CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 6 marzo 2019 n. 37
In linea di principio, devono assumersi inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che concernano disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino nell’ordinamento della norma incriminatrice abrogata (così, ex plurimis, sentenze n. 330 del 1996 e n. 71 del 1983; ordinanze n. 413 del 2008, n. 175 del 2001 e n. 355 del 1997), dal momento che a tale ripristino osta, di regola, il principio consacrato nell’art. 25, secondo comma, Cost., che riserva al solo legislatore la definizione dell’area di ciò che è penalmente rilevante. Principio, quest’ultimo, che determina in via generale l’inammissibilità di questioni volte a creare nuove norme penali, a estenderne l’ambito applicativo a casi non previsti (o non più previsti) dal legislatore (ex multis, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002; ordinanze n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007), ovvero ad aggravare le conseguenze sanzionatorie o la complessiva disciplina del reato (ex multis, ordinanze n. 285 del 2012, n. 204 del 2009, n. 66 del 2009 e n. 5 del 2009). Come ribadito anche di recente da questa Corte (sentenze n. 236 del 2018 e n. 143 del 2018), peraltro, tali principi non sono tuttavia senza eccezioni, potendo anzitutto venire in considerazione la necessità di evitare la creazione di “zone franche” immuni dal controllo di legittimità costituzionale, laddove il legislatore introduca, in violazione del principio di eguaglianza, norme penali di favore, che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole (sentenza n. 394 del 2006); un controllo di legittimità con potenziali effetti in malam partem deve altresì ritenersi ammissibile quando a essere censurato è lo scorretto esercizio del potere legislativo: da parte dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n. 46 del 2014, e ulteriori precedenti ivi citati); da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega (sentenza n. 5 del 2014); ovvero anche da parte dello stesso Parlamento, che non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32 del 2014). In tali ipotesi, qualora la disposizione dichiarata incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogava una norma incriminatrice preesistente (come nel caso deciso dalla sentenza n. 5 del 2014), la dichiarazione di illegittimità costituzionale della prima non potrà che comportare il ripristino della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata. Un effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria in materia penale conseguente alla pronuncia di illegittimità costituzionale è stato, altresì, ritenuto ammissibile allorché esso si configuri come «mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale», derivante «dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale» (sentenza n. 236 del 2018). Un controllo di legittimità costituzionale con potenziali effetti in malam partem può, infine, risultare ammissibile ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost. (sentenza n. 28 del 2010; nonché sentenza n. 32 del 2014, ove l’effetto di ripristino della vigenza delle disposizioni penali illegittimamente sostituite in sede di conversione di un decreto-legge, con effetti in parte peggiorativi rispetto alla disciplina dichiarata illegittima, fu motivato anche con riferimento alla necessità di non lasciare impunite «alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.»).
Con riguardo alle questioni di legittimità costituzionale oggi sottoposte all’esame della Corte, la disciplina abrogata (delitto di ingiuria) non si atteggiava a “norma penale di favore” rispetto ad altra disciplina penale di carattere generale coesistente, sottraendo a quest’ultima un sottoinsieme di ipotesi che altrimenti sarebbero ricadute nella normativa generale, come era accaduto nel caso deciso dalla sentenza n. 394 del 2006 (nonché in quello deciso dalla sentenza n. 28 del 2010). L’abrogata disposizione che criminalizzava l’ingiuria aveva invece a oggetto condotte diverse da quelle costitutive del delitto di diffamazione, le quali presuppongono tutte che la manifestazione offensiva dell’onore altrui sia diretta non alla vittima, ma a terze persone. Né viene in considerazione, nel caso in esame, uno scorretto esercizio del potere legislativo, avendo il Governo depenalizzato il delitto di ingiuria, con il decreto legislativo n. 7 del 2016, in puntuale adempimento della delega conferitagli con la legge n. 67 del 2014. Né, ancora, oggetto delle presenti questioni di legittimità costituzionale è una disciplina processuale, la cui reductio ad legitimitatem potrebbe determinare, in via collaterale e indiretta, effetti in malam partem, come nel caso deciso dalla sentenza n. 236 del 2018. Né infine, come poc’anzi sottolineato, il giudice a quoha dimostrato che l’abrogazione del delitto di ingiuria si ponga di per sé in contrasto con gli obblighi sovranazionali che gravano sul nostro Paese.
Il rimettente ha, nel caso di specie, giustamente sottolineato il carattere fondamentale del diritto all’onore, come tale ascrivibile non solo al novero del «diritti inviolabili» riconosciuti dall’art. 2 Cost. (sentenze n. 379 del 1996, n. 86 del 1974 e n. 38 del 1973), ma anche all’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, che espressamente tutela i diritti all’onore e alla reputazione, nonché all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea, all’art. 7 CDFUE, i quali ultimi tutelano il più ampio diritto al rispetto della vita privata, al cui perimetro i diritti all’onore e alla reputazione vengono tradizionalmente ricondotti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU, sezione terza, sentenza 6 novembre 2018, Vicent del Campo contro Spagna; sezione terza, sentenza 20 giugno 2017, Bogomolova contro Russia; sezione prima, sentenza 9 aprile 2009, A. contro Norvegia; sezione prima, sentenza 15 novembre 2007, Pfeifer contro Austria; sezione prima, sentenza 4 ottobre 2007, Sanchez Cardenas contro Norvegia). E tuttavia, dal riconoscimento di un diritto come “fondamentale” non discende, necessariamente e automaticamente, l’obbligo per l’ordinamento di assicurarne la tutela mediante sanzioni penali: tanto la Costituzione quanto il diritto internazionale dei diritti umani lasciano, di regola, il legislatore (e più in particolare il Parlamento, naturale depositario delle scelte in materia penale in una società democratica) libero di valutare se sia necessario apprestare tutela penale a un determinato diritto fondamentale, o se – invece – il doveroso obiettivo di proteggere il diritto stesso dalle aggressioni provenienti dai terzi possa essere efficacemente assicurato mediante strumenti alternativi, e a loro volta meno incidenti sui diritti fondamentali del trasgressore, nella logica di ultima ratio della tutela penale che ispira gli ordinamenti contemporanei. Ciò accade, segnatamente, in relazione al diritto all’onore: diritto fondamentale rispetto al quale non sono ravvisabili obblighi di incriminazione, di origine costituzionale o sovranazionale, che limitino la discrezionalità del legislatore nella determinazione delle modalità della sua tutela. Quest’ultima, pertanto, ben potrà restare affidata – oltre che ai tradizionali rimedi aquiliani – a sanzioni pecuniarie di carattere civile, come quelle apprestate dal decreto legislativo n. 7 del 2016, sulla base di scelte non censurabili da parte di questa Corte.
Va dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevate, in riferimento agli artt. 10 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Giudice di pace di Venezia; vanno altresì dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera a), numero 2), della legge n. 67 del 2014 e dell’art. 1, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 7 del 2016, sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., dal Giudice di pace di Venezia.