Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza 01 febbraio 2021 n. 2157
L’azione per danno erariale proposta nei confronti di una banca d’affari sulla base di un petitum sostanziale concernente l’inadempimento di obblighi contrattuali o ipotesi di responsabilità precontrattuale riconducibili al duplice ruolo di controparte in operazioni in strumenti finanziari derivati e di specialista del debito pubblico (D.P.R. n. 398 del 2003, art. 33 previg., D.M. Finanze n. 216 del 2009, art. 23), da essa svolto nel rapporto con il Ministero del Tesoro (oggi MEF), esula dalla giurisdizione contabile qualora tale rapporto non si connoti, in concreto, come relazione di servizio comportante l’assunzione, da parte della stessa, di potestà pubblicistiche ed il suo inserimento, anche temporaneo, nell’organizzazione interna del Ministero quale agente di questo in ordine alle scelte di negoziazione in strumenti finanziari derivati e di gestione del debito pubblico sovrano.
Ferma restando l’insindacabilità giurisdizionale delle scelte di gestione del debito pubblico, da parte degli organi governativi a ciò preposti, mediante ricorso a contratti in strumenti finanziari derivati, rientra invece nella giurisdizione contabile, in quanto attinente al vaglio dei parametri di legittimità e non di mera opportunità o convenienza dell’agire amministrativo, l’azione di responsabilità per danno erariale con la quale si faccia valere, quale petitum sostanziale, la mala gestio alla quale i dirigenti del Ministero del Tesoro (oggi MEF) avrebbero dato corso, in concreto, nell’adozione di determinate modalità operative e nella pattuizione di specifiche condizioni negoziali relative a particolari contratti in tali strumenti.
- 4.1 Il primo motivo di ricorso è infondato.
Nella concretezza del caso la decisione sulla giurisdizione si atteggia in maniera diversa, a seconda che essa sia rivolta alla posizione della Banca oppure a quella dei dirigenti del Ministero.
Mentre in questo secondo caso la giurisdizione contabile trova limite esterno invalicabile non già nella concorrente sfera di giurisdizione di un giudice diverso, ma proprio nella intrinseca e connaturata insindacabilità degli indirizzi di merito dell’azione amministrativa e, dunque, nell’alterità radicale tra poteri dello Stato (giurisdizione ed amministrazione), con il possibile esito di esclusione di qualsivoglia controllo di tipo giurisdizionale sulla vicenda dedotta, nel primo caso il problema va invece risolto proprio all’interno di un sistema connotato dal concorso di sfere giurisdizionali (tra giudice contabile ed ordinario) limitrofe e reciprocamente limitanti.
La precisazione – riconducibile alla distinzione generale tra difetto assoluto e difetto relativo di giurisdizione – appare ben rimarcata, a seguito della nota sentenza del giudice della L. n. 6 del 2018, da Cass. SSUU n. 8311/19, secondo cui “il sindacato della Corte di cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione concerne le ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione per “invasione” o “sconfinamento” nella sfera riservata ad altro potere dello Stato ovvero per “arretramento” rispetto ad una materia che può formare oggetto di cognizione giurisdizionale, nonché le ipotesi di difetto relativo di giurisdizione, le quali ricorrono quando la Corte dei Conti o il Consiglio di Stato affermino la propria giurisdizione su materia attribuita ad altro giudice o la neghino sull’erroneo presupposto di quell’attribuzione (…)”.
Su questa premessa di fondo, la decisione declinatoria della Corte dei Conti in ordine alla posizione della Banca – in quanto soggetto estraneo all’amministrazione – deve ritenersi corretta.
È vero che, come osservato dalla Procura contabile, la formale estraneità alla pubblica amministrazione non è evenienza sufficiente ai fini di escludere la giurisdizione contabile per danno erariale ogni qual volta sussistano concrete circostanze attestanti l’instaurazione – variamente titolata – di un rapporto di servizio tra il privato e l’ente pubblico; elemento, quest’ultimo, in grado di mutare in senso pubblicistico il ruolo dell’extraneus che, proprio in forza di tale rapporto, venga ad inserirsi (anche solo temporaneamente) nella struttura organizzativa dell’ente, nel cui ambito giunga ad operare in forza di un legame sostanzialmente equiparabile a quello dell’appartenenza organica.
La giurisprudenza di legittimità ha definito con chiarezza i contorni della relazione di servizio costituente presupposto indefettibile della giurisdizione contabile su soggetti esterni alla P.A., costantemente individuandoli (tra le molte, Cass. SSUU nn. 19086/20, 7640/20, 21871/19, 486/19, 10324/16, 19891/14):
– nell’attribuzione al soggetto privato esterno dell’incarico di svolgere, nell’interesse e con le risorse della P.A., un’attività o un servizio pubblico in sua vece e con suo inserimento nell’apparato organizzativo della stessa; nella idoneità della relazione instauratasi tra privato ed ente pubblico a rendere il primo compartecipe dell’operato del secondo, così da assumere la veste di vero e proprio agente dell’amministrazione, come tale tenuto ad osservare particolari vincoli ed obblighi funzionali ad assicurare il perseguimento delle esigenze generali cui l’attività amministrativa dell’ente, nel suo complesso, è preordinata;
– nella irrilevanza del titolo della gestione dell’attività pubblica di cui il privato risulti investito, potendo questo titolo essere costituito tanto da un formale rapporto di pubblico impiego o di servizio, quanto da una concessione amministrativa o anche da un contratto di diritto privato; così come anche mancare del tutto, con l’instaurazione di un rapporto non formalizzato e puramente di fatto;
– nella conseguente ininfluenza della circostanza che le concrete modalità di svolgimento del servizio rispondano a quelle rientranti negli schemi generali previsti e disciplinati dalla legge per un determinato tipo di rapporto, oppure in tutto o in parte se ne discostino.
- 4.2 E tuttavia, gli elementi sintomatici del rapporto di servizio – così delineati – non sono in alcun modo qui ravvisabili.
Segnatamente non è ravvisabile, contrariamente alla prospettazione offerta dal Procuratore contabile, l’elemento essenziale e caratteristico rappresentato dall’investitura della Banca di una funzione pubblicistica, comportante il suo inserimento nella struttura organizzativa del Ministero con effetto sostanzialmente sostitutivo delle valutazioni e delle decisioni di quest’ultimo in ordine alle scelte di gestione del debito pubblico e di negoziazione di contratti in strumenti di finanza derivata.
Ciò che qui osta all’affermazione della giurisdizione contabile sul presupposto dell’assunzione da parte della Banca della veste di intraneus, non è la sussistenza in capo ad essa della duplice veste di legittimazione operativa data dall’essere stata sia controparte contrattuale del Ministero (nelle operazioni in derivati dedotte in responsabilità), sia consulente nella gestione e nel collocamento del debito pubblico (come specialista in titoli di Stato) trattandosi, come si è detto, di elementi non necessariamente escludenti la relazione di servizio – bensì proprio la mancata assunzione di un ruolo interno di inserimento e di una potestà pubblicistica “in vece” della P.A., in quanto surrogatoria della volontà del Ministero, o quantomeno decisoriamente determinante nell’adozione delle scelte di quest’ultimo in materia.
Osserva la Procura ricorrente che la Banca fu in grado di indurre il Ministero “a stipulare derivati ad altissimo rischio (es. swaption) per di più in presenza di una clausola che rimetteva alla stessa Banca un potere risolutivo unilaterale assoluto (ATE) ed in assenza di qualsiasi forma di garanzia, pure obbligatoriamente prevista negli accordi negoziali (“collateralizzazione”) nonché di chiuderli (2011- 2012) a condizioni e con modalità del tutto inique dettate dalla Banca stessa (…)” (ric. pag. 25).
La peculiarità della presente vicenda non è però tale da giustificare lo scostamento dal criterio generale del petitum sostanziale quale discrimine basilare nel riparto di giurisdizione, a sua volta identificabile non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione (tra le molte: Cass. SSUU n. 20350/18; Cass. SSUU n. 21928/18).
Orbene, dall’atto di citazione in giudizio e dall’atto di appello (entrambi ricostruiti anche dalla Corte dei Conti nella sentenza impugnata) emerge chiaramente come, per quanto concerne la stipulazione, rinegoziazione e chiusura dei contratti in prodotti derivati, la responsabilità della Banca venga dalla Procura contabile individuata in una condotta sostanzialmente abusiva con la quale la Banca stessa avrebbe dapprima generato, e poi indebitamente sfruttato, una situazione di sostanziale e forte squilibrio di potere contrattuale in pregiudizio del Ministero, orientando a proprio favore sia le carenze organizzative e conoscitive interne al Ministero stesso sia, più in generale, le assai critiche, se non drammatiche, condizioni macroeconomiche e di mercato (invece ad essa favorevoli) nelle quali il Tesoro Italiano si vedeva costretto, soprattutto nel periodo (2011-2012) della chiusura dei contratti in essere.
L’impostazione fortemente asimmetrica (atto di citaz., pag. 34) del rapporto con il Ministero troverebbe riscontro sia sul piano negoziale (attivazione o minaccia di attivazione della clausola ATE, convenuta con il Ministero senza adeguata consapevolezza da parte di quest’ultimo e, per giunta, senza garanzie collaterali capaci di neutralizzarne gli effetti preservando la durata naturale dei rapporti), sia su quello economico (posto che la massima parte del danno erariale dedotto in giudizio sarebbe costituito da somme di rimborso e chiusura introitate dalla Banca in esecuzione degli accordi sperequati), sia – ancora – su quello operativo, nel senso che la Banca avrebbe agito, quale controparte contrattuale, in conflitto di interessi e nella strumentalizzazione dell’altro ruolo, di specialista del debito pubblico, da essa contestualmente rivestito e comportante, tra il resto, taluni benefici e preferenze regolamentari proprio nella stipulazione dei contratti in questione.
Come osservato dalla Corte dei Conti, da tutto ciò non può trarsi convincimento circa l’esistenza di un rapporto di servizio comportante un inserimento organico o para-organico della Banca nella struttura ministeriale.
Il nucleo “accusatorio” sostanziale muove da una tipica violazione da parte della Banca degli obblighi informativi gravanti sull’intermediario finanziario quand’anche operante in contropartita diretta (sovrapposizione di ruoli del resto connaturata all’operatività in swap) e, più in generale, degli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto ex artt. 1175 e 1375 c.c.; il che integra, secondo lo schema “obbligo-pretesa”, appunto un’ipotesi di “ordinaria” responsabilità contrattuale ovvero (per la fase precedente alla prima stipulazione ed alla successiva rinegoziazione) precontrattuale.
Depone in tal senso anche la deduzione da parte della Procura contabile della illiceità della causa contrattuale ex art. 1418 c.c., per effetto della violazione di norme imperative, di contrarietà all’ordine pubblico economico e di snaturamento della causa negoziale concreta a seguito e per effetto della clausola ATE (citaz. § B.3).
È dunque evidente come – al di là della prospettazione della vicenda all’interno di un più ampio contesto di rapporto asseritamente coinvolgente l’organizzazione ministeriale e le scelte di fondo sulla gestione del debito pubblico nazionale – il petitum sostanziale dedotto in giudizio (come sopra inteso) non fuoriesca in realtà da un ambito, di natura prettamente privatistica, di patologica alterazione del sinallagma contrattuale, come tale avulso tanto dal conferimento quanto dallo sviamento di pubbliche ed autoritative potestà attestanti l’inserimento della Banca nell’apparato ministeriale.
Già Cass. Sez. 1 11642/12 ebbe ad affermare che la responsabilità dell’advisor nella pregiudizievole determinazione dei valori negoziali di scambio ha natura contrattuale nei confronti di chi gli ha conferito l’incarico.
Ed in tali ipotesi, di derivazione causale dei fatti di responsabilità non da un rapporto autoritativo di servizio ma dalla violazione di obblighi contrattuali o precontrattuali privatistici, la domanda risarcitoria esula pacificamente dalla giurisdizione contabile.
Ha osservato Cass. SSUU n. 10324/16 che la giurisdizione contabile va affermata allorché il danno erariale dipenda da comportamenti illegittimi tenuti dall’agente nell’esercizio di quelle funzioni per le quali possa dirsi che egli è inserito nell’apparato dell’ente pubblico, così da assumere la veste di agente dell’amministrazione, “mentre, ben diversa è la situazione che si determina quando il pregiudizio di cui si pretende il ristoro sia conseguenza di comportamenti che il privato abbia assunto nella veste di controparte contrattuale dell’amministrazione medesima. In tale evenienza, ad esser violato non è, infatti, il dovere, lato sensu pubblicistico, gravante sul contraente generale, di agire nell’interesse dell’amministrazione, bensì quello di adempiere correttamente le obbligazioni dedotte nel contratto, alle quali corrispondono diritti corrispettivi, su un piano di parità”.
Ha affermato Cass. SSUU 10231/17, in fattispecie di appalto d’opera pubblica, che “il direttore dei lavori nominato dal contraente generale ai sensi del D.Lgs. n. 190 del 2002, art. 9, comma 2, applicabile ratione temporis, non esercita alcun potere autoritativo e non può, quindi, ritenersi funzionalmente inserito nell’apparato amministrativo della stazione appaltante, sicché, ove si assuma che dall’esercizio del relativo incarico sia derivato un danno all’ente pubblico, deve escludersi, in ragione dell’insussistenza di un rapporto di servizio, ancorché temporaneo, con quest’ultimo, che la cognizione della conseguente azione risarcitoria spetti alla giurisdizione contabile”.
Sulla stessa linea ha stabilito Cass. SSUU n. 486/19, in relazione alla responsabilità del contraente generale in appalto pubblico, che qualora si assuma che il danno derivi dalla violazione, da parte di quest’ultimo, del suo “dovere” (in senso lato) pubblicistico afferente all’attività e alle funzioni svolte come “agente dell’amministrazione pubblica”, la cognizione dell’azione di responsabilità intentata dall’ente pubblico spetta alla giurisdizione della Corte dei Conti, in ragione del temporaneo rapporto di servizio pubblico sorto per effetto dell’esercizio di quei poteri.
Mentre, allorquando “si assuma che il danno derivi dall’inadempimento delle obbligazioni poste a carico del contraente generale come “controparte contrattuale dell’amministrazione pubblica, così da squilibrare il sinallagma contrattuale (o, può qui aggiungersi, da un mero illecito extracontrattuale), la cognizione dell’azione di responsabilità o risarcitoria spetta alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, in ragione del non venire in rilievo l’esercizio di poteri pubblicistici tale da far sorgere un temporaneo rapporto di servizio con l’ente pubblico”.
- 4.3 Quanto alla veste di “specialista in titoli di Stato” pure assunta dalla Banca, si deve parimentiescludere l’assunzione di un ruolo di natura pubblicisticaingenerante un rapporto di servizio, e quindi tale da fondare la giurisdizione contabile.
Si tratta di figura radicata in un preciso quadro normativo primario (facente originariamente capo al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 76, ed alla previsione in esso contenuta degli “operatori ammessi alle negoziazioni nei mercati all’ingrosso dei titoli di Stato”), e secondario (D.M. 24 febbraio 1994; D.M. 15 ottobre 1997; D.M. 13 maggio 1999; D.M. n. 216 del 2009, via via succedutisi).
Il D.P.R. n. 398 del 2003, art. 33 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di debito pubblico) stabiliva, nella formulazione vigente ratione temporis: “Specialisti in titoli di Stato. 1. Per ciascun mercato all’ingrosso dei titoli di Stato, il Tesoro, in relazione alle esigenze connesse alla gestione del debito pubblico, iscrive, in un apposito elenco denominato “elenco degli specialisti in titoli di Stato” (gli “specialisti”), gli operatori principali di cui all’art. 31, comma 1, lett. d), che ne facciano domanda e che siano in possesso dei requisiti indicati al comma seguente. 2.
L’iscrizione nell’elenco di cui al comma 1 è subordinata alle seguenti condizioni: a) possesso di un patrimonio netto di vigilanza pari ad almeno Euro 38.734.267,43; b) svolgimento di un’attività nei diversi comparti del mercato secondario coerente con gli obiettivi di gestione del debito pubblico, con particolare riguardo alla continuità dell’attività svolta, al numero e alla tipologia dei titoli trattati, nonché alle quantità scambiate; c) possesso di una struttura organizzativa idonea, in particolare, ad assicurare il collocamento dei titoli di Stato presso gli investitori finali; d) aggiudicazione, su base annua, anche a livello di gruppo, di una quota pari ad almeno il tre per cento del totale dei titoli emessi nelle aste sul mercato primario dei titoli di Stato.
La suddetta quota verrà calcolata tenendo conto delle differenti caratteristiche finanziarie dei medesimi titoli (…)”.
Si stabilisce inoltre al D.M. n. 216 del 2009 cit., art. 23 (Regolamento recante norme sull’individuazione delle caratteristiche delle negoziazioni all’ingrosso di strumenti finanziari e sulla disciplina delle negoziazioni all’ingrosso dei titoli di Stato) quanto segue: “Titolo IV Operatori specialisti in titoli di Stato. 1. Il Ministero, in relazione alle esigenze connesse alla gestione del debito pubblico, seleziona gli specialisti tra i market maker in titoli di Stato italiani, residenti nell’Unione Europea, aventi natura di Banca o di impresa di investimento, operanti sui mercati regolamentati e/o sui sistemi multilaterali di negoziazione all’ingrosso con sede legale nell’Unione Europea.
Il Ministero seleziona gli operatori tra coloro che ne facciano domanda e che soddisfino i requisiti di cui al successivo comma 2 e li iscrive nell’elenco, istituito e reso pubblico dallo stesso Ministero. 2. I requisiti per l’iscrizione e la permanenza nell’elenco sono i seguenti: a) possesso di una struttura organizzativa idonea per un’efficiente partecipazione al mercato primario e alle sedi di negoziazione all’ingrosso nonché per un’efficiente distribuzione dei titoli di Stato italiani presso gli investitori finali; b) partecipazione efficiente al mercato primario dei titoli di Stato italiani, in termini di qualità, continuità e quantità, con una aggiudicazione minima su base annua di una quota non inferiore al tre per cento dell’ammontare nominale complessivo collocato in asta, calcolata tenendo conto delle caratteristiche finanziarie dei titoli sottoscritti; c) partecipazione efficiente alle sedi di negoziazioni all’ingrosso dei titoli di Stato italiani in termini di contributo al volume degli scambi, alla liquidità e alla profondità del mercato, mediante la formulazione, su base continuativa, di quotazioni, in acquisto e in vendita, impegnative e competitive in termini di prezzo e di quantità”.
Si tratta di disposizione richiamata dal D.Dirig. MEF 11 novembre 2011, n. 993039 (D.Dirig. Specialisti) sulla “Selezione e Valutazione degli Specialisti in titoli di Stato”.
Dalle fonti di disciplina emerge come gli specialisti svolgano una funzione facilitativa e di market maker (come primary dealers) nel collocamento in asta dei titoli di Stato (anche con obbligo di sottoscrizione minima), a fronte del riconoscimento di taluni vantaggi e preferenze a parità di condizioni con operatori non specialisti, tra cui la partecipazione esclusiva ai collocamenti supplementari ed alle riaperture delle aste di emissione.
Per quanto si possa ben comprendere come questo ruolo appaia tanto più importante quanto più ingente sia, come nel caso del Tesoro Italiano, l’esposizione complessiva del debito pubblico nazionale, non vi sono elementi per ritenere che esso comporti di per sé l’instaurazione di un rapporto di servizio con l’apparato ministeriale.
Si tratta di operatori – sottoposti a valutazione periodica da parte del Ministero – i cui requisiti ne attestano l’estraneità strutturale ed operativa rispetto a quest’ultimo, e ciò in coerenza con i compiti ad essi assegnati dall’ordinamento, che non sono di investitura ed esercizio di potestà pubblica, quanto di supporto ed agevolazione nella collocazione di mercato del debito pubblico; si tratta di compiti di natura professionale la cui alta qualificazione e nevralgica rilevanza sistemica (anche se “perno della struttura distributiva del debito”, atto di citaz. pag. 37) non ne implica il ruolo formativo o sostitutivo, quanto piuttosto meramente attuativo, delle scelte di indebitamento pubblico esclusivamente proprie del Tesoro.
Benché il momento caratterizzante del compito in esame si ponga proprio nella fase cruciale in cui queste scelte (estranee, come detto, agli specialisti) debbono trovare risposta di massima efficienza ed efficacia sul mercato mondiale, primario e secondario, dei titoli, e per quanto sia fin troppo evidente la rilevanza pubblicistica di questa risposta, è indubbio che lo Stato ben possa avvalersi, nel perseguimento dell’interesse pubblico, anche di operatori e di strumenti che sono esterni alla propria organizzazione, e che non entrano a farvi parte sol perché partecipi dell’attuazione di quell’interesse.
Altro è a dire (atto di citaz., pagg. 35 segg.) che il rapporto di servizio, quand’anche escluso sul piano normativo, sarebbe invece qui concretamente ravvisabile in ragione delle peculiarità della relazione sviluppatasi negli anni, in linea di fatto, tra lo “specialista Morgan Stanley” ed il Ministero.
Ciò in ragione della continuità e risalenza (almeno dai primi anni ‘90) di questa relazione, del carattere prettamente fiduciario e di affidamento del ruolo assunto nel tempo dalla Banca, della natura consulenziale sistematicamente svolta da questa a favore del Ministero, così come testimonialmente e documentalmente comprovato (mail, reports, slides, note e memorandum, incontri bilaterali periodici).
Deduce la Procura ricorrente che: “(…) l’apporto dell’advisor Morgan Stanley nella stipula, rinegoziazione e chiusura dei contratti relativi agli specifici prodotti derivati oggetto di causa è configurabile come inserimento, con continuità ed autorevolezza, ed anche sulla base dell’elemento fiduciario, nell’esercizio di attività connesse all’utilizzo di pubbliche risorse, dotato dei caratteri della decisività rispetto al momento della formazione della volontà dell’ente, con conseguente affermazione della sussistenza di una relazione funzionale con lo Stato” (ric. pag. 34).
Fondamentale elemento in tal senso viene dalla Procura contabile individuato nel collegamento formatosi tra il ruolo di specialista e quello di controparte contrattuale in derivati (ruoli infatti necessitanti di una valutazione globale ed interdipendente), anche quest’ultimo rientrante tra le preferenze e le contropartite accordate a Morgan Stanley proprio in quanto specialista del debito pubblico.
Ebbene, si tratta di elementi tutti già vagliati dalla Corte dei Conti, il cui convincimento sul punto merita piena condivisione.
Occorre anche in proposito rifarsi ai già richiamati connotati imprescindibili del rapporto di servizio quale elemento fondante la giurisdizione contabile, per concludere come nessuno degli elementi così addotti dalla Procura contabile anch’essi naturalmente vagliati nel prisma del petitum sostanziale – depongano davvero nel senso della sussistenza di questa giurisdizione.
Volendo partire dal fondo e cioè dalla determinazione del danno risarcibile, è evidente come l’azione della Procura contabile addebiti a Morgan Stanley l’indebita locupletazione di compensi contrattuali nelle operazioni in prodotti derivati; a sua volta conseguente alla violazione di obblighi di buona fede, correttezza, simmetria e “parità delle armi” che, come si è visto, attengono alla negoziazione ed alla stipulazione contrattuale, e trovano in questi segmenti operativi, e non in altro, la loro origine causale (sia giuridica che storica).
Quand’anche si volesse ipotizzare lo sfruttamento da parte della Banca della propria ascendenza ed influenza all’interno del Ministero al fine di precostituirsi la posizione di supremazia contrattuale infine foriera di quella indebita locupletazione, ciò non implicherebbe ancora, di per sé, l’assunzione di un modello funzionale di esercizio di potestà pubblica integrante una relazione di servizio e di inserimento organico nell’amministrazione.
Lo squilibrio di “potere contrattuale” così determinatosi rileva certamente sul piano dai comportamenti negoziali e della loro abusività, non anche e necessariamente su quello dell’investitura e dell’esercizio di una potestà e di una influenza pubblica.
Questo nesso neppure può individuarsi, come vorrebbe la Procura contabile, nella funzione consulenziale che sarebbe stata svolta dalla Banca (in maniera distorta e strumentale) nella sua veste di specialista del debito pubblico.
Si tratta di una funzione che la Corte dei Conti ha argomentatamente escluso, osservando come tutta l’attività a tal fine evidenziata dalla Procura contabile (compresi i memorandum), da un lato, rientrasse appieno nei compiti e nelle prerogative costitutive e funzionali dello specialista in debito pubblico e, dall’altro, si materializzasse nella formulazione di mere proposte e possibili linee di intervento, comunque sempre demandate al vaglio decisorio non formale, ma sostanziale ed effettivo (secondo rigide procedure e protocolli di analisi e deliberazione), degli organi e delle direzioni interne al Ministero.
Non si disconosce che il rapporto di servizio e l’inserimento dell’extraneus nell’apparato amministrativo possano realizzarsi anche attraverso un’attività di tipo consulenziale.
Ha osservato Cass. SSUU n. 19891/14 che la domanda risarcitoria avanzata nei confronti di un professionista investito di un incarico di consulenza da un ente pubblico spetta alla giurisdizione della Corte dei Conti “tutte le volte in cui il consulente, per l’attività svolta, debba ritenersi inserito, in modo continuativo, seppur temporaneo, nell’apparato organizzativo della P.A. e cioè tutte le volte in cui la relazione funzionale tra l’autore dell’illecito e l’ente pubblico danneggiato integri un rapporto di servizio il senso lato”.
Cass. SSUU n. 11/12 (così Cass. SSUU n. 30786/11) ha parimenti affermato che spetta alla giurisdizione della Corte dei Conti il giudizio di responsabilità promosso nei confronti di un professionista nominato consulente del P.M. ai sensi dell’art. 359 c.p.p. e condannato per reati commessi nella qualità suddetta, “configurandosi un rapporto di servizio tra il predetto e l’Amministrazione statale, atteso che tale consulente è abilitato a svolgere un’attività del P.M., che questi potrebbe compiere direttamente se avesse le specifiche competenze necessarie e, pertanto, pur se nei limiti posti dalla norma che ne prevede la nomina, il consulente del P.M. concorre oggettivamente all’esercizio della funzione giudiziaria nella fase delle indagini preliminari”.
Fermo il principio, si tratta però di fattispecie lontane da quella qui in esame, e comunque attestanti esse stesse il fatto che, anche nel caso di consulenza, occorre pur sempre la riscontrabilità in concreto dei caratteri originari del rapporto di servizio.
E tali caratteri non sono qui riconoscibili nemmeno sotto il particolare profilo dell’incidenza causale e decisoria che l’attività di consulenza svolta dalla Banca avrebbe sortito sulle scelte di gestione del debito pubblico da parte del Ministero, eventualmente anche attraverso la rinegoziazione e ristrutturazione in derivati del debito in essere.
La tesi della Procura contabile secondo cui il Tesoro sarebbe stato sostanzialmente subalterno alla Banca nell’operatività in derivati sul debito pubblico, per effetto del ruolo di specialista in materia da quest’ultima svolto, non dà conto di una fattispecie nella quale il Ministero, che all’epoca interloquiva con altri diciannove “specialisti”, certo non operava – nè nel servizio finanziario di consulenza nè in quello di negoziazione – quale cliente retail.
Ad esso spettava addirittura potestà normativa generale in materia di strumenti finanziari e di derivati (art. 18, comma 5 ed art. 1, comma 2 bis TUF) ed al suo interno operavano competenze specifiche (anche negli stessi convenuti) di assoluto rilievo ed indiscusso riconoscimento; per di più, tali competenze erano chiamate a deliberare solo all’esito di procedure decisionali articolate e rigorose (internai rules).
La stessa Procura ricorrente, quando evidenzia l’asimmetria di rapporto tra Banca e Ministero, si riferisce essenzialmente alla contrapposizione degli interessi economici, alle divergenti influenze macroeconomiche del momento e, soprattutto, alla netta preponderanza del vantaggio negoziale della prima (clausola ATE in contesto di conclamato superamento del plafond debitorio pubblico) in relazione ai contratti in derivati dedotti in giudizio, non anche al patrimonio di conoscenza, esperienza, informazione ed autonoma capacità valutativa in materia, paritariamente individuabile in capo alle parti contraenti.
Vale, ad ogni modo, il dato oggettivo che “i Governi nazionali e i loro corrispondenti uffici, compresi gli organismi pubblici incaricati di gestire il debito pubblico” costituiscono controparti qualificate nell’intermediazione finanziaria ex art. 6, comma 2 quater, TUF; e da ciò non può certo prescindersi nell’escludere l’incidenza, l’essenzialità e la determinatività dell’attività di consulenza posta in essere dalla Banca, non potendosi sostenere che essa fosse in ipotesi tale da indirizzare significativamente, se non da senz’altro sostituire, la volontà decisoria del Ministero e la possibilità di questo di autonomamente soppesare, nel quadro generale, l’aspetto precipuo dato dal rapporto costo/rischio delle operazioni condotte con Morgan Stanley.
Nè risulta estensibile de plano alla presente fattispecie quanto da questa stessa corte di legittimità recentemente ritenuto (a scopo diverso dal riparto di giurisdizione) con specifico riguardo al contenuto informativo essenziale dovuto dagli intermediari finanziari qualificati – non già allo Stato attraverso il Tesoro, ma – ai Comuni (equiparabili, almeno nelle più modeste realtà territoriali, proprio ai clienti retail) nella stipulazione “personalizzata” di contratti derivati (Cass. SSUU n. 8770/20).
Ricapitolando: “l’azione per danno erariale proposta nei confronti di una banca d’affari sulla base di un petitum sostanziale concernente l’inadempimento di obblighi contrattuali o ipotesi di responsabilità precontrattuale riconducibili al duplice ruolo di controparte in operazioni in strumenti finanziari derivati e di specialista del debito pubblico (D.P.R. n. 398 del 2003, art. 33 previg., D.M. Finanze n. 216 del 2009, art. 23), da essa svolto nel rapporto con il Ministero del Tesoro (oggi MEF), esula dalla giurisdizione contabile qualora tale rapporto non si connoti, in concreto, come relazione di servizio comportante l’assunzione, da parte della stessa, di potestà pubblicistiche ed il suo inserimento, anche temporaneo, nell’organizzazione interna del Ministero quale agente di questo in ordine alle scelte di negoziazione in strumenti finanziari derivati e di gestione del debito pubblico sovrano”.
- 5.1 Venendo al secondo motivo di ricorso, ne va preliminarmente affermata, contrariamente a quanto eccepito dai dirigenti nei loro controricorsi e memorie, la piena ammissibilità.
Non può infatti fondatamente sostenersi che la Corte dei Conti, con la sentenza impugnata, abbia in sostanza già deciso la causa nel merito (nel senso di escludere la responsabilità), così che ogni ipotetico suo vizio concreterebbe, a tutto concedere, errore di giudizio o di processo, dunque non censurabile per cassazione in quanto estraneo alla giurisdizione (che quindi, in tale ottica, sarebbe stata di fatto non negata, ma anzi ritenuta e consumata).
L’inconsistenza di questa tesi emerge sul piano sia formale sia sostanziale.
Sul piano formale, la Corte dei Conti ha cura essa stessa di precisare (sent. pag. 112) che l’effettuato excursus della disciplina regolante la materia attestante la piena legittimità per lo Stato del ricorso agli strumenti derivati, la insussistenza di vincoli normativi legittimanti la discriminazione tra derivati di copertura e derivati con diversa finalità, la risalente predeterminazione della clausola ATE nell’ambito degli accordi di programma ISDA.MA – “non vale tanto per accertare o affermare la rispondenza della linea operativa ministeriale alla cornice normativa di riferimento, che presupporrebbe un esame nel merito della vicenda, aspetto logicamente successivo a quello della sussistenza della giurisdizione”, quanto per mettere in evidenza “come il sindacato della Procura erariale, dichiaratamente svolto su singoli contratti, ha investito in realtà direttamente le scelte di politica economica e, in particolare, l’aspetto della gestione del debito del Governo Italiano (…)”.
Dunque, è lo stesso giudice contabile a precisare di non aver affatto inteso compiere un accertamento di merito sulla bontà dell’operato dei dirigenti del Ministero, e di averne vagliato la rispondenza alla disciplina di settore al solo fine di negare la propria giurisdizione, risultando da tale vaglio come l’iniziativa della Procura contabile fosse in realtà indirizzata a sindacare attività e comportamenti non sindacabili.
Sul piano sostanziale, la mancanza di una decisione sull’effettiva sussistenza/insussistenza della responsabilità risarcitoria da danno erariale in capo ai dirigenti convenuti è resa ancor più evidente dal fatto che la Corte dei Conti ha volutamente omesso ogni valutazione (appunto perché asseritamente esulante dalla propria giurisdizione) sulle singole operazioni in derivati dedotte in giudizio. Osserva la Corte (sent. pag. 110). “(…) Proprio seguendo la linea prospettata nell’appello e nell’atto di citazione, dalla verifica se la linea d’azione era conforme a legge, emerge che la stessa, complessivamente considerata, non è in contrasto con la legislazione primaria e secondaria nè con i principi costituzionali di buon andamento, efficienza ed efficacia della PA.
Infatti, la decisione del Ministero di operare in strumenti finanziari derivati poggiava su una solida base normativa”. Pertanto la valutazione di conformità normativa effettuata dalla Corte dei Conti ha avuto riguardo all’operatività in derivati generalmente intesa (ed alla sua opportunità e convenienza in linea di principio), ed alla condotta dei dirigenti “complessivamente considerata”, cioè non partitamente e specificamente mirata su quello che era invece l’oggetto precipuo del giudizio, vale a dire le (sei) indicate operazioni in derivati. Ciò sulla premessa per cui il giudice contabile “non può estendere il suo sindacato all’articolazione concreta e minuta dell’iniziativa intrapresa dai pubblici amministratori” (pag. 108), e poi perché sindacare le singole operazioni equivaleva per forza a sindacare l’insindacabile, vale a dire le scelte e le strategie di gestione del debito pubblico sovrano (pagg. 112, 113, 119, 122).
In nessun modo può allora attribuirsi alla sentenza in questione, avulsa da qualsivoglia statuizione sul merito degli addebiti, natura ed effetto eccedenti la sola giurisdizione.
E, neppure, l’identificazione dell’oggetto della domanda nelle scelte di fondo sulla gestione del debito pubblico sovrano, piuttosto che nella contestazione delle specifiche operazioni in derivati produttive di danno erariale, potrebbe ascriversi ad un mero errore di giudizio o di processo da parte della Corte dei Conti, costituendo invece la ragione decisoria fondante della declinatoria di giurisdizione “per arretramento”, come tale ammissibilmente censurabile ex art. 111 Cost., comma 8 e D.Lgs. n. 174 del 2016, art. 207.
Diversa eccezione di inammissibilità del ricorso viene proposta (Difesa L.V. ) per il motivo che la Procura contabile non avrebbe impugnato la ragione decisoria in forza della quale la sentenza della Corte dei Conti avrebbe rilevato l’innovazione dell’atto di appello rispetto alla prospettazione dell’atto di citazione in primo grado.
Si tratta di eccezione infondata per almeno due aspetti.
Il primo è che quanto osservato sul punto nella sentenza della Corte dei Conti (pag. 122) non costituisce affatto una autonoma ed autosufficiente ratio decidendi necessitante di specifica impugnazione, risolvendosi piuttosto in un’affermazione puramente argomentativa, ipotetica ed incidentale (“in disparte”) riferita non all’appello nella sua globalità, ma ad un particolare, e certo non esauriente, profilo della domanda attorea (“in disparte la inammissibilità rispetto alla diversa prospettazione del primo grado”), non in condizione di inficiare la natura di “pura giurisdizione” della pronuncia, tutt’altro che integrativa di una statuizione di inammissibilità del gravame erariale; statuizione della quale, non a caso, non vi è traccia alcuna in dispositivo, e che inoltre trova smentita implicita nell’abbondanza degli argomenti di fondo impiegati dalla Corte per “respingere” l’appello.
Il secondo è che la diversità di prospettazione, secondo quanto ritenuto dalla stessa Corte dei Conti, concerneva a tutto concedere non già la formulazione di nuove domande o eccezioni, ma lo svolgimento di tesi giuridiche prettamente difensive e puramente interpretative degli atti di causa, volte a precisare (a replica e doglianza della prima decisione) come l’originaria domanda della Procura contabile concernesse in realtà il sindacato sulla discrezionalità tecnica sottesa alle specifiche operazioni dedotte in giudizio, e non la censura della politica governativa sul debito pubblico in quanto tale. Il che spiega come non possa essere individuato, nell’osservazione incidentale in esame, alcun convincimento avente rango di autonoma ragione decisoria in rito.
Sennonché, in mancanza del presupposto processuale costituito dalla compresenza di autonome ed esaustive ragioni decisorie, viene meno la rilevanza in concreto della giurisprudenza di legittimità invocata dalla parte (applicativa di Cass. SSUU n. 7931/13).
- 5.2 Il motivo è fondato.
Questa corte di legittimità ha da tempo univocamente evidenziato i limiti della insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali della PA (L. n. 20 del 1994, art. 1), anche recentemente ribadendo – in una fattispecie nella quale si è affermata la giurisdizione contabile in un giudizio di responsabilità concernente un funzionario regionale che aveva contribuito a determinare a condizioni diseconomiche l’importo di un accordo transattivo con un soggetto privato che (Cass. SSUU n. 8848/20): “in tema di giudizi di responsabilità amministrativa, la Corte dei Conti può valutare, da un lato, se gli strumenti scelti dagli amministratori pubblici siano adeguati – anche con riguardo al rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti – oppure esorbitanti ed estranei rispetto al fine pubblico da perseguire e, dall’altro, se nell’agire amministrativo gli amministratori stessi abbiano rispettato i principi di legalità, di economicità, di efficacia e di buon andamento, i quali assumono rilevanza sul piano della legittimità e non della mera opportunità dell’azione amministrativa”.
Questa pronuncia riassume gli elementi essenziali di sindacabilità, posto che: – la discrezionalità dell’amministratore nell’individuare la soluzione più idonea a realizzare nel caso concreto l’interesse pubblico può dirsi legittimamente esercitata solo in quanto risultino osservati i criteri informatori dell’agere della PA, come dettati in via generale dall’art. 97 Cost. e codificati dalla L. n. 241 del 1990, art. 1, comma 1, quanto a “economicità, efficacia e pubblicità”, e dal D.Lgs. n. 286 del 1999, art. 1;
– la rispondenza in concreto delle scelte degli amministratori a questi criteri è
soggetta al controllo di giuridicità sostanziale della Corte dei Conti, in quanto si tratta di criteri che, travalicando la “riserva di amministrazione” (intesa come preferenza tra alternative, nell’ambito della ragionevolezza, per il soddisfacimento dell’interesse pubblico), rientrano nella legittimità e non nella mera opportunità dell’azione amministrativa.
Cass. SSUU n. 30527/19 – in una fattispecie nella quale era stata contestata ad assessori e dirigenti provinciali la stipulazione di contratti di locazione ingiustificatamente onerosi per il tempo della stipulazione stessa e le caratteristiche dei locali – ha stabilito che “l’insindacabilità “nel merito” delle scelte discrezionali compiute da soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti non comporta che esse siano sottratte ad ogni possibilità di controllo, e segnatamente a quello della conformità alla legge che regola l’attività amministrativa, potendo e dovendo la Corte dei Conti verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell’ente, che devono essere ispirati ai criteri di economicità ed efficacia, rilevanti sul piano non della mera opportunità bensì della legittimità dell’azione amministrativa”.
Ciò perché:
– i criteri di economicità ed efficacia, già considerati della L. 7 agosto 1990, n. 241, ex art. 1, assumono rilevanza sul piano, non della mera convenienza od opportunità, ma della legittimità dell’azione amministrativa e consentono, in sede giurisdizionale, un controllo di ragionevolezza sulle scelte della pubblica amministrazione;
– questo controllo di ragionevolezza deve permettere la verifica della completezza dell’istruttoria, della non arbitrarietà e proporzionalità nella ponderazione e scelta degli interessi, della logicità ed adeguatezza della decisione finale rispetto allo scopo da raggiungere (Cass., Sez. U., 6820/17; 30419/18; 3159/19). Ha osservato Cass. SSUU n. 6462/20 che “il giudice contabile non viola i limiti esterni della propria giurisdizione qualora censuri, non già la scelta amministrativa adottata, bensì il modo con il quale quest’ultima è stata attuata, profilo che esula dalla discrezionalità amministrativa, dovendo l’agire amministrativo comunque ispirarsi a criteri di economicità ed efficacia”.
Ciò perché:
– i principi di economicità e di efficacia dell’azione amministrativa costituiscono regole di azione che svolgono un essenziale effetto conformatore ed una funzione di limite alla libertà di valutazione della PA;
– la loro osservanza è materia di sindacato giurisdizionale, attenendo ciò alla sfera di legittimità e non a quella propriamente discrezionale.
Cass. SSUU n. 6462/20, appena citata, è conforme (nel senso della sindacabilità del “come”) a Cass. SSUU n. 9680/19, quest’ultima resa in fattispecie di contestazione ad un sindaco e ad assessori e funzionari comunali di aver concluso, con grave imprudenza e senza adeguate garanzie, una dannosa operazione di finanza derivata (del tipo “Interest Rate Swap”) in funzione dell’esigenza di c.d. ristrutturazione del debito comunale ai sensi della L. n. 448 del 2001, art. 41.
Si è ribadito che spetta al giudice contabile il vaglio di osservanza dei criteri di economicità ed efficacia, collocandosi essi all’interno della giurisdizione contabile, e non esprimenti un sindacato del merito delle scelte discrezionali dell’amministrazione, di cui alla L. n. 20 del 1994, art. 1.
Non sembra utile dilungarsi oltre nella ricostruzione dell’indirizzo di legittimità in materia, non solo perché tale ricostruzione non si discosterebbe dai punti di approdo finora delineati, ma anche perché si tratta di un indirizzo che viene premesso, ed apparentemente condiviso, anche dalla Corte dei Conti nella sentenza qui impugnata.
Sebbene da tali premesse non siano poi discese le dovute conseguenze.
Si legge infatti che (sent. pagg. 106-109), sulla base del concetto di giurisdizione precisato dalle Sezioni Unite, occorre distinguere “la scelta di merito che non è mai sindacabile, dall’esercizio del potere discrezionale che è sempre sindacabile”, in modo tale che si eviti la creazione “di una zona franca di sostanziale irresponsabilità per i pubblici amministratori, con possibile esercizio del potere in modo arbitrario”. Sicché l’esimente dal controllo deve riferirsi alle sole opzioni discrezionali possibili e lecite, ma “con esclusione di quelle irragionevoli, incongrue, illogiche o irrazionali”.
In questo contesto come condivisibilmente si afferma – si pone il doveroso esame, L. n. 241 del 1990, ex art. 1 e art. 97 Cost., “della compatibilità tra l’esercizio dei poteri amministrativi ed i criteri di economicità ed efficacia, che assumono rilevanza sul piano della legittimità dell’attività amministrativa e non sul piano della mera opportunità”; il che rende necessario apprezzare “se gli strumenti utilizzati dai pubblici amministratori siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei ai fini di interesse pubblico da perseguire con risorse pubbliche, non potendo comunque prescindere dalla valutazione degli obiettivi conseguiti ed i costi sostenuti”.
Questa valutazione viene definita “intrinseca alla natura della giurisdizione contabile”, ed è appositamente prevista dalla Costituzione “per la verifica del perseguimento dei fini istituzionali dell’amministrazione, nel quadro complessivo degli equilibri della finanza pubblica”. Tanto che, si chiarisce ancora, ferma restando la scelta dell’amministrazione di apprestare gli strumenti più idonei al soddisfacimento degli obiettivi dell’ente, come rimarcato dalla previsione normativa del 1994, la Corte dei Conti “può e deve valutare i “modi di attuazione” delle scelte discrezionali alla luce dei suddetti parametri di efficacia”.
Poi si precisa, da un lato, che il giudice non può estendere il suo sindacato “all’articolazione concreta e minuta dell’iniziativa intrapresa dei pubblici amministratori” ma che, dall’altro, la giurisprudenza della stessa Corte dei Conti (sentenza n. 280 del 2018) ha interpretato della L. n. 20 del 1994, art. 1, comma 1, nel senso che quest’ultima previsione “non ha creato un’area di sostanziale deresponsabilizzazione erariale nell’adozione di atti, provvedimenti e negozi di tipo privatistico”, sicché il sindacato della Corte dei Conti non deve limitarsi a verificare se l’agente abbia compiuto l’attività per il perseguimento di finalità istituzionali, “ma deve estendersi alle singole articolazioni dell’agire amministrativo (…)”.
- 5.3 L’atto di citazione della Procura contabile, ricostruito in sentenza (pagg. 4 segg.) intendeva sottoporre a controllo giurisdizionale i seguenti sei contratti in derivati: Al. Cross Currency Swap GBP/Euro; A2. Receiver Swaption in sterline (emissione titoli 1989, stipula swap nel 1999) a copertura della predetta emissione; B1. Cross Currency Swap USD/Euro e B2. Receiver Swaption in sterline/Euro; C. Interest Rate Swap a 30 anni da 3 miliardi di Euro; D. Interest Rate Swap “ex Ispa”.
Veniva in atto di citazione (pag. 50) precisato “che le evidenze istruttorie e le valutazioni espresse nel presente atto si riferiscono esclusivamente alle operazioni in questione e non sono estensibili ad altre singole operazioni ovvero, ancor meno, alla complessiva gestione del debito pubblico dello Stato Italiano”.
Ed in effetti, la causa petendi dell’azione aveva riguardo a condotte tutte riconducibili ad asserita “mala gestio”, così quanto: al mancato governo della clausola unilaterale di early termination (ATE), divenuta nei fatti una vera e propria opzione, di cui i dirigenti convenuti sarebbero stati dapprima ignari, e che poi non sarebbe stata adeguatamente valutata nei suoi effetti giuridici al momento della rinegoziazione e ristrutturazione dell’esposizione pregressa, e neppure – si sostiene adeguatamente contrastata nel momento in cui venne attivata (o preannunciata di attivazione) dalla Banca, in concomitanza con il già conclamato sconfinamento dal tetto di massima esposizione debitoria dello Stato nei confronti di quest’ultima (collocabile tra fine 2002 ed inizio 2003), a sua volta riguardato alla luce dal declassamento di periodo del rating della Repubblica Italiana da parte delle agenzie internazionali;
alla mancata adeguata valutazione altresì degli effetti economici dell’esercizio di questa clausola, in grado di aumentare a dismisura e sconsideratamente l’alea contrattuale nella trasformazione del valore potenziale di mercato del contratto (mark to market) in valore effettivo, con rischio di esborsi elevatissimi (come poi avvenuto);
alla mancata attivazione di garanzie collaterali, pur prescritte dall’accordo di programma, in grado di neutralizzare gli effetti di anticipata estinzione propri della clausola ATE (che, si afferma, senza di esse neppure avrebbe potuto venire validamente esercitata dalla Banca), e permettere il corso dei contratti (duration) fino alla loro scadenza naturale;
all’inescusabile negligenza ed imperizia, oltre che nella fase di attivazione della clausola ATE, anche nella fase di chiusura e ristrutturazione dei contratti, soggiacendo tra l’altro il Tesoro alla richiesta della Banca di irragionevolmente suddividere in due riprese la fase di uscita, tra il dicembre 2011 ed il gennaio 2012, con causazione allo Stato, solo per questo motivo, di un esborso aggiuntivo non giustificato di 527 milioni di Euro;
all’imprudenza ed imperizia nella valutazione del rischio finanziario (risk management) sia nel contesto globale di operatività sia sulla base delle condizioni contrattuali convenute, volte ad imprimere alle operazioni, per loro natura aleatorie, la irragionevole prospettiva di una perdita certa ed elevatissima (tanto che, per una sola operazione, lo Stato, a fronte di un premio incassato di appena 47 milioni di Euro, aveva sostenuto costi per 1 miliardo e 350 milioni).
La stima del danno erariale chiesto in risarcimento (atto citaz., pagg. 122 segg.) rifletteva e confermava la finalizzazione dell’azione della Procura al vaglio contabile delle specifiche operazioni dedotte in giudizio, ammontando esso all’importo complessivo di Euro 3.943.913.732,13, quale sommatoria: degli esborsi corrisposti alla Banca a chiusura dei derivati (Euro 3.109.183.204,00), dei costi per i finanziamenti che il Tesoro si trovò ad accendere a copertura dell’esposizione così formatasi (Euro 725.994.278,13), dei saldi negativi residui (Euro 108.736.250,00).
La quantificazione è stata in citazione operata riguardo partitamente a ciascuna delle sei operazioni in scrutinio.
- 5.4 Va qui di nuovo evocato il criterio fondamentale di riparto della giurisdizione costituito dal petitum sostanziale, per evidenziare come la domanda, in base alla “intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione” (giurisprudenza cit.), non esulava dalla giurisdizione contabile come sopra perimetrata, posto che essa si concretava in una tipica azione di responsabilità contabile per danno erariale da mala gestio implicante un sindacato non già sulla “scelta” in sé operata dai dirigenti del Ministero bensì sui “modi di attuazione” della discrezionalità da essi così esercitata: non sull”an”, ma sul “quomodo” (Cass. SSUU nn. 6462/20, 9680/19, cit.).
Dunque, la valutazione del giudice contabile non poteva fermarsi – pena il denunciato arretramento di potere giurisdizionale rispetto ad una materia che invece l’ammette – nè alla legale possibilità per lo Stato di fare ricorso ai derivati indipendentemente dallo scopo di copertura e minimizzazione dei costi dell’esposizione pregressa, e neppure alla insindacabilità della determinazione in sé di fare ricorso ai derivati (quanto a rinegoziazione/ristrutturazione/chiusura) in un contesto come quello di specie, dovendo piuttosto rivolgersi alla rispondenza delle concrete modalità negoziali, caratteristiche delle dedotte operazioni, ai su richiamati canoni di legittimità preposti alla economicità, efficacia e ragionevolezza dell’agire amministrativo.
Come detto, la sentenza impugnata ha stabilito un’equazione tra sindacato delle singole operazioni e sindacato della politica governativa del debito pubblico.
Si legge infatti che “le censure della Procura, per usare le sue stesse parole, con riguardo alla sottoscrizione, modifica e chiusura di contratti derivati, investono proprio le scelte di gestione a monte della ristrutturazione del debito criticando, dal punto di vista tecnico e giuridico, l’idoneità della complessiva strategia finanziaria del Ministero dell’Economia” (pag. 119); ed ancora, che censurando i singoli contratti oggetto di causa “…(che contengono previsioni già stabilite nei decreti ministeriali, come si è visto) il Requirente finisce, di fatto, con il sostituire una propria valutazione degli interessi, per giunta postuma, settoriale e limitata ad alcuni negozi, a quella effettuata nelle opportune sedi, sulla base del quadro generale del debito pubblico dell’epoca e degli scenari probabilistici ravvisabili nel periodo” (pag. 121).
Questa equazione non può essere condivisa.
Come si è visto, il nucleo fondamentale e qualificante della domanda attorea (rimasto inalterato in corso di giudizio) si esaurisce nei sei contratti in derivati, e ciò sulla base di connotati identificativi reali e sostanziali (peritalmente ricostruiti) non nominalistici nè di mera apparenza o finzione dialettica. Chiara è la convergenza in tal senso sia della causa petendi sia del petitum, come del resto puntualmente illustrati nella stessa sentenza impugnata.
L’oggetto di lite – riportato alla sua essenza – non concerneva affatto il controllo sulle politiche e le strategie del debito pubblico, e neppure il sindacato sulle direttive programmatiche ministeriali di negoziazione in derivati, quanto la verifica del fatto che i dirigenti convenuti avessero in ipotesi potuto rinegoziare, ristrutturare e chiudere le sei operazioni in questione a condizioni “capestro” per lo Stato; il che appare cosa ben diversa dall’attingere alle scelte amministrative o addirittura politiche, certamente insindacabili in sede giurisdizionale, riguardanti la gestione del debito pubblico sovrano.
Neppure, l’esclusione della giurisdizione contabile potrebbe basarsi sul contenuto puramente predeterminato ed autoesecutivo dei contratti in questione, sicché la censura dell’operato dei dirigenti si risolverebbe fatalmente nella censura degli accordi di programma e delle linee di negoziazione (fissate da altri soggetti e molti anni prima della vicenda di causa).
In realtà, la domanda della Procura contabile si faceva carico di questo aspetto sollecitando il controllo giurisdizionale non sull’accordo di programma in quanto tale, ma proprio sullo scostamento da quest’ultimo, così come asseritamente ravvisabile nei contratti portati in giudizio. In modo tale che l’accordo di programma approvato con il decreto ministeriale non costituiva l’oggetto della domanda ma, se mai, un metro di raffronto e valutazione della affermata responsabilità erariale.
Così quanto, in particolare, al fatto che l’accordo di programma ISDA-MA (risalente al 1994) costituisse un insieme di condizioni negoziali standardizzate, e tuttavia non escludenti la necessità, attraverso un processo c.d. di “confirmation” delle pattuizioni economiche concernenti le singole operazioni, di essere comunque negoziate ed applicate conformemente al contesto ed alle esigenze del momento della stipulazione; e, inoltre, al fatto che nella specie si sarebbe verificato uno scarto proprio da quell’insieme di condizioni negoziali standardizzate, là dove non si sarebbe adeguatamente valutato l’impatto del mancato collegamento (invece previsto dall’accordo di programma) della clausola ATE, contenuta nell’atto integrativo (schedule) dell’accordo, alla previsione di congrue garanzie collaterali; e, ancora, alla circostanza che una parte del danno fosse ascrivibile a modalità di chiusura (in due tempi) non predeterminate, ma autonomamente concordate sul momento.
Inoltre, non può negarsi che la materia sottoposta all’attenzione della Corte dei Conti giustificasse per sua natura la necessità di un costante adeguamento in itinere dei contratti in essere, in base alle condizioni macroeconomiche generali di periodo ed all’andamento del mercato dei derivati. Specialmente per quegli strumenti IRS negoziati over the counter (OTC) nei quali, come osservato da Cass. SSUU n. 8770/20 nella già citata pronuncia, “gli aspetti fondamentali sono dati dalle parti ed il contenuto non è eteroregolamentato come, invece, accade per gli altri derivati, cd. standardizzati o uniformi, essendo elaborato in funzione delle specifiche esigenze del cliente”. Tanto da presentare l’esigenza di monitorare costantemente ed adeguare i flussi di cassa allo squilibrio indotto tra le parti dall’andamento dei valori di mercato; esigenza che può indurre le parti a chiudere la posizione, ovvero a cederla, ovvero ancora a rinegoziarla sulla base di nuove ed aggiornate prognosi di “fair value” e “mark to market”.
Il tutto con riguardo ad una fase storica, quella immediatamente conseguente al preannuncio di esercizio dell’ATE da parte di Morgan Stanley, che vide l’avvio di una intensa e del tutto nuova contrattazione tra le parti.
Su tali presupposti, che i contratti in questione fossero puramente replicativi dell’accordo di programma e meccanicamente attuativi di direttive e standard negoziali “altri” rispetto alle condotte discrezionali dei dirigenti convenuti – dai quali non poteva in sostanza esigersi, con valutazione ex ante, diversa condotta – costituiva dunque, se mai, tipico argomento di merito e non di giurisdizione.
In altri termini, questo stesso giudizio di totale o parziale sovrapposizione-identificazione delle singole negoziazioni con il disciplinare di programma implicava, nell’ambito di una valutazione fattuale puntuale, la specifica disamina e ricostruzione istruttoria della vicenda di causa, disamina che la Corte dei Conti ha però ritenuto dichiaratamente di non poter-dover fare.
Si è stabilito (Cass. SSUU n. 19085/20) che il sindacato della S.C. sulle decisioni della Corte dei Conti è circoscritto all’osservanza dei limiti esterni della giurisdizione e non si estende – neppure a seguito dell’inserimento della garanzia del giusto processo ex art. 111 Cost. – ad asserite violazioni di legge sostanziale o processuale, concernenti il modo di esercizio della giurisdizione speciale. Ne consegue che la negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali o processuali, non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, “che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione. (…)”.
Va poi considerato (Cass. SSUU n. 3037/13) che il rifiuto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo rientra fra i motivi attinenti alla giurisdizione, ai sensi dell’art. 362 c.p.c., allorquando “il rifiuto sia stato determinato dall’affermata estraneità alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice della domanda, che non possa essere da lui conosciuta” (v. anche Cass. SSUU n. 13976/17).
E questo è il caso di specie, dal momento che l’affermazione per cui sindacare le concrete modalità operative e negoziali degli organi di Stato sui prodotti di finanza derivata equivale a sindacare le scelte e le strategie di gestione del debito pubblico sovrano, di cui esse sono espressione, corrisponde all’affermazione per cui tali concrete modalità operative e negoziali si sottraggono sempre e comunque, cioè in assoluto, a controllo giurisdizionale; il che contraddice tutti i ricordati principi in materia.
Tutte le difese dei dirigenti controricorrenti si diffondono (anche nelle memorie), assai più che sulla giurisdizione, intorno alla dimostrazione della insussistenza obiettiva, ovvero della non imputabilità soggettiva, degli illeciti contestati: piena legittimità dell’utilizzo di strumenti derivati da parte dello Stato D.P.R. n. 398 del 2003, ex art. 3, comma 1;
– non estendibilità allo Stato dei vincoli operativi previsti per gli enti locali, con conseguente ininfluenza nella specie di quanto stabilito da Cass. SSUU n. 8770/20 cit.;
insussistenza di limiti normativi sulla finalizzazione non speculativa di questi strumenti;
risalenza nel tempo degli accordi di programma e riferibilità ad altri soggetti dei protocolli di comportamento del Tesoro in materia;
piena corrispondenza della negoziazione di specie a tali protocolli ed alle condizioni standard;
– insopprimibile aleatorietà dell’operatività in derivati e sua incompatibilità con una valutazione ex post della condotta;
– cogente influenza sulla vicenda di rinegoziazione e chiusura della gravissima congiuntura economica innescata dalla crisi finanziaria del 2008, non aliena da rischio di uscita dall’area Euro, se non di default di Stato;
– totale estraneità, o quantomeno assoluta marginalità, del ruolo direttoriale e decisionale di taluno;
– già accertata insussistenza di ogni illecito in altra sede processuale;
– insussistenza di un danno erariale risarcibile, in quanto ingiustificato;
inesistenza di qualsivoglia rilievo erariale da parte della Corte dei Conti su queste ed altre operazioni analoghe.
Ebbene, è fin troppo evidente come tali argomentazioni non possano trovare ingresso in questa sede, se non al solo fine di colorare, esse stesse, la vera materia di giudizio e di corroborarne una volta di più gli esatti contorni di merito, sui quali dovrà pronunciarsi il giudice contabile di primo grado, al quale la causa va rinviata ex art. 383 c.p.c., comma 3, previa cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto.
Ciò in applicazione del seguente principio: “ferma restando l’insindacabilità giurisdizionale delle scelte di gestione del debito pubblico, da parte degli organi governativi a ciò preposti, mediante ricorso a contratti in strumenti finanziari derivati, rientra invece nella giurisdizione contabile, in quanto attinente al vaglio dei parametri di legittimità e non di mera opportunità o convenienza dell’agire amministrativo, l’azione di responsabilità per danno erariale con la quale si faccia valere, quale petitum sostanziale, la mala gestio alla quale i dirigenti del Ministero del Tesoro (oggi MEF) avrebbero dato corso, in concreto, nell’adozione di determinate modalità operative e nella pattuizione di specifiche condizioni negoziali relative a particolari contratti in tali strumenti”.
- 6. Non si fa luogo alla liquidazione delle spese di lite, dal momento che dinanzi alle Sezioni Unite in sede di ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione, il Procuratore Generale presso la Corte dei Conti funge da parte solo in senso formale, con conseguente inammissibilità della relativa pronuncia (da ultimo, Cass. SSUU n. 5589/20).