<p style="text-align: justify;"></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Corte Costituzionale, sentenza 03 dicembre 2020 n. 260</strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>Vanno dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, del codice di procedura penale, sollevate – in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione – dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario della Spezia.</em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., sollevate – in riferimento agli artt. 3, 24 «anche in relazione agli artt. 2, 3 e 27», e 111, primo comma, Cost. – dalla Corte di assise di Napoli.</em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. nonché dell’art. 3 della legge n. 33 del 2019, sollevate – in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost. – dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Piacenza.</em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>Va dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., sollevata – in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) – dalla Corte di assise di Napoli.</em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>Va infine dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge 12 aprile 2019, n. 33 (Inapplicabilità del giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo), sollevata – in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU – dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della Spezia.</em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><em>TESTO RILEVANTE DELLA DECISIONE</em></strong></p> <p style="text-align: justify;"><em>4.– Le tre ordinanze sollevano questioni analoghe, e i relativi giudizi meritano pertanto di essere riuniti ai fini della decisione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.– Prima di esaminare le questioni, conviene rammentare sinteticamente le vicende storiche che hanno condotto, dall’emanazione del vigente codice di procedura penale in poi, alla disciplina oggi censurata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.1.– Nella sua versione originaria, l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. prevedeva espressamente la sostituzione della pena dell’ergastolo, all’esito del giudizio abbreviato, con quella della reclusione di anni trenta; dando così per presupposta l’ammissibilità del rito anche per i reati puniti con tale pena. La Commissione redigente del progetto preliminare, dopo ampia discussione, aveva infatti ritenuto di proporre tale soluzione (poi accolta dal Governo), nonostante il silenzio serbato sul punto dalla legge delega, al fine di «consentire il maggiore spazio possibile al giudizio abbreviato, tenuto conto del fatto che esso è richiesto dall’imputato, il quale – nella logica del processo accusatorio – può anche rinunziare alla garanzia rappresentata dalla partecipazione popolare nei giudizi di Corte di assise» (Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni e delle norme per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, serie generale, 24 ottobre 1988, n. 250, supplemento ordinario n. 93, sub Libro VI, Titolo I, Premessa); e aveva conseguentemente ritenuto di determinare nella misura fissa di trent’anni di reclusione la pena conseguente alla scelta del rito per il caso di condanna, non potendo applicarsi, rispetto alla pena perpetua, il criterio indicato dalla stessa legge delega della diminuzione di un terzo della pena.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Con la sentenza n. 176 del 1991, tuttavia, questa Corte dichiarò illegittimo l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui prevedeva che «[a]lla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta» per violazione dell’art. 76 Cost., dal momento che la legge delega prevedeva unicamente, per il giudizio abbreviato, il criterio della diminuzione di un terzo della pena, evidentemente inapplicabile ai reati puniti con l’ergastolo. Il venir meno di tale disposizione, dichiarata incostituzionale, non poté che determinare – secondo quanto espressamente affermato dalla sentenza n. 176 del 1991 – l’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai «processi concernenti delitti punibili con l’ergastolo».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Risolvendo le incertezze interpretative emerse nella prassi all’indomani di tale pronuncia, le sezioni unite della Corte di cassazione affermarono che l’inammissibilità del giudizio abbreviato conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dovesse valere in ogni caso in cui l’imputazione enucleata nella richiesta di rinvio a giudizio concernesse un reato «punibile» con l’ergastolo, anche laddove il giudice ritenesse – in ragione della sussistenza di circostanze attenuanti – doversi in concreto applicare una pena diversa (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 6 marzo 1992, n. 2977).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Poco dopo, con l’ordinanza n. 163 del 1992, questa Corte dichiarò manifestamente inammissibili le questioni poste da due ordinanze di rimessione, che si dolevano appunto della mancata possibilità di definire il giudizio con rito abbreviato per i delitti punibili con l’ergastolo, conseguente alla sentenza n. 176 del 1991. La Corte ritenne, in particolare, che l’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai reati punibili con l’ergastolo non fosse di per sé irragionevole, né determinasse ingiustificate disparità di trattamento rispetto ad altri reati.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.2.– L’art. 30 della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), la cosiddetta “legge Carotti”, ripristinò – nel contesto di una più generale modifica dei tratti strutturali del giudizio abbreviato – la possibilità di accesso a tale rito per i delitti puniti con l’ergastolo, aggiungendo un secondo periodo al comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen., con cui reiterava l’originaria soluzione dei compilatori del codice, prevedendo che «[a]lla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il di poco successivo art. 7 del decreto-legge 23 novembre 2000, n. 341 (Interpretazione autentica dell’articolo 442, comma 2, del codice di procedura penale e disposizioni in materia di giudizio abbreviato nei processi per reati puniti con l’ergastolo), convertito, con modificazioni, nella legge 10 gennaio 2001, n. 4, stabilì quindi che «[n]ell’articolo 442, comma 2, ultimo periodo, del codice di procedura penale, l’espressione “pena dell’ergastolo” deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno», aggiungendo poi allo stesso art. 442, comma 2, cod. proc. pen. un terzo periodo, dal seguente tenore letterale: «[a]lla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In seguito a tali novelle, dunque, il giudizio abbreviato tornò ad operare anche per i reati punibili con la pena dell’ergastolo, dando luogo – in caso di condanna – alle pene previste dall’art. 442, comma 2, secondo e terzo periodo, cod. proc. pen., in sostituzione, rispettivamente, dell’ergastolo senza isolamento diurno e dell’ergastolo con isolamento diurno.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>5.3.– La legge n. 33 del 2019, le cui disposizioni sono ora oggetto di censura, ha nuovamente previsto l’inapplicabilità del giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In particolare, l’art. 1, comma 1, lettera a), di tale legge ha introdotto il comma 1-bis dell’art. 438 cod. proc. pen., censurato da tutte le ordinanze di rimessione, il quale espressamente stabilisce che «[n]on è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’art. 3 della legge n. 33 del 2019, censurato dal GUP del Tribunale di Piacenza, ha parallelamente abrogato il secondo e il terzo periodo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., introdotti – come si è poc’anzi rammentato – rispettivamente dalla legge Carotti e dal d.l. n. 341 del 2000, come convertito, eliminando così le pene eventualmente applicabili in luogo dell’ergastolo (con o senza isolamento diurno) in esito al giudizio abbreviato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Infine, l’art. 5 della legge n. 33 del 2019, censurato dal GUP del Tribunale della Spezia, stabilisce che le nuove disposizioni «si applicano ai fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore» della legge medesima.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>6.– Debbono a questo punto essere vagliate le eccezioni di inammissibilità formulate dall’Avvocatura generale dello Stato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>6.1.– Anzitutto, le questioni sollevate dal GUP del Tribunale della Spezia sull’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. sarebbero irrilevanti, dal momento che il rimettente – facendo retta applicazione dell’art. 5 della legge n. 33 del 2019 – avrebbe dovuto applicare nel procedimento a quo la disciplina previgente, e ammettere pertanto l’imputato al giudizio abbreviato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’eccezione è fondata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>6.1.1.– Il rimettente si confronta invero estesamente con il menzionato art. 5, concludendo che l’espressione «fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore» della legge n. 33 del 2019 non possa che riferirsi ai reati consumatisi dopo tale data, anche allorché la condotta costitutiva del reato sia stata posta in essere prima di tale data, ma l’evento si sia verificato in epoca successiva. Nel caso di specie (come a suo tempo riferito: Ritenuto in fatto, punto 1.2.), il tempus commissi delicti dovrebbe a suo avviso essere identificato nel momento della morte della vittima, avvenuta il 28 maggio 2019, e dunque successivamente alla data di entrata in vigore della legge (20 aprile 2019); a nulla rilevando che la condotta costitutiva del reato sia stata compiuta in una data anteriore (il 20 marzo 2019).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il rimettente è, altresì, consapevole che una recente pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione ha identificato il tempus commissi delicti – con riferimento ai reati “a evento differito” – nel momento della condotta, e non in quello successivo dell’evento, ai fini della individuazione della legge applicabile nelle ipotesi di successioni di leggi penali (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 luglio 2018, n. 40986); ma ritiene che tale principio valga unicamente nell’ambito del diritto penale sostanziale, e non in materia processuale, dove vige invece l’opposto principio tempus regit actum.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>6.1.2.– A giudizio di questa Corte, la valutazione di rilevanza delle questioni compiuta dal giudice a quo riposa però su di un erroneo presupposto interpretativo.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Se è vero, infatti, che in materia di successione di leggi processuali vige in via generale il principio tempus regit actum – in forza del quale ciascun “atto” processuale è regolato dalla legge in vigore al momento dell’atto, e non da quella in vigore al momento in cui è stato commesso il fatto di reato per cui si procede –, è evidente che la legge n. 33 del 2019 ha inteso derogare a tale principio generale, dettando una disciplina transitoria di carattere speciale che confina espressamente l’applicabilità della preclusione del giudizio abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo ai soli procedimenti concernenti fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La ratio di questa disciplina transitoria è, d’altra parte, altrettanto evidente. Il legislatore era, in effetti, ben consapevole che una disciplina siffatta, pur incidendo su disposizioni collocate nel codice di procedura penale concernenti il rito, ha un’immediata ricaduta sulla tipologia e sulla durata delle pene applicabili in caso di condanna, e non può pertanto che soggiacere ai principi di garanzia che vigono in materia di diritto penale sostanziale, tra cui segnatamente il divieto di applicare una pena più grave di quella prevista al momento del fatto, affermato tanto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo con specifico riferimento alla disciplina del giudizio abbreviato in relazione ai reati puniti con l’ergastolo (Corte EDU, grande camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, n. 2), quanto da questa Corte, con riferimento a tutte le norme processuali o penitenziarie che incidano direttamente sulla qualità e quantità della pena in concreto applicabile al condannato (sentenza n. 32 del 2020).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’art. 5 della legge n. 33 del 2019 si limita, invero, a escludere l’applicazione della nuova disciplina «ai fatti commessi» – recte: ai «procedimenti concernenti i fatti commessi» – prima dell’entrata in vigore della legge stessa, senza chiarire espressamente quale sia il criterio per stabilire quando il fatto si debba considerare “commesso”: quesito praticamente rilevante nelle ipotesi di reati cosiddetti “a evento differito”, caratterizzati da uno iato temporale tra il momento di commissione della condotta e quello di verificazione dell’evento. La determinazione del tempus commissi delicti in simili ipotesi è dunque affidata dal legislatore all’interprete, il quale è chiamato peraltro a ricostruire il significato della disposizione in conformità alla sua ratio di garanzia, nei termini appena segnalati.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Sgomberato allora il campo da ogni improprio riferimento al principio tempus regit actum – al quale, per l’appunto, il legislatore ha inteso derogare –, occorre chiedersi se sia maggiormente conforme alla ratio di garanzia perseguita dalla disposizione identificare tale tempus nel momento della condotta, ovvero in quello successivo della verificazione dell’evento costitutivo del reato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La risposta non è dubbia: se una delle rationes fondamentali del divieto di applicazione retroattiva di leggi penali che inaspriscano il trattamento sanzionatorio è quella di assicurare che il consociato sia destinatario di un chiaro avvertimento circa le possibili conseguenze penali della propria condotta, sì da preservarlo da «un successivo mutamento peggiorativo “a sorpresa” del trattamento penale della fattispecie» (sentenza n. 230 del 2012; ma si veda anche, in senso conforme, già la sentenza n. 394 del 2006), una tale funzione non può che essere riferita – appunto – al momento del compimento della condotta, e cioè al momento nel quale la norma esplica la sua capacità deterrente. Precisamente per tale essenziale ragione, del resto, la citata pronuncia n. 40986 del 2018 delle sezioni unite della Corte di cassazione, in esito a un percorso argomentativo particolarmente approfondito, ha fissato il principio che «[i]n tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta». Principio, quest’ultimo, che deve senz’altro essere assunto a criterio interpretativo anche della disposizione transitoria ora all’esame.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Da ciò consegue che il giudice a quo avrebbe dovuto considerare applicabile all’imputato la disciplina processuale vigente al momento della condotta, e ammetterlo pertanto al giudizio abbreviato da lui richiesto; con la conseguente irrilevanza delle questioni da lui prospettate sull’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen., nonché – come si dirà più innanzi (infra, punto 13.) – la non fondatezza della questione sollevata sull’art. 5 della legge n. 33 del 2019.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>6.2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha poi eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate dal GUP del Tribunale di Piacenza in ragione, essenzialmente, della discrezionalità del legislatore nella configurazione delle preclusioni all’accesso ai riti abbreviati.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’eccezione non può essere accolta, attenendo – all’evidenza – al merito delle questioni sollevate.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>7.– Nel merito, tanto la Corte di assise di Napoli, quanto il GUP del Tribunale di Piacenza sollevano anzitutto questioni di legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. e – limitatamente al secondo rimettente – dell’art. 3 della legge n. 33 del 2019 in riferimento all’art. 3 Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Le questioni non sono fondate.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>7.1.– Secondo i giudici a quibus, la preclusione al giudizio abbreviato per gli imputati di delitti puniti con la pena dell’ergastolo produrrebbe da un lato irragionevoli equiparazioni sanzionatorie tra fatti aventi disvalore differente, e dall’altro irragionevoli disparità di trattamento sanzionatorio tra fatti aventi disvalore omogeneo.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Sotto il primo profilo, i rimettenti osservano come, nel novero stesso delle figure di omicidio doloso aggravato, la previsione astratta della pena dell’ergastolo accomuni fatti di gravità diversa, come, da un lato, omicidi commessi nell’ambito dell’attività di grandi organizzazioni criminali e, dall’altro, omicidi non premeditati commessi in un momentaneo accesso d’ira contro congiunti, come sarebbe accaduto nei casi oggetto dei procedimenti a quibus. L’esame dell’elenco dei delitti puniti con l’ergastolo previsti dal vigente codice penale evidenzierebbe, inoltre, il loro disvalore assai eterogeneo, che renderebbe irragionevole l’esclusione a priori dalla possibilità di accedere al giudizio abbreviato per i relativi imputati.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Sotto il secondo profilo, la preclusione in esame produrrebbe irragionevoli disparità di trattamento, esemplificate dal confronto tra le ipotesi punite con l’ergastolo riconducibili al primo comma dell’art. 577 cod. pen., che comprendono oggi l’omicidio del coniuge anche legalmente separato (per cui è precluso il giudizio abbreviato, con conseguente impossibilità di beneficiare della riduzione di pena in caso di condanna), e quelle di cui al secondo comma, punite con la pena da ventiquattro a trent’anni di reclusione, che comprendono l’omicidio del coniuge divorziato (ipotesi per la quale è il giudizio abbreviato è invece ammissibile, con correlativa possibilità di ottenere il relativo sconto di pena in caso di condanna). Sarebbe, altresì, irragionevole la disparità di trattamento creata dalla disposizione censurata tra l’imputato di omicidio nei cui confronti, in esito al giudizio ordinario, l’aggravante contestata venga esclusa – il novellato art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen. prevedendo che la corte di assise applichi la riduzione di pena conseguente al giudizio abbreviato, ingiustamente negatogli –, e l’imputato di omicidio nei cui confronti venga bensì riconosciuta la sussistenza in fatto della circostanza aggravante che determina l’astratta applicabilità dell’ergastolo, ma tale circostanza venga “elisa” ai fini sanzionatori da una o più circostanze attenuanti presenti nel caso di specie – ipotesi nella quale l’art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen. non parrebbe consentire, quantomeno secondo l’implicita ricostruzione dei rimettenti, il “recupero” della pena connesso al rito.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Le ordinanze di rimessione lamentano, altresì, l’intrinseca irragionevolezza della disciplina, sotto il profilo dell’asserita illogicità della scelta di far conseguire alla mera contestazione di un determinato titolo di reato effetti preclusivi della scelta del rito, dolendosi altresì di quella che appare ai medesimi l’unica reale finalità perseguita dal legislatore, rappresentata dall’inasprimento della reazione sanzionatoria contro gli autori dei reati abbracciati dalla preclusione, e segnatamente degli omicidi aggravati – profilo, quest’ultimo, sul quale si sofferma ampiamente anche, quale amicus curiae, l’Unione camere penali italiane, nella propria opinione scritta.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>7.2.– Prima di esaminare il merito di queste doglianze, conviene rammentare che questa Corte si è già pronunciata, con l’ordinanza n. 163 del 1992, sulla preclusione del giudizio abbreviato per gli imputati di delitti punibili con l’ergastolo, rilevando che tale disciplina – conseguente alla precedente sentenza n. 176 del 1991, e rimasta in vigore sino alla legge n. 479 del 1999 (supra, punti 5.1. e 5.2.) – «non è in sé irragionevole, né l’esclusione di alcune categorie di reati, come attualmente quelli punibili con l’ergastolo, in ragione della maggiore gravità di essi, determina una ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri reati, trattandosi di situazioni non omogenee».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In successive pronunce, questa Corte ha escluso l’illegittimità costituzionale delle preclusioni di natura oggettiva, fondate sul titolo astratto del reato, poste dal legislatore all’accesso ad altri riti speciali ad effetto premiale. In particolare, l’ordinanza n. 455 del 2006 ha affermato, con riferimento alla legittimità costituzionale delle preclusioni al cosiddetto patteggiamento allargato, che «l’individuazione delle fattispecie criminose da assoggettare al trattamento più rigoroso – proprio in quanto basata su apprezzamenti di politica criminale, connessi specialmente all’allarme sociale generato dai singoli reati, il quale non è necessariamente correlato al mero livello della pena edittale – resta affidata alla discrezionalità del legislatore; e le relative scelte possono venir sindacate dalla Corte solo in rapporto alle eventuali disarmonie del catalogo legislativo, allorché la sperequazione normativa tra figure omogenee di reati assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione». La medesima ordinanza n. 455 del 2006 ha d’altra parte sottolineato che «l’ordinamento annovera un’ampia gamma di ipotesi nelle quali, per ragioni di politica criminale, il legislatore connette al titolo del reato – e non (o non soltanto) al livello della pena edittale – l’applicabilità di un trattamento sostanziale o processuale più rigoroso», formulando poi un lungo elenco di esempi a supporto di tale affermazione, e insistendo sul principio (anche di recente ribadito nella sentenza n. 95 del 2015) secondo cui la discrezionalità legislativa è soggetta, rispetto a tali scelte, al solo limite della manifesta irragionevolezza o dell’arbitrarietà.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>7.3.– Rispetto alle questioni ora all’esame, questa Corte è dunque sollecitata a valutare se rimeditare (anche alla luce delle modificazioni strutturali subite nel frattempo dal giudizio abbreviato) il proprio specifico precedente in termini, rappresentato dalla menzionata ordinanza n. 163 del 1992, concludendo che la scelta legislativa di ancorare la preclusione del giudizio abbreviato alla contestazione di un delitto punito con l’ergastolo risulti manifestamente irragionevole, o addirittura arbitraria.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Pur avendo attentamente vagliato i molti argomenti offerti dalle ordinanze di rimessione, dalle parti costituite e dall’amicus curiae, anche nelle discussioni svolte in udienza, la Corte non ritiene di dover pervenire a tale conclusione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>7.4.– Quanto anzitutto alle irragionevoli equiparazioni che sarebbero prodotte dalla disciplina censurata, i giudici a quibus e le parti si dolgono a ben vedere della previsione dell’unica e indifferenziata pena dell’ergastolo a fatti dei quali assumono il differente disvalore (le diverse ipotesi di omicidio aggravato, o i diversi delitti puniti con l’ergastolo): la preclusione dell’accesso al giudizio abbreviato – e la conseguente impossibilità di operare il relativo sconto di pena, in caso di condanna – costituisce, in effetti, null’altro che il riflesso processuale della previsione edittale della pena dell’ergastolo per quelle ipotesi criminose.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Ma, se così è, le questioni di legittimità costituzionale avrebbero dovuto rivolgersi propriamente nei confronti della previsione, da parte del legislatore, della pena detentiva perpetua per i reati contestati nei procedimenti a quibus – l’omicidio a danno dell’ascendente, in un caso, e l’omicidio del coniuge non divorziato, nell’altro –, giacché è proprio da tale previsione che deriva l’asserita diseguaglianza di trattamento sanzionatorio rispetto a fatti che si assumono più gravi (come, per riprendere un esempio formulato nelle ordinanze di rimessione, un omicidio perpetrato nell’ambito delle attività di un’organizzazione criminale).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nessuno dei rimettenti contesta, però, la ragionevolezza della scelta legislativa di comminare l’ergastolo per i titoli di reato per i quali sta procedendo.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Di talché resta da chiedersi se – rispetto a fatti tutti assunti come legittimamente punibili con la medesima pena dell’ergastolo – possa ritenersi produttiva di irragionevoli equiparazioni di trattamento una disciplina processuale che precluda, in via generale, l’accesso al giudizio abbreviato a tutti indistintamente gli imputati di tali reati.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La risposta non può, ad avviso di questa Corte, che essere negativa: la comminatoria edittale dell’ergastolo – che è pena anche qualitativamente diversa dalla reclusione, in ragione del suo carattere potenzialmente perpetuo, come evidenzia non a caso l’autonoma considerazione della stessa nell’elenco delle pene principali di cui all’art. 17 cod. pen. – segnala infatti un giudizio di speciale disvalore della figura astratta del reato che il legislatore, sulla base di una valutazione discrezionale che non è qui oggetto di censure, ha ritenuto di formulare; speciale disvalore che sta per l’appunto alla base della scelta del legislatore del 2019 di precludere l’accesso al giudizio abbreviato a tutti gli imputati di tali delitti.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Una tale scelta non può certo essere qualificata né in termini di manifesta irragionevolezza, né di arbitrarietà; e si sottrae pertanto, sotto lo specifico profilo qui esaminato, alle censure dei rimettenti.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>7.5.– Quanto alle censure che lamentano irragionevoli disparità di trattamento create dalla disciplina in esame, priva di pregio appare anzitutto – per ragioni analoghe a quelle appena esposte – la doglianza relativa al diverso trattamento dell’omicidio del coniuge in costanza di matrimonio e di quello a danno del coniuge divorziato. La disparità di trattamento deriva, in realtà, direttamente dalla scelta legislativa – in questa sede non censurata – che si situa “a monte” della disciplina del giudizio abbreviato, e cioè dalla scelta di prevedere la pena dell’ergastolo soltanto per la prima ipotesi (ai sensi dell’art. 577, primo comma, numero 1, cod. pen.), e non per la seconda (per la quale l’art. 577, secondo comma, cod. pen. prevede invece una pena detentiva temporanea). Di talché la presenza o l’assenza di preclusioni al giudizio abbreviato nelle due ipotesi costituisce una mera conseguenza accessoria, certo non stigmatizzabile in termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà, della diversa comminatoria edittale per le due ipotesi, che non è in questa sede in discussione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Quanto poi all’allegata disparità di trattamento che si creerebbe tra l’ipotesi in cui, in esito al dibattimento, dovesse essere riconosciuta l’insussistenza dell’aggravante dalla quale dipende la preclusione al giudizio abbreviato, e l’ipotesi in cui tale aggravante fosse bensì ritenuta sussistente ma “elisa”, in forza dell’art. 69 cod. pen., da una o più circostanze attenuanti equivalenti o prevalenti, occorre rilevare che tale situazione è comune alla generalità delle ipotesi in cui la legge penale, sostanziale o processuale, subordina l’applicazione di un dato istituto (ad esempio, le misure cautelari, l’intercettazione di comunicazioni, ma anche – sul piano del diritto sostanziale – la non punibilità per particolare tenuità del fatto) alla condizione che sia prevista una determinata pena massima per il reato per cui si procede. In base alla regola generale di cui all’art. 4 cod. proc. pen., spesso mutuata nella sostanza anche dalle norme del codice penale, ai fini della determinazione di tale pena massima si tiene conto delle sole circostanze aggravanti a effetto speciale, ma non delle circostanze attenuanti che possano egualmente concorrere nel caso concreto; senza, comunque, che venga mai richiesto all’autorità di volta in volta procedente di effettuare il bilanciamento ex art. 69 cod. pen. tra tali aggravanti e le eventuali attenuanti (bilanciamento che altra regola di sistema riserva esclusivamente al giudice, in esito al giudizio).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La regola generale in parola, seguita anche dall’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. in questa sede censurato, ha, d’altronde, una solida ragionevolezza: il legislatore fa dipendere la scelta relativa all’applicazione o non applicazione di un dato istituto – qui, il giudizio abbreviato – dalla sussistenza di una circostanza aggravante che, comminando una pena distinta da quella prevista per la fattispecie base – nel nostro caso, la pena dell’ergastolo anziché quella della reclusione –, esprime un giudizio di disvalore della fattispecie astratta marcatamente superiore a quello che connota la corrispondente fattispecie non aggravata; e ciò indipendentemente dalla sussistenza nel caso concreto di circostanze attenuanti, che ben potranno essere considerate dal giudice quando, in esito al giudizio, irrogherà la pena nel caso di condanna.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Non sono pertanto utilmente comparabili, ai fini del giudizio relativo alla disparità di trattamento lamentata dai rimettenti, la situazione di chi sia accusato di avere compiuto un omicidio aggravato punibile con l’ergastolo in presenza di circostanze attenuanti che potrebbero essere considerate – in esito al futuro giudizio – equivalenti o prevalenti rispetto all’aggravante, e quella di chi sia invece accusato di avere compiuto un omicidio non aggravato. Solo il primo imputato è, infatti, accusato di avere posto in essere un reato che raggiunge la soglia di gravità che il legislatore considera astrattamente incompatibile con il giudizio abbreviato. Di talché appare logico che soltanto laddove, in esito al dibattimento, risulti in concreto non sussistente quell’aggravante, la cui inesatta contestazione abbia precluso all’imputato l’accesso al giudizio abbreviato, egli debba poter “recuperare” lo sconto di pena connesso al rito medesimo ai sensi dell’art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen.; e che tale “recupero” non possa operare, invece, nei confronti di chi risulti effettivamente avere compiuto l’omicidio aggravato che gli era stato contestato, sia pure in presenza di circostanze attenuanti, che ben potranno essere valorizzate dal giudice del dibattimento in sede di commisurazione della pena.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>7.6.– Quanto, infine, agli eterogenei profili di allegata irragionevolezza intrinseca lamentati dai rimettenti, dalle parti e dallo stesso amicus curiae, neppur essi appaiono meritevoli di accoglimento.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Come già osservato, non manifestamente irragionevole, né arbitraria, appare la scelta legislativa di ancorare la preclusione del rito alla pena edittale prevista per il reato per il quale si procede. Un simile ancoraggio si ritrova del resto in una quantità di istituti di diritto penale sostanziale o processuale (dalla prescrizione alla non punibilità per particolare tenuità del fatto, ovvero – in materia processuale – dalle misure cautelari alle intercettazioni di comunicazioni); e la sua manifesta irragionevolezza o arbitrarietà deve qui tanto più escludersi, in quanto la comminatoria che determina la preclusione è quella della pena più grave prevista nel nostro ordinamento, che segnala – come parimenti si è osservato – una valutazione di massimo disvalore del reato per il quale si procede.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Né la manifesta irragionevolezza o l’arbitrarietà della scelta legislativa potrebbero dedursi dall’esame delle finalità perseguite dal legislatore.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Non v’è dubbio – come i rimettenti, le parti e l’amicus curiae concordemente sottolineano – che una delle finalità ispiratrici della proposta di legge C. 392 del 27 marzo 2018 fosse quella di conseguire un generale inasprimento delle pene concretamente inflitte per reati punibili con l’ergastolo, precludendo la possibilità per i relativi imputati di accedere al giudizio abbreviato e al conseguente sconto di pena; ma la parallela proposta di legge C. 460 del 3 aprile 2018, poi assorbita nella prima, menzionava altresì, tra le finalità della proposta, l’opportunità che rispetto ai reati più gravi previsti dall’ordinamento fosse celebrato un processo pubblico innanzi alla corte di assise e non a un giudice monocratico, «con le piene garanzie sia per l’imputato, sia per le vittime, di partecipare all’accertamento della verità».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Tutte queste finalità possono essere o meno condivise; ma né le finalità in sé, né i mezzi individuati dal legislatore per raggiungerle, appaiono a questa Corte connotabili in termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà. Piuttosto, si deve ritenere che una disciplina mirante a imporre in ogni caso, per i delitti più gravi previsti dall’ordinamento, lo svolgimento di un processo pubblico avanti una corte a composizione mista – nella quale tra l’altro si invera la previsione costituzionale della «partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia» (art. 102, terzo comma, Cost.) – rientri nel novero delle scelte discrezionali del legislatore, rispetto alle quali non è consentito a questa Corte sovrapporre la propria autonoma valutazione.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La considerazione che precede vale anche con riferimento alle ipotesi, su cui hanno in particolare insistito i difensori delle parti nella discussione orale, in cui l’imputato abbia reso piena confessione durante le indagini, e i fatti risultino già compiutamente accertati. Ritiene infatti questa Corte che anche con riferimento a una tale situazione non possa qualificarsi in termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà la scelta legislativa – magari discutibile sotto vari profili, e certo foriera di aggravi processuali – di prevedere comunque la celebrazione di un pubblico dibattimento, nel quale trova piena garanzia il “diritto di difendersi provando”, per accertare il fatto e ascrivere le relative responsabilità, nell’interesse dell’intera collettività e delle stesse vittime del reato. Vittime tra le quali – ai sensi dell’art. 2, paragrafo 1 della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI – deve annoverarsi anche il «familiare di una persona la cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona», al quale l’art. 10 della medesima direttiva garantisce, in linea di principio, il diritto di essere «sentit[o] nel corso del procedimento penale» e di «fornire elementi di prova», in conformità alle norme «stabilite dal diritto nazionale».</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Quanto alla finalità, che la riforma avrebbe in realtà perseguito, di aumentare il numero di condanne all’ergastolo per gli autori di omicidi, ancorché rei confessi, occorre d’altra parte considerare che non necessariamente al dibattimento deve conseguire, in caso di condanna, l’applicazione della pena dell’ergastolo, la corte di assise avendo sempre la possibilità di riconoscere eventuali circostanze attenuanti che comportino l’applicazione di pene detentive temporanee, tra cui le circostanze attenuanti generiche (art. 62-bis cod. pen.), le quali ben potrebbero fondarsi anche sulla condotta dell’imputato successiva alla commissione del reato, comprensiva del suo contegno processuale.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>8.– La Corte di assise di Napoli dubita, poi, della legittimità costituzionale dell’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. sotto il profilo della sua compatibilità con il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., in sé considerato e in relazione agli artt. 2, 3 e 27, secondo comma, Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nemmeno tali censure sono fondate.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>8.1.– La Corte rimettente ritiene, anzitutto, che la disciplina censurata, precludendo a taluni imputati l’accesso al giudizio abbreviato, vulneri il loro diritto costituzionale di difesa, di cui sarebbe parte integrante la possibilità di definire il giudizio mediante i riti alternativi previsti dall’ordinamento.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>In secondo luogo, tale disciplina costringerebbe anche l’imputato, che pure è presunto innocente ai sensi dell’art. 27, secondo comma, Cost., il quale intenda rinunciare alla garanzia della pubblicità del giudizio, ad affrontare il dibattimento in pubblica udienza, con conseguente pregiudizio ai suoi diritti inviolabili alla dignità e alla riservatezza, riconducibili allo spettro di tutela degli artt. 2 e 3 Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>8.2.– Circa il primo profilo, occorre anzitutto rammentare la costante giurisprudenza costituzionale secondo cui è ben vero che «la facoltà di chiedere i riti alternativi – quando è riconosciuta – costituisce una modalità, tra le più qualificanti ed incisive (sentenze n. 237 del 2012 e n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 273 del 2014, n. 333 del 2009 e n. 219 del 2004). Ma è altrettanto vero che la negazione legislativa di tale facoltà in rapporto ad una determinata categoria di reati non vulnera il nucleo incomprimibile del predetto diritto» (sentenza n. 95 del 2015).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’accesso ai riti alternativi costituisce, dunque, parte integrante del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. soltanto in quanto il legislatore abbia previsto la loro esperibilità in presenza di certe condizioni; di talché esso deve essere garantito – o quanto meno deve essere garantito il recupero dei vantaggi sul piano sanzionatorio che l’accesso tempestivo al rito avrebbe consentito – ogniqualvolta il rito alternativo sia stato ingiustificatamente negato a un imputato per effetto di un errore del pubblico ministero nella formulazione dell’imputazione, di una erronea valutazione di un giudice intervenuto in precedenza nella medesima vicenda processuale, ovvero di una modifica dell’imputazione nel corso del processo (sentenza n. 14 del 2020 e precedenti ivi citati). Ma dall’art. 24 Cost. non può dedursi un diritto di qualunque imputato ad accedere a tutti i riti alternativi previsti dall’ordinamento processuale penale, come invece parrebbe, erroneamente, presupporre il giudice a quo.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>8.3.– Quanto poi alla lamentata violazione del diritto di difesa «in relazione» al diritto alla dignità e alla riservatezza dell’imputato, non v’è dubbio che la pubblicità delle udienze sia concepita dall’art. 6, comma 1, CEDU, dall’art. 47, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) e dall’art. 14, comma 1, del Patto internazionale dei diritti civili e politici come una garanzia soggettiva dell’imputato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Tuttavia, la dimensione di diritto fondamentale riconosciuta alla pubblicità dei processi dalle carte internazionali dei diritti alle quali il nostro ordinamento è vincolato non esaurisce la ratio del principio medesimo, che nel suo nucleo essenziale costituisce altresì – sul piano oggettivo-ordinamentale – un connotato identitario dello stato di diritto, in chiave di «garanzia di imparzialità ed obiettività» di un processo che «si svolge sotto il controllo dell’opinione pubblica», quale corollario sia del principio secondo cui «[l]a giustizia è amministrata in nome del popolo» (art. 101, primo comma, Cost.), sia della garanzia di un «giusto processo» (art. 111, primo comma, Cost.) (sentenza n. 373 del 1992). Il che appare di particolare significato nei processi relativi ai reati più gravi, «che maggiormente colpiscono l’ordinata convivenza civile» (ancora, sentenza n. 373 del 1992) e addirittura ledono il nucleo dei diritti fondamentali delle vittime, a cominciare dalla loro stessa vita. Di talché il mero consenso dell’imputato non basta a fondare un suo diritto costituzionale – opposto, e anzi speculare, al suo diritto alla pubblicità delle udienze – alla celebrazione di un processo “a porte chiuse”, al riparo del controllo dell’opinione pubblica.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>A fronte, allora, di imputazioni relative a delitti gravissimi, come quelli puniti con la pena dell’ergastolo, non può considerarsi sproporzionata rispetto alle esigenze di tutela della dignità e della riservatezza dell’imputato una disciplina come quella all’esame, che impone in ogni caso la celebrazione di un processo pubblico, anche laddove l’imputato sia disposto a rinunziare a tale garanzia.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>9.– Il GUP del Tribunale di Piacenza dubita, dal canto suo, della compatibilità dell’art. 438, comma 1-bis, cod proc. pen. e dell’art. 3 della legge n. 33 del 2019 con il principio della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nemmeno tali questioni sono fondate.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>9.1.– Alla base della censura sta, verosimilmente, la considerazione che la preclusione del giudizio abbreviato stabilita dalla disciplina in esame discenderebbe da una mera valutazione del pubblico ministero, destinata a privare irrimediabilmente l’imputato – pur ancora presunto innocente – della possibilità di accesso al rito alternativo e al relativo sconto di pena nel caso, futuro ed eventuale, di una sua condanna.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Più in generale, il rimettente appare altresì censurare l’intento legislativo di “punire” più severamente una categoria di imputati, a dispetto della presunzione di non colpevolezza, precludendo loro l’accesso al giudizio abbreviato.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>9.2.– Il primo profilo di censura non ha pregio, sol che si consideri attentamente l’assetto normativo scaturito dalla riforma del 2019.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>L’imputazione formulata dal pubblico ministero è, infatti, oggetto di un primo vaglio da parte del giudice per le indagini preliminari, che – al termine dell’udienza preliminare – è tenuto a provvedere sulla richiesta originaria formulata dall’imputato, e comunque sull’eventuale riproposizione della domanda di giudizio abbreviato (art. 438, comma 6, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera b, della legge n. 33 del 2019), e ad ammetterlo al rito alternativo richiesto, qualora lo stesso giudice dia al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, tale da rendere ammissibile il giudizio abbreviato (art. 429, comma 2-bis, cod. proc. pen.).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il già menzionato art. 438, comma 6-ter, cod. proc. pen. prevede, poi, il “recupero” in sede dibattimentale della riduzione di pena conseguente al giudizio abbreviato, allorché in esito al giudizio non sia risultato provato il fatto così come contestato dal pubblico ministero; e già nella fase preliminare del dibattimento – come esattamente rilevato dalla Corte di assise di Napoli nella propria ordinanza di rimessione – si deve ritenere che sia ben possibile per la corte di assise ammettere l’imputato al giudizio abbreviato, allorché tale rito gli sia stato erroneamente negato dal giudice dell’udienza preliminare (Ritenuto in fatto, punto 6.1.).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La preclusione all’accesso al giudizio abbreviato dipende, dunque, soltanto nella fase iniziale dalla valutazione del pubblico ministero sull’oggetto della contestazione; ma tale valutazione è poi oggetto di puntuale vaglio da parte dei giudici che intervengono nelle fasi successive del processo, ed è sempre suscettibile di correzione, quanto meno nella forma del riconoscimento della riduzione di pena connessa alla scelta del rito, come accade rispetto a ogni altro rito alternativo; senza alcuna violazione, dunque, della presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>9.3.– Il secondo profilo di censura, attinente a una ipotetica volontà “punitiva” del legislatore nei confronti di imputati che sono presunti non colpevoli, appare per la verità di non immediata intelligibilità.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Se il rimettente avesse inteso alludere alle conseguenze negative che derivano dalla necessità di affrontare in ogni caso il dibattimento, sulla base di un’imputazione per un delitto punibile con l’ergastolo, il suo rilievo risulterebbe certamente infondato, una volta che si riconosca che non esiste un diritto di rango costituzionale ad accedere a qualsiasi rito alternativo per qualunque imputato, e che l’ordinamento processuale ben può condizionare l’accesso al giudizio abbreviato a specifiche condizioni, la cui determinazione è affidata alla discrezionalità del legislatore, salvi i limiti della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà. Condizioni tra le quali certamente può figurare la tipologia di reato contestato dal pubblico ministero, e sottoposto al vaglio successivo dei diversi giudici che si succederanno nelle varie fasi processuali, secondo le modalità di cui si è appena detto.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Se, invece, il rimettente avesse voluto evocare una volontà del legislatore di assicurare comunque l’inflizione della pena dell’ergastolo nei confronti degli imputati dei reati punibili con tale pena, pur presunti innocenti, sarebbe agevole replicare, da un lato, che l’inflizione della pena presuppone – nel rito ordinario come in quello abbreviato – la prova della responsabilità dell’imputato, che dovrà in ogni caso essere oggetto di puntuale dimostrazione da parte del pubblico ministero, al metro dello standard probatorio dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” (art. 533 cod. proc. pen.); e dall’altro, come già rammentato, che nemmeno nel giudizio ordinario l’imputato sarà indefettibilmente punito con la pena dell’ergastolo, ove ritenuto colpevole, ben potendo essere riconosciute anche in quella sede, in suo favore, circostanze attenuanti che potrebbero determinare l’applicazione di una pena detentiva temporanea.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>10.– Il GUP del Tribunale di Piacenza solleva poi questione di legittimità costituzionale degli artt. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. e 3 della legge n. 33 del 2019, in riferimento al principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Nemmeno tale censura è fondata.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>10.1.– Ritiene il rimettente che l’onere di procedere in ogni caso con rito ordinario innanzi alla corte di assise per i reati puniti con l’ergastolo provocherebbe inevitabilmente una dilatazione dei tempi processuali non necessaria, e anzi particolarmente gravosa, per imputati che spesso si trovano in custodia cautelare; dilatazione connessa anche alle gravi difficoltà – soprattutto per le sedi giudiziarie più piccole – determinate dall’organizzazione del lavoro delle stesse corti di assise, che si vedono ora confrontate con un carico di lavoro assai più gravoso di quanto non accadesse prima della riforma.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>10.2.– Le osservazioni del rimettente trovano conforto, in verità, nel parere espresso il 6 marzo 2019 dal Consiglio superiore della magistratura a proposito della riforma, poi confluita nella disciplina censurata; e riflettono la preoccupazione, diffusa nella prassi, di una dilatazione dei tempi medi di definizione dei processi per omicidio, in passato definiti mediante giudizi celebrati con rito abbreviato in una percentuale di casi che l’amicus curiae riferisce, sulla base dei dati ministeriali relativi al 2017, essere stata pari al 70 per cento.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Anche rispetto alla censura in esame, tuttavia, occorre rammentare che il bilanciamento tra gli inconvenienti provocati dalla disciplina censurata e le finalità dalla stessa perseguite spetta, primariamente, al legislatore.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>E non può, al riguardo, non rilevarsi come la nozione di “ragionevole” durata del processo (in particolare penale) sia sempre il frutto di un bilanciamento particolarmente delicato tra i molteplici – e tra loro confliggenti – interessi pubblici e privati coinvolti dal processo medesimo, su uno sfondo fattuale caratterizzato da risorse umane e organizzative necessariamente limitate.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Il che impone una cautela speciale nell’esercizio del controllo, in base all’art. 111, secondo comma, Cost., della legittimità costituzionale delle scelte processuali compiute dal legislatore, al quale compete individuare le soluzioni più idonee a coniugare l’obiettivo di un processo in grado di raggiungere il suo scopo naturale dell’accertamento del fatto e dell’eventuale ascrizione delle relative responsabilità, nel pieno rispetto delle garanzie della difesa, con l’esigenza pur essenziale di raggiungere tale obiettivo in un lasso di tempo non eccessivo. Sicché una violazione del principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost. potrà essere ravvisata soltanto allorché l’effetto di dilatazione dei tempi processuali determinato da una specifica disciplina non sia sorretto da alcuna logica esigenza, e si riveli invece privo di qualsiasi legittima ratio giustificativa (ex plurimis, sentenze n. 12 del 2016, n. 159 del 2014, n. n. 63 e n. 56 del 2009).</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Sulla base di un tale criterio, e alla luce delle legittime finalità perseguite dal legislatore, che secondo la valutazione del legislatore medesimo rendono opportuna la celebrazione di processi pubblici innanzi alle corti di assise per i reati puniti con l’ergastolo (valutazione della quale già si è esclusa la manifesta irragionevolezza o arbitrarietà: supra, punto 7.6.), non può ritenersi che la dilatazione dei tempi medi di risoluzione dei processi relativi a questi reati, pur certamente prodotta dalla disciplina censurata, determini di per sé un risultato di “irragionevole” durata di tali processi.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Dal che l’infondatezza delle censure formulate in riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>11.– La Corte di assise di Napoli solleva poi questione di legittimità costituzionale del solo art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. in riferimento all’art. 111, primo comma, Cost.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Le censure del rimettente sono formulate in relazione al generale principio del “giusto” processo, ma si riferiscono a ben guardare alla necessità che esso si svolga entro un lasso di tempo ragionevole; sicché esse si sovrappongono in sostanza a quelle sollevate dal GUP del Tribunale di Piacenza di cui si è appena detto, condividendone necessariamente l’esito di non fondatezza.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>12.– La medesima Corte di assise dubita, ancora, della compatibilità della stessa disciplina con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, dal momento che essa precluderebbe ingiustamente l’accesso al giudizio abbreviato a talune categorie di imputati.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La censura è, in questo caso, manifestamente infondata, dal momento che l’unica decisione citata a supporto del principio (Corte EDU, decisione 8 dicembre 2015, Mihail-Alin Podoleanu contro Italia) afferma, da un lato, che «gli Stati contraenti non sono costretti dalla Convenzione a prevedere […] delle procedure semplificate», e dall’altro lascia intenzionalmente aperta «la questione se, quando essi esistano, i principi dell’equo processo impongano di non privare arbitrariamente un imputato della possibilità di chiederne l’adozione»: questione alla quale la giurisprudenza di questa Corte, come si è visto, offre una risposta positiva alla luce dell’art. 24 Cost. (supra, punto 8.2.), ma che non viene in considerazione nel caso di specie, in cui si discute piuttosto della legittimità costituzionale della scelta legislativa di precludere in radice l’accesso al giudizio abbreviato agli imputati di reati puniti con l’ergastolo. Scelta legislativa, quest’ultima, che non sembra incontrare alcun ostacolo sul piano convenzionale, nemmeno alla luce dell’unica decisione invocata dal rimettente.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>13.– Il GUP del Tribunale della Spezia dubita, infine, della legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge n. 33 del 2019 in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU, dal momento che tale disposizione consentirebbe l’applicazione del nuovo art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. anche agli imputati di delitti puniti con l’ergastolo che abbiano tenuto la condotta prima dell’entrata in vigore della legge n. 33 del 2019.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>La censura, come anticipato, non è fondata, giacché riposa sull’erroneo presupposto interpretativo secondo cui la disposizione farebbe riferimento, nei reati ad evento differito, al momento dell’evento e non a quello, anteriore, della condotta.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Come a suo tempo illustrato (supra, punto 6.1.), infatti, la ratio della disposizione depone inequivocabilmente a favore dell’interpretazione secondo cui – nello stabilire l’applicazione della nuova disciplina soltanto ai «fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della legge» – essa identifichi il tempus commissi delicti nel momento di commissione della condotta criminosa, nel quale la norma svolge la propria funzione di orientamento della condotta dei consociati.</em></p> <p style="text-align: justify;"><em>Così interpretata, la disposizione si pone in conformità, anziché in contrasto, con il divieto di applicazione retroattiva della legge penale, sancito – oltre che dallo stesso art. 25, secondo comma, Cost. – dall’art. 7 CEDU, escludendo che una disciplina di natura processuale ma avente effetti peggiorativi sulla pena applicabile in caso di condanna, come quella stabilita nel suo complesso dalla legge n. 33 del 2019, possa applicarsi a condotte commesse prima della sua entrata in vigore, ancorché l’evento costitutivo del reato si sia verificato successivamente.</em></p>