Corte Costituzionale, sentenza 17 gennaio 2025 n. 2
PRINCIPIO DI DIRITTO
Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, c.p.p., come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera a), L. 12 aprile 2019, n. 33 (Inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 27 e 111 della Costituzione, sull’assunto che la norma accomunerebbe sotto l’egida di una norma processuale di sfavore «fatti-reato dissimili e smaccatamente di diversa gravità» in contrasto con i principi di uguaglianza, proporzionalità e finalismo rieducativo, in ragione dell’assoggettamento a una medesima preclusione degli imputati di fattispecie autonome di reato punite ex se con la pena dell’ergastolo (come il delitto di strage) e di quelli di delitti per i quali si perviene al medesimo esito per effetto di circostanze aggravanti.
TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE
1.– La Corte di assise di Cassino, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., secondo cui «[n]on è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo», in riferimento agli artt. 3,24,27 e 111 Cost.
La Corte rimettente premette di doversi pronunciare, in sede di giudizio immediato, su un’imputazione per il delitto di omicidio aggravato ai sensi degli artt. 575,577, primo comma, numero 4), cod. pen., in relazione alla circostanza aggravante di cui all’art. 61, numero 1), cod. pen., per cui è prevista la pena dell’ergastolo.
2.– Secondo l’ordinanza di rimessione, la disposizione censurata contrasterebbe, innanzi tutto, con gli artt. 3 e 27 Cost., perché il legislatore avrebbe irragionevolmente dettato una medesima preclusione processuale per ipotesi diverse, quali quelle riconducibili a fattispecie autonome di reato punite con la pena dell’ergastolo (è addotto a tertium comparationis il delitto di strage di cui all’art. 422 cod. pen.) e quelle inerenti a fattispecie che pervengono a tale sanzione – come nel caso di cui al giudizio a quo – unicamente in ragione della contestazione di circostanze aggravanti.
In secondo luogo, la preclusione contenuta nella disposizione censurata si rivelerebbe ancor più irragionevole e lesiva dei medesimi parametri costituzionali, rispetto al momento in cui analoga censura è stata vagliata dalla sentenza n. 260 del 2020 di questa Corte e dichiarata non fondata, per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 24, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 150 del 2022, secondo cui la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto in caso di non impugnazione della sentenza di condanna emessa in un procedimento definito con rito abbreviato.
Da ultimo, l’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. confliggerebbe anche con gli artt. 3,24 e 111 Cost., considerato che l’imputato, tratto a giudizio immediato, si vedrebbe privato della possibilità di accedere al giudizio abbreviato unicamente per effetto della contestazione di una circostanza aggravante operata dal pubblico ministero, senza che sia stato effettuato un vaglio ad opera di un giudice terzo e imparziale e in contraddittorio con le parti.
3.– Le questioni non sono fondate.
4.– Non fondata, innanzi tutto, è la questione con cui la Corte rimettente censura l’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., perché esso accomunerebbe sotto l’egida di una norma processuale di sfavore «fatti-reato dissimili e smaccatamente di diversa gravità» in contrasto con i principi di uguaglianza, proporzionalità e finalismo rieducativo della pena di cui agli artt. 3 e 27 Cost., in ragione dell’assoggettamento a una medesima preclusione degli imputati di fattispecie autonome di reato punite ex se con la pena dell’ergastolo (come il delitto di strage) e di quelli di delitti per i quali si perviene al medesimo esito per effetto di circostanze aggravanti (come quella contestata nel giudizio a quo).
4.1.– Già nell’ordinanza n. 163 del 1992, questa Corte ha ritenuto, in linea generale, che «l’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai reati punibili con la pena dell’ergastolo, non è in sé irragionevole, né l’esclusione di alcune categorie di reati, come attualmente quelli punibili con l’ergastolo, in ragione della maggiore gravità di essi, determina una ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri reati, trattandosi di situazioni non omogenee».
Quanto, poi, all’asserito deteriore trattamento che deriverebbe, per gli imputati di delitti cui consegue la pena detentiva perpetua in ragione della sussistenza di circostanze aggravanti, rispetto agli imputati di delitti puniti, nella loro ipotesi base, con l’ergastolo, questa Corte ha già chiarito, a più riprese e soprattutto nella sentenza n. 260 del 2020, che la censura, in casi del genere, dovrebbe più correttamente appuntarsi sulla previsione che dispone la pena perpetua per i reati contestati nel giudizio a quo – nella vicenda in esame, l’omicidio aggravato dai motivi abietti e futili –, «giacché è proprio da tale previsione che deriva l’asserita diseguaglianza di trattamento sanzionatorio rispetto a fatti che si assumono più gravi».
La preclusione all’accesso al giudizio abbreviato costituisce, pertanto, «null’altro che il riflesso processuale della previsione edittale della pena dell’ergastolo per quelle ipotesi criminose, previsione che non è oggetto di censura da parte del rimettente» (ordinanza n. 214 del 2021).
Sennonché, come in quei casi, anche nel giudizio in esame il giudice a quo non contesta la scelta legislativa consistente nella previsione della pena dell’ergastolo per il titolo di reato per cui sta procedendo.
Né può ritenersi irragionevole che la disposizione oggetto di censura stabilisca una medesima preclusione all’accesso al giudizio abbreviato per tutti gli imputati di reati punibili con la pena dell’ergastolo, poiché quest’ultima «segnala […] un giudizio di speciale disvalore della figura astratta del reato che il legislatore, sulla base di una valutazione discrezionale che non è qui oggetto di censure, ha ritenuto di formulare» (sentenza n. 260 del 2020).
Contrariamente a quanto assume la Corte rimettente, pertanto, non v’è ragione per negare alla regola incorporata nell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. una solida ragionevolezza, perché la scelta legislativa di far dipendere l’accesso al giudizio abbreviato dalla sussistenza di una circostanza a effetto speciale «esprime un giudizio di disvalore della fattispecie astratta marcatamente superiore a quello che connota la corrispondente fattispecie non aggravata; e ciò indipendentemente dalla sussistenza nel caso concreto di circostanze attenuanti, che ben potranno essere considerate dal giudice quando, in esito al giudizio, irrogherà la pena nel caso di condanna» (ancora sentenza n. 260 del 2020).
5.– Con una seconda questione, la Corte di assise di Cassino censura l’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., poiché la preclusione all’accesso al giudizio abbreviato per gli imputati di delitti cui accedono circostanze aggravanti che conducono all’irrogazione della pena perpetua risulterebbe ancora più irragionevole dopo l’entrata in vigore dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., che attribuisce al giudice dell’esecuzione il potere di ridurre di un sesto la pena inflitta nel caso in cui la sentenza di condanna resa in esito allo svolgimento di un giudizio abbreviato non sia stata impugnata né dall’imputato né dal suo difensore.
Secondo la Corte rimettente, per effetto di tale novum legislativo, tra il trattamento sanzionatorio riservato a chi sia imputato del delitto di omicidio non aggravato e quello previsto per chi, imputato dello stesso delitto, si veda contestare anche una sola circostanza aggravante a effetto speciale si verrebbe a determinare «un eccessivo allargamento della forbice del limite edittale».
Nel primo caso, infatti, con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e le riduzioni di pena connesse alla scelta del rito speciale, tra cui la richiamata riduzione di un sesto in caso di mancata impugnazione, si perverrebbe a una pena concretamente irrogabile nel minimo pari a sette anni, nove mesi e dieci giorni di reclusione, a fronte di una sanzione detentiva che giunge alla pena dell’ergastolo, ove venga contestata una circostanza aggravante tale da precludere l’accesso al giudizio abbreviato.
Esito, quest’ultimo, che renderebbe irragionevole la disposizione censurata e che pregiudicherebbe la finalità rieducativa della pena, attesa l’impossibilità, per il condannato, «di comprendere adeguatamente, con piena consapevolezza, il disvalore del proprio comportamento».
5.1.– Anche tale questione deve ritenersi non fondata.
Il vizio prospettato dall’ordinanza di rimessione non mostra, infatti, di considerare la specificità, più volte messa in risalto dalla giurisprudenza di questa Corte, che assume il principio di proporzionalità della pena nel caso del trattamento sanzionatorio del delitto di omicidio, come da ultimo sistematicamente inquadrato nella sentenza n. 197 del 2023 (precedente alla sollevazione delle odierne questioni, ma non richiamata dal giudice a quo).
In tale pronuncia sono stati, innanzi tutto, ribaditi i precedenti di questa Corte, nei quali è stato chiaramente affermato che il principio di proporzionalità esige «che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo», il quale a sua volta «dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile» (sentenza n. 73 del 2020; nello stesso senso, sentenze n. 94 del 2023 e n. 55 del 2021).
Nel caso dell’omicidio, peraltro, la considerazione da prestare doverosamente a questi profili è acuita dalla circostanza che esso può essere connotato, nei casi concreti, da «livelli di gravità notevolmente differenziati», che possono aver riguardo tanto al profilo oggettivo – in relazione, in particolare, alla tipologia e alle modalità della condotta – quanto a quelli soggettivi, attinenti al diverso grado di manifestazione dell’intento omicidiario.
Come correttamente sottolineato dall’Avvocatura generale dello Stato, proprio il delitto di omicidio è quello nel quale si manifesta con particolare evidenza la necessità di una graduazione anche significativa del trattamento sanzionatorio, perché «l’unica figura legale di omicidio volontario abbraccia condotte dal disvalore soggettivo affatto differente: dall’assassinio compiuto da un sicario o da un membro di un gruppo criminale contro un esponente di una cosca rivale, alla brutale uccisione della moglie o della compagna, sino a condotte omicide […] maturate in contesti di prolungata e intensa sofferenza, causata da una lunga serie di soprusi e maltrattamenti posti in essere – colpevolmente o no – dalle stesse vittime» (sentenza n. 197 del 2023).
Proprio la necessità, costituzionalmente avvalorata, di tale graduazione quoad poenam, unitamente alla considerazione per i caratteri del fatto di reato contestato all’imputato nel giudizio a quo, chiariscono pertanto perché può ritenersi non fondata la censura sollevata dalla Corte rimettente, sia in relazione alla violazione del principio di ragionevolezza, sia con riguardo al connesso profilo di violazione del principio di rieducatività della pena.
6.– Con una terza e ultima questione, la Corte di assise di Cassino censura l’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 3,24 e 111 Cost., perché, essendo stato tratto l’imputato a giudizio immediato, l’inammissibilità della richiesta di accesso al giudizio abbreviato sarebbe stata determinata dalla sola contestazione dell’aggravante dei motivi abietti e futili da parte del pubblico ministero, senza un adeguato vaglio da parte del giudice dell’udienza preliminare, contrariamente a quanto richiesto dai principi del giusto processo.
Non sarebbe, infatti, adeguato allo scopo il controllo effettuato dal giudice per le indagini preliminari ai sensi dell’art. 458 cod. proc. pen., anche laddove, come nel giudizio a quo, si sia svolta l’udienza camerale di cui al comma 2 del medesimo articolo, considerato che la serenità di giudizio del giudice per le indagini preliminari dovrebbe ritenersi compromessa dalla pregressa conoscenza degli atti assunti in sede investigativa e dall’impossibilità di modificare autonomamente l’imputazione proposta dal pubblico ministero, modificazione consentita invece in sede di udienza preliminare.
6.1.– Anche tale questione deve essere dichiarata non fondata, alla luce di quanto statuito dalla sentenza n. 260 del 2020.
Innanzi tutto, occorre ribadire che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «la facoltà di chiedere i riti alternativi – quando è riconosciuta – costituisce una modalità, tra le più qualificanti ed incisive (sentenze n. 237 del 2012 e n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 273 del 2014, n. 333 del 2009 e n. 219 del 2004).
Ma è altrettanto vero che la negazione legislativa di tale facoltà in rapporto ad una determinata categoria di reati non vulnera il nucleo incomprimibile del predetto diritto» (sentenza n. 95 del 2015).
L’accesso a tali riti, peraltro, costituisce «parte integrante del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. soltanto in quanto il legislatore abbia previsto la loro esperibilità in presenza di certe condizioni; di talché esso deve essere garantito – o quanto meno deve essere garantito il recupero dei vantaggi sul piano sanzionatorio che l’accesso tempestivo al rito avrebbe consentito – ogniqualvolta il rito alternativo sia stato ingiustificatamente negato a un imputato per effetto di un errore del pubblico ministero nella formulazione dell’imputazione, di una erronea valutazione di un giudice intervenuto in precedenza nella medesima vicenda processuale, ovvero di una modifica dell’imputazione nel corso del processo (sentenza n. 14 del 2020 e precedenti ivi citati). Ma dall’art. 24 Cost. non può dedursi un diritto di qualunque imputato ad accedere a tutti i riti alternativi previsti dall’ordinamento processuale penale, come invece parrebbe, erroneamente, presupporre il giudice a quo» (sentenza n. 260 del 2020).
Nell’impianto della riforma contenuta nella legge n. 33 del 2019, l’imputazione formulata dal pubblico ministero è oggetto di un primo vaglio ad opera del giudice per le indagini preliminari, che è tenuto, al termine dell’udienza preliminare, a provvedere sulla richiesta originaria avanzata dall’imputato, e comunque sull’eventuale riproposizione della domanda di giudizio abbreviato formulata ai sensi dell’art. 438, comma 6, cod. proc. pen.
Al di là del rito all’interno del quale è chiamato a giudicare sulle richieste dell’imputato, il giudice del dibattimento, ai sensi dell’art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen., è in ogni caso tenuto ad applicare la riduzione di pena prevista per il rito speciale in questione nel caso in cui, in esito all’accertamento del fatto, siano ritenute insussistenti le aggravanti contestate dal pubblico ministero che avrebbero determinato l’applicabilità della pena dell’ergastolo e, quindi, l’inammissibilità del giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen.
La preclusione all’accesso al giudizio abbreviato, pertanto, dipende solo nella fase iniziale dalla valutazione del pubblico ministero sull’oggetto della contestazione.
Tale valutazione «è poi oggetto di puntuale vaglio da parte dei giudici che intervengono nelle fasi successive del processo, ed è sempre suscettibile di correzione, quanto meno nella forma del riconoscimento della riduzione di pena connessa alla scelta del rito, come accade rispetto a ogni altro rito alternativo» (sentenza n. 260 del 2020).
Questa affermazione vale anche per il giudizio immediato, rispetto al quale l’art. 458 cod. proc. pen. (non censurato nel presente giudizio) demanda al giudice per le indagini preliminari di decidere sulla richiesta di giudizio abbreviato avanzata dall’imputato, pronunciandosi «in ogni caso» in camera di consiglio, nel corso della quale è applicabile anche l’art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen. (a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 27, comma 1, lettera b, numero 1, del d.lgs. n. 150 del 2022).
7.– Le questioni devono pertanto essere dichiarate non fondate.
Corte Cost., 17.01.2025, n. 2