alla procedura di cui all’art. 130 cod. proc. pen., nel caso di specie, è stata sostenuta da decisioni che, oltre ad essere state pronunciate prima del citato arresto delle Sezioni Unite, si limitavano ad una generica asserzione in tal senso, al più accompagnata (in particolare nella sentenza Alberghina) da un riferimento all’art. 183 disp. att. cod. proc. pen.; disposizione, quest’ultima, il cui contenuto si limita a consentire la richiesta al giudice dell’esecuzione di applicare la pena accessoria omessa, ma nulla dice in ordine alle forme procedurali da adottare.
Con riguardo a tali forme, secondo le pertinenti osservazioni formulate nella sentenza Nicosia, non vi è dubbio che il giudice dell’esecuzione possa adottare, eventualmente ex officio, lo schema procedimentale dell’art. 130 cod. proc. pen., ove si tratti di correggere l’errore materiale contenuto in un provvedimento da lui emesso in tale qualità. Ma è altrettanto indiscutibile che l’errore contenuto nella sentenza della cui esecuzione si tratta, una volta che la stessa sia passata in giudicato, non è più suscettibile di correzione da parte del giudice della cognizione, poiché la competenza funzionale a provvedervi spetta a quel punto al giudice dell’esecuzione.
Orbene, quest’ultimo esercita le sue attribuzioni unicamente attraverso lo strumento del procedimento di esecuzione disciplinato dall’art. 666 cod. proc. pen., che deve essere preceduto da una richiesta di parte; procedimento nell’oggetto del quale si colloca, fra le altre, la materia delle pene accessorie, in forza dell’espresso richiamo alla stessa, contenuto nell’art. 676 cod. proc. pen., fra le competenze del giudice di esecuzione che detta norma aggiunge a quelle singolarmente menzionate nei precedenti articoli.
- Devono in conclusione essere affermati i seguenti principi di diritto: “La sentenza che abbia omesso di applicare una pena accessoria è ricorribile per cassazione per violazione di legge da parte sia del Procuratore della Repubblica che del Procuratore Generale a norma dell’art. 608 cod. proc. pen. La Corte di cassazione, ove rilevi l’illegittima applicazione di pena accessoria predeterminata nella durata, pronuncia l’annullamento senza rinvio ex art. 620 lett. I) della sentenza impugnata. Resta impregiudicato il potere del pubblico ministero, una volta passata in giudicato la sentenza, di attivare, a norma degli artt. 662 e 183 disp. att. cod. proc. pen., nei casi di pena accessoria predeterminata nella durata, il procedimento di esecuzione, da tenersi nelle forme dell’art. 676 cod. proc. pen., non trovando applicazione l’art. 130 cod. proc. pen.”
- Nel caso oggetto del ricorso in discussione, l’omissione denunciata riguarda la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, che seguiva di diritto alla condanna del Galdini ad una pena che nella misura base era pari ad anni tre di reclusione, coincidente con il limite minimo della pena principale previsto dall’art. 29, comma 1, cod. pen. per l’applicazione obbligatoria della predetta pena accessoria. Quest’ultima è predeterminata dalla stessa norma nella misura di anni cinque.
Sussistono pertanto le condizioni per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 620, lett. I), cod. proc. pen., e per l’applicazione in questa sede della pena accessoria indicata.